Di
Jade
Parte
prima: Anne
Quando
aprì gli occhi in una stanza d’ospedale, la sua prima reazione fu quella di
alzare una mano per toccarsi la faccia.
Si
rese però subito conto che le faceva male anche solo muovere un muscolo, come
se avesse migliaia di spilli su tutto il corpo che la trafiggevano. Anche gli
occhi le facevano male…c’era troppa luce in quella stanza, le dava fastidio.
All’improvviso
entrò un’infermiera, che senza prestarle attenzione, meccanicamente cambiò la
flebo. Fu il movimento improvviso della sua mano a farle fare un salto, e a
farla correre fuori chiamando il nome di un medico e dicendo che era avvenuto
un miracolo.
Subito
arrivò un giovane medico, che le controllò le pupille e il polso, e le sorrise.
“Bentornata.”
Subito
la paziente indicò al dottore la sua gola, e l’infermiera, preso il dottore in
disparte, le chiese se non fosse il caso di vedere un altro medico.
“Il
respiratore. L’ha aiutata a lungo, e comunque è da molto che non parla.
Aspetterei prima di preoccuparmi.”
E
aveva ragione. Era solo debole, e i capelli scuri che le incorniciavano il viso
la facevano sembrare ancora più minuta e pallida. Tutte le infermiere avevano
cominciato a coccolare la bella sconosciuta, e il dottore che si occupava di
lei le osservava mentre facevano recuperare alla ragazza il sorriso e un po’ di
coraggio.
Circa
cinque giorni dopo, il dottore, Daniel Hawthorne, andò da lei per farle alcune
domande, e per darle delle spiegazioni. Doveva stare attento a come parlava
però, avrebbe potuto rompere il suo fragile equilibrio, e Dio solo sapeva
quanto era stato difficile per lei crearselo. Risvegliarsi da un coma è un
evento traumatico.
“Buon
giorno.”
“Buongiorno
dottor Hawthorne” lo salutò lei sorridendo.
“Vedo
che stai meglio. Hai ancora dolori?”
“Sì,
ma non vedo l’ora di iniziare la riabilitazione. Da quanto hai detto, sono
stata fortunata.”
“Dimmi,
ti ricordi qualcosa di quanto ti è successo?”
Aggrottò
la fronte. L’unica cosa che ricordava era una parola, ‘Perdonami’, ma non
ricordava se l’aveva detta lei o qualcun altro, e chi fosse questo qualcun
altro. Poi c’era stato il terremoto, il crollo del palazzo, le macerie che
l’avevano seppellita viva rompendole qualche osso, e provocandole una
commozione cerebrale.
“Sì,
c’è stato un terremoto qui a Los Angeles nove mesi fa. Ti abbiamo tirato fuori
dalle macerie di un palazzo che è crollato.”
“Oh
mio Dio…nove mesi fa?”
“Sì.
Era novembre, e ora siamo ad agosto.”
“Dimmi
com’è successo.”
“Improvvisamente.
I pompieri non sono riusciti a fare molto per gli altri rimasti imprigionati.”
“Ero
da sola?”
“Non
lo sappiamo. Devi dirmi come ti chiami, prima.”
“Gliel’ho
già detto, dottore. Io non mi ricordo niente.”
“Forse
ti posso aiutare” e le diede una busta di plastica. All’interno c’erano una
croce d’argento, un anello, e un cristallo.
“Li
avevi quando ti abbiamo trovata. Ti dicono qualcosa?”
Prese
in mano il cristallo di rocca, stranamente di un color nero profondo, che era
legato semplicemente con un sottile laccio di cuoio. Quello, oltre anche a
quello strano anello con le due mani, la corona e il cuore, le erano più
familiari.
“Questo
anello e il cristallo…non ricordo chi me li ha dati, ma mi dovevano volere
molto bene.”
“Che
altro?”
La
ragazza guardò l’anello.
*
“Questo è il mio regalo per te. La mia gente, se ancora posso chiamarla così,
se lo scambiava come segno di devozione…È un anello Claddagh. Le mani
significano amicizia, la corona indica la lealtà, e il cuore…lo sai. Metti la
punta del cuore verso di te. Significa che appartieni a qualcuno…*
“Questo…questo
deve avermelo donato il mio ragazzo. Mi sembra di ricordare che si chiami
claddagh.”
“È
un anello claddagh, infatti. Viene dall’Irlanda. Del cristallo che mi dici?”
Buffy
lo guardò attentamente, ricordava che qualcuno gliel’aveva messo al collo, ma
come prima non riusciva a mettere a fuoco il suo viso.
Aveva
abbassato lo sguardo, e Daniel le aveva messo un dito sotto il mento perché lo
guardasse negli occhi.
“Non
te la prendere. La memoria è una cosa misteriosa, e può tornare in qualsiasi
momento.”
“O
mai. Potrei morire senza mai sapere chi sono.”
“Non
essere pessimista. Vedrai, andrà tutto bene. Al momento però ti serve un
nome…che ne dici di Jane?”
“No.
Non mi sento una Jane.”
“Mary?
Claire? Andie?”
“Anne.”
“Anne?”
“Se
proprio devo scegliere un altro nome, voglio che sia Anne.”
“Benissimo,
Anne. Tra non molto sarai in grado di uscire dall’ospedale, se continui così.”
“Ma
dove posso andare?”
“Ho
discusso con mia moglie, Camille. Se tu sei d’accordo, potremmo ospitarti
quando esci da qui per tutto il tempo che vorrai.”
“Non
voglio essere di peso.”
“Io
sono il tuo medico, e mia moglie è psicologa. Non aver paura, ti vogliamo
aiutare.”
“Lo
so. Grazie.”
Qualche
giorno dopo, Camille venne a farle visita e a portarle qualche vestito. Era
affettuosa e comunicativa, ed Anne cominciò ad immaginare come doveva essere
vivere con loro, con il serio Daniel e l’estrosa Camille. Conclusione: non ne
vedeva l’ora.
****************
Aveva
protestato, ma Daniel non aveva voluto sentire ragioni.
“Ogni
paziente viene dimesso su una sedia a rotelle. È la procedura.”
“Non
se ne parla. Sono andata troppo vicina a doverci passare tutta la vita, e la
mia risposta è no.”
“Anne,
siediti e falla finita. Ti prometto che farò in fretta. Camille ci sta
aspettando, e se continui si farà tardi e non potrai fare neanche un giro della
città, prima di domani.”
Appena
finito di pronunciare la frase si rese conto di aver detto le parole magiche.
Anne sospirò, e si sedette sulla sedia a rotelle con il borsone sulle
ginocchia.
“Facciamo
in fretta.”
“Grazie.”
Appena
gli infermieri videro aprirsi la porta della sua stanza, si guardarono l’un
l’altro contenti, e lo dimostrarono anche alla ragazza, salutandola e
augurandole di non vederla più in quel reparto tranne che per salutare.
Anne
era felice di andarsene, anche se aveva un po’ di paura. Non aveva la minima
idea di quello che l’aspettava là fuori, e affrontare il mondo senza un passato
sarebbe potuto essere molto difficile. Meno male che aveva Daniel e Camille.
“Ciao,
Annie. Allora, come va?”
“Bene.
Sono curiosa di vedere com’è il mondo qua fuori. Mi hanno detto che non è
male…” disse alzandosi dalla sedia a rotelle per andare ad abbracciare la
donna.
“Uhm,
una battuta ironica. Buon segno, piccola. Allora, ti piacciono i vestiti?”
Anne
si diede un’occhiata. Aveva una gonna lunga grigia, e un maglione azzurro
polvere scollato a V, e con le trecce che si era fatta sembrava proprio una
bambina.
“Sì.
Grazie mille.”
“Ricordami
di trascinarti per negozi, un giorno di questi.”
Daniel
aveva già messo in auto la valigia, e aveva salutato la moglie dicendole che
sarebbe arrivato a casa alla fine del turno, forse un po’ più tardi a causa di
un’operazione.
Camille
lo salutò, e una volta salita in macchina con Anne le chiese se le andava di
fare un giro della città, prima di andare nella sua nuova casa.
La
ragazza non aveva niente in contrario, anzi, ora che finalmente era fuori
dall’ospedale voleva vedere la città il più possibile.
Fu
assolutamente per caso che Camille, facendo una curva, si trovò vicino alle
macerie del palazzo che era crollato durante il terremoto, e da cui avevano
tirato fuori Anne. Sperò che lei non se ne accorgesse, ma si rese conto che non
solo le aveva notate, ma che non riusciva a staccare gli occhi da là.
“È
lì che è successo, vero?”
“Mi
dispiace, non volevo. Sbagliato strada.”
“Andiamo
lì.”
“Anne,
non so se è una buona idea. Non puoi sapere che cosa potrebbe succedere.”
“Ti
prego.”
“D’accordo.”
Camille
fermò la macchina in un parcheggio a pagamento, e mettendo un braccio intorno
alle spalle della ragazza l’accompagnò fino a quanto rimaneva del centro
congressi.
Anne
camminò tra le fotografie, i fiori, e i lumini accesi per i defunti.
*
“Dawn, andiamo. Siamo in ritardo.”
“Dobbiamo
proprio conoscerla?”
Buffy
sorride alla sorella, e le mette una mano sulla spalla.
“È
la nuova moglie di papà, dobbiamo perlomeno mostrarci gentili.”
“Sì,
ma che ci stiamo a fare in un centro congressi?”
“Lei
sta terminando un meeting, poi andremo tutti a cena insieme…Dawnie, ma mi stai
ascoltando? Sembra tu stia cercando qualcuno…”
Dawn
getta un’altra occhiata al di fuori del palazzo, poi sorride, ha visto chi
voleva, e raggiunge la sorella all’ascensore.
Il
palazzo ora è crollato, Buffy ha le gambe imprigionate sotto una colonna
crollata e non riesce a muoversi. Urla il nome di Dawn, si guarda intorno, e
vede testa della sorella minore spuntare da sotto un blocco del piano che è
loro crollato addosso.*
Camille
corse da lei, ed Anne nascose il viso contro la donna.
“Mia
sorella…mia sorella era là dentro con me!”
“Anne,
calmati. Può essersi salvata.”
La
ragazza però sollevò gli occhi verdi pieni di lacrime, e fece segno di no con
la testa.
“Dawn…Dawn
è rimasta schiacciata sotto le macerie…e io non ho potuto far altro che
guardarla morire…”
Camille
strinse a sé la ragazza, portandola via. Era stata una stupida a portarla lì, a
farsi convincere. E sì che era un medico. Doveva saperlo, e fu quello che le
disse anche Daniel quando ritornò a casa e venne messo al corrente. Voleva
correre da lei per vedere come stava, ma Camille lo fermò prima.
“È
sconvolta, ha appena rivissuto la morte di sua sorella. Si deve prendere il suo
periodo di cordoglio, urlare, piangere…qualsiasi cosa. Ma se noi ci
intromettiamo, non ne uscirà.”
Le
parole di Camille erano dure, ma erano la pura verità. Anne non uscì dalla sua
stanza per due giorni, troppo turbata anche solo per riuscire a mettere
qualcosa dentro lo stomaco. Poi, la mattina del terzo giorno fece la sua
comparsa. Era molto calma, e questo sorprese la coppia di medici. Sembrava che
stesse progettando di fare qualcosa, e circa due settimane dopo decisero di
chiederle che avesse in mente.
“Annie,
come stai?”
“Meglio.
Meglio, davvero.”
“Ti
vediamo pensierosa. Che c’è? Problemi?”
“No.
Voglio che voi due mi aiutiate.”
“A
far cosa?”
“A
trovare qualcosa da fare. Ammetto che non mi dispiacerebbe tornare a studiare.”
Camille
e Daniel si erano lanciati un’occhiata interrogativa, e poi avevano cercato di
spiegare ad Anne che forse non sarebbe neanche stato possibile, senza documenti
o titoli di studio.
“E
poi per quanto ne sappiamo del tuo passato potresti anche essere già laureata
in fisica quantistica.”
“Uhm,
no. Non credo di essere stata una secchiona nell’altra vita.”
“Nell’altra
vita? Anne, guarda che non è per niente un capitolo chiuso. Dà tempo al tempo.”
“Il
tempo non mi sta ad aspettare, Daniel, sono io a doverlo rincorrere e sono
indietro di almeno tre lunghezze. Non voglio dipendere tutta la vita da ricordi
che non ho.”
E
così, insieme a Camille, Anne aveva fatto la sua comparsa al Community college.
C’era un mucchio di gente, una confusione che le aveva messo allegria e che le
era un po’ nota.
“Sai,
credo di essere stata studentessa al college. Questa confusione mi è
familiare.”
“Sono
felice di sentirlo. Chi lo sa, magari girando un po’ per questi corridoi ti torna
in mente qualcos’altro.”
“Non
essere troppo ottimista…”
Camille
stava per ribattere, quando il suo cercapersone iniziò a suonare.
“E
ti pareva. Sanchez.”
“Caso
importante?”
“Sì,
se ritieni la paura di essere rapito dagli alieni molto grave. E ora? Non ti
volevo lasciare da sola, insomma, non ti sai ancora orientare in città…”
“Tranquilla,
l’ospedale so dov’è. Torno a casa con Daniel.”
“Benissimo.
Ciao, tesoro, ci vediamo a casa.”
Anne
salutò la donna, e la guardò allontanarsi.
“Bene,
e ora dove andiamo?”
Decise
di lasciar fare al caso, e percorso il corridoio si trovò fuori, nel giardino
del campus. Prese un sentiero a caso, e poi un altro, e alla fine si trovò al
dipartimento di Giurisprudenza.
Seguendo
la massa di studenti, si ritrovò in un’aula dove una lezione stava cominciando.
Diritto Penale, a quanto sembrava. Anne prese posto in un angolo, facendo
attenzione a non farsi notare, e aspettò con gli altri il professore.
“Bene
bene, vedo nuove facce qui” disse il professor Andrew Lagerback, entrando.
“Vediamo quanto durate nel mio corso. Nel caso i vostri colleghi non vi abbiano
avvistato sono il più bastardo e fetente dei professori di questo dipartimento,
e con me potete anche dare il massimo, ma vi avviso che non sarà mai
abbastanza.
Buffy
guardò l’uomo, e deglutì forte. Le faceva paura, ma come succede in certi casi
ci si trova a adorare quello che più si teme. Non era mancata neanche ad una
sua lezione, si consumava gli occhi sui libri del corso e su quelli che
consigliava, e non mancava di prendere appunti. Era diligente, forse anche
troppo per una che voleva passare inosservata.
Alla
fine di una lezione infatti, Lagerback tuonò “Ehi tu!”
Anne
s’irrigidì, ma continuò a camminare, cercando di uscire alla svelta. C’era
sempre la possibilità che non si stesse rivolgendo a lei.
“Dico
a te, con la gonna nera e la maglia rossa!”
Anne
si fermò. Maglia rossa e gonna nera? Sì, era lei. Si voltò verso il professore,
cercando di capire in che modo lo avesse contrariato.
“Sì,
professore?”
“Vieni
qua subito.”
La
stava fulminando con lo sguardo, e Anne aveva iniziato a tremare.
“Da
quanto tempo è che sei nella mia classe, un mese? Due?”
“Tre,
professor Lagerback.”
“E
mi vuoi spiegare che diavolo continui a fare qui considerato che non sei
iscritta e che questo corso è a numero chiuso e già al completo?”
“I-Io…”
“Come
ti chiami, ragazzina?”
“Anne...”
“Anne
come?”
“La
ragazza abbassò gli occhi “Non lo so.”
“Non
mi prendere in giro!”
Lo
stava facendo arrabbiare, doveva essere convinto che gli stesse mentendo per
cercare di non avere guai.
“Non
la sto prendendo in giro, professore!”
“Per
l’ultima volta. Come ti chiami?”
“Non
lo ricordo. Anne è il nome che mi sono data dopo che mi sono risvegliata dal
coma. Ho passato nove mesi in ospedale, e mi sono svegliata senza sapere niente
di me, pertanto mi scusi se non so rispondere a questa domanda!”
Solo
alla fine del discorso si accorse di aver urlato, e di stare piangendo. Guardò
un’altra volta il professore, e poi scappò via correndo.
Corse
fino all’ospedale, allo studio di Daniel. Fortunatamente non c’era nessuno
dentro, visto il modo poco ortodosso in cui entrò. Daniel si era alzato dalla
scrivania, per venirle incontro e chiederle che le era successo, e lei si era
aggrappata a lui, ancora in lacrime.
A
casa poi si era calmata, e aveva spiegato ai due cos’era successo.
“Non
so che mi ha preso.”
“Ti
sei sentita aggredita e ti sei difesa.”
“Non
avrò più il fegato di farmi vedere là.”
Il
campanello suonò in quell’istante.
“Per
quanto mi riguarda” disse Camille alzandosi “dovrebbe essere questo Lagerback a
venire a chiederti scusa per come ti ha trattato.”
Camille
aprì la porta. Rimase a bocca aperta.
“Anne
è in casa?”
“Non
credo la voglia vedere dopo quanto è successo stamattina, professore.”
“Anne
sa difendersi da sola. Voglio parlare con lei, Camille.”
Camille
sospirò, e andò in soggiorno da Anne lasciando Lagerback sulla porta.
“Parli
del diavolo e spuntano le corna, Annie. Ti vuole parlare. Tu vuoi parlare con
lui?”
Anne
si alzò dal divano, e si diresse verso la porta. Non aveva lo stesso sguardo
che aveva a lezione. Sembrava quasi amichevole.
“Salve,
professore.”
“Ciao,
Anne.”
“Come
mi ha trovato?”
“Uno
dei ragazzi del corso fa il volontario in ospedale, e mi ha detto che vivi qui
con il medico che ti ha avuto in cura. Possiamo parlare?”
Anne
aveva fatto per togliersi dalla porta, ma Lagerback le aveva fatto un cenno con
la mano.
“No,
meglio fuori di qui. Temo per la mia incolumità se decido di entrare.”
La
ragazza aveva accennato un sorriso, e presa la giacca era uscita con lui per
una passeggiata.
“Mi
dispiace veramente di averti aggredita a quel modo. Non immaginavo.”
“Non
è colpa sua quanto è successo.”
“Hai
perso qualcuno?”
“Ho
visto mia sorella morire, quindi posso dire di aver perso lei, ma non so se
eravamo da sole, o se c’erano anche i miei, o se…se si sono salvati.”
“Mia
figlia Connie doveva presentare una sfilata, nei piani alti. Era il suo sogno.
Il suo corpo è uno di quelli che sono stati identificati con certezza.”
“Mi
dispiace.”
“Preferisco
non pensarci.”
“So
cosa vuol dire. È anche per questo che venivo a sentire le sue lezioni. Mi
aiutavano.”
“Se
lo vuoi, puoi ritornare.”
“Non
ho niente in mano.”
“Ho
bisogno di un’assistente.”
“Rimane
il fatto che non ho un nome, una carriera scolastica, niente.”
“Sono
uno degli anziani, e sono sicuro che posso permettermi di rischiare su di te.
Basta che tu lo voglia.”
“Mi
piacerebbe tantissimo. Cos’è che intende con assistente?”
“Qualcuno
che mi aiuti nel mio lavoro, litighi con la segreteria al posto mio, raccolga
gli appuntamenti degli studenti che vogliono saperne di più.”
“Mi
lascerebbe abbastanza tempo per seguire gli studi e finirli nel corso legale?”
“Assolutamente.”
“Allora
ci sto.”
Una
stretta di mano, e l’accordo fu suggellato. Un po’ più difficile fu farla
digerire all’impiegata dell’ufficio immatricolazione.
“Con
un nome non posso…”
“Le
ho spiegato il caso, signorina. La persona in questione si chiama Anne
Hawthorne, e se non le può fornire altri dati è perché non li ricorda. Uno
psichiatra ha certificato la sua amnesia.”
“Rimane
il fatto che non sappiamo se è in grado di essere ammessa, o di sostenere la
retta, o il peso degli studi e degli esami…”
“Lavora
come mia assistente, segue il corso già da mesi e le ho già fatto sostenere la
prova d’ammissione, che tra l’altro ha superato con ottimi risultati. Ha altre
obiezioni?”
La
donna non osò proferir verbo, dato che Lagerback godeva dell’appoggio
incondizionato di molti sostenitori dell’università, e contrariarlo avrebbe
voluto passare dei guai.
E
così da ottobre si arrivò a novembre, e da novembre a dicembre. Una volta a
casa per le vacanze, subissò Camille di domande su questa festa. Camille
sorrideva e rispondeva a tutte le domande più strane, con una punta di
dispiacere. Per lei quello sarebbe stato l’ultimo Natale di una lunga serie, ma
per Anne era il primo, e se non cambiavano le cose l’unico che avrebbe
ricordato dall’incidente, con una voragine spaventosa per tutti quelli che
l’avevano preceduto. Ormai cominciava a dubitare che avrebbe mai ricordato la
sua identità. Stava passando troppo tempo, non era un buon segno.
Anne
tornò giù dalla soffitta con uno scatolone più grande di lei, dove aveva
trovato le decorazioni per l’albero di Natale e per la casa, e gridò a Camille
se voleva degnarsi di darle una mano.
“Anne,
se mi avessi aspettato ti avrei dato una mano!”
“D’accordo,
mea culpa. Dov’è l’albero?”
Camille
indicò l’abete, in un angolo del soggiorno vicino alla finestra.
“Che
ne pensi?”
“Stupendo.”
“Annie,
hai tanto da fare in questi giorni?”
“Devo
studiare, quando ritorno a scuola dovrò dare un esame di Diritto, ma niente che
non posso terminare anche dopodomani. Perché?”
“Ti
avevo promesso di trascinarti per negozi ancora mesi fa, o sbaglio?”
“Così
prendiamo anche i regali. Ottimo!”
“Regali?
E per chi?”
“Beh,
per i miei amici di corso, Andrew, voi due…me…”
“Ah,
allora guadagni bene.”
“Lavoro
in quel negozio in centro, poi sono assistente di Andrew…sì, posso dire che me
la cavo.”
“Sono
felice per te. Stai iniziando a reagire.”
“Andrebbe
meglio se mi ricordassi qualcos’altro.”
“Vedrai
che ci riuscirai. Preparo una tazza di tè?”
“Andata.
Camille, sarai anche in America da anni, ma certe abitudini inglesi non le
perdi proprio, eh?”
Poi
aggrottò la fronte. Questa faccenda le sembrava familiare. Che avesse qualche
amico inglese?
Si
alzò per prendere dallo scatolone alcune decorazioni, poi si ricordò di averne
viste altre di sopra. Stava per ritornare in soffitta, quando distrattamente si
guardò allo specchio, e si aggiustò la croce d’argento che portava sempre al
collo. Un raggio di luce la colpì facendola risplendere, e Anne improvvisamente
iniziò a fissarla.
*
“Signorina, qualche problema?”
“Perché
mi stai seguendo?”
“So
cosa stai pensando, ma non preoccuparti. Io non mordo.”
“Se
devi continuare a saltar fuori per fare lo sputasentenze, potresti almeno dirmi
come ti chiami.”
“Angel.”
“Angel.
È un bel nome.”
“…viveva
sull’isola di Angelus un essere dalle fattezze angeliche…”
“Se
è così, è lui.”
“Questo
Angel ha forse un tatuaggio sulla spalla destra?”
“Ora
ho qualcosa da dire. Buffy, lo hai visto nudo?”
“Buongiorno,
sono nuova, e…”
“Signorina
Elizabeth Summers?”
“Sì.
Sono l’unica nuova a quanto pare…” *
“Buffy
Summers…Elizabeth Summers. Elizabeth Anne Summers…”
Non
avrebbe mai smesso di ripetere il suo nome. Suonava come musica alle sue
orecchie.
Non
si sarebbe mai aspettata un simile regalo di Natale.
Si
stava guardando allo specchio, sorridendo e vicina alle lacrime, quando Camille
le arrivò alle spalle.
“Tesoro,
che c’è?”
la
ragazza indicò lo specchio, ancora sorridendo.
“C’è
che ora la ragazza qui riflessa ha finalmente un nome. Elizabeth. Anne.
Summers.”
Camille
non volle neanche sapere com’era successo. Era più felice di lei.
“Oh
mio Dio…o mio Dio…e così ti chiami Elizabeth. Hai qualche diminutivo, te lo
ricordi?”
“Mi
pare mi chiamassero Buffy. Se vogliamo dirla tutta in molti dovevano essere
convinti che doveva essere il mio nome.”
“E
ora?”
“Ora
voglio essere chiamata con il mio nome.”
“D’accordo,
Elizabeth. Ti potrò chiamare almeno Liz?”
“Vedremo.
Ora andiamo a dare la bella notizia a Daniel.”
Daniel
dal canto suo fece una cosa che a Elizabeth risultò molto più gradita. Con una
telefonata, era riuscito dio solo sa come ad ottenere di entrare all’ufficio
anagrafe, a cinque giorni da Natale.
“Come
hai fatto?” domandò Elizabeth.
“Ho
curato il figlio e il marito della responsabile di questo ufficio.”
“E
quanti favori devi ancora riscuotere in giro?”
“Credo
di aver perso il conto. Guarda, lì c’è il terminale. Adesso mettiamo dentro il
tuo nome e vediamo che succede.
Elizabeth
chiuse gli occhi e incrociò le dita. Ti prego, Signore, ti prego…
Quando
li riaprì, sul computer era comparsa la sua scheda.
“Elizabeth
Anne Summers, 1981 – 2001. COME?!”
“Buon
Dio, Liz. Credo ti abbiano dato per morta.”
“E
come diavolo hanno fatto? Sono qui. Ti sembro uno zombie?”
“Risolveremo
tutti i problemi. Vuoi leggere il resto?”
“Ovvio.
Vediamo un po’…uhm, ero anche bionda. Che mi girava in testa, sto tanto bene
con i capelli castani…guarda qui. Cacciata da Hemery per comportamento
delinquenziale. Palestra bruciata. Trasferita a Sunnydale, iscritta alla
Sunnydale high school. Espulsa nel 1998, riammessa nel 1999…interessante
carriera scolastica. Lagerback mi ammazza se lo viene a sapere. Vediamo che c’è
qui…ah, diplomata nel ’99, ammessa all’Università di Sunnydale, studi
interrotti a metà del primo anno accademico…”
“Leggi
qui sotto. Tua madre è morta in quel periodo.”
“Tumore
al cervello. Dio santo, chissà che inferno che è stato per Dawn e me. Sono
morti tutti, vero? Non ho nessuno della mia famiglia ancora vivo.”
“Mi
dispiace.”
“Che
altro dicono di me?”
“La
tua fedina penale è immacolata, salvo alcuni problemi a scuola. Nessuna
malattia grave.”
“Non
è molto.”
“Scopriremo
dell’altro.”
“Ti
ringrazio. Ma prima voglio dare la notizia al mio professore. Ne sarà
felice…più felice di lui sarà la signora dell’ufficio immatricolazione.
Finalmente può riempire la mia scheda!”
******************
Era
corsa da lui a casa. In qualità di sua assistente sapeva il suo indirizzo, e
sapeva sempre dove rintracciarlo, e aveva colto l’occasione per portagli il suo
regalo di Natale e un paio di pratiche che aveva dimenticato di consegnargli.
Bussò,
ma nessuno venne ad aprire. Forse era uscito, ma Elizabeth invece si chinò
verso la pianta vicino alla soglia, e alzò il vaso per prendere la chiave.
Mentre entrava si ripromise di dire al professore di cambiare nascondiglio alla
chiave. A lei non c’era voluto neanche un secondo per scoprirlo.
“Professor
Lagerback? È in casa?”
Si
guardò intorno, ma non lo vedeva. Poi, proseguendo verso le scale, si accorse
che era a terra, e si stringeva il petto.
“Mio
Dio, professore!”
Era
subito corsa accanto a lui, cercando di aiutarlo, con un panico addosso che
pensava sarebbe morta. E una strana sensazione di déjà vu.
“Anne…le
pillole…” e le indicò un armadietto della cucina aperto. Elizabeth corse a
prendergliele, e gliene fece prendere un paio con un bicchier d’acqua. Poi
chiamò subito un’ambulanza, e ritornò da lui.
Rimase
accanto all’uomo per tutto il tragitto fino all’ospedale, e fuori dalla stanza
dove il medico lo stava visitando. In quel momento potevano piombare da lei e
dirle che tutto quello che aveva passato era uno scherzo, ma non le sarebbe
importato. L’unica cosa che voleva era che l’uomo in quella stanza si
riprendesse.
“Signorina?”
Elizabeth
si voltò di scatto, verso il medico che aveva parlato. Doveva avere un’aria
spaventata a morte, perché l’uomo sorrise e le chiese come stava.
“I-Io?
Io sto bene. Perché?”
“Perché
il signor Lagerback mi ha chiesto di assicurarmi che stesse bene.”
“E
lui sta bene?”
“Può
chiederglielo di persona, se lo desidera.”
Elizabeth
allora si era alzata, ed era entrata subito nella stanza d’ospedale. Guardando
l’uomo a letto, quasi non riusciva a credere fosse la stessa persona che in
classe faceva tremare tutti.
“Lo
sa professore? Sembra quasi un comune mortale ora.”
Lagerback
la squadrò con una delle sue solite occhiate, e le fece un mezzo sorriso.
“Dovrò
lavorare sodo per ritornare al mio stato superiore, allora. Ti ringrazio,
Anne.”
“Lei
potendo avrebbe fatto lo stesso per me.”
“Perché
eri passata a casa mia?”
“Dovevo
portarle una cosa…le avevo preso un regalo di Natale. E…”
“Non
avresti dovuto.”
“Professore,
c’è anche un’altra cosa.”
“Dimmi,
Anne.”
“Non
mi chiami più Anne. Il mio nome è Elizabeth Summers.”
Il
mezzo sorriso dell’uomo divenne un sorriso a tutti gli effetti.
“Sono
felice per te…Elizabeth.”
Elizabeth
si sedette accanto a lui “Pensavo di morire di paura quanto l’ho vista lì sul
pavimento…avevo come l’impressione di aver già vissuto la scena. Poi mentre ero
fuori mi sono ricordata di mia madre.”
“Hai
trovato lei come avevi trovato me?”
“Lei
era già morta. Aneurisma. Dio, mi sembra ieri…e invece stando ai dati sono già
quasi due anni.”
“Dev’essere
terribile per te.”
“Ho
tanti ricordi frammentati, e metterli in ordine temporale è difficile.”
“Qualche
nome?”
“Uno
solo, a parte il mio. Angel. Potrei anche descriverlo fisicamente, ma per il
resto buio a mezzogiorno. E ora me ne vado, lei deve riposare. Ha rischiato
grosso, lo sa? Poteva finire male.”
“Ma
non è successo. Ho una valida assistente.”
Elizabeth
era tornata a trovarlo tutti i giorni, e aveva insistito perché passasse il
giorno di Natale insieme a lei. Daniel e Camille si erano dimostrati d’accordo,
e così aggiunsero un posto a tavola. Elizabeth osservò Daniel e Camille a tavola.
Sembravano nervosi, e non ne capiva la ragione. Le avevano detto che non c’era
problema, allora perché c’era tensione sotto quella patina di cortesia?
Alla
fine liquidò la faccenda come nervosismo dovuto al fatto che non si conoscevano
bene, e proseguì il pranzo.
Le
feste passarono anche troppo in fretta, e arrivò anche il compleanno di
Elizabeth. Daniel aveva il turno di notte e Camille molto lavoro con le
cartelle mediche, e alla ragazza era dispiaciuto non averli intorno alla sue
festa di compleanno che i suoi amici di corso le avevano organizzato. Comunque
loro avrebbero voluto che si divertisse, giusto? E lei ubbidì, divertendosi
come una pazza, ballando e alzando un po’ il gomito. Aveva come il sospetto di
non aver mai fatto una cosa del genere in passato. Ora voleva recuperare.
Ringraziando
il cielo il giorno dopo non aveva lezione. Si era alzata con fatica verso le
undici, con un gran mal di testa e un’aria tanto sconvolta che Camille e Daniel
a stento trattennero una risata.
“Notte
brava, Lizzie?”
“Si
fanno ventidue anni una volta sola. Sono a pezzi, ma mi sono divertita
tantissimo…”
Solo
un’altra volta mi sono divertita così, una sera, in compagnia di una ragazza
dai capelli castani di cui non mi ricordo il nome, voleva aggiungere Elizabeth,
ma poi decise di non dire niente.
“Bene,
ora torna con i piedi per terra, miss Summers. E parliamo di te.”
“Cosa
c’è Daniel?”
“Tu
hai vissuto a Sunnydale cinque anni. Non credi dovresti tornare là? Magari
trovi degli amici, vedi luoghi familiari, e…”
Daniel
si fermò. L’espressione terrorizzata degli occhi di Elizabeth lo aveva lasciato
a bocca aperta.
“Elizabeth?”
“No.
Non ci voglio tornare.”
“Perché?”
Perchè?
Elizabeth a parole non avrebbe saputo spiegarlo. Non appena Daniel aveva
menzionato quella città, le erano venuti i brividi, e una gran paura si era
impadronita di lei. Qualsiasi cosa ci fosse a Sunnydale, non voleva sapere di
che si trattasse. E non ci fu niente che Daniel poté fare per convincerla del
contrario.
Parte
seconda: Elizabeth
Nevicava.
Sembrava
che Boston fosse stata sostituita da un foglio bianco.
“Domani
ci sarà da divertirsi, con tutto il ghiaccio che si sarà formato per strada,
professore.”
Lagerback
dalla sua poltrona aveva annuito, e poi aveva ripreso a leggere il suo libro.
Boston
le era piaciuta subito, era un bel cambiamento rispetto all’assolata California
dove aveva passato gli ultimi due anni, e poi c’era una buona facoltà di Legge
che aveva accolto lei e il professore a braccia aperte. Lagerback continuava a
prenderla in giro, ma lei sentiva di aver ricevuto la chiamata a difendere gli
innocenti…
Le
si era spezzato il cuore a lasciare Daniel e Camille, la sua famiglia, ma
doveva farlo. Non poteva contare eternamente su di loro, e cominciare una nuova
vita in una nuova città dove nessuno la conosceva poteva essere un buon inizio.
Si
mise dietro le orecchie due ciocche ribelli e dopo essersi messa gli occhiali
ricominciò a studiare.
Sul
tavolo c’era ancora il giornale aperto alla pagina degli annunci.
Riguardandolo, e ripensando alle offerte esorbitanti che vi aveva trovato, si
sentì male di nuovo. Come avrebbe fatto? Non poteva rimanere ospite da
Lagerback per tutta la vita.
Intanto
che pensava a come risolvere il problema, passarono due anni. La laurea si
avvicinava sempre di più, e ne era elettrizzata e spaventata allo stesso tempo.
Prendendo esempio dalle carogne newyorkesi, pronte a tutto pur di trovar casa,
aveva iniziato a leggere anche i necrologi sperando che si liberasse un
appartamento. Non aveva grandi pretese…un bagno, una cucina, una stanza, magari
uno studio…
Ho
bisogno di una casa.
Era
l’unica cosa che Faith riusciva a pensare. Era uscita dal carcere per buona
condotta qualche giorno prima, con una scatola sottobraccio e 1500 dollari in
tasca. La prima cosa che aveva fatto era stata comprare un biglietto per
Boston, la sua città natale. Ora però aveva disperatamente bisogno di un posto
dove stare. Passando davanti ad una vetrina, si fermò ed esaminò a lungo il suo
riflesso. Era diventata un pochino più alta, era dimagrita. Solo il suo pallore
era rimasto tale e quale, accentuato dalla mancanza di trucco. Non sembrava
diversa da com’era entrata, ad una prima vista. E invece dentro era avvenuta
una rivoluzione. C’erano tante persone a cui voleva chiedere perdono, ma la prima
della lista era morta. Anche se lei non centrava, si sentiva un peso allo
stomaco che non voleva andare via.
Tornò
al motel dove si era sistemata, con un trancio di pizza e una coca cola. Sul
letto c’era il giornale, non l’aveva ancora letto, e spinta ormai
dall’abitudine guardò la pagina degli annunci immobiliari.
Non
era possibile. Faith dovette rileggere quelle righe almeno due volte prima di
crederci.
“Affittasi
appartamento, due camere da letto, soggiorno, servizi…”
“…cucina,
posizione centrale…per questa miseria?! Dio, è fantastico!”
“Frena
con l’entusiasmo, Lizzie. L’affitto, quant’è?”
“C’è
un numero di telefono. Ora chiamo, m’informo, e in caso trasloco.”
“Ti
trovi così male con me?”
Elizabeth
desiderò sprofondare. Ma non poteva pensare prima di aprire bocca?
“No,
non volevo dire questo. È solo che le voci corrono…le avrà sentite anche lei.”
“Potrei
essere tuo padre. Cosa che mi renderebbe anche fiero.”
Elizabeth
sorrise. “Ma anche se non girassero quei pettegolezzi vorrei andarmene a stare
per conto mio. Ha fatto tanto per me…è arrivato il momento che ricominci a
camminare con le mie gambe in tutti i sensi.”
Aveva
chiamato, e si era messa d’accordo con la proprietaria per vedere
l’appartamento per il pomeriggio seguente. Era arrivata qualche minuto prima
dell’appuntamento, e aveva visto la proprietaria con un’altra aspirante
inquilina.
“Non
voglio gente come te in casa mia!”
“Ma…”
“Fuori
di qui. Ora.”
Elizabeth
osservò la ragazza allontanarsi a testa bassa, e la donna scuotere la testa
mormorando qualcosa che non riuscì a sentire.
Quando
vide la situazione più tranquilla, fece la sua comparsa nel corridoio.
Con
lei la donna fu un miele. Forse perché Elizabeth aveva chiesto subito quanto
era l’affitto, e le aveva dato il primo mese quasi senza aver visto
l’appartamento, dicendo che ne aveva un bisogno disperato.
“Bene,
se le cose stanno così…sa, devo trasferirmi in Canada, e voglio essere sicura
che la mia casa sia in buone mani. E lei, lei mi sembra proprio una persona
perbene, non come l’altra che era venuta…appena uscita di galera, sa?”
La
donna aveva già le valigie pronte, sembrava estremamente smaniosa di andarsene.
Elizabeth
però non diede peso alla cosa. Stava per tornare a casa a dare la bella notizia
a Lagerback, quando si accorse che seduta sulle scale c’era la ragazza mora di
prima. Piangeva.
“Ehi,
va tutto bene?”
“Certo.
Cinque su cinque.”
“Cosa?”
Faith
in quel momento si rese conto di conoscere quella voce, e alzò gli occhi per
vedere la donna in faccia. Diventò pallida come un fantasma.
“Buffy.”
“Il
mio nome è Elizabeth. Odio quel diminutivo…ma tu come lo sai?”
“Non
sai chi sono?”
“No,
mi dispiace. Ho avuto un brutto incidente quasi tre anni fa, e questo mi ha
provocato una brutta amnesia. Chi sei?”
“Mi
chiamo Faith.”
“Piacere,
Faith” disse sedendosi sulle scale accanto a lei. “Odiosa quella donna, vero?”
“Una
strega.”
“Beh,
la cara padrona di casa è in Canada, e c’è un’altra camera da letto. Allora?”
“Cosa?”
“Sbaglio
o hai bisogno di una casa?”
Faith
spalancò gli occhi. Non riusciva a credere che Buffy – Elizabeth – le stesse
proponendo di vivere insieme. No, non poteva ingannarla, doveva dirle la
verità. Subito.
“Buffy…”
“Elizabeth.”
“Elizabeth,
non credo sia una buona idea. Vedi, ci sono delle cose sul tuo…nostro passato…”
“Belle
o brutte?”
“Vedi,
io e te…”
“Aspetta.
Io e te non siamo mai state amiche, perché non ci sopportavamo. Ci sono andata
vicino?”
“Diciamo
di sì. Non può funzionare.”
“E
invece sì. Hai messo le cose in chiaro subito, sei stata sincera. Non ricorderò
ancora niente di te, ma quello che vedo per il momento mi basta. Sii mia amica.
Ti prego.”
Come
poteva ora dirle di no?
Le
era bastato un giorno per capire che quella ragazza, con
E
terza cosa, si era resa conto che questa volta le cose avrebbero funzionato.
Era una sensazione, niente di più. Rimaneva il fatto che non aveva ancora
trovato il coraggio di continuare il discorso che aveva iniziato sulle scale,
ma senza tutti i suoi amici a ricordarle chi era stata sarebbe stato più facile
farle capire quanto era cambiata, grazie ad Angel e al carcere. Perché aveva
scoperto che di Angel si ricordava molto, ed erano tutti ricordi di quando
stavano insieme. Nessun ricordo invece di quando era diventato Angelus e, Faith
su questo ci scommetteva, di sicuro Elizabeth non sapeva neanche che cos’era un
vampiro. Beata ignoranza.
Una
volta, per caso, era capitata dentro il campus dove Buffy studiava. Doveva
venirla a prendere per andare poi a fare un giro fuori città per il weekend, ma
sembrava proprio che la lezione dovesse finire tardi. Cercò l’aula, ma per
errore s’imbucò dentro quella di Psicologia, e alla fine della lezione fu Buffy
a doverla venire a cercare.
La
cosa continuò per molto tempo ancora, fino a quando anche Faith tornò a casa
raggiante dicendo alla sua coinquilina già laureata da un anno in Legge che ce
l’aveva fatta, che ora era Psicologa a tutti gli effetti.
Ora
rimaneva da affrontare il tirocinio in ospedale e allo studio legale Blair
& Woodsboro, e dopo essersi trovate a casa dopo il primo giorno di Faith si
consolarono dicendo che quello che non uccideva rendeva più forti. Faith era
finita in un gruppo di secchioni, con un supervisore ancora più odioso, mentre
Elizabeth da un anno doveva affrontare lo studio a più alta concentrazione
maschile della città, dove per dimostrare di essere qualcuno avrebbe dovuto
lavorare quindici ore al giorno se non di più.
Faith
la guardava portarsi tonnellate di lavoro a casa, e aspettava. Circa un mese
dopo, la chiamarono dall’ufficio dicendole quello che si aspettava, ovvero che
Elizabeth aveva avuto un collasso. Quando la vide a letto, il ‘te l’avevo detto
di non strafare, brutta zuccona’ che si era preparata per farle fare un
sorriso, o una smorfia almeno, le morì sulle labbra. Era del colore del
lenzuolo, ed era ancora sotto l’effetto del sedativo che le avevano dato.
Si
era seduta aspettando il suo risveglio, che era avvenuto qualche minuto più
tardi. Quando aveva aperto gli occhi e si era vista in una stanza d’ospedale
praticamente uguale a quella dov’era stata ricoverata per mesi dopo l’incidente
le era venuta una crisi di panico, pensando di aver sognato tutto. Faith
l’aveva abbracciata, dicendole che andava tutto bene, che quello che ricordava
era tutto reale, e sentì ancora una volta quella morsa allo stomaco. La stava
ingannando da anni, non aveva mai trovato il coraggio di dirle tutto, ma ora
che finalmente l’aveva conosciuta sapeva che tutto quello che le aveva sempre
invidiato – amici, una casa, una famiglia – ora non esisteva più. Aveva solo
lei, Daniel, Camille e Lagerback, e anche se sapeva di non poter vivere più a
lungo nelle bugie, come psicologa sapeva che la sua amica aveva faticato anni a
trovare una sua stabilità, e che dirle tutto avrebbe mandato il suo mondo in
frantumi. Dirle la verità avrebbe voluto dire parlare di lei, del fatto che
erano state cacciatrici e rivali, e dei vampiri, dei demoni, e di tutto quello
che era stata la sua vita a Sunnydale. Di quello qualcosa doveva ricordare,
perché ogni volta che sentiva nominare quel paese Elizabeth prendeva un’espressione
spaventata e cambiava discorso all’istante.
Se
poi successe, fu solo per caso. Elizabeth era tornata a casa un paio di giorni
dopo, e parlava di tornare subito a lavoro. Faith invece non voleva neanche
sentire un discorso del genere, e voleva che si divertisse quella sera. Alla
fine avevano deciso che Faith sarebbe uscita per andare in un pub, e che
Elizabeth l’avrebbe raggiunta un paio d’ore più tardi se se la sentiva.
E
un paio d’ore dopo Elizabeth aveva buttato via il Codice Penale e si stava
vestendo per uscire. Ripensò con dispiacere ai pantaloni di pelle che aveva
macchiato ed erano ancora in tintoria, e pregando che Faith non la sbranasse
dopo si era infilata in camera sua per prenderne in prestito un paio. Era stato
frugando in un cassetto che aveva trovato un pugnale molto strano e familiare.
*
Buffy, Xander, Willow, Cordelia e Oz sono nel retro del Bronze e osservano una
ragazza mora combattere con un vampiro.
“Ciao
Buffy” dice la ragazza continuando a colpire il vampiro “Mi chiamo Faith.”
“Non
vorrei sbagliarmi” commenta Oz “Ma credo ci sia una nuova cacciatrice in
città.”
Buffy
e Faith sono insieme in un negozio di armi, dove sono entrate sfondando la
porta.
“Buffy,
la vita della cacciatrice è semplice. Vuoi? Prendi! È tuo.”
Ora
si trovano nella sala di un’enorme casa. Buffy è incatenata alla parete, e
vicino a Faith c’è Angel, che maneggia uno degli attrezzi di tortura a loro
disposizione.
“Sono
una cacciatrice, rischio la pelle come e più di te e chi sento nominare da tutti?
Buffy. Allora cerco di assomigliare a te e di diventare una brava ragazza, e
chi ringraziano tutti? Buffy!”
“Non
pensavo avessi tanta rabbia dentro”
“Che
posso dire? Sono la migliore attrice del mondo.”
Stesso
posto, un po’ di tempo dopo. Le due cacciatrici hanno lottato, e sono finite
per puntarsi simultaneamente un coltello alla gola. Faith sorride.
“Non
mi puoi uccidere. Non sei ancora pronta per questo!”
Dà
un bacio in fronte alla rivale e scompare.
Buffy
e Faith sono sul tetto dell’appartamento della ragazza e combattono l’una
contro l’altra. Buffy ferisce gravemente Faith con la sua arma, il pugnale, e
la ragazza barcolla fino al cornicione.
“Mi
hai ucciso…ma non servirà al tuo ragazzo.”
Guarda
di sotto, sorride. “Dovresti provare, B. È un bel salto…”
Detto
questo si lascia cadere, atterrando pesantemente nel cassone di un camion. *
Elizabeth
aveva fatto cadere a terra il pugnale, sconvolta. E dopo averlo raccolto, era
uscita come una furia, alla ricerca di Faith.
Aveva
iniziato a piovere forte, ma Elizabeth quasi non se n’era accorta. Era furiosa
come non lo era mai stata, e man mano che si avvicinava al locale i ricordi che
aveva di Faith si facevano più nitidi. E quando finalmente la incontrò, Faith
non riuscì a evitare il pugno che la prese in pieno e la fece finire a terra.
“Perché
non mi hai mai detto niente, Faith?”
Faith
la guardò senza capire, ma questa volta riuscì a schivare il pugno.
“Perché
diavolo non mi hai detto di essere una Cacciatrice?” disse tirandole un calcio
allo stomaco, facendola piegare in due. Prima che Elizabeth dicesse qualsiasi
altra cosa, Faith la prese di sorpresa e le si avventò contro, facendole
perdere l’equilibrio e gettandola a terra insieme a lei.
“Buffy,
ascoltami…”
“Non
ti voglio ascoltare! Mi hai solo mentito!”
“Non
volevo che ti reagissi così!”
“Non
dovevi mentirmi! Non dovevi mentirmi…non dovevi farlo…”
La
rabbia di Elizabeth verso Faith si era tramutata in lacrime, e Faith la strinse
forte riportandola a casa.
Elizabeth
non era furiosa per quello che lei le aveva fatto, perché ricordava anche di
averla pugnalata a morte e che poi grazie alla caduta che era seguita si era
fatta otto mesi di coma, e questo aveva mandato le cose in pareggio. La cosa
che la faceva arrabbiare era che Faith non le avesse detto tutto subito.
“Tu
di me sai molto. Io voglio sapere, bene o male non mi interessa, non credo di
ricordare tutto.”
“Beh,
sei una Cacciatrice di vampiri, o forse è meglio dire che lo eri. Cacciavi
demoni, ed eri una leggenda. Poi sei morta…sei rimasta morta per un minuto, ma
sufficiente per attivare una seconda Cacciatrice. Lei è morta, e sono arrivata
io. Siamo andate d’accordo per un po’, ma io ero gelosa di te. Avevi amici,
famiglia, un futuro e tutti ti amavano…abbastanza perché decidessi di allearmi
con un tuo nemico. Poi io sono finita in coma, lui è stato sconfitto, e quando
mi sono risvegliata ho cercato di vendicarmi. Angel…cioè…”
“Il
mio ex. Il vampiro con l’anima. Dai, va avanti…”
“Lui
mi ha convinto a costituirmi. Mi sono fatta due anni di carcere, poi sono
uscita per buona condotta e sono tornata qui. E mentre cercavo casa, ho
incontrato te. Mi avevano detto che eri morta, immagina il colpo. Volevo dirlo
subito ad Angel, ma qualcosa mi ha detto che sarebbe stato meglio di no. In
pratica, che Buffy Summers è viva lo sappiamo solo io, te, e il medico che ti
ha curato.”
“E
ora?”
“Cosa?”
“Sei
ancora gelosa di me?”
“Credo
di esserlo stato perché non ti conoscevo. Ma dopo averti assistito nel dopo sbronza
della tua festa di laurea, posso dirti di conoscerti molto bene…”
Elizabeth
sorrise.
“Sapevo
che ti avrei fatto sorridere…”
*
“Sapevo che ti avei fatto sorridere.” *
E
per Elizabeth fu come se qualcuno le avesse spaccato la testa con un ascia. Quando
riaprì gli occhi, Faith le era accanto un un’aspirina. Le disse che aveva
stretto la testa tra le mani, come se avesse dei dolori fortissimi alla testa,
e che poi era caduta sempre stringendosi la testa, perdendo conoscenza.
“Liz,
che ti è successo?”
Elizabeth
cercò di concentrarsi su quello che aveva visto. Lei, su un dondolo, con
vicino…
Si
tenne stretta la testa durante l’ennesima fitta lancinante, e tenendosi le mani
sul viso si lasciò sprofondare nei cuscini del divano.
“Non
lo so. Quelle parole che hai detto…me le deve aver dette anche qualcun altro.
Ma chiunque sia, a quanto pare non voglio ricordarlo.”
Se
ne andò a dormire. Una volta chiusa la porta, sospirò e dal cassetto del
comodino tirò fuori un flacone di pillole. Sperava che Faith non le vedesse
mai, era roba piuttosto forte per dormire. Ma non voleva incubi, almeno per
quella notte.
Il
mattino dopo tornò allo studio legale molto presto. Se c’era una cosa che non
voleva, era quella di essere vista arrivare dagli altri praticanti per essere
presa in giro. Aveva dimenticato però che un paio erano tanto dediti al lavoro
e all’ingraziarsi i superiori che a volte passavano là anche le nottate.
“Ehi,
Summers! Sei uscita dall’ospedale finalmente?”
Elizabeth
strinse forte i pugni, per non rispondere indietro al ragazzo che aveva
parlato.
“Ciao,
Avery.”
“Se
non ce la fai a reggere, cambia mestiere.”
“E
perché? Per perdermi lo spettacolo di quando toccherà a te? Oh no, caro.”
Detto
questo si infilò nel suo minuscolo ufficio, pieno di scartoffie ammucchiate, e
iniziò a lavorare. Dopo un po’ sentì la porta aprirsi, ma occupata com’era non
staccò gli occhi dal computer e non smise di battere alla sua tastiera…fino a
quando non gettò un occhio e si accorse di avere davanti alla scrivania Julian
Turner, socio dello studio.
“Buongiorno,
signorina Summers.”
“Signor
Turner…oddio, mi scusi, non l’avevo proprio vista, ma sono così indietro…”
“Non
si scusi, ho saputo di quanto è successo. Ma non è per questo che sono qui. Le
vorrei affidare un caso molto importante, e sono sicuro che lei è la persona
giusta.”
“E
cosa glielo fa credere? Sono solo una praticante...”
“Lei
viene da Sunnydale, esatto?”
“Sì…”
“Quindi
immagino sappia qual è la grande attrattiva di Sunnydale.”
“Credo
di aver compreso.”
“Il
cliente in questione è un…beh, lo vedrà dal fascicolo. La aspetto nel mio
ufficio appena terminato quello che sta facendo.”
Elizabeth
lo aveva guardato con aria interrogativa mentre usciva dal suo ufficio, e
cercando di muoversi finì di battere quel promemoria e andò filata dal suo
superiore. Non riusciva a capire cosa c’entrasse Sunnydale con quel caso che
avrebbe dovuto discutere. Forse un cliente era minacciato da un demone? Beh, lo
avrebbe scoperto presto.
Bussò,
le venne detto di accomodarsi, e Julian le chiese se voleva qualcosa da bere.
“Preferirei
sapere di che si tratta, signor Turner.”
“D’accordo.
Vede, signorina Summers, le voglio affidare questo caso perché il posto da cui
viene brulica di…uhm, come possiamo chiamarli…non morti. E il nostro cliente
principale, come di sicuro noterà dal suo fascicolo, è un non morto. Un
vampiro. Vincent van Allen ha ricevuto un’accusa falsa e infamante, e desidero
che sia lei a tirarlo fuori dal problema.”
“Vincent
van Allen? U-Un momento…lo stesso van Allen a capo…?”
“Esattamente.
La sua holding è importante, per non dire imponente, e necessita di uscire
indenne da questa accusa. Per questo un avvocato che non si scompone all’idea
di sentir parlare di demoni e che sappia tener nascosti questi dettagli è
indicato per questo caso.”
Julian
era incredibile. Parlava di demoni e del caso, un tentato omicidio, con la
stessa naturalezza con cui avrebbe letto la lista della spesa. Una naturalezza
inquietante, che a Elizabeth faceva venire in mente qualcuno…poi, nella sua testa
esplosero delle immagini, sparate ad una velocità incredibile, ed Elizabeth
ricordò a chi appartenevano quello stesso modo di comportarsi e quel sorriso.
Richard Wilkins, il Sindaco di Sunnydale. A quel punto smise di ascoltare
Julian, concentrandosi solo sul seguire un filo logico per quei ricordi che
stavano affiorando tanto velocemente. Rivisse i momenti di cui Faith le aveva
parlato, il momento in cui Angel venne avvelenato da Faith e di come lo aveva
salvato, l’Ascensione, il Sindaco diventato demone, l’esplosione della scuola
con il demone dentro, Angel che l’aveva abbandonata alla fine della battaglia.
“…e
questo è tutto. Le è chiaro, Elizabeth?”
“Come?
Sì, chiarissimo. Come il sole” rispose lei, afferrando il fascicolo e alzandosi
per uscire.
“E
si ricordi, questa pratica va trattata con discrezione. Se ha dei dubbi, si
rivolga a me e a me soltanto.”
“Certamente.
Con permesso” e uscì da quella stanza. Fece di corsa i passi fino al suo
ufficio, e una volta dentro non riuscì a trattenersi dal saltare dalla gioia.
Un caso importante, affidato a lei! Non vedeva l’ora di dirlo a Faith!
Faith
odiava fare tra le due quella con il sale in zucca, ma ormai ci stava facendo
l’abitudine.
“B,
mi stai dicendo che ti hanno affidato un caso di quella portata solo perché
vieni da Sunnydale e sai cos’è un demone?”
“Esatto.
Non è incredibile? Se vinco, tappo la bocca a Avery e a tutti gli altri una
volta per tutte…”
“E
se perdi hai finito di lavorare lì e difficilmente troverai un lavoro
altrettanto buono.”
“Faith,
almeno per un microsecondo, puoi far finta di essere felice per me?”
“Lo
sono, ma ti sto solo dicendo di stare attenta. Se cadi, stavolta ti puoi fare
male sul serio.”
“Mi
metterò polsiere e ginocchiere.”
Aveva
studiato il fascicolo, fatto ricerche, e dedicato alla pratica delle attenzioni
a dir poco maniacali. Il suo cliente, una persona rispettabile e dalla
reputazione impeccabile, era stato accusato di tentato omicidio da parte di una
segretaria. Non c’erano prove a supporto di quell’accusa, nessuno aveva visto,
nessuno aveva sentito, e quanto trovato dalla polizia non era assolutamente
rilevante. Semplicemente non c’era l’arma, e se non c’era l’arma come poteva
esserci stato un tentativo di omicidio?
Era
sull’onda di questa certezza che si presentò in tribunale due settimane più
tardi. Non appena entrò in aula, si rese conto che a parte lei c’erano
l’avvocato difensore e la sua cliente. Sembrava spaventata…beh, meglio così, si
disse Elizabeth avvicinandosi al suo posto e posando la sua ventiquattr’ore. Ad
un tratto avvertì un formicolio sulla nuca, segno che qualcuno la stava
fissando intensamente, e quando si voltò vide che a fissarla era il suo
cliente, Vincent van Allen.
Sostenne
il suo sguardo fino a quando lui non venne vicino a lei, scortato da due uomini
che non si curò di presentare.
“E
così sarà lei a farmi uscire da questa impasse, avvocato Summers. Julian mi ha
detto di avere fiducia in lei…”
E
tanto era bastato a far venire i brividi a Elizabeth. Un’occhiata alla
signorina seduta dall’altro lato, Mary Kildare, e constatò di non essere
l’unica a tremare di fronte a lui, con la differenza che l’avvocato, Sean
Connor, a lei aveva messo una mano sulla spalla per farle coraggio. Quella
situazione venne interrotta dall’arrivo del giudice, piuttosto accigliato.
“Mi
avete fatto venir via dalla festa di compleanno di mio nipote, spero per un
buon motivo…ah, è lei, Connor, dovevo immaginarmelo.”
Già,
il giudice aveva ragione di essere seccato. I casi di solito venivano discussi
durante la mattina, e non dopo il tramonto. E se Connor aveva chiesto
un’udienza a quell’ora doveva essere perché sapeva chi era van Allen in realtà.
“Avvocati,
per favore avvicinatevi.”
Elizabeth
e Sean obbedirono.
“Statemi
a sentire, voi due. Voglio tornare a casa almeno per riuscire a mangiare una
fetta di torta con Tommy prima che vada a letto, quindi muovetevi a discutere
il vostro caso, e niente giri di parole, mi sono spiegato, Connor?”
“Non
ce ne sarà bisogno, Vostro Onore. Le prove sono chiarissime.”
“Quali
prove, avvocato Connor? Non mi pare ce ne siano. O non me le hanno fatte
vedere?” disse Elizabeth, rivolgendosi a Sean con il suo tono più sarcastico.
“Lasciami
indovinare. Primo giorno in aula?”
“Attento,
potresti finir legnato da una novellina.”
“Finitela,
voi due, e cominciate!”
Iniziò
Sean Connor. Dopo averlo sentito parlare, Elizabeth iniziò a sentirsi meno
sicura. Era bravo. Maledettamente bravo a mentire per non far saltare fuori la
verità, ovvero che c’erano vampiri di mezzo. E come Faith le aveva detto
‘Ricorda che un avvocato è più credibile quando non crede a quello che dice.’
Il problema era che lei ci credeva, a quello che doveva dire…
Quando
si alzò per iniziare il controinterrogatorio della signorina Kildare, si
accorse che in fondo all’aula era comparsa una donna vestita di nero e con un
paio di occhiali da sole, che tolse in quel momento rivelando un paio di occhi
scuri e brillanti. Silenziosamente si era avvicinata a Connor mentre stava
interrogando la teste, e gli aveva passato qualcosa.
Ora
iniziava davvero a sentire un brutto presentimento.
E
quando Connor si alzò per controinterrogare e menzionò un filmato in suo
possesso che mostrava van Allen aggredire la signorina Kildare, Elizabeth si
sentì le gambe di gelatina per un istante. Poi realizzò che il filmato doveva
essere stato certamente rubato, e quindi come prova era inammissibile.
“Obiezione,
Vostro Onore. Prove rubate, e quindi inammissibili!”
“Obiezione
accolta. Avvocato Connor, mi meraviglio che…”
“Posso
avvicinarmi al banco, Vostro Onore?”
A
quel punto sia Sean che Elizabeth si avvicinarono per discutere.
“Vostro
Onore, si tratta di una prova determinante…”
“Non
cambia il fatto che sia rubata, Connor. E dai a me, della novellina?”
“Gallo
contro Fuentes, Vostro Onore” disse Connor prendendo una sentenza dal suo
tavolo e porgendola al giudice “in quel caso sono state presentate prove
rubate, e accettate. È un precedente, Vostro Onore.”
“Vostro
Onore, ma…”
“Ha
ragione, avvocato Connor…la sentenza è regolare. Avvocato Summers, mi vedo
costretto a respingere la sua obiezione. Continui, avvocato Connor.”
Mentre
tornava al suo posto, aveva la netta impressione di sentire il boia affilare la
mannaia. E quando venne fatto vedere il filmato, e l’accusa venne provata, la
sentì calare sulla sua testa.
La
donna vestita di scuro nel sentire il verdetto sorrise soddisfatta, e una volta
uscito il giudice si era alzata per salutare Mary e congratularsi con Sean. Poi
aveva gettato uno sguardo sprezzante a Van Allen. Era difficile dire quale dei
due esprimesse più odio. Prima di uscire, aveva guardato anche Elizabeth. C’era
una strana luce nei suoi occhi…
Elizabeth
ci stava ancora pensando, mentre sentiva il boia affilare la mannaia per la
seconda volta in quel giorno: il suo carnefice stavolta era Julian, che le
rammentò come avesse messo in cattiva luce lo studio. Ma quello sarebbe stato
il meno. Il peggio arrivò quando Julian le fece sapere che lo aveva deluso
perché si aspettava che giocasse sporco, proprio come aveva fatto Connor.
“Le
avevo spiegato che era importante. Doveva far di tutto per vincere. I nostri
associati a Wolfram & Hart non saranno per niente contenti.”
“La
prego, signor Turner…”
“Di
sicuro vorranno la sua testa, e non posso fare a meno di dargliela. Lei è
licenziata, Summers.”
“L-Licenziata?”
“Le
darò tempo qualche giorno per sgomberare il suo ufficio…”
“Non
ne avrò bisogno. Me ne vado ora.”
“Mi
dispiace. Sarebbe potuta essere un elemento brillante, nel nostro studio.”
“Beh,
signor Turner, se sono davvero così brillante forse sentirà ancora parlare di
me.”
Questo
più che a lui, Elizabeth lo diceva a sé stessa. Per autoconvincersi di non
essere del tutto una fallita, ma che altro poteva sembrare davanti alla sesta
vodka (a stomaco vuoto) in un bar a un paio di isolati dallo studio, con la
scatola di cartone con le sue cose dell’ufficio ai suoi piedi?
“Un’altra.”
“Signorina,
non vuole che le chiami un taxi?”
“Quello
che voglio è un’altra vodka.”
“Francamente
mi sembri un po’ ubriaca fradicia, Summers.”
A
quel punto si era voltata verso l’altra persona che aveva parlato, una sagoma
scura sulla porta che si stava avvicinando.
“Non
sono ubriaca, sono solo imbecille…”
“Sono
d’accordo sulla seconda, ma se t’infilo uno stoppino in bocca brucerebbe per un
mese. Pago io il conto della signora” disse poi rivolgendosi al barista.
Ora
Elizabeth riusciva a distinguerlo perfettamente. Era Sean Connor.
“Vattene
al Diavolo, Sean Connor…sei tu che mi hai fatto licenziare, lo sai?”
“Niente
di personale, Summers, davvero.”
“Lasciami
in pace!”
“Spiacente,
no.”
Detto
questo la prese sotto braccio, e in seguito in braccio, per portarla fino alla
sua macchina. Nella sua borsa trovò i suoi documenti e il suo indirizzo, e
decise di portarla subito a casa sua.
Faith
andò ad aprire alla porta, ed evitò per un soffio l’ennesimo colpo di piede di
Sean contro la porta.
“Scusa,
braccia occupate” disse entrando, con Buffy tra le braccia.
“Oh
mio Dio, che le è successo?”
“Sei
bicchieri di vodka di fila, dopo la notizia del licenziamento.”
“Vieni,
camera sua è di qua.”
Sean
la depose sul letto, e uscì dalla stanza. Faith chiuse la porta, e lo raggiunse
in salotto.
“Grazie
di avermela riportata…”
“Mi
dispiace per tua sorella, senza volerlo le ho causato un bel problema…”
“Non
è mia sorella. Siamo solo amiche. Che problema?”
“Te
lo dirà lei domani…sempre che sia in grado di alzarsi.”
“Tranquillo,
conosco un rimedio infallibile per il dopo sbornia. Non cambiare discorso,
però. Che problema?”
“Non
foglio finire menato, almeno per stasera. Ci penserà il mio principale.”
“D’accordo.
Almeno dimmi chi sei.”
“Sean.
Il mio nome è Sean.”
“Allora
buonanotte, Sean.”
“Buonanotte
anche a te…ehm…”
“Faith.
Io sono Faith.”
“Buonanotte
anche a te, Faith.”
Julian
era ancora in ufficio, che fissava il muro. In realtà continuava a pensare e
ripensare a quella frase che Elizabeth Summers aveva detto.
‘Se
sono davvero così brillante forse sentirà ancora parlare di me’.
Diavolo,
era quello che più temeva. E se Shameen metteva le sue mani su di lei, erano
veramente finiti.
In
quel momento squillò il telefono. C’era una sola persona che poteva chiamare.
“Mi
dispiace, Vincent, per questo disguido.”
“Non
ti preoccupare, Julian, non c’è niente che non sia riuscito a risolvere, lo
sai. E si dà il caso che il giudice tenga molto al suo nipotino, e pur di non
fargli succedere niente ha deciso di insabbiare il caso. Credo che abbia appena
comunicato a Connor che un perito del tribunale ha esaminato il nastro
reputandolo falso…”
“Sei
un demonio, vecchio mio. Che ne farai di quella ragazza?”
“Verrà
uccisa ovviamente, e non c’è posto dove Shameen potrà nasconderla da me
stavolta, o persona che il suo fido avvocato potrà convincere della mia
colpevolezza.”
“E
riguardo Elizabeth?”
“Quella
ragazza mi piace, Julian. Voglio che lavori per me.”
“I
nostri soci di Wolfram & Hart hanno voluto la sua testa per quanto è
successo.”
“Un
gesto inutile e stupido. Voglio tenerla d’occhio da vicino, Julian, voglio
sapere tutto di lei. Ho il vago sospetto che sia più di quanto crediamo, o di
quanto creda lei stessa, e non sarei felice se fossero Connor e Shameen a
fruttare le sue abilità.”
“Sarei
proprio curioso di sapere cos’hai in mente per lei.”
“Lo
saprai presto. Nel frattempo tienila lontana dalla Lega di Weimar.”
“Dopo
come è andata, dubito seriamente che qualsiasi cosa Connor possa dire o fare
Elizabeth lo starebbe a sentire.”
Parole
sante. Sean Connor era l’ultima persona con cui Elizabeth avrebbe voluto avere
a che fare.
Il
giorno dopo un paio di mugolii provenienti dalla sua stanza fecero capire a
Faith che la sua amica era sveglia e stava scontando la sbornia. Non riuscì a
trattenersi.
“Oh,
la bella addormentata ha riaperto gli occhi. Abbiamo mal di testa oggi?”
“Solamente
un complesso di metallo pesante in testa ogni volta che parli…”
“Chi
è causa del suo mal pianga sé stesso. E poi perché? Se non era per quel ragazzo
che ti ha riportato a casa, saresti ancora lì.”
“Che
ragazzo?”
Quando
Faith le disse che era stato Connor a riportarla a casa, a momenti le prendeva
un colpo.
“Chi?
Sean Connor mi ha riportato a casa?”
“Con
la sbronza che ti sei presa è stato davvero un atto di carità. Bevi e zitta”
disse dandole un bicchiere pieno di qualcosa di cui, Buffy lo sapeva, non
avrebbe mai voluto sapere l’esatta composizione.
“Ha
mai ucciso nessuno questa roba?”
“Nessuno
che non se lo meritasse.”
“Grazie”
e lo buttò giù senza fiatare, salvo fare una faccia schifata dopo.
“Cielo,
fa schifo!”
“Più
schifo di quanto ti farebbe rivedere Sean? No, perché ha detto che passava per
vedere come stavi.”
Buffy
buttò giù in sequenza due bicchieri d’acqua e tre caramelle, per scacciare il
sapore di quel rimedio anti sbronza fatto da Faith, e la guardò con l’espressione
più calma che poteva.
“Faith?
Ti ricordi che ieri sera ti ho lasciato un messaggio sulla segreteria dicendoti
che avevo avuto una giornata del cavolo per colpa di un infame disgraziato e
volevo stare da sola?”
“Sì.”
“Bene.
La giornata del cavolo intendeva il fatto che avevo perso in aula, il mio
superiore era furioso, e che mi ha licenziato. Ora, tutto si può ricondurre ad
un’unica persona, perché c’è un unico responsabile per il mio licenziamento, e
la sbronza. L’avvocato mio avversario. Indovina come si chiama?”
“Oh
mio Dio, Sean Connor! L’infame disgraziato!”
“Lui
in persona. Quindi spero capirai perché se lo rivedrò potrò fare qualche gesto
di cui assolutamente non mi pentirò dopo.”
“L’unico
gesto che farai dopo esserti ripresa sarà alzare la cornetta e chiamare
Lagerback. Buff, hai bisogno di una mano, e considerato che quelli di Blair
& Woodsboro faranno di tutto affinché tu non trovi lavoro in un altro
studio legale...”
Ed
era vero. La voce si era sparsa, e dopo una settimana alla ricerca di un lavoro
disperava di trovarne uno anche come segretaria in uno studio legale di quella
città. Faith aveva mollato il tirocinio, e almeno lei era stata fortunata da
trovare lavoro nello studio di una psicologa come assistente. Continuava a
insistere che chiamasse Lagerback e si decidesse ad ingoiare il suo maledetto
orgoglio, e alla fine aveva ceduto.
Lagerback
si comportò esattamente come lei aveva immaginato, e infatti le offrì il suo
aiuto quando Elizabeth gli disse che se nessuno voleva assumerla allora avrebbe
aperto il suo studio legale.
“Non
se ne parla.”
“Almeno
per i primi tempi. Ti servirà un locale abbastanza in centro, qualcuno che ti
aiuti, contatti, e devi farti una clientela. Metti da parte l’orgoglio e lascia
che ti dia una mano.”
“Hai
già fatto troppo per me, Professore.”
“Mia
figlia è morta prima di realizzare il suo sogno di diventare una stilista
affermata, ma so che sarebbe d’accordo con me nel volere che almeno tu realizzi
il tuo sogno.”
“Ti
renderò tutto, lo prometto.”
“So
che lo farai, ma anche se non ci dovessi riuscire, Lizzie, andrà bene lo
stesso. Pensa al tuo futuro ora…e anche a come far rimangiare a quelli dello
studio l’umiliazione che ti hanno fatto passare” aggiunse con un sorriso. A
quel punto Elizabeth capì che qualcuno aveva telefonato al professore, ma si
ripromise di abbracciare Faith per averlo fatto appena ritornata a casa.
Ogni
volta che entrava nel suo ufficio le prendeva un attacco di riso. Era proprio
minuscolo, a stento ci stava la sua scrivania e quella di Faith, che ogni tanto
veniva a darle una mano perché ancora non poteva permettersi di pagare una
segretaria e non voleva chiedere altri soldi a Lagerback. Ma era suo. Non c’era
nessuno da accontentare cercando prove false o minacciando clienti per farli
ritrattare. In quel minuscolo ufficio c’era solo un’ideologia da rispettare. La
sua.
E
Lagerback lo sapeva. Per questo le inviava quotidianamente persone a lui
segnalate dal suo parroco, quasi tutte senzatetto, con problemi con
l’assistenza sociale, e bistrattate dal sistema.
Alcuni
insistevano per darle qualcosa. Niente di speciale…onorari di tre – quattro
dollari, a volte una piantina un po’ sofferente, e cose del genere. Elizabeth
all’inizio rifiutava, le sembrava che non fosse il caso, ma poi aveva capito
che facendo così offendeva la loro dignità, una cosa che nessuno aveva ancora
rubato loro, e aveva smesso.
E
quando le sue vittorie smisero di passare in sordina, iniziò tra gli avvocati a
spargersi la voce che in una via dove iniziava la periferia e finiva il centro
c’era un piccolo studio legale che faceva la fame ma che vantava un’avvocatessa
con i fiocchi, che difendeva con le unghie e con i denti chiunque le venisse a
chiedere aiuto.
Van
Allen non poté fare a meno di sentirsi compiaciuto.
“Te
lo aveva detto, Julian, che avresti ancora sentito parlare di lei.”
“Un
avvocato di strada…può diventare pericolosa. Chi vive senza una casa lo sa che
succede di notte…sa dei vampiri.”
“Rimane
la loro parola contro la mia, sempre che riescano a collegarmi a me e ai miei
uomini.”
“Elizabeth
può farlo. Grazie a noi due possiamo dire che ha perso molto…e credo che non
aspetti altro che vendicarsi.”
“Connor
l’ha più contattata?”
“Lei
l'ha sempre mandato al diavolo, proprio come speravamo.”
“La
terrà d’occhio, proprio come facciamo noi. Ma se quella maledetta…”
“Shameen,
dici? Dubito seriamente che metterebbe in pericolo la sua incolumità per una
ragazzina mortale.”
“Spero
per te che sia così. Ma se ci prova, bloccatela, con ogni mezzo.”
“E
di Elizabeth?”
“La
voglio per me. E in quel caso, per noi non sarà neanche più una minaccia.”
“Faith,
sono tornata!” esclamò Elizabeth di ritorno una sera dallo studio legale.
In
casa però le luci erano tutte spente, e quando le accese di accorse di una
figura nera piuttosto familiare accanto ad una finestra.
“Ti
aspettavo, Elizabeth Anne Summers.”
“Tu
sei la donna che ha aiutato Sean a farmi licenziare.”
“L’avresti
fatto tu. Quello studio non faceva per te.”
“Che
vuoi da me?”
“Darti
una mano” disse voltandosi verso Elizabeth “farmi dare una mano.”
“Non
lo so se mi va di starti a sentire.”
“Tu
vuoi vendicarti di Turner e van Allen. Io posso offrirti i mezzi. In cambio
desidero che tu lavori per me.”
“Hai
già Connor, va da lui.”
“È
Sean che mi ha fatto venire qui. A me non piace perdere tempo, Elizabeth,
pertanto ora mi ascolterai. Sei di Sunnydale, giusto?”
“Sì.”
“E
ti chiamavano Buffy.”
“Così
dicono.”
“Allen
non si è mai interessato alle Cacciatrici, si è sempre ritenuto intoccabile da
voi. Non penso neanche che sappia chi tu sia in realtà.”
“Se
è per quello, non lo so neanch’io. Non ho neanche un ricordo di questa vita,
solo quanto Faith mi ha detto e quegli stracci di ricordi che ho. Francamente
non basta.”
“E
francamente al momento non m’interessa. M’interessa di più che tu sappia dei
demoni.”
“Come
te? Insomma, sei una vampira, giusto?”
“Complimenti
per averlo capito. Di solito la gente ci mette molto di più, ma una cacciatrice
lo rimane per tutta la vita.”
“Se
è un complimento, grazie.”
“Sai
niente della Lega di Weimar?”
“No.
Cos’è?”
“La
vedrai con i tuoi occhi.”
Spiegata
in due parole mentre andavano verso una parte abbandonata della città,
“Desaparecidos?”
“Durante
il regime militare in Argentina sparivano nel nulla un sacco di persone, e di
loro poi non si sapeva più niente. È quello che faccio io con queste persone.
Come il programma di protezione dei testimoni…solo che praticamente a
differenza di loro non vanto nessun morto e nessuna talpa.”
“Non
ho ancora capito che ti servo a fare.”
“Molti
di questi desaparecidos non riescono a stare con le mani in mano, e di solito
sono professionisti: avvocati, poliziotti, investigatori e via dicendo. Non gli
sta in tasca di perdere la loro vita, così cercano di incastrare i loro
aguzzini. Talvolta aiutano anche altri a scoprire il perché sono qui e non
nelle loro case. Poi servono avvocati per discutere il caso, ed è in quel ramo
che sono carente. Sean si sobbarca venti ore di lavoro al giorno, e qualche
avvocato mortale riabilitato dalla Lega gli dà una mano, ma quando è troppo è
troppo.”
“E
a me il lavoro si può dire che manchi.”
“Cos’è,
sei interessata?”
Elizabeth
si era fermata dietro Shameen, alle porte di un vecchio palazzo “Può darsi.
Forse, come dici, una cacciatrice non va mai in pensione…mi pare stimolante
come lavoro.”
“Ma
è stressante. Fidati.”
“Credo
lo sia stato anche essere la cacciatrice.”
Era
incredibile quanta gente ci fosse là dentro nascosta. E ancora più incredibile
era vedere che demoni e mortali erano mischiati assieme. Shameen le aveva detto
di fare un giro da sola, e così aveva conosciuto molte persone finite nei guai
solo perché si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Dopo un po’,
si rese conto che il comune denominatore a quasi tutti i presenti era Vincent
Van Allen. Era una sorta di ombra oscura sulla città, che tutto soffocava e
tutto controllava. Shameen lo detestava, si capiva all’istante, e desiderava
fermarlo a tutti i costi. E Elizabeth si rese conto che lo desiderava anche
lei.
In
mezzo a tutte quelle creature umane e demoniache, ce n’era una di cui Shameen
si occupava quasi sempre di persona. Da quello che Elizabeth aveva capito era
una vampira, impazzita a causa del suo sire, la cui condizione si era andata
aggravando.
“Accetta
solo me e altre due persone.”
“Come
si chiama?”
“E
chi lo sa? Non ce l’ha voluto dire. Noi la chiamiamo Edith, come la sua
bambola.”
“Posso
vederla?”
“Puoi
provarci, ma francamente non penso sia una buona idea. E visto che non so cosa
le è successo non so neanche cosa potrebbe sconvolgerla di nuovo…”
“Capisco.”
Improvvisamente
sentirono delle voci che provenivano da dietro una porta. Qualcuno che stava
cercando di calmare una donna che stava piangendo.
Shameen
era corsa dentro, lasciando Elizabeth da sola, ma sembrava che neanche lei
fosse in grado di fare niente. Una figuretta nera uscì dalla porta di corsa, ed
Elizabeth cercò di fermarla, cadendo a terra insieme a lei.
“Ehi,
calma. Va tutto bene…”
La
ragazza la guardò in faccia con gli occhi pieni di lacrime e le prese una stretta
allo stomaco. Lei la conosceva.
“…Drusilla.”
Shameen
era arrivata di corsa, ed era rimasta sorpresa nel vedere il giovane avvocato
aiutare la demone ad alzarsi, e tranquillizzarla.
“Edith,
perché hai reagito così? Cosa succede?”
“I-Io…”
“Sì?”
“Io
sono…” e guardò Elizabeth come a cercare aiuto. Elizabeth le sorrise e continuò
per lei.
“Shameen,
la nostra amica si chiama Drusilla. Io devo averla conosciuta, mi ricordo di
lei e del suo nome. Non riesco a capire cosa faccia qui da sola, aveva qualcuno
che si occupava di lei…”
“Qualcuno
che deve averla lasciata. Vagava per le strade ed era sconvolta quando
l’abbiamo trovata.”
“Mai
pensato di avvalerti…come dire, di qualcuno di esterno, tipo uno psicologo?”
“Col
rischio che gli salti alla gola? Meglio di no. Dru non ha anima, e rimane
potenzialmente pericolosa…anche se in pratica non farebbe male ad una mosca.”
“Io
ho la persona adatta.”
“Chi?
Sono proprio curiosa.”
“Faith.
Mia coinquilina, collega cacciatrice, e psicologa.”
“Che
garanzie mi dai?”
“È
una Cacciatrice come me, e se aveva problemi ora li ha risolti diventando un
diavolo di dottoressa. Siamo diventate come sorelle, e ti garantisco che se c’è
qualcuno che può rimettere in piedi Drusilla, quel qualcuno è lei.”
“Falla
venire, ma se Faith fa qualcosa, io…”
“Tranquilla.
Vedrai, sarà la delicatezza fatta persona.”
Apparve
subito chiaro che Faith con Drusilla avrebbe fatto tutto tranne andarci piano
come avevano fatto Shameen e le altre.
“Che
pensi?” le chiese Elizabeth una volta a casa, allungandole una tazza di caffè.
“Che
qualcuno mi dicesse che le è successo. Se Drusilla continueranno a trattarla
così, hai voglia a vederla di nuovo in piedi. Non che questo sia un male,
forse.”
“Abbandono?”
“No,
il suo ragazzo lo aveva piantato proprio lei, questo lo so. Non ero distante
quando è tornato a Sunnydale ubriaco fradicio per questo, e neanche tu.”
“Dev’essere
successo dopo che ha lasciato
“Perché
io temo di sapere chi c’è dietro?”
“Dai,
per quale motivo Van Allen avrebbe dovuto farle questo? Insomma, che può volere
da Drusilla?”
“Per
le sue visioni. Drusilla vede il futuro, ma lo fa meglio se in stato
confusionale.”
“L’ha
fatta impazzire lui? Arrivando a questo stato?”
“Sindrome
post-traumatica da stress. Sommata a quella procurata dal suo sire. Ho studiato
un paio di casi, ma non li ho mai applicati…ai demoni…io non so se sono in
grado di tirarla fuori. Di scuoterla sì, però.”
“E
allora fallo.”
“B,
una domanda. Perché ti sei presa tanto a cuore la sorte di quella vampira?”
“Faith,
io non sono diversa da lei.”
“Sei
anche tu una vampira folle?”
“Sono
stata anch’io sola, in un mondo che non capivo, con solo facce estranee
intorno…spaventata a morte…”
Elizabeth
s’interruppe. Stava parlando troppo.
“Fammi
un fischio se ti serve una mano” e se ne andò.
Elizabeth
aveva visto giusto. Faith era riuscita a fare una breccia nella corazza di
Drusilla, e a instaurare una specie di rapporto. Quando era stata abbastanza
forte, Shameen aveva domandato alla psicologa se secondo lei ora era in grado
di fare del male consapevolmente.
“Shameen,
è una vampira, e ha Angelus come sire…”
“Ok,
non dire altro. Credo ci sia bisogno di un’anima.”
“Credo
che più che altro ci serva un incantesimo e un traduttore per il rumeno
antico.”
“Chiama
Elizabeth. Chissà che tra io e lei non salti fuori qualcosa.”
“E
io vi farò trovare un globo di Thesulah per la sera prossima, e avviserò Sean
di non disturbarvi se non vuole finire male.”
“Perfetto.”
Shameen
oltre che una donna di potere era anche una donna di profonda cultura. In quasi
ottocento anni di vita aveva maturato una grande conoscenza delle culture
mondiali, e parlava moltissime lingue in uso e anche dimenticate, come
l’occitanico, il latino, e con grande fortuna anche il rumeno antico.
Finalmente il rituale dei Morti Viventi aveva di nuovo una traduzione degna di
questo nome. Mentre Shameen lo eseguiva, a Buffy non poté non tornare in mente
il momento in cui Angel recuperò la sua. Non ricordava però come l’aveva persa,
o perché. Ricordava solo di averlo baciato, e di averlo ucciso…ma questo veniva
prima o dopo l’Ascensione? Angel era vivo o morto? Buffy si sorprese a essere
preoccupata di questo. Perché poi? Quando aveva ricordato che era il suo ex, si
era detta di non andare mai a cercarlo. Se era morto, il problema non si
poneva. E se era vivo…anche. Lei aveva la vita, lui la sua. Punto. Ora c’era
Drusilla che avrebbe avuto bisogno di loro, e soprattutto di Faith.
Quest’ultima era diventata la psicologa ufficiale della Lega, e aveva un giro
di pazienti che mai si sarebbe sognata: desaparecidos spaventati, demoni
depressi, Drusilla, e alle volte anche Elizabeth, Sean e Shameen. E dato che
pagavano, si era aperta uno studio tutto suo in centro dove ricevere anche altri
clienti. Accanto a lei c’era un ufficio vuoto molto grande, che nessuno voleva
perché dicevano ci avessero ucciso l’avvocato che ci lavorava. Lo disse ad
Elizabeth, che lo riferì a Sean e Shameen. Tempo ventiquattrore ed Elizabeth
lasciava il suo minuscolo studio alle porte della periferia per uno immenso in
pieno centro che avrebbe diviso con il suo nuovo socio Sean, un paio di ex
desaparecidos avvocati…e anche lo spettro dell’avvocato dello studio, che
sembrava averli presi in simpatia e ogni tanto se ne usciva con qualche idea
niente male per le cause in tribunale. Fu lui a far notare agli avvocati che
avevano un gran bisogno di informatori, ed Elizabeth ne parlò a Sean una sera
che lui la riaccompagnò a casa.
“Sean…qua
ci serve aiuto. Abbiamo gente che tiene d’occhio per noi la situazione quasi
dappertutto, ma nel sud-ovest siamo carenti.”
“Hai
qualche nome in mente?”
“Eddie,
il nostro informatore appena uscito di galera, mi ha fatto il nome di
un’agenzia investigativa che può fare al caso nostro. Angel investigations.”
“E
perché?”
“Perché
da quanto mi ha detto, il fondatore era un vampiro, quindi tutti quelli che ci
lavorano sanno dei demoni e della Bocca dell’Inferno. Meglio di così si muore.”
“E
allora telefona. Al massimo ci diranno di no.”
E
così, appena arrivata in casa, aveva preso in mano la cornetta e il numero di
telefono, e aveva chiamato.
“Angel
investigations, sono Cordelia.”
“Salve.
Sono Elizabeth Summers, chiamo da Boston.”
“In
che posso aiutarla?”
“Lei
si occupa di demoni e di investigare su casi misteriosi, vero?”
“Esatto.”
“Non
voglio parlarne per telefono. Può venire nel mio studio appena ha tempo?”
“A
Boston?”
“Mi
dispiace farle fare questo viaggio, ma la faccenda è importante e io sono
impegnata fino a capodanno 2010…”
“Ho
due colleghi che possono venire. Quando?”
“Quando
vogliono. Io sono sempre qui, o in tribunale, e comunque tempo per loro lo
troverei sempre.”
“Tribunale?
Lei è un avvocato?”
“Sì.”
“Per
chi lavora?”
“Ho
un mio studio legale. Summers & Connor.”
“Conosce
nessuno che si chiami Lilah Morgan o Lindsey McDonald?”
“Non
ho mai avuto il piacere.”
“Conosce
uno studio chiamato Wolfram & Hart, o ha mai lavorato per qualcuno che li
conosceva?”
“Non
mi pare…un momento, sì che li ho sentiti!”
“E…?”
“Hanno
cercato di usarmi come capro espiatorio. Ora gli rendo pan per focaccia.”
“Brava.
Arriveranno presto.”
“Grazie
della disponibilità, Cordelia.”
“Figurati,
Elizabeth. Credo che noi due andremo d’accordo.”
E
la profezia di Cordelia si rivelò esatta. Quella voce al telefono a cui non
poteva attribuire un volto, tranne che per la descrizione sommaria di quanto
Gunn e Fred avevano visto, diventò la sua collega, la sua amica, e gran
confidente.
<><><><><><><><><>
Gennaio
arrivò senza che nessuno se ne accorgesse, e con lui anche il 26esimo
compleanno di Elizabeth. Il giorno della festa coincise con una vittoria di
Elizabeth contro Julian, quindi tutti si sentirono euforici il doppio. Avevano
deciso di festeggiare allo studio insieme ai due avvocati e a Steven lo
spettro, ed era venuta anche Shameen con Drusilla. Era raro che dopo la
maledizione uscisse, passava sempre il suo tempo da sola nella sua stanza. Ma
c’era una persona che Buffy attendeva con molta impazienza, e quella persona
era Andrew.
Era
felice della sua vittoria, e moriva dalla voglia di condividerla con l’uomo che
reputava un secondo padre, ma era in ritardo e Buffy non riusciva a fare a meno
di avere un brutto presentimento.
Sean,
quando le portò un bicchiere di vino accanto alla porta finestra, la sorprese a
controllare la segreteria del cellulare per la ventesima volta da quando era
arrivata.
“Qualcosa
non va?”
“No…è
solo che…”
“Cosa?”
“Hai
presente quando sai che c’è qualcosa che deve succedere ma non sai quando?”
“Fin
troppo bene.”
“Allora
sai come mi sento.”
“Due
volte su tre si tratta di un falso allarme, lo sai?”
“Sì,
lo so.”
“E
allora butta giù un altro po’ di questo vinello bianco e piantala di
deprimerti. Stai illanguidendo le piante verdi che stanno accanto a te.”
Elizabeth
aveva fatto un sorriso alla battuta di Sean e aveva accettato il bicchiere che
le porgeva.
“E
io che pensavo fosse il riscaldamento.”
“Anche,
ma tu stavi dando il colpo di grazia.”
“Ti
odio.”
“Io
di più.”
“La
finite di comportarvi come due ragazzini all’asilo?” s’intromise Shameen avvicinandosi.
“Siamo
due ragazzini all’asilo, non te n’eri mai accorta?”
“Qualche
dubbio me l’avevate fatto venire…beh, fate riemergere gli avvocati, sono loro
che hanno da festeggiare stasera. E a proposito, che fine ha fatto il tuo
professore? Volevo conoscerlo.”
Elizabeth
riguardò il cellulare “Speravo mi chiamasse. Sono preoccupata…”
“È
lui il tuo brutto presentimento?”
“Esattamente.
Guardate, non ce la faccio proprio a stare qui, sono troppo nervosa. Vado da
lui, e poi faccio un salto a casa.”
“D’accordo.
Salutalo anche da parte nostra.”
“Lo
farò. Ciao ragazzi, ci vediamo domani.”
Detto
questo s’infilò il cappotto e uscì dallo studio. Appena scesa in strada, aveva
attraversato per raggiungere la stazione della metropolitana, e per poco non
era stata investita da un’ambulanza.
Aveva
guardato nella direzione in cui era diretta, e non sapeva perché ma si era
messa a correre. Corse fino a quando non la vide fermarsi accanto a due atre
persone accanto ad un uomo a terra privo di conoscenza. Andrew Lagerback.
Sconvolta,
corse accanto a lui e chiese cos’era successo.
“I
passanti dicono che ha avuto un infarto. Lei chi è?”
“Sono
sua figlia” disse prontamente. Se avesse detto di essere la sua assistente non
le avrebbero mai permesso di salire in ambulanza con lui, o di rimanere tutta
la notte accanto al suo letto.
Erano
anni che non piangeva. Le ultime volte erano state quando aveva ricordato la
morte di sua sorella minore, e quando aveva scoperto la verità su Faith. Da
allora era sempre riuscita a controllarle, ingoiandole a forza se necessario,
ma vedere così l’uomo a cui in pratica doveva la sua vita dopo il coma era
straziante. Ringraziando il cielo la mattina dopo si svegliò, ma era chiaro a
tutti e due che il tempo a disposizione era veramente arrivato alla fine.
“Lizzie,
voglio che tu faccia una cosa.”
“Qualunque
cosa, Andrew.”
“Vai
a casa mia, e portami due cose che stanno nella mia scrivania. Il mio portatile
e una scatola nera del primo cassetto.”
“Non
se ne parla. Non devi pensare al lavoro in questo momento!”
“Elizabeth,
fa come ti ho detto. Devo sistemare delle cose…cose importanti, prima che sia
troppo tardi. Ti prego, portami quello che ti ho chiesto.”
Ed
Elizabeth non riuscì a dirgli di no, anche se continuava a disapprovare che
volesse terminare un lavoro a tutti i costi. Sarebbe potuto costargli caro, ma
sembrava non importargli minimamente.
Non
gli aveva mai chiesto cosa riguardasse…ignorava che ben presto la cosa
l’avrebbe riguardata, e più da vicino di quanto non pensasse.
Quando
aveva capito che era arrivato veramente il suo momento, Lagerback mandò di
corsa a chiamare Elizabeth, e le consegnò tutta la documentazione che aveva
sistemato durante il ricovero.
“Voglio
che tu la legga attentamente, Lizzie, dalla prima all’ultima parola.”
“Cos’è?”
“Leggi
e lo saprai, piccola. Ti aspetto.”
E
Elizabeth non le so fece ripetere. Corse a casa e quasi travolgendo Faith si
precipitò al computer per vedere i CD – ROM che Lagerback aveva preparato.
Erano informazioni. Una marea di informazioni sugli Stati Uniti, Messico, stati
dell’america Centrale, e dell’america Meridionale, che comprendevano elenchi di
persone divise per stato, con elencati i loro incarichi, e i demoni della zona.
Relazioni precise e concise su tutti gli avvenimenti paranormali e su scontri
di demoni da prima che lei avesse l’incidente. Faith, che le si era avvicinata,
aveva la sua stessa espressione stupita.
“Osservatore.”
“Cosa?”
“Solo
un membro del consiglio degli Osservatori possono avere scritto questa roba.
Non ci credo che Lagerback è uno di loro.”
“Guarda,
non è finita. Ci sono dei file…file su di noi, e su due che si chiamano Kendra
M’Balagi e Adela Castillo” disse indicando quattro cartelle di file.
Aprì
quella che portava il suo nome, e rimase un’altra volta a bocca aperta. Lì
dentro c’era lei, ma non lei come persona. Lei come Cacciatrice. E la stessa
cosa valeva per Faith. Insieme poi guardarono la cartella di Kendra,
“Forse
Adela è la probabile candidata a sostituirci” disse Faith.
“Forse…ma
credo che Lagerback me lo dovrà dire.”
<><><><><><><><><>
I
entered the room
Sat
by your bed all through the night
I
watched your daily fight
I
hardly knew
The
pain was almost more than I could bear
And
still I hear
Your
last words to me.
Correndo
come delle pazze e sfidando il traffico riuscirono ad arrivare in ospedale in
un tempo relativamente breve. Mentre Faith cercava un parcheggio, Elizabeth
corse su fino al reparto di cardiologia con un tremendo presentimento nel
cuore. E quando arrivò nella stanza di Andrew, la trovò affollata da medici e
infermieri. Uno sguardo all’elettrocardiogramma, e vide che era piatto. Il
medico stringeva ancora le piastre in mano, e guardava sconsolato la linea
piatta.
“Ora
del decesso…dieci e ventitré.”
Elizabeth
rimase sulla soglia fino a quando la stanza non si svuotò. E poi iniziò a
tremare.
Heaven
is a place nearby
So
I won't be so far away.
And
if you try and look for me
Maybe
you'll find me someday.
Heaven
is a place nearby
So
there's no need to say goodbye
I
wanna ask you not to cry
I'll
always be by your side.
Qualche
minuto dopo, un’infermiera le si accostò dicendole che il medico di suo “padre”
voleva darle qualcosa per farla calmare, e una lettera che Andrew le aveva
scritto appena prima della crisi.
Appena
uscita dallo studio del dottore, Elizabeth cercò la porta delle scale di
emergenza e si sedette sui primi scalini, con in mano la lettera che voleva
leggere.
Mia
carissima Lizzie,
te
ne sei appena andata e ho paura che non farai in tempo a parlarmi un’altra
volta. Ho avuto già un paio di infarti e so riconoscerne l’inizio…ma veniamo
alle cose importanti. Spero tu abbia già visto il materiale che ti ho detto di portare
a casa, e che tu abbia capito di che si tratta. Forse Faith ti avrà detto che
sono un Osservatore. Sì, lo ero, ma molte cose sono cambiate e vorrei tanto che
tu facessi parte di quest’ondata di cambiamenti. Il lavoro non ti ha mai
spaventato, l’ho visto in tutti questi anni, e hai una grande intelligenza e
forza d’animo, oltre che un notevole coraggio. Pochi si sarebbero rialzati dopo
quello scherzo che ti hanno fatto, ma tu ci sei riuscita egregiamente, piccola.
Mi auguro che tu ora sia pronta a riprenderti il posto che ti spetta di
diritto, perché molte persone sono ansiose di conoscere la famosa Buffy Summers
e di vedere di cosa sia capace. Se accetterai, in fondo a questa lettera
troverai un numero da chiamare e le due persone che dovrai contattare.
Grazie
per aver ricordato ad un vecchio burbero cosa vuol dire avere una famiglia.
Andrew
Erano
passate due settimane, ma Elizabeth continuava ad affondare nella sua
depressione. Sembrava che niente la interessasse più. Al lavoro non si faceva
più vedere, e a casa la sua presenza era sempre più simile a quella di un
fantasma. Faith aveva cercato di parlarci, ma era un po’ difficile aiutare una
persona che non voleva essere aiutata. Va bene, si disse dopo l’ultimo
tentativo, a mali estremi, estremi rimedi.
E
le sventolò sotto il naso un biglietto aereo.
“Sai
cos’è questo, Buffy?”
“Un
biglietto aereo.”
“Esatto.
E con questo io ho intenzione di salire sul volo delle tredici e trenta della
TWA per Miami, dove terranno un seminario di psicologia criminale che durerà
quattro giorni e a cui io sono stata invitata, il che è già un miracolo di suo.
Questo sottintende che ti mollo qui, dolcezza.”
“Ti
prego, Faith non andare.”
“E
invece andrò! Dannazione, Buffy, il mondo non si è fermato con la morte di
Andrew. Dispiace anche a me che lui non ci sia più, ma non per questo ho
intenzione di lasciarmi morire! E lasciatelo dire, non è quello che lui voleva
per te, e lo sai.”
Sapeva
di essere crudele, ma quelle lacrime negli occhi di Buffy non facevano altro
che farla infuriare di più. Aveva preso la sua borsa da viaggio, e se n’era
andata lasciandola in piedi in mezzo al soggiorno, pentendosi di averlo fatto
dopo circa due passi fuori dal loro appartamento. Ma era certa di una cosa: che
quel seminario fosse una benedizione per lei, perché le permetteva di
migliorare e di essere più utile nel lavoro alle sue amiche, e per Buffy perché
bene o male, al suo ritorno la situazione si sarebbe sbloccata. Buffy avrebbe
dovuto reagire in un modo o nell’altro, e Faith sperava con tutto il cuore che
tutto andasse per il meglio.
Elizabeth
passò in stato vegetativo l’intera serata, e poi la mattina e buona parte del
pomeriggio successivo. Quando finalmente si alzò dal letto perché aveva i
crampi allo stomaco dalla fame, erano circa le quattro del pomeriggio. Aveva
aperto il frigo e meccanicamente si era ingoiata la prima cosa che aveva
trovato, un avanzo di pollo praticamente gelato. Poi era tornata nella sua
stanza, si era messa tuta e scarpe da ginnastica ed era uscita correndo. Non aveva
una meta, sapeva solo che voleva correre, sempre più veloce, fino a quando non
avrebbe sentito il cuore esplodere e i suoi polmoni farle male.
You
just faded away
You
spread your wings you had flown
Away
to something unknown
Wish
I could bring you back.
You're
always on my mind
About
to tear myself apart.
You
have your special place in my heart. Always.
Non
si accorse neanche che la giornata nuvolosa aveva lasciato il posto ad una
pioggia fitta, che le aveva inzuppato vestiti e capelli…continuò a correre fino
a quando non le si piegarono le ginocchia e crollò con le mani avanti per
evitare di sbattere il viso a terra, ferendosi ad un palmo. E finalmente si
lasciò andare alle lacrime che si teneva dentro da quando Andrew era morto.
Heaven
is a place nearby
So
I won't be so far away.
And
if you try and look for me
Maybe
you'll find me someday.
Heaven
is a place nearby
So
there's no need to say goodbye
I
wanna ask you not to cry
I'll
always be by your side.
And
even when I go to sleep
I
still can hear your voice
And
those words
I
never will forget
(Lene
Marlin – A place nearby)
Stava
ancora piangendo inginocchiata a terra, quando si accorse di un paio di piedi
fermi accanto a lei. Alzando lo sguardo, riconobbe Drusilla, che aveva messo
l’ombrello in modo che riparasse anche lei.
“Che
cosa stai facendo, Buffy?”
Non
aveva risposto, ma aveva accettato la mano che Drusilla le porgeva per
rialzarsi, e non aveva detto niente quando, ancora tenendole la mano, la riportò
a casa per evitarle di prendere una polmonite.
Mentre
Buffy si cambiava mettendosi abiti asciutti, Dru in cucina preparava una tazza
di tè, e appena arrivò in salotto gliela porse.
“Va
meglio?”
“Ti
ringrazio di avermi riportato a casa.”
“Non
ringraziarmi, avresti fatto la stessa cosa.”
“Il
mio mondo è andato in frantumi.”
“So
piuttosto bene cosa vuoi dire. Ma ce l’hai fatta a sollevarti, e ce l’ho fatta
anch’io che se permetti è tutto dire.”
“Sono
stanca, Dru.”
“Anch’io
sono stanca di lottare, ma se ben mi ricordo sei tu che mi hai tirato fuori dal
mio mondo e mi hai detto che la vita non era quella che credevo, e che non era
facile. Quindi stanca o non stanca, sono ancora qui.”
“Se
non mi azzardo a riprendermi, credo che tu, Sean, Faith e Shameen mi
ammazzereste.”
“E
faremmo bene. Non sopportiamo di vedere questa tua pallida imitazione,
rivogliamo l’originale rompiballe e pignola a cui vogliamo bene.”
Elizabeth
guardò di sottecchi Drusilla “Rompiballe e pignola?”
“E
egocentrica, insopportabile, stacanovista, e potrei andare avanti fino a
domani.”
Drusilla
l’aveva fissata con un espressione…ed Elizabeth si era trovata a ridere insieme
a lei.
“Drusilla,
ora dove vivi?”
“Al
convento di St. Agnes.”
“O
Signore. Vivi in un convento? Non avrai intenzione di riprendere i voti!”
“La
vita mondana mi piace troppo, anche se per riparare a tutto il male che ho
fatto farmi suora sarebbe la soluzione migliore per salvarmi l’anima…No, ci
abito perché ho bisogno di ritrovare un po’ quella che ero prima che tutto
iniziasse.”
“Eri
tutta casa e chiesa a sentire Sean.”
“A
differenza del mio fratellino.”
“Fratello?”
“Sono
sua sorella minore. In famiglia Sean era il maggiore, poi venivo io, e Annie.
Non immaginavo che Darla, sai, il sire di Angel, avesse vampirizzato anche lui.”
E
che mi dici di tuo fratello?”
“Che
non so chi tra lui e il mio ex sia stato il più scapestrato da vivo.”
“Non
parli molto di questo tuo ex. Sentiamo.”
“Beh,
è stata, diciamo, anche la mia prima storia. William mi voleva molto bene, ma
poi sono stata io ad andarmene.”
“Perché?”
“Ero
pazza. Ho bisogno di altre giustificazioni? Quello che facevo di solito aveva
logica, ma solo per me. E ora comincia ad essere tardi, devo tornare in
convento.”
“Dru,
sono appena…cavolo, le sei e un quarto!”
“O
sto fuori tutta la notte o rispetto gli orari. C’è il vespro, non posso
mancare.”
“D’accordo.”
“Perché
non vieni anche tu? Male non ti farebbe.”
“Non
credo di essere mai stata un tipo molto credente, comunque…va bene, vengo!”
Rimase
accanto alla porta della chiesa tutto il tempo, osservando Drusilla
inginocchiata vicino all’altare insieme alle altre sorelle, con in mano un
rosario, recitare le preghiere.
“Recitane
un paio anche per me, Dru. Ne avrò bisogno” disse uscendo silenziosamente dalla
chiesa, prima della fine del rito. Era andata sulla tomba di Andrew, per
riflettere su quello che doveva fare, e alla fine si diresse verso casa con
un’espressione determinata in volto.
Era
entrata in casa, buttando all’aria tutto nella sua ricerca di quella lettera e di
quel numero di telefono, e alla fine, una volta in mano sua, afferrò il
telefono e compose quel numero.
“Pronto?”
“Mi
chiamo Elizabeth Summers.”
“Lieta
di sentirla, miss Summers.”
L’uomo
che rispose al telefono non si curò di presentarsi, ma le disse che stava
disperando di non ricevere mai quella telefonata.
“Vorrei
parlare con Lirem.”
“Mi
dispiace, miss Summers, ma sua eccellenza non è qui al momento.”
“Allora…Daniel?”
“Comunicherò
la sua richiesta. Si aspetti una telefonata entro le prossime ventiquattr’ore
da parte mia. Le comunicherò luogo e data dell’incontro.”
“Bene.
La ringrazio.”
“Sono
io che ringrazio lei, miss Summers. A presto.”
Strana
telefonata, pensò mentre metteva giù la cornetta.
Buffy
si sorprese a fissare il telefono per più di una volta, aspettando quella
fatidica telefonata. Avrebbe tanto voluto che Faith fosse lì con lei…quando
finalmente il telefono si decise a suonare, Buffy era sotto la doccia. Appena
sentito lo squillo, afferrò un asciugamano e ancora tutta piena di sapone dalla
testa ai piedi si diresse verso il telefono, minacciando di scivolare ad ogni
passo e di rompersi l’osso del collo.
“Sono
qui!”
“La
disturbo, Miss Summers?”
“Cosa?
No, assolutamente…mi ero…mi ero assopita un momento.”
“Le
comunico che il suo contatto verrà a New York domani, alla Statua della
Libertà. Si presenti qualche minuto prima dell’orario di chiusura all’ultimo
piano del monumento.”
“La
ringrazio.”
“Le
auguro molta fortuna, miss Summers.”
L’uomo
misterioso riattaccò prima che Buffy potesse chiedere il nome di questo suo
contatto. Sapeva solo che si chiamava Daniel…ad un tratto pensò al medico che
l’aveva curata, e si mise a ridere al pensiero assurdo che potesse essere lui.
Dopo
aver realizzato in parte quanto la sua vita potesse cambiare da quel momento in
poi, fu presa dal panico. Non aveva la minima idea di cosa fare…beh, a parte
tornare sotto la doccia perché stava gelando. Dopo essersi rivestita, fece un
respiro profondo e cercò di fare le cose con ordine. Prenotò un posto sul primo
volo del pomeriggio per New York (poteva essere anche l’occasione di svolta per
la sua vita, ma tre orette di shopping da Bloomingdale le voleva passare), poi
passò in camera e passato in rassegna il guardaroba scelse cosa mettersi il
giorno dopo per questo fatidico incontro. Poi fece per chiamare lo studio per
comunicare loro la notizia, ma appena composto il numero mise giù il telefono.
Al diavolo, se proprio doveva riemergere lo voleva fare da sola.
Arrivò
alla statua della Libertà con almeno tre borse per braccio, e ogni volta che le
riguardava si sentiva rimordere la coscienza. Aveva speso senza alcun ritegno,
ma si era divertita un sacco! Ora che con lo studio andava bene, e aveva anche
altri clienti che gli onorari li pagavano eccome, finalmente il suo conto in
banca si era risollevato e lei non sentiva più la colonna sonora di “Profondo
rosso” ogni volta che guardava l’estratto conto.
Aveva
preso una stanza per una notte in un albergo del centro, e lì dopo la
scarpinata per negozi era andata a cambiarsi d’abito, e a prepararsi
spiritualmente per l’incontro con quel tale chiamato Daniel.
Fece
come le era stato detto, e circa venti minuti prima dell’orario di chiusura
salì sull’ascensore che l’avrebbe portata in cima al monumento. Era già
praticamente deserto, e sentiva riecheggiare il leggero rumore dei suoi tacchi
sul pavimento. Aveva il cuore che batteva a mille, mentre sentiva le ultime tre
persone scendere a terra. Il prossimo rumore che avrebbe sentito provenire
dall’ascensore, sarebbe stato il suo contatto. La sua mano tremava quando frugò
nella borsetta alla ricerca di una compressa di valeriana, per calmarsi un po’.
Stava per ingoiarla, quando sentì i fatidici rumori dietro di lei. Una porta
che si apriva. Dei passi dietro di lei. Una mano sulla sua spalla.
“Ciao,
Annie.”
Elizabeth
si sentì come se fosse stata colpita da un fulmine, e si voltò a fissare il
volto familiare di Daniel Hawthorne.
“Non
è possibile…”
“A
questo mondo non c’è niente di impossibile, e conoscendo Camille dovresti
sapere che è la sua filosofia di vita.”
“E
io che ritenevo assurdo che potessi essere tu…come sta Camille?”
“Ci
siamo trasferiti a Londra dopo che te ne sei andata a Boston. Le manchi tanto.”
“Anche
lei mi manca…dimmi una cosa. Tu l’hai sempre saputo che ero, vero?”
“Mi
dispiace averti mentito, Lizzie, ma non volevo sconvolgerti. Preferivamo che
ricordassi da sola, e l’hai fatto.”
“Chi
era Lagerback?”
“Era
un ex Osservatore, che sovrintendeva alla zona degli Stati Uniti, America
Centrale, e America del Sud. Faceva parte di una élite del vecchio Consiglio,
che ora è diventata il nuovo Consiglio.”
“Anche
tu ne fai parte?”
“Sì.”
“E
volete che vi entri anch’io.”
“Esatto.”
“Forse
non ti sei letto il mio fascicolo. Io e il Consiglio, da quanto ho letto, non
ci sopportiamo.”
“Le
cose sono cambiate, credimi. Il Consiglio che hai conosciuto tu è morto, Lirem
ha fatto in modo che morisse.”
“Inizia
a spiegarmi chi è questo Lirem.”
“Lo
vedrai da te. Ti vuole conoscere. E se sei d’accordo, ti voglio portare da lui
subito.”
“Dove?”
“Scozia.”
“Domani.”
“Benissimo.”
“Ci
troviamo all’aeroporto?”
“D’accordo.”
“Ma
ti avviso che non ho deciso niente.”
“Lirem
ti vuole solo conoscere, fidati. Se poi riuscirà a farti imbarcare in questa
pazza vita…beh, staremo a vedere.”
Stranamente,
durante il viaggio in aereo che l’avrebbe portata da Lirem, Elizabeth non pensò
a niente. Non era riuscita a dormire, e non voleva disturbare Daniel e le altre
persone accanto a lei accendendo una luce per leggere un po’. Si limitò a
guardare fuori dal finestrino, ammirando la miriade di stelle che brillavano là
fuori, e osservando verso l’alba il cielo cambiare lentamente colore, fino a
quando il sole non apparve nel cielo.
Rimase
in silenzio durante tutto il tragitto dall’aeroporto fino al villaggio scozzese
dove Lirem viveva. Questo la sorprese: mai avrebbe pensato che il capo supremo
del Consiglio vivesse in un posto tanto piccolo e tanto fuori dal mondo. Ancora
non conosci Lirem, però, altrimenti questo non ti sorprenderebbe più di tanto,
le disse Daniel, conducendola fino ad una rustica casa di campagna abbastanza
fuori dal villaggio.
“Ora
devi andare da sola” disse fermandosi al cancelletto d’entrata.
“Perché?”
“Perché
ti vuole a parlare a quattr’occhi senza rompiballe intorno. Parole sue.”
“Non
sono facile da convincere.”
“Questo
lo so, ma lui ti vuole conoscere soprattutto perché sei anche la famosa Buffy
Summers eccetera eccetera. Vuole sapere come hai fatto a mettere in riga il
Consiglio, farsi quattro risate…questo, in pratica.”
Le
fece cenno di entrare, ed Elizabeth non vide altra scelta se non camminare fino
alla porta e bussare.
Le
venne ad aprire un signore abbastanza anziano, dagli occhi ancora però molto
vigili e vivi.
“Posso
aiutarla in qualcosa, signorina?”
“Lirem
è in casa?”
“Dipende.
Chi lo desidera?”
“Sono
Elizabeth Summers.”
“Ah,
capisco! Devi essere Buffy.”
“Elizabeth.”
“Perché
ti attacchi tanto a un nome?” disse facendola entrare e chiudendo la porta “Sei
stata Anne Hawthorne, ora sei Elizabeth Summers, ma all’inizio di tutta questa
storia tu eri Buffy.”
“E
ora non lo sono più.”
“Non
si cambia quello che si è solo perché si cambia nome, bambina.”
“Ma
lei chi diavolo è?”
“Che
sbadato, non mi sono ancora presentato. Sono Lirem.”
Elizabeth
desiderò sprofondare quando comprese che quello che aveva davanti era colui che
aveva creato il Consiglio, e non un domestico come pensava.
“Anche
Anethe-Marit mi ha scambiato per un domestico, proprio come hai fatto tu…lo so
perché hai la sua stessa espressione.”
Anethe-Marit?
Buffy si domandava chi fosse, ma non lo chiese.
“Che
le ha detto Daniel di me?”
“Non
ne aveva bisogno. Io so tutto di te.”
“Quello
che sa anche il Consiglio, immagino.”
“No.
So per esempio che sei nata con una complicanza respiratoria, e che i tuoi
genitori andavano a pregare giorno e notte nella cappella dell’ospedale perché
guarissi. Poi a cinque anni, tuo padre ti regalò un cane, che tu battezzasti
Mirtillo nonostante i tuoi genitori volessero chiamarlo Lucky. E appena hai
iniziato a ribellarti ai tuoi genitori…mi sembra prima che Merrick venisse da
te…per fare loro un dispetto ti sei fatta fare un tatuaggio sull’anca destra,
il simbolo cinese dell’integrità. Hai sempre detto a tua madre che l’avevi
fatto togliere, ma invece ce l’hai ancora.”
Elizabeth
sentì il bisogno di sedersi, per darsi un contegno. Era rimasta a bocca
spalancata: il cucciolo, la malattia, il tatuaggio…tutto esatto. Erano cose di
cui solo la sua famiglia e lei erano a conoscenza. Stupefacente.
“Co-Come
fa…?”
“Dammi
del tu, Buffy. Preferisco.”
“Come
diavolo fai a saperlo?”
“Vedi,
sono parecchi anni che sono al mondo, e ho visto tante cose, conosciuto molte
persone. Ma tu, Anethe-Marit, Nikolai, Daniel e Aisha siete speciali. Vi ho
seguito da quando siete venuti al mondo, e sapevo che sareste stati chiamati a
fare cose importanti, e infatti siete diventati un avvocato, una ricercatrice,
un agente governativo, un medico, una professoressa universitaria. Ora ti
chiedo se vuoi aiutare me e unirti a loro.”
“Io
non voglio avere niente a che fare con il Consiglio.”
“Daniel
non ti ha detto che le cose stanno cambiando?”
“Vorrei
sapere CHE COSA sta cambiando.”
“Quando
ho creato il Consiglio avevo più o meno la tua età, e i primi Osservatori erano
maghi e streghe della mia epoca. Noi consigliavamo
“Fare
dei Cinque il nuovo consiglio…”
Elizabeth
era sempre di più a bocca aperta.
Anethe-Marit
Djessen fu la prima ad arrivare. Capelli di un biondo chiarissimo, occhi
azzurro ghiaccio, e molto alta, era la tipica bellezza nordica, e si occupava
dei paesi dell’estremo Nord come la sua nativa Norvegia, Svezia, Islanda,
Marit
lo guardò, indecisa se interpretare il tono come scherzoso o stizzito. Optò per
la seconda ipotesi.
“Scontrosetto
oggi. Camille?”
“Affari
miei, ti dispiace?”
“Preoccupato
che dica di no?” disse indicando con un cenno della testa la casa di Lirem.
“Sono
terrorizzato all’idea che dica di sì. Lei c’è vissuta sei anni in questo mondo,
e come Cacciatrice è stata fortunata a vivere tanto. Ha avuto la possibilità di
vivere una vita normale, ma se decide di scegliere un’altra volta questa
vita…Cacciatrice e membro dei Cinque, a me suona quasi come una condanna a
morte.”
“Chi
è che è condannato a morte?” esclamò un giovane che li aveva appena raggiunti,
e a cui Marit scoccò un’occhiata fulminante.
“Tu,
Nikolai, se non la smetti di rompere.”
Daniel
sorrise, guardando il perenne sorriso ironico di Nik, e gli occhi lampeggianti
di rabbia di Anethe-Marit. Se non fosse stato che la sua amica e Nikolai
Vukavich, che si occupava della sua patria, la grande madre Russia, e del Sud-Est
asiatico, si odiassero a morte, biondi e con gli occhi azzurri com’erano
avrebbero potuto benissimo essere fratello e sorella. Ovviamente, il solo dirlo
avrebbe causato a Marit un travaso di bile immediato.
“Daniel,
allora che mi dici di questa misteriosa Elizabeth?”
“Che
da quanto so di lei si potrebbe definire una tua versione leggera.”
“Oh
cielo, ci mancava anche questa” sospirò Marit.
“Marit,
per una volta nella vita, chiudi la bocca.”
La
frase non era venuta da Nikolai, ma da una donna di colore che si era
avvicinata in silenzio qualche minuto prima e aveva semplicemente ascoltato.
“Aisha,
che piacere.”
“Risparmiami.”
Daniel
la guardò sorpreso. Aisha non era tipo da rispondere così, a meno che…
“Problemi
con il volo?”
“Sudafrica
– Marocco, Marocco – Italia, Italia – Germania, Germania – Scozia. E non sto
parlando di partite dei mondiali. Alla faccia del volo diretto, sarà da un
giorno intero che sto viaggiando.”
“E
come va all’università, professoressa?” chiese Marit.
Già,
l’università. Sia lei, come Marit, avevano dovuto accantonare le loro
professioni (ricercatrice in un prestigioso laboratorio di virologia in
Norvegia e professoressa di Culture tribali africane a Città del Capo). Aisha
M’Balagi sospirò.
“Ormai
mi avranno dato per dispersa, ma dovendo sovrintendere all’Africa nera e ad un
bel po’ di arcipelaghi nel Pacifico…ringraziando il cielo prendiamo un bello
stipendio tutti e quattro.”
“Tra
non molto, saremo cinque. Elizabeth è dentro da un po’ a parlare con Lirem.”
“Non
mi dispiacerebbe se accettasse. Finalmente saremmo in maggioranza noi ragazze.”
“Male
non sarebbe” continuò Marit “Se non si rivelasse la copia esatta di Nikolai.”
“E
dov’è il problema? A me Nik piace.”
Altro
scambio di occhiata fulminante e sorriso ironico.
“Incassa
questo, vichinga.”
Marit
strizzò gli occhi e iniziò a insultarlo in dialetto norvegese stretto, conscia
del fatto che non potesse capire una sillaba.
“Giuro
che pagherei per sapere che mi hai appena urlato…occhio, Marit, con quel tic
all’occhio e la faccia rossa sei una candidata perfetta per un ictus.”
“Ti
ha detto, più o meno, perché il dialetto delle parti di Øvre Årdal non lo
capisco molto: vai all’inferno razza di elfo malefico della Siberia,
sottospecie di osservatore senza palle e spina dorsale, quanto vorrei buttarti
dentro quella tua Bocca dell’Inferno. Non sono sicuro sulla parte dell’elfo, ma
per il resto ci siamo.”
Lirem.
Con a fianco una ragazza castana che stava facendo del suo meglio per non
ridere.
“Vi
presento Elizabeth Anne Summers. E ora la nostra assemblea è completa.”
Lirem
li aveva invitati ad entrare, ma tutti avevano detto che avrebbero proseguito
per Londra, giusto per far venire un infarto a Travers e al resto dei suoi
accoliti.
“Una
scusa come un’altra per farti il terzo grado in un posto da cui non puoi
scappare, Elizabeth” disse Aisha, salendo sull’aereo privato del Consiglio
insieme agli altri.
Una
volta decollati, il secondo pilota venne da loro ad annunciare che l’arrivo a
Heathrow era previsto entro due ore, dopodiché, davanti ad un caffè una vodka o
un’aranciata iniziarono finalmente le presentazioni.
“Piacere
di conoscerti, Elizabeth, io sono Anethe-Marit Djessen, e mi occupo delle zone
a Nord.”
“Piacere…”
Nikolai
diede una spallata a Marit, che si era trovata suo malgrado a sedersi vicina
alla sua nemesi. “Guarda che ci siamo anche noi. Io sono Nikolai Vukavich,
Russia e Asia, e collaboro con la qui presente…Annette…e con Aisha.”
Il
sentir storpiare il suo primo nome provocò a Marit un certo attacco di nervi,
localizzato soprattutto sulle mani che stavano stritolando senza pietà un
bicchiere di plastica.
“Aisha
Hani M’Balagi” disse l’altra donna tendendole la mano “io sto in Sudafrica e mi
occupo del continente africano e di un imprecisato numero di isolette sparse per
il pacifico. Quelle nell’indiano se le cucca Nik.”
“E
poi vengo io, Lizzie” disse Daniel “A me tocca l’Europa e il Mediterraneo.”
“E
a me che tocca?”
“A
conti fatti…l’America. Stati Uniti, America Latina, e America del Sud.”
Da
come ne parlava, sembrava quasi si riferisse ad un villaggio di massimo cento
persone.
“E…E
me ne devo occupare da sola?”
“No,
tranquilla. Ognuno di noi si sceglie i propri collaboratori, e di solito è
meglio se sono del posto. Un piccolo consiglio.”
Quindi
se aveva capito bene, ora avrebbe dovuto cercare qualche altro pazzo come lei
per cercare di controllare la zona che le era capitata, e che avrebbe dovuto
rendere conto a lei sola.
“Già
qualcuno in mente?”
“Nessuno
della vecchia guardia. Meglio se conoscono
“Le”
la corresse Nikolai.
“Le?
Io ho sempre pensato che ce ne fosse solo una.”
“In
verità sono tre. Una a Sunnydale, una in Belize, e una in Russia, nella
Tunguska.”
“Quindi
io me ne cucco due? Non mi pare equo.”
“Io
ho in Russia una Bocca che vale le tue due, credimi.”
“Culti
tribali africani. Ora sanno che li studio, ma ho rischiato di finire scuoiata
viva almeno un centinaio di volte da alcune popolazioni.”
“In
Islanda vivono demoni come non li avete mai visti. Sanno gelare il tuo corpo
dentro e fuori, e intendo proprio trasformare in ghiaccio. Roba che se aspetti
il sole ti sciogli peggio di un ghiacciolo e di un vampiro messi insieme.”
“E
io devo vedermela quotidianamente con quelli della vecchia guardia, che non
hanno ancora capito che non li sopporto, loro e i loro consigli.”
“Oddio,
questo batte le Bocche dell’Inferno mie e di Nik, i culti tribali di Aisha, e i
demoni di Marit!”
“È
quello che dico anch’io, ma loro non mi vogliono credere…”
“Cambiamo
discorso. Tu che fai di lavoro, nel tempo libero?” domandò Marit.
“Perché,
avrò anche del tempo libero?”
“A
volte. Io sono ricercatrice in un laboratorio di virologia dalle parti di Oslo.
Un tempo lavoravo per il CDC di Atlanta.”
“Lavoretto
interessante.”
“Anche
se a farlo part – time non ci si diverte. Insomma, non fai in tempo a prendere
Ebola Zaire che devi già andare fuori dal laboratorio…”
“E
ricorda, le fiale possono rompersi e contaminare chi le maneggia.”
“Ti
ho già detto ultimamente quanto ti odio, razza di caricatura di agente
segreto?”
“Non
negli ultimi cinque minuti, dolcezza. Stai perdendo colpi?”
Marit
stava di nuovo diventando paonazza, ma contando fino a venti riuscì a calmarsi
sotto lo sguardo divertito di Nikolai.
Elizabeth
li osservava, e più quei due litigavano più si convinceva di aver già assistito
a scene del genere. O forse era stata una dei protagonisti in scene del genere?
“E
tu, Elizabeth?”
“Sono
avvocato penalista, e insieme ad un amico ho aperto uno studio legale.”
“Ho
come l’impressione che ci sia dell’altro” disse Aisha finendo la sua acqua
minerale “Dai, Liz, con noi puoi essere sincera.”
“D’accordo…il
mio socio è un vampiro con l’anima. E lavoriamo insieme alla lega di Weimar.”
“Scusa
l’ignoranza, ma da quando i vampiri si laureano in Legge?”
“Ha
trecento anni, ha fatto in tempo a laurearsi da vivo. Poi si è sempre tenuto
informato, e quando Shameen gli ha offerto il lavoro non gli è sembrato vero.”
“Shameen?”
“Shameen
El Mezrab è anche lei una vampira, ed è il capo.
“Davvero?
Fuori il nome.”
“Vincent
van Allen.”
“Caschi
male, bellezza. Allen prima di stare in America stava in Russia, e non scherzo
quando dico che lui, la mafia russa e
“Parlami
di lui, Nikolai.”
“Da
dove vuoi che cominci? Dal traffico di droga e di ragazze dall’Est, o dagli
omicidi su commissione?”
“Come
può riuscire a mantenere una facciata rispettabile? Me lo domando da una vita.”
“Non
mi dire che non sai cosa il denaro può fare.”
“Sto
cominciando a farmene un’idea.”
“Parlaci
un po’ di questa Lega di Weimar. Non l’abbiamo mai sentita.”
Elizabeth
aspettò un attimo prima di parlare, osservando i volti dei suoi nuovi colleghi.
Shameen le aveva fatto giurare che non avrebbe mai rivelato a nessuno
l’esistenza della Lega, o di come era formata, e ancora non sapeva se faceva
bene. Erano Osservatori, dopotutto.
Ma
a questo punto non lo era anche lei?
“Shameen
mi ammazza se lo viene a sapere, ma d’accordo.”
Per
il resto del volo discussero della Lega, della possibilità che avrebbero o meno
accettato una collaborazione con loro, e di quello che loro avevano definito
‘periodo di transizione.’
“Che
traducendo, sarebbe?”
“Ti
fai un bel giro del mondo, Lizzie. Vai a Oslo da Marit, poi da Nikolai in
Russia, da me in Sudafrica, e da Daniel in Spagna. Ti facciamo un quadro della
situazione mondiale, e poi vai a farti un sopralluogo della tua zona.
Soprattutto della parte a Sud.”
“Sarò
SEMPRE in viaggio tutto l’anno…dubito seriamente che rivedrò mai un tribunale…e
francamente un po’ mi dispiace. Avevo iniziato a divertirmi.”
“Credi,
anche a me piaceva insegnare, come a Daniel piaceva fare il medico e a Nikolai
lavorare per i servizi segreti sovietici, ma nessuno di noi è pentito. Anche
questo lavoro sa essere divertente.”
“Soffro
d’amnesia, fatemi un paio d’esempi.”
“Te
li faccio io. Per esempio quando becchi un demone e gli fai sputare a forza
quello che sa insieme ai denti, se li ha, o quando sei in battaglia in netta
minoranza, e vinci. Quelli sono momenti degni di essere vissuti!”
“E
ricorda che al termine come al solito ti attende una camicia di forza e una cella
dalle pareti imbottite.”
Marit.
“Cosa
c’era in quel caffè, amore? Panna e fiele?”
Marit
sorrise e non rispose. Guardò Elizabeth, per vedere come avrebbe risposto.
“O
come…?”
“O
come…cosa?”
“O
come quando sventi l’ascensione di un demone e fai esplodere il tuo ex liceo
insieme a lui e al suo esercito di demoni e vampiri?” domandò con aria
imbarazzata, cercando gli occhi di Nikolai.
Nel
sentire questo, il sorriso di Nikolai si fece ancora più ampio, Daniel e Aisha
si misero a ridacchiare, e Marit alzò gli occhi al cielo e dalla disperazione
si alzò per andare nella cabina dei piloti a chiedere quanto mancava per
Londra.
A
Londra, Elizabeth per prima cosa corse da Camille, che non vedeva da una vita,
e quest’ultima la trascinò in giro per Londra. Tanto era solo quella sera,
l’incontro con quelli della vecchia guardia che erano rimasti, e francamente
pareva solo una mera formalità.
Elizabeth
non vedeva l’ora di vedere Travers. Di lui si ricordava abbastanza bene,
specialmente del momento in cui le aveva fatto affrontare un vampiro
psicopatico che aveva rapito sua madre, e quando rifiutava di darle le
informazioni di cui aveva bisogno per combattere il suo nemico. Ora che stava
per entrare nella sala dove lui e gli altri la stavano aspettando, sentì una
sorta di eccitazione dentro di sé, insieme a una voglia matta di ridergli in
faccia. A pensarci bene, quella era la prima volta che lei entrava in un posto
con la sua nuova autorità…come membro effettivo dei Cinque…ancora non ci
credeva.
E
quando incontrò gli occhi dei vecchi Osservatori e le loro facce sconvolte, si
rese conto che non ci credevano ancora neanche loro.
“Buonasera.
Scusate il ritardo.”
“Conoscendola,
quindici minuti di ritardo sono veramente niente.”
Elizabeth
vide che ad aver parlato era stato proprio Travers. Bene, ora ci divertiamo…
“Si
chiama quarto d’ora accademico, ma forse lei non se lo ricorda…quanto è passato
dalla sua permanenza all’università? Un secolo?”
Travers
diventò paonazzo come Marit, e lei sorrise divertita, come aveva visto fare a
Nikolai.
“Portami
rispetto ragazzina. Noi rappresentiamo il passato del Consiglio, siamo la sua
memoria…”
“Noi
invece siamo il futuro, e voi signori avete fatto solo danni. Cosa che io so
bene, avendolo sperimentato di persona. Qualcuno lassù ha voluto che arrivassi
qui, e la sapete una cosa? Ne sono felice. Finalmente cambierà la musica da
queste parti.”
E
questo tappò la bocca all’Osservatore per la serata. Era furibondo perché Lirem
aveva deciso di dare a quella rediviva cacciatrice tanto potere, ma non così
stupido da dirlo apertamente di fronte a tutti e cinque. Da come gli altri le
stavano intorno, si capiva subito che a tutti piaceva. Non voleva essere lui il
primo a sperimentare cosa quei quattro avrebbero fatto per proteggerla…o cosa
avrebbe fatto lei per proteggere loro.
Come
le avevano detto, avrebbe trascorso un po’ di tempo con ognuno di loro nelle
loro zone d’influenza, e Marit tutta contenta le disse che sarebbe venuta da
lei per cominciare.
“D’accordo,
Marit, ma prima devo chiamare Boston.”
E
prepararmi alle sfuriate di Faith, Shameen, Sean e Drusilla per non essermi
fatta vedere per quasi una settimana.
Iniziò
da Faith.
“E
DILLO CHE MI VUOI MORTA, CAZZO! MA DOVE DIAVOLO ERI SPARITA? E IO CHE CREDEVO
TI FOSSI BUTTATA DA QUALCHE PONTE! E TU INVECE TE
In
un certo senso, sentire le urla di Faith le fece piacere. Mai avrebbe creduto
che un giorno sarebbe arrivata a farle la paternale sull’avvisare quando si
parte o quando si arriva.
“Non
me la sto spassando, sto lavorando. Te li ricordi i file di Lagerback, no?”
“B,
non mi sarai diventata un’Osservatrice?”
“Credo
proprio di sì…”
“MA
TI È ANDATO DI VOLTA IL CERVELLO? O TE LO SEI BEVUTO BEN SHAKERATO IN UN
BICCHIERE CON L’OMBRELLINO? NON TI RICORDI COSA HANNO FATTO A NOI QUEI DANNATI
OSSERVATORI?”
Elizabeth,
che stava chiamando da un locale dove loro cinque erano andati a spassarsela
dopo aver preso per un po’ a pesci in faccia Travers e aver discusso più
seriamente con gli altri, stava osservando Nikolai che sfidava Marit in una
gara con la vodka…e il russo era sotto di un giro a giudicare l’aria
soddisfatta di Marit. Incredibile ma vero. Daniel stava ballando con Camille, e
Aisha osservava tutta la scena ridendo.
“Credimi,
questi sembrano tutto tranne osservatori. Fidati, sono con loro in un pub a
bere birra e a prendermi una sbronza, e i due nordici si stanno sfidando ad una
gara con la vodka.”
Faith
non rispose. Buffy pensò che doveva essere stramazzata.
“Faith,
sei ancora viva?”
“B,
tesoro, dimmi che droga prendi, che la voglio anch’io.”
“Esagerata.
Sono simpaticissimi, credimi, e mi piacciono sul serio. Credo che domani
tornerò a Boston…”
“Alla
buon’ora!”
“…ma
non per restare. Dovrò ripartire entro brevissimo per Oslo.”
“OSLO?
E CHE CI VAI A PARE A OSLO?”
“Pratica.
Devo capire come funziona il gioco, prima di giocarlo, e Marit, Nikolai, Daniel
e Aisha me lo spiegheranno…almeno spero. Su Nik non ho molte speranze.”
“Shameen
ti farà uccidere, lo sai?”
“Faith,
sono io a doverti chiedere che droga prendi, così ti ammazzo lo
spacciatore…com’è che sei così paranoica?”
“Reminescenze
del corso. Più nessuno con cui parlare.”
“Ho
capito, fai leva sul senso di colpa.”
“Ovvio
che lo faccio. Non sono mica te.”
“Ti
va di venirmi a prendere all’aeroporto domani sera?”
“Non
fanno niente d’interessante né alla tv né al cinema, quindi penso di sì.”
“Allora
ci vediamo.”
“Ciao,
Buffy.”
Ok,
ora sistemiamo Shameen.
“Faith
pensava che ti fossi suicidata, e francamente anch’io. Ma dove sei?”
“Londra.”
“Giuro
che se non mi dai una spiegazione entro tre secondi sarai fortunata a vivere
un’altra ora.”
Era
calma, e questo metteva paura molto più delle urla di Faith.
“Lagerback,
il mio vecchio professore che tu non hai mai conosciuto, faceva parte del
Consiglio degli Osservatori. Le cose sono cambiate, e visto che sono
Cacciatrice mi hanno detto che se voglio posso entrare nel nuovo Consiglio, che
per altro conosco già. E francamente ne sono molto tentata.”
“Non
voglio perdere uno dei miei migliori avvocati.”
“Non
mi perderesti. Tornerei a lavorare in America, e…”
“E
non avrai tempo per
“Mi
dispiace che tu la pensi così, ma se pensi che voglia mollarti beh, sbagli. Più
che un mio capo sei un’amica, e credo che Drusilla mi pianterebbe i denti nel
collo se mi azzardassi a lasciarvi a piedi. Forse potrò svolgere meno lavoro,
ma potrai sempre contare su di me. Giuro.”
“Non
giurare se non sei certa di mantenere la parola.”
“Vedremo.”
Ora
era il turno di Drusilla e Sean. Se aveva capito giusto quel che aveva detto
Faith, lui e Dru dopo la sua permanenza in convento erano andati a vivere nella
stessa casa…non era certa di trovarli. C’era pur sempre la non remota
possibilità che si fossero già scannati a vicenda.
Drusilla
rispose al primo squillo “Chiunque tu sia grazie, mi hai evitato le ramanzine
di mio fratello…”
“Felice
di esserti utile, Dru.”
“Che?
Buffy? Finalmente! Faith ha dato di matto quando non ti ha trovato.”
“Lo
so, me l'ha gentilmente urlato al telefono circa dieci minuti fa.”
“Come
va?”
“Non
lo so ancora. Dopo che ti ho lasciato al convento ho chiamato un numero che mi
aveva dato Lagerback…e così sono andata a New York. Da New York sono finita in
Scozia e da lì a Londra.”
“E
cos’è successo, in parole povere?”
“In
pratica, sono diventata membro del nuovo Consiglio, che si compone di me e
altre quattro persone. Controllo insieme a degli altri osservatori che devo
scegliere praticamente tutto il continente americano.”
“Hai
intenzione anche di mangiare e dormire ogni tanto, Buffy?”
“Ce
la posso fare.”
“Shameen
ti uccide se le fai questo discorso.”
“Gliel’ho
fatto circa cinque minuti fa. E sono ancora viva.”
“Va
a mettere un cero al Santo Patrono delle Cacciatrici, se esiste!”
“Strano
che tu non lo sappia. Con tutte le litanie di santi e sante che reciti…”
“Spiritosa.
Senti, ti lascio, c’è quel deficiente con cui purtroppo ho dei legami di parentela
che minaccia di bruciarmi Miss Edith se non gli mollo il telefono…E LASCIA QUEL
MALEDETTO ACCENDINO, SEAN!!!”
Elizabeth
cercò di sentire meglio quel che stava succedendo. Sembrava quasi che stessero
lottando per quella bambola, fino a quando Drusilla riuscì a strappargliela
dalle mani e a tirargli un calcio da qualche parte a giudicare
dall’esclamazione colorita che aveva urlato Sean.
“Ohi…ciao,
Liz, come va?”
“Sono
io che lo chiedo a te.”
“La
mia dolce sorellina mi ha appena tirato un calcio sugli stinchi.”
“Non
stuzzicare il can che dorme, Sean.”
“Me
ne ricorderò.”
Com’è
che non mi fai la ramanzina anche tu su come sono sparita?”
“Ah,
perché, sei sparita? Guarda un po’, con tutto il lavoro che mi sono dovuto
sorbire non me ne sono neanche accorto.”
“Scusami,
è stato un comportamento infantile da parte mia, ma sentivo che dovevo farlo.”
“Meno
male che te ne rendi conto. Pensavo fossimo amici, Liz.”
“Volevo
avvisarvi, lo giuro, poi…poi non lo so. Avevo già composto il numero dello
studio, e poi ho messo giù dopo due squilli. Forse avevo paura che mi avreste
impedito di andarci.”
“O
forse ti avremmo fatto i nostri migliori auguri e ti avremmo accompagnato
all’aeroporto. Solo che non lo sapremo mai.”
“Sean?”
“Sì?”
“Ora
prometti di non uccidermi?”
“Odio
quando mi fai promettere una cosa del genere. Cos’hai combinato stavolta?”
“Torno
a Boston, ma dovrò ripartire per Oslo entro breve.”
E
gli spiegò cos’era successo nei dettagli, insieme a tutto quello che
comportava.
“Sei
pazza da legare.”
“Se
qualcun altro me lo dice, mi comprerò una camicia di forza e mi farò imbottire
le pareti della mia stanza.”
“Sarebbe
un ottimo investimento per il futuro, parlando di te. Come pensi di gestire
tutto? Lo so che sei brava, ma nessuno è così bravo.”
“Sai
che mi ha detto Lirem prima di presentarmi agli altri? ‘Ti prego, aiutami.’. io
ho risposto ‘Sai che lo farò. In cosa vuoi che ti aiuti?’ ‘Nell’impossibile.’
Io gli ho risposto ‘Farò del mio meglio.’. E dannazione, lo farò.”
“Detesto
quando fai così. T’impunti e non c’è verso di smuoverti, cocciuta come un mulo
sei. Ti serve una mano?”
“Avrò
bisogno di tutto l’aiuto che riesco a raccattare. Sempre che abbia ancora amici
disposti ad aiutarmi…”
“Che
razza di profittatrice. Ci parlo io con Shameen…non l’ha presa molto bene, vero?”
“Pensavo
volesse incenerirmi per telefono.”
“Non
sopporta le persone che le disobbediscono. Sai com’è, è abituata a comandare la
gente a bacchetta, e tu devi essere una delle poche persone che ha osato dirle
‘no’ ed è rimasta viva.”
“Come
te?”
“Esattamente.”
“Allora,
mi perdoni?”
“Ma
certo che ti perdona!” sentì Drusilla gridare dalla spalla di Sean, indizio che
doveva aver origliato buona parte della conversazione.
“E
piantala, Dru!”
“Allora,
Vostro Onore, il verdetto qual è?”
“Dichiaro
l’imputata completamente assolta. Forza, che ti vogliamo rivedere qui!”
“Ho
già il biglietto di ritorno in tasca.”
“Ottimo.
Allora ci vediamo.”
“Ciao,
Sean. Mi ripassi Dru?”
Sean
non fece in tempo a rispondere che Drusilla gli aveva già strappato la
cornetta.
“Muoviti
a tornare. Mi manchi.”
“Torno
tra poco, non mi sparire in convento di nuovo, Ok?”
“Cercherò.
Ciao!”
Elizabeth
spense il cellulare e scoppiò a ridere. Guardando i suoi amici, vide Nikolai abbastanza
ubriaco e Marit ancora abbastanza sobria, Aisha che scuoteva la testa, e Daniel
e Camille ancora persi nel loro mondo. Elizabeth decise di essere stata da sola
abbastanza e raggiunse Aisha.
“È
così che vi divertite di solito?”
“No,
è così che di solito ci facciamo buttare fuori. Marit, Nikolai, devo chiamare
la maestra o la smettete da soli?”
Nikolai
aveva la testa appoggiata al tavolo, e una Marit felice per avergli dato una
lezione si alzò dal tavolo e ridendo venne da loro.
“Anethe-Marit?
Sfidare un russo ad una gara di vodka e vincerla pure? Dicci come hai fatto.”
Marit
fece un sorriso malizioso, e dalla borsa tirò fuori quella che sembrava una
busta di un medicinale e gliela fece vedere.
“Sono
la vergogna della famiglia perché di solito non bevo. Non perché non mi
piaccia, ma perché dopo due bicchieri mi devono portare via a braccia…con
l’aiuto di questo reggo, e anche meglio di un russo, alle loro gare di vodka…”
“Che
imbrogliona…praticamente è come se ti fossi bevuta acqua fresca!”
“Cortesia
dei miei amici dottori a Oslo.”
“O
piuttosto cortesia di Sven?”
Marit
alzò gli occhi al cielo e senza dubbio mandò Aisha all’inferno in norvegese,
mentre se ne andava.
“Scusa
l’ignoranza” disse Elizabeth “Ma chi è Sven?”
“Sven
è il fidanzato che Marit non ha, ovviamente, e che piuttosto di ammettere di
esserne cotta si butterebbe da un ponte con una macina al collo.”
“Allora
spero di non incontrarlo quando sarò a Oslo. Non credo mi piacerebbe se la mia
guida improvvisamente decidesse di suicidarsi.”
Una
settimana. Al massimo otto giorni, non uno di più. Ecco quanto aveva di tempo
per far cambiare idea a Shameen sul fatto di ucciderla e per farsi perdonare
concretamente dagli altri.
Ma
prima di tutto questo c’era una cosa che ora voleva fare sul serio…e scommetteva
che appena l’avrebbe sentita, Faith avrebbe fatto i salti alti fino al
soffitto.
Faith
come sperava non aveva trovato niente di meglio da fare che venirla a prendere
all’aeroporto, e l’aveva subissata di domande. Prima di dare una risposta,
Elizabeth l’aveva gelata con una frase.
“Faith,
credo di aver bisogno di una restaurata.”
Faith
a momenti ci rimase secca. Tutte le volte che ci aveva provato a convincerla a
cambiare immagine aveva ricevuto un secco ‘no’ in risposta. E ora di punto in
bianco lo proponeva lei?
“E
chi sarebbe ad averti fatto cambiare idea visto che sono anni che ogni volta
che te lo dico fai orecchie da mercante?”
“Nessuno.
È solo che è proprio ora di un cambiamento.”
“Che
fai, torni bionda?”
“Per
carità. Sembravo una bambola!”
“Che
ne dici di provare ad andare dove vado io…sai a chi mi riferisco, no?”
Elizabeth
si era girata molto lentamente verso Faith. Certo che lo sapeva. Felipe’s. Una
volta c’era entrata per aspettare Faith, e ne era uscita sconvolta.
“Sai,
non vorrei uscire con i capelli verdi…”
“Basta
che tu dica esattamente a Felipe come vuoi uscire.”
Faith
era ovvio che moriva dalla voglia più di Elizabeth e il mattino dopo ce la
portò quasi trascinandola per strada. Una volta al cospetto di questo famoso
Felipe – un afroamericano di almeno due metri, grande e grosso, con cipiglio,
bandana e orecchino da corsaro – l’uomo le fece la fatidica domanda.
“Beh?”
Elizabeth
si guardò allo specchio, e per la prima volta da quando si era risvegliata odiò
il riflesso che lo specchio le rimandava, come aveva odiato le foto che Lirem
le aveva fatto avere di com’era prima del coma.
“Il
mio problema è che sembro troppo una fanciulla indifesa. Io so di non esserlo,
e anche chi mi conosce bene lo sa. Non sarebbe male se ora lo intuissero al
volo anche gli altri…si può fare?”
“Agli
ordini, milady.”
Faith
quando se la vide davanti due ore dopo quasi non la riconobbe. Ora i capelli
erano rossi, e perfettamente lisci, lunghi fino alle spalle. Un bel contrasto
con gli occhi verdi e la carnagione chiara. E quella luce negli occhi…
“Oh
mio Dio. È questa la nuova Buffy Summers riveduta e corretta?”
“Sì,
che io sia dannata. E ora che qualcuno provi a fermarmi!”
Quel
qualcuno, Buffy se ne rese conto, l’avrebbe incontrato quella sera. Aveva
infatti deciso di affrontare Shameen di persona.
Sapeva
che ce l’aveva con lei, e francamente un po’ di ragione ce l’aveva, ma voleva
spiegarle che voleva lo stesso continuare a lavorare per lei.
Aspettò
le sei e un quarto, ora in cui Shameen andava nella veranda della sua casa per
guardare il cielo ancora illuminato dagli ultimi raggi rimasti del sole
tramontato e per cenare in santa pace.
Suonò
alla porta dell’appartamento, e le venne ad aprire Drusilla.
“Sapevo
che eri tu. Non so sei fai bene a parlarle…”
“È
ancora così incazzata?”
“Wolfram
& Hart ci hanno tirato un brutto tiro. Pensa che ha tirato dietro A ME un
piatto di ceramica e mi ha mancato per un soffio…”
Elizabeth
deglutì nervosamente. Se alla sua adorata numero due aveva tirato dietro un
piatto, a lei cosa faceva? La scaraventava di sotto?
“Dru,
se non le parlo ora, non le parlo più.”
“Allora
auguri. Ah…belli, i capelli.”
Elizabeth
le sorrise, e facendo strada Drusilla l’accompagnò in veranda dove Shameen
stava bevendo un tè alla menta.
“Non
ti ho sentita entrare. Molto strano. Drusilla, lasciaci sole.”
Drusilla
battè una mano sulla spalla di Elizabeth e si ritirò.
“Perché,
mi avresti buttato fuori?”
“Non
è improbabile.”
“Mettiamo
le carte in tavola, vuoi? Io sono
“Lo
hai deciso da sola. È stata una tua decisione, non mia.”
“Ho
parlato loro della Lega.”
“Che
cosa hai fatto?!”
“Zitta
e ascolta. Uno di loro, che vive e lavora in Russia, conosce il nostro amico
van Allen, e sarebbe estremamente felice di aiutarci.”
“Ti
fidi di lui?”
“Abbastanza.”
“Fammi
avere le informazioni, deciderò in seguito se fidarmi o meno.”
Quello
era un tono che non ammetteva repliche. Elizabeth invece, perseverò.
“Senti,
non l’ho fatto per farti un dispetto, ma se credi che abbia poco giudizio o che
sia stupida, mi spiace davvero. Ma prima di essere il mio capo sei una mia
amica, e se basta un’incomprensione per mandare tutto al diavolo, beh, non sei
la donna che credevo.”
“Hai
finito?”
“Adesso
sì. Buonanotte, Shameen.”
Una
volta uscita Elizabeth, Drusilla andò subito da Shameen, e per la prima volta
in vita sua la vide in preda a quello che sembrava un gran dilemma.
“Perdonare
o non perdonare, questo è il problema” disse Drusilla sedendosi di fronte a
lei, e versandosi una tazza di tè.
“È
un bravo avvocato, ma è così indisponente…”
“Solo
perché finalmente ha ripreso in mano la sua vita e non ha più bisogno del tuo
aiuto? Buffy ha sempre fatto quel che voleva, e ti conviene prenderla così o
non averci più a che fare.”
“E
di te che mi dici?”
“Di
me?”
“Sono
così soffocante?”
“A
me piace. Tu e mio fratello siete la mia famiglia, ora. Liz è troppo libera per
stare alle tue regole. Ma l’hai conosciuta e sai che se ha detto una cosa,
allora la farà.”
“Ho
bisogno di tempo.”
“Non
ce ne mettere troppo.”
“Per
l’amor del cielo, Liz!”
“Aspetta
un attimo, Cordy. Ma che diavolo vuoi, Sean?”
Elizabeth
aveva deciso che quei pochi giorni che le restavano li voleva passare
lavorando, e le cose in ufficio erano ritornate come prima. Beh, quasi. Sean
ora sapeva che la sua amica non ci sarebbe più stata tanto spesso, e anche se
non voleva ammetterlo le sarebbe mancata.
Lungi
dal farglielo sapere, però, come in questo momento, quando era entrato come una
furia nel suo ufficio per una pratica e l’aveva trovata al solito al telefono
con Cordelia.
“Taglia,
dannazione! Lo sai quanto costa?”
“Che
vuoi?”
“Hai
preparato la difesa per Gutierrez?”
“Guarda
sulla tua scrivania, amore. Cosa? Cordelia, stai scherzando?”
“Fatemi
sapere quando vi sposate voi due, ok?” borbottò l’avvocato mentre usciva.
“No
che non scherzo, Lizzie.”
“Ma
pensa. Sono nata a Los Angeles, ci sono cresciuta, e sono venuta via qualche
anno fa. E in due anni dopo il coma e circa una ventina prima tutto quel lasso
di tempo non ci siamo mai incontrate?”
“Beh,
almeno non siamo state vicine di casa. Questo l’abbiamo appurato. Che voleva
Sean?”
“Rompermi
le scatole. È un avvocato con i fiocchi, ma è un gran rompiballe per il resto.”
“E
se non mi sbaglio c’è un’altra donna che condivide l’opinione…più o meno…”
“Dai!
Faith e Sean si odiano!”
“E
a proposito, come va con Greg?”
“Benissimo.
L’ho piantato.”
“OK.
Ora dimmi la versione ufficiosa.”
“Non
sopportavo più che titubasse tra me e l’ex moglie. Gli ho detto “Scegli!”, e
lui ha fatto i bagagli. Credo che in questo istante siano in viaggio di nozze
in Nuova Zelanda.”
“Capisco…conficca
un paio di spilli nel feticcio che hai a sua immagine da parte mia.”
“Se
trovo ancora un buco libero sicuro, sorella. Tu non hai certi problemi, vero
donna sposata?”
“Verissimo,
donna single. Ho un marito che è un amore, un figlio che adoro come se fosse
davvero mio, un lavoro che dopotutto mi piace da matti…una cosa ci sarebbe per
terminare il quadretto. Due chiacchiere con te di persona. Sicura di non
potere? Liz, guarda che possiamo combinare.”
“Certo,
in un’altra vita o all’altro mondo. Diciamoci la verità, Cordy, siamo due donne
maledettamente impegnate.”
“Vero.
Oh, che tardi, devo andare a prendere il bambino. Oggi io e mio marito
festeggiamo l’anniversario. Non ho la più pallida idea di cosa abbia preparato,
e questo mi spaventa.”
“Uhm…Anniversario.
Lui che ti fa sorprese. Auguri. Credo di essere allergica ai rapporti a lungo
termine.”
“E
che tra non molto sarà ancora più saldo…aspetto un bambino, Elizabeth!”
“Oh
mio dio! Congratulazioni! E tuo marito lo sa?”
“Beh,
è il mio regalo per stasera.”
“Lo
sfido a fare di meglio. Questo rapporto minaccia davvero di essere per sempre.
Sei fortunata, Cordy, sono felice per te.”
“Per
sempre. È proprio questo il bello. Ciao!”
Elizabeth
era rimasta con la cornetta in mano.
*“Per
sempre. È proprio questo il bello…”*
Dove
aveva già sentito questa frase? Forse era stato Angel a dirgliela. Insomma, se
era lui ad averle donato il claddagh…Ripensò a quello che Lirem le aveva detto
su di lui durante il loro incontro. Un vampiro con l’anima di circa 250 anni,
che aveva ricevuto la chiamata ad aiutarla e che si era innamorato, ricambiato,
di lei. Aveva letto le informazioni che le aveva dato, sempre non riuscendo a
credere che quella storia degna di un romanzo d’amore fosse proprio successa a
lei. Una storia triste, visto che era finita e lui se n’era andato. Le avrebbe
anche detto dove si trovava ora, ma Elizabeth non vedeva il motivo di piombare
nella vita del suo ex per chiedergli aiuto. Ce l’avrebbe fatta da sola.
<><><><><><><><><><><>
E
ce l’ho fatta, da sola, si disse mentre volava verso Mosca, ultima tappa del
suo viaggio. Tremava al pensiero di quello che avrebbe trovato…
Alla
fine, una volta arrivata a Oslo, aveva trovato la sorella di Marit, Anouk, che
le chiedeva di scusare la sorella, ma che dei problemi l’avevano trattenuta e che
insieme alla sua equipe stava lavorando alla decontaminazione del laboratorio.
Quello, più la quarantena, l’avrebbe tenuta occupata per un pezzo, e Daniel si
era offerto di badare a lei. Più che un soggiorno di studio era stata una
rimpatriata tra vecchi amici. Era ritornata seria quando era andata da Aisha,
in Sudafrica, dove la donna combatteva ogni giorno contro i pregiudizi
razziali, oltre che contro demoni, vampiri e osservatori, e si era rilassata di
nuovo quando era tornata ad Oslo. Marit era scampata al contagio di un virus di
Secondo Livello, e si era presa le sue tanto sognate ferie dal Consiglio e dal
laboratorio per stare con Anouk, suo marito Haakon, e i nipoti Annika, Martha,
Olaf e Sven.
A
Buffy quasi dispiaceva di doverli lasciare, ma rimaneva ancora Nikolai.
Anethe-Marit,
Haakon e Anouk l’avevano accompagnata all’aeroporto per prendere il volo per
Mosca. Marit non era stata zitta un solo secondo, a furia di fare
raccomandazioni a Elizabeth su Nikolai.
“Nikolai
è un ex del KGB, non so se mi spiego…e viene da una famiglia di quelle che te
le raccomando.”
“Perché?”
“Secondo
te come fa a sapere così bene chi ha contatti con la mafia e chi no? La sua
famiglia. Lui si è chiamato fuori da anni, ma questo non vuol dire che lo hanno
fatto anche i suoi parenti. O la sua ragazza. Tatiana è pazza quanto lui.”
“Terrorista?”
“Ladra
per vocazione e sicario dei servizi segreti. Pensa a Nikita, solo mora e un po’
più gelida.”
Se
quello che stava dicendo aveva lo scopo di farle venire paura e di tornare in Norvegia
o in Inghilterra a tempo di record, era fiato sprecato. Nik le piaceva, ed era
curiosa di conoscere Tatiana.
“A
proposito di Tatiana” fece Anouk dal sedile davanti “Nikolai se la sposa o no?”
“Sono
proprio curiosa di vedere se ce la fa, sorellina.”
“Io
credo che sarà comunque entro l’anno. Dopo l’ultima volta che hanno rotto, mi è
sembrato di capire che stavolta poteva essere la volta buona. E così al nostro
Nik rimane poco tempo per fare l’allegro scapolo…”
“Sempre
troppo, per la mia pace di spirito” borbottò Haakon.
Anouk
stralunò gli occhi e sorrise “Dio, una volta è venuto da noi. Una. E non è
successo niente perché quando è arrivata Marit a momenti lo inseguiva sotto la
neve menandolo con la scopa!”
“Vorrei
conoscere la donna che non cadrà ai piedi di quel russo, ammesso che esista.”
“Haakon,
dolcezza, sei in macchina con tre donne di questo tipo” disse Anouk, e tutti
scoppiarono a ridere.
Noticina
ina ina: il personaggio di Tatiana Ulanov non è mio. Il nome sì, come la sua
nazionalità, ma per il resto (storia, spada, circostanze e nom-de-guerre) è
tutta farina del sacco del grande Quentin Tarantino.
Non
vedeva l’ora di scendere dal volo. Letteralmente. Un po’ per la curiosità di
vedere quanto di quello che aveva detto Marit fosse vero, un po’ per lasciarsi
alle spalle la compagnia russa con cui stava viaggiando, e che mai avrebbe
avuto il piacere di riaverla a bordo.
Guardò
sconsolata la zona passeggeri, completamente vuota, e si domandò dove diavolo
fosse Nikolai, dato che aveva promesso che sarebbe venuto a prenderla.
Con
quel poco di russo che le aveva fatto apprendere Marit riuscì a prendere un
taxi fino alla casa di Nikolai. Vuota anche quella.
“Nikolai,
giuro che ti ammazzo, appena riesco a metterti le mani addosso…”
Però
fuori aveva iniziato a nevicare, e francamente non aveva voglia di uscire con
quel tempo. Quel che fece invece fu accendere il fuoco, e ci si mise davanti
con una coperta sulle spalle. Nikolai, aveva scoperto, si era dimenticato di
pagare il riscaldamento un po’ troppe volte.
Idem
per la corrente elettrica.
Elizabeth
aveva appena iniziato a scaldarsi, quando sentì dei rumori che provenivano
dalla porta.
La
porta si spalancò con una pedata.
“Perché
siamo qui? È chiaro che
“E
invece qualcuno c’è.”
“Come
fai a dirlo?”
Boris
si chinò per osservare i ceppi di legno, e sfiorandoli si accorse che erano
bagnati. Bagnati, ma come indicava il calore che ancora c’era nella stanza,
dovevano essere stati spenti frettolosamente e da poco.
“D’accordo,
Sposa, esci e non ti faremo del male. Goran ti vuole solo parlare.”
Sposa?
Goran?
Elizabeth
si appiattì ancora di più contro il muro, sempre osservando i due uomini
entrare in casa e cominciare a cercarla.
Devo
andarmene da qui e subito, si disse, ma come?
Distolse
un attimo lo sguardo da quello che si chiamava Boris, e l’attimo dopo se lo
ritrovò a tre centimetri dal suo viso.
“Ciao,
Sposa.”
Prima
che se ne potesse rendere conto, Boris la colpì allo stomaco, facendola cadere
in ginocchio, e con un colpo secco alla nuca le fece perdere i sensi.
“Siamo
sicuri che sia lei?” disse l’altro uomo avvicinandosi ad Elizabeth, legandole
mani e polsi, e perquisendola alla ricerca di armi.
“È
abile a camuffarsi…ma come pensavo alla fine ha iniziato a ragionare come una
donna innamorata, ed è stata la sua rovina. Forza, drogala e portiamola via.
Goran credo voglia ucciderla di persona, e poi occuparsi del pretendente numero
due.”
C’era
qualcosa di confuso sopra la sua testa, che Elizabeth non riusciva a
distinguere…poi iniziò a delinearsi lentamente la faccia di Nikolai.
“Nikolai…che
sta succedendo?”
Nikolai
aveva un’espressione estremamente dolente.
“Mi
dispiace Elizabeth di averti tirato in mezzo a questo casino, ma…”
Elizabeth
si alzò lentamente in piedi, aiutata dal ragazzo, e cogliendolo di sorpresa gli
tirò un pugno che lo fece barcollare contro il muro.
“Ti
dispiace? Ma si può sapere che hai in testa per farmi venire in questa bolgia?
Rapimenti, questa prigione…”
“Posso
spiegarti.”
“Lo
spero proprio, dannazione!”
“Mi
sono confuso e pensavo che arrivassi…ehm…la settimana prossima.”
Elizabeth
d’un tratto non si sentì le gambe, e dovette appoggiarsi al muro incerta se
ridere, piangere, o pestare Nikolai a sangue.
“Beh,
almeno spero mi spiegherai chi è questa Sposa, visto che mi hanno scambiato per
lei.”
“
“Sì.”
“Tatiana.”
“La
tua fidanzata?”
“Sì.
Tatiana Ulanov. È lei
“Perché
si chiama così?”
“Per
non dimenticare. Lei era un sicario su commissione, con un padrino
iperpossessivo. Il giorno che aveva deciso di lasciare quella vita per l’uomo
di cui si era innamorata, Goran è arrivato in chiesa, e ha ucciso tutti: il
prete, l’organista, i testimoni, e anche il suo futuro marito. Poi quando è
arrivato a lei le ha tirato un colpo, alla testa…nonostante sapesse che era
incinta, e che il bambino era suo. Ha passato cinque anni in coma, e da quando
si è risvegliata sta inseguendo la sua vendetta. ‘
Nikolai
sembrava soffrirne, ed Elizabeth mai avrebbe immaginato che la famosa Tatiana
con cui tanto spesso litigava al telefono e con cui si mollava e si rimetteva
insieme un sacco di volte, fosse una donna tanto complicata.
“Credo
che al suo posto io farei lo stesso. Dev’essere una cosa orribile perdere
l’uomo che ami e un bambino nello stesso momento…Dov’è ora?”
“Spero
lontano da qui. Goran è l’ultimo sulla sua lista, ma sa che lei lo cerca…perché
credi che io sia qui, altrimenti?”
La
porta di quella cella si aprì, ed entrò uno un uomo all’apparenza di etnia
slava sui quarant’anni, seguito da Boris. Conversavano in russo molto
velocemente, ed Elizabeth riusciva a cogliere solo qualche frammento di frase,
ma capì che Boris stava indicando lei come ‘
Goran
le lanciò una lunga occhiata, e poi parlò in inglese in modo che tutti
capissero.
“Tatiana
ha i capelli lunghi e neri, e occhi blu scuro. Lei ha gli occhi verdi e i capelli
rossi. La buonanima di mia madre aveva proprio ragione. Se vuoi una cosa fatta
bene” disse sollevando una pistola all’altezza della testa di Boris “falla da
te.”
Boris
iniziò a tremare di paura mentre Goran stringeva il grilletto dell’arma sempre
più forte…
Il
colpo non era in canna.
Boris
si rilassò.
Goran
sorrise e lo uccise con il proiettile successivo.
“Roulette
russa, amico mio…non pensate anche voi che sia un bel modo di sfidare la
sorte?”
Elizabeth
non proferì parola, e neanche Nikolai. Aveva sempre pensato di morire per mano
di un vampiro, o in quel palazzo che era crollato, o per causa di Julian Turner
e Vincent Van Allen, ma mai per mano di un uomo del genere e della sua pistola,
che ora puntava proprio dritto su di lei.
“Sarei
scortese ad ammazzare questo qui prima di te. La cavalleria m’impone di
iniziare dalle signore. Quindi, mia bella sconosciuta, credo proprio che
inizierò da te.”
“Non
la toccare!” ruggì Nikolai, facendo per proteggerla, ma d’un tratto Goran
impallidì di colpo.
Davanti
al suo collo c’era la lama di una katana, lucente e affilatissima, a distanza
forse di un millimetro dalla pelle.
“
“Non
farmi perdere la pazienza, Goran. E lascia subito andare i miei amici.”
“E
se non lo faccio?”
Tatiana
sorrise. Un sorriso gelido.
“Allora
morirai, ma avvelenato dalla mia lama. Non è un kriss malese, ma temo che ti
dovrai accontentare.”
Goran
aveva lasciato cadere la maschera di sicurezza. Che le credesse o meno,
cominciava a temere qualcosa.
“I
miei uomini…”
“Non
era il loro giorno fortunato. Hanno incontrato me. E tu, Goran, dimmi, ti senti
fortunato oggi?”
La
lama della spada della Sposa si era fatta ancora più vicina al collo, ferendolo
leggermente e lasciando uscire qualche goccia di sangue.
Tatiana
sorrise soddisfatta del terrore dell’uomo, che si stava domandando se bastava
quel minimo contatto ad avvelenarlo.
“Lascia
subito andare i miei amici” ripeté, e stavolta Goran, facendo attenzione alla
spada, annuì velocemente.
“Fuori,
voi due! Subito!”
Elizabeth
uscì per prima, desiderosa di lasciarsi l’esperienza alle spalle.
In
fondo al corridoio si accorse che Nikolai era ancora vicino a Tatiana.
Parlavano.
“Tatiana,
ti prego.”
“Va
via, ho detto. Porta la tua amica lontano da qui.”
“Non
lo fare.”
“Non
sarai tu a fermarmi. Vattene, o assisti, a te la scelta.”
Nikolai
si voltò, e portò Elizabeth fuori dal palazzo abbandonato in mezzo alla neve.
Aveva un’espressione indecifrabile in volto.
Poi
un urlo agghiacciante e il sibilo di un fendente calato velocemente li
raggiunse.
Si
erano fermati di colpo, si erano voltati verso la porta da cui erano usciti, e
avevano aspettato che facesse la sua comparsa Tatiana. Finalmente Elizabeth
riusciva a distinguere chiaramente in viso della donna. Era molto bella, con i
capelli neri ricci, gli occhi scuri, e un incarnato color avorio.
Sembrava
sull’orlo delle lacrime, il suo sguardo completamente assente mentre veniva
verso di loro con in mano la sua spada grondante sangue, che tingeva di rosso
la neve immacolata.
Nikolai
l’aveva guardata fissamente, mentre lei si avvicinava a lui.
“Tatiana?”
“Goran
è morto.”
“Lo
so.”
“Gavrilo
e Larissa sono vendicati.”
“Sì,
Tatiana.”
Per
un istante sembrava sul punto di cedere alle lacrime che volevano uscire dai
suoi occhi, ma lo sguardo di Tatiana riprese subito l’abituale freddezza,
cancellando quella possibilità.
“Dobbiamo
andarcene subito da qui.”
I
tre avevano preso la strada per la casa di lei. Elizabeth non sapeva bene che
aspettarsi. Tatiana era un sicario su commissione, che da quanto era visto era
gelida e vendicativa, e pensava che la casa rispecchiasse in pieno il suo modo
di essere. Non pensava all’appartamento caldo e accogliente dove li portò.
Nikolai
appena entrato afferrò la bottiglia di Whisky e bofonchiò che si prendeva un
paio di bicchieri di liquore e poi andava a dormire, dopodiché lasciò le
ragazze da sole e imbarazzate in soggiorno.
“Ehm…Elizabeth?
È così che ti chiami, giusto?”
“Giusto.”
“L’orso
ormai sarà in letargo, dubito che lo rivedremo fino a domattina. Caffè?”
“No,
credo di essere già abbastanza nervosa.”
“È
colpa mia, mi dispiace. Ti hanno visto nella casa di Nik, e hanno pensato fossi
io.”
“
“Nikolai
ti avrà spiegato le ragioni del mio soprannome.”
“Sì,
mi ha raccontato la storia.”
“Non
elemosino comprensione o pietà. E non mi pento della mia vita.”
“Non
ti volevo compatire. Dico solo che ci vuole un bel coraggio.”
“La
vendetta. Essa comanda, e uccide. E Goran meritava di morire.”
“Lo
penso anch’io. E questa filosofia vendicativa da dove viene fuori?”
“Dalla
mia gente. La mia famiglia è di origine rumena e i miei bisnonni erano zingari
Calderash. Il mio clan crede nella vendetta, e se non lo avevo capito prima, di
sicuro l’ho capito ora.”
“Calderash?
Gli stessi Calderash che…”
“Che
cosa?”
“Conosci
un certo Angelus?”
“Come
posso non conoscere il nome del vampiro che ha ucciso la guaritrice della
tribù? E tu, come lo conosci?”
“Dopo
la maledizione, io l’ho conosciuto. Per colpa mia, mi è stato detto, ha perso
l’anima ed è ritornato malvagio…e l’ho ucciso, spedendolo all’Inferno.”
“Ora
vive a Los Angeles, in cerca di redenzione da quanto ne so. Ma non m’importa di
quello che fa.”
“Sposerai
“Non
so se sposerò mai qualcuno, ma se dovessi farlo, credo che sposerei Nikolai.”
“È
una mia impressione o non mi hai risposto?”
Tatiana
sorrise, enigmatica, e alzandosi dal divano accompagnò Elizabeth nella sua
stanza.
Al
mattino dopo, era già sparita. Elizabeth e Nikolai fecero ritorno a Mosca da
soli, e finalmente Nikolai iniziò a spiegarle cosa voleva dire lavorare in
Russia in bilico tra gli ex colleghi del KBG, i contatti della mafia, e il
Consiglio. Elizabeth però non lo stava ad ascoltare. Pensava a Tatiana. E
sperava di rivederla.
Come
aveva immaginato, Nikolai le parlò molto velocemente di quello che combinava in
Russia, e per il resto del tempo la portò in giro per Mosca, e presa poi
“Io
mi fermo qui, Liz. Tu ora prendi l’aereo e te ne torni a casa.”
“Capirai
se ti ringrazio solo per questa parte del soggiorno. La permanenza in quella
cella non è stata edificante.”
“Tatiana
mi ha detto di dirti che le dispiace, ma che ora che è ritornata in seno ai
servizi segreti ti terrà lontano tutti quelli che potranno romperti le balle.”
“Ringraziala
da parte mia.”
“Fallo
tu” disse dandole un foglietto di carta “qui ci sono il suo numero di casa,
l’Iridium, e il suo numero privato in ufficio. Ha detto di farle un fischio se
hai bisogno di una mano.”
<><><><><><><><><><>
“Ragazze,
vi rendete conto che siamo tutte senza un fidanzato degno di questo nome?”
Era
stata Faith a parlare, ovviamente. Era quella che più lo cercava a dire il
vero, ma tutti la stufavano dopo un paio di settimane. Il rapporto più lungo
era durato un mese, cinque giorni, tre ore e una manciata di minuti. Elizabeth
aveva cronometrato il tempo. Tanto non aveva molto altro da fare, anche lei era
sola, ma non perché non avesse uomini che le facevano la corte, ne era piena.
Ogni volta che trovava qualcuno però, trovava sempre un dettaglio che le faceva
ricordare Angel, o uno dei due ragazzi che aveva avuto al college e che
ricordava solo per essere rimasta scottata dalle relazioni che aveva avuto con
loro. E aveva iniziato a piantarli, immancabilmente dopo averli sedotti. Era
come prendersi una rivincita dopotutto, e la cosa aveva iniziato a divertirla.
Era
tornata dalla Russia da appena un giorno, che subito i suoi amici avevano
organizzato una serata da passare insieme. Amici…che bella invenzione, si disse
mentre sprofondava nel divano e si apprestava a rispondere a Faith.
“Perché,
esistono ancora uomini degni di questo nome?”
“Buff,
tu sei anche troppo critica riguardo agli uomini. Ci vedi sempre qualcosa che
non va…cerca di accontentarti.”
“No,
non lo farò. Troverò il mio principe azzurro…”
“Principe
azzurro?” ripeté Drusilla, sul punto d’ingoiare un’enorme cucchiaiata di gelato
al cioccolato.
“Che
c’è di male?”
Drusilla
cercò di inghiottire in fretta, ma stava rischiando di soffocare dalle risate.
“Proprio
tu usi la definizione principe azzurro?!”
Faith
le tirò un cuscino in faccia “Ma ci credi alle stronzate che dici?”
Elizabeth
le restituì il colpo “In tre anni prima del coma ho avuto quattro fregature, di
cui due da parte dello stesso uomo. Dopo il coma avrò avuto un paio di
relazioni, e sono finite male. Non ho perso le speranze di trovare uno che mi
vada bene, ma se ora come ora preferisco star sola a leccarmi le ferite, ed
essere io a dare fregature, che male c’è?”
“Prega
di non dare una fregatura a quello giusto” le disse Drusilla passandole il
barattolo di gelato.
“È
l’esperienza che parla?”
“Anche
se comincio a credere di sbagliarmi. Aveva perso la testa per te pure lui,
tanto per cambiare. Lui diceva di odiarti, ma continuava ad essere ossessionato
da te. Lo amavo, era pazza di lui, ero certa che fosse il mio destino…ma Dio
Onnipotente, era diventato una lagna. O lo piantavo o l’ammazzavo.”
“Sai
se si è ripreso?”
“Per
quanto mi riguarda, potrebbe anche esserselo ingoiato
“Amen,
sorella. Allora il fatto del convento vuol dire quello che pensavo.”
Elizabeth
si beccò un’altra cucinata, stavolta da Dru “Ma sta un po’ zitta!”
“E
qual è il problema dei vampiri etero di questo posto?”
“Che
non ne ho ancora trovato uno! In compenso però ho trovato due amici gay
fantastici.”
“Contenta
tu.”
“Ma
questo film quando inizia?”
“E
voi quando la finirete di fare questi discorsi da harem? Guarda, stai a vedere
che l’hanno cambiato all’ultimo momento. È in queste occasioni che sento la
mancanza del caro vecchio cinematografo. Questi network…quanto li detesto.”
Le
ragazze si erano voltate verso la cucina, dove rimaneva l’ultimo membro del
gruppo che aveva appena parlato.
“Vuoi
una mano?”
“Ce
la faccio! Non ho secoli sulle spalle per niente!” protestò Sean uscendo con
un’enorme ciotola di pop corn su un braccio e un cartone con quattro birre
nell’altra.
Ad
ogni modo Drusilla si era alzata di corsa per aiutare il fratello “Dammi qua o
farai una caduta epica.”
“OK…cosa
dovevano dare, Faith?”
“Qualcosina
di classico…l’Esorcista.”
“Che
bastardi.”
“Eh
già.”
“Ragazze…ci
riguardiamo il Silenzio degli Innocenti? Di ritorno dal viaggio ho preso anche
Hannibal e Manhunter…che dite, ce la facciamo una maratona in onore di Hannibal
Lecter?”
“Speravo
lo dicessi.”
Aveva
fatto per alzarsi e prendere le cassette, quando il suo telefono cellulare
aveva iniziato a squillare.
“È
Cordelia. Chissà cosa c’è, ci siamo sentite in ufficio neanche due ore
fa…Pronto?”
“Liz,
ciao. Ho bisogno di aiuto.”
“Cordy,
che c’è? Problemi?”
“Direi
proprio di sì. Ho un’amica…un’ex compagna di liceo. L’hanno accusata di
omicidio.”
“Omicidio?”
“Ti
giuro che è innocente! Willow non farebbe male ad una mosca. Angel…mio marito,
si è offerto di fare qualche indagine, ma la questione di fondo è che ci serve
un avvocato penalista. Sei l’unica che ci può aiutare.”
“Lo
sai anche tu che non amo quei casi. I desaparecidos…”
“Ti
prego, Liz. L’altro punto che mi fa dire che sei perfetta, è che Willow è una
strega…e quello che è morto è stato trovato in un posto dove si dice si ritrovi
chi pratica la magia nera. Aiutami a tirarla fuori dai guai…”
“D’accordo,
Cordelia, verrò a Los Angeles.”
“No.
Willow vive a Sunnydale.”
“Sunnydale?”
Di
nuovo aveva i brividi. Perché poi? Sapeva che c’era
“So
che non ti è mai andata di venire quaggiù, ma ho veramente bisogno di te, e…”
“Accetto.”
“…e
Willow ha tanto bisogno d’aiuto, lei non lo merita…scusa che hai detto?”
“Che
accetto. E fa presto a dirglielo, prima che cambi idea.”
Quando
rimise giù il telefono, fece un respiro profondo e si preparò a dirlo ai suoi
amici.
“Mi
ha chiamato la mia investigatrice a Los Angeles, ha bisogno di un avvocato e io
sono l’unica abbastanza brava.”
“Che
ha fatto? Ha ammazzato qualcuno?”
“Non
lei, una sua amica. Dice che l’hanno incriminata ingiustamente…vedremo. Tu e
Shameen mi ammazzate se vado a Los Angeles per il processo?”
“Richiameremo
qualche ex desaparecidos, non farti problemi.”
“E
poi era ora che tu tornassi ad affrontare il tuo passato…mi dispiace di non
esserci…anzi, Faith, perché non vai con lei?” disse Drusilla.
“Dai,
non è necessario.”
“Sì,
invece. Ti eviterò di fare gaffe del tipo dare del lei a una persona che
dovresti conoscere.”
“D’accordo…ma
sei sicura? I miei amici mi pare di aver capito che sarebbero felici di vederti
spellata lentamente da viva e fatta a pezzettini da morta.”
“Lo
vedi cosa mi tocca fare per tenerti fuori dai guai?”
“Senti
da che pulpito…”
Beh,
prima di partire c’erano alcune cosette da fare, ovvero chiamare Marit, che
stava in Canada, e Nikolai, che in quel periodo sorvegliava Vladivostok (e un
sospetto traffico d’armi), e dire che se potevano buttare un occhio per lei sul
Nord degli Usa non sarebbe stata una brutta cosa. Non fidandosi di Sean, avvisò
di persona Shameen, anche se la cosa si ridusse ad un monologo con la
segreteria telefonica. Chiamò i suoi capizona e li avvisò della sua partenza,
chiamò quelli del Sud, e li avvertì del suo arrivo, e quando alzò gli occhi per
dire a Sean che partiva il giorno dopo si accorse che lui e Drusilla erano
andati via da un pezzo e che Faith si era addormentata sul divano.
Mentre
Faith dormiva, Elizabeth si preparò spiritualmente a quello che doveva
accadere.
Che
ricordava esattamente di Sunnydale?
Ci
era andata a vivere con sua madre, ma non ricordava di aver avuto Dawn intorno
almeno fino all’università…forse prima viveva con loro padre. Poi ricordava
Angel, la loro storia, aveva letto di Angelus e di come l’aveva ucciso, poi
c’era un vuoto fino al momento dell’Ascensione, e poi dall’Ascensione fino a
quando si era risvegliata nel letto di ospedale. Aveva letto quello che le era
successo, i nomi dei suoi amici di prima, ma non le dicevano assolutamente
niente.
Di
quel periodo aveva solo brandelli minuscoli di ricordi, flash che apparivano e
sparivano altrettanto velocemente. E quando non erano brandelli di immagini,
erano fitte lancinanti, che le facevano venire voglia di urlare dal dolore.
Stare
alla finestra a torcersi le mani non era esattamente la sua idea di trascorrere
il tempo fino all’ora del volo, così si diresse in camera e iniziò a preparare
una borsa. Non contava di stare in California per molto…di solito riusciva a
cavarsela velocemente, e comunque si sarebbe trattato solo di un sopralluogo.
Almeno sperava.
Finita
la borsa, si sedette sul letto e tirò fuori dal cassetto la confezione di
sonniferi che teneva nascosta a Faith ormai da una vita, prendendo dal
contenitore due pillole sperando che bastassero a calmarla. Una volta sotto le
coperte giocherellò un poco con il cristallo nero che portava al collo, e poi
si addormentò.
Faith
dovette urlare per svegliarla il mattino dopo, e mentre stava seduta in cucina
di fronte ad un bel caffè forte Faith correva da un lato all’altro della casa
per preparare i suoi bagagli.
Più
passava il tempo, più si convinceva che tornare era una cosa assolutamente
sbagliata. Insomma, aveva la sua vita, i suoi amici, ricordi del passato in
numero ragionevole…che gliene fregava di quattro che aveva conosciuto al liceo
e di cui non ricordava né nomi né facce?
Ma
c’era questa Willow, amica di Cordelia. E lei non aveva mai lasciato un amico
nei guai, per nessuna ragione. Cordelia aveva un problema, e lei l’avrebbe
aiutata a risolverlo.
Era
ancora in parte sotto l’effetto di quei sonniferi quando salì sull’aereo, tanto
che si addormentò di schianto appena appoggiata la testa sullo schienale del
sedile.
Quando
riaprì gli occhi, davanti a lei c’era Faith che la scuoteva dicendole che era
ora di slacciare la cintura. Erano arrivate a Los Angeles.
“Di
già? Cavolo, ma abbiamo preso il Concorde?”
“No,
ma tu ti sei fatta dormendo tutto il viaggio. Perlomeno sarai sveglia quando
incontreremo la tua cliente.”
“E
dove dobbiamo incontrarla, di grazia?” disse soffocando uno sbadiglio e
stiracchiandosi braccia e gambe, preparandosi a scendere.
“Sunnydale.
Magic Shop. I proprietari sono Rupert Giles e Anya…ti dicono qualcosa questi
nomi?”
“Faith,
piantala di fare la psicologa e di usare questi giochini, e dimmi quello che
sai.”
“Giles
è il tuo ex Osservatore. Inglese, palloso, e troppo inquadrato per i miei
gusti. Anya è una ex demone della Vendetta, che si chiamava Anyanka…” disse
Faith, spingendo Buffy giù per la scaletta mentre portava i bagagli a mano.
“Questo
nome già mi dice qualcosa…”
“Ci
avrei scommesso.”
“Quindi
ora è umana…sfido che quando la invocavo per i miei ex non veniva!”
“Lo
sai che sei da ricovero?”
“Perché,
tu no?”
“Io
sono un caso a parte, dolcezza. E ad ogni modo, non ho mai invocato un demone
per vendicarmi di un ex…mi è bastato vedere come ti sei arrangiata tu. A Greg
sarà poi venuta via quella scritta fatta con la vernice nera che gli hai
lasciato sulla schiena quando l’hai mollato?”
“Boh…non
che me ne freghi. Non mi piace essere tradita, e credo che ora lo sappia anche
lui…”
“Fin
troppo bene.”
“Andiamo
dirette a Sunnydale o alloggiamo a Los Angeles?”
“Sunnydale.”
“Ci
sono alberghi decenti a Sunnydale? E prima che tu parli, no, lascia perdere il
tuo motel.”
“Col
conto spese che ci ritroviamo in due ce la potremmo comprare quella topaia. Ora
ti dico cosa cerco: un quattro, anzi meglio cinque stelle, bello, con camere
grandi, e il servizio in camera…e un massaggiatore somigliante a Brad Pitt che
sappia fare i massaggi shatzu.”
“Nient’altro?”
“Dammi
tempo…e intanto troviamo un taxi!”
Elizabeth
una volta arrivata a Sunnydale decise che voleva farsi un giro per conto suo.
Faith non era molto d’accordo, ma la stanchezza del viaggio che la sua amica
non aveva lavorò contro di lei facendola crollare di schianto sul letto della
sua stanza.
Prima
di uscire, le lasciò un messaggio che diceva che si sarebbe recata al Magic
Shop, e poi si avventurò per le strade della cittadina. Buffo come tutto le
appariva estraneo e familiare allo stesso tempo…ma ricordava la scuola, ancora
ridotta in macerie perché nessuno si azzardava a costruirci qualcos’altro, e
poi il cimitero, e la casa dove aveva vissuto.
Il
cartello ‘vendesi’ era molto vecchio e rovinato, senza dubbio doveva stare là
da tanto tempo. Evidentemente, dopo la morte di sua madre, e poi la morte sua e
di sua sorella, qualcuno doveva aver pensato che sulla casa ci fosse una sorta
di maledizione e nessuno quindi voleva comprarla.
Levandosi
una forcina dai capelli, si avvicinò alla porta e iniziò a forzare la
serratura. Quando dopo un paio di minuti scattò, ringraziò mentalmente Nikolai
per averle insegnato questo ed altri trucchetti.
Che
desolazione. La casa sembrava morta con le proprietarie. Dopo aver fatto un
giro del piano terra, levando tutti i teli che coprivano i mobili, salì al
piano di sopra diretta nella sua vecchia stanza. Anche lì tutto era coperto, e
le sue cose erano state ammonticchiate in due o tre scatoloni. E guardando
quella stanza, prese dalla tasca il cellulare, per chiamare il numero che aveva
visto sul cartello fuori.
“Hamilton
immobiliare, posso esserle utile?”
“Credo
proprio di sì.”
Quando
disse l’indirizzo della proprietà che le interessava, alla segretaria a momenti
venne un colpo.
“Da-Davvero
le interessa quella casa?”
“Ha
un suo fascino. Quanto vuole?”
“Ehm…controllo.
Un momento.”
La
cifra che le disse era veramente irrisoria, e le disse che però sarebbe stato
necessario rifare l’impianto elettrico, quello idraulico, riparare qualche
piccola fessura nel tetto, e liberarla dai mobili rimasti, e che questo faceva
lievitare il prezzo se non voleva accollarseli lei.
“Ma
per me non è un problema. Era casa mia, un tempo. E per la cifra le farò un
bonifico domani mattina, le porterò la ricevuta e firmerò il contratto di
compravendita. Siamo d’accordo?”
“Sì…certamente.
A domani, signorina.”
Elizabeth
sorrise. Era stata una cosa totalmente impulsiva, ma era felice di avere di
nuovo la sua vecchia casa. Ora però bisognava trovare il modo di dirlo a Faith,
ma lo avrebbe fatto più tardi. Voleva proprio vedere se ricordava la strada per
quel locale chiamato Bronze, e per quel negozio di oggetti magici, The Magic
Shop.
“Sei
stata molto fortunata, Willow, la cauzione che quel giudice ha fissato era
abbastanza bassa” disse Xander sedendosi accanto alla sua amica al tavolo del
Magic Shop, dove si trovavano anche Anya, il signor Giles e Tara.
“Che
ha detto Cordelia?”
“Cordelia
mi ha fatto sapere che ha un’amica avvocato. Le ha parlato del caso, e dovrebbe
arrivare stasera. Stai tranquilla, vedrai che andrà tutto bene.”
“Una
cosa non la capisco, però” esclamò Anya “Quel tipo, Gage, che ora ti accusa, da
dove salta fuori? E quelle prove?”
“Non
ne abbiamo la più pallida idea, Anya, ma su una cosa siamo sicuri. Mente.”
“Spero
tanto che questa avvocatessa possa fare luce su tutta questa faccenda” mormorò
Willow, torcendosi le mani. Tara le mise un braccio intorno alle spalle e la
attirò un po’ contro di sé, per confortarla.
Sentirono
il campanello sulla porta del negozio suonare un paio di volte, segno che
qualcuno era entrato e aveva chiuso la porta.
“C’e
nessuno?”
“Chi
è?” domandò Giles.
“L’avvocato
che vi manda Cordelia Chase” disse la voce, intanto che avanzava verso lo
scaffale pieno di libri che nascondeva il tavolo dove tutti erano seduti.
Finalmente
Elizabeth raggiunse il tavolo e posò la giacca su una sedia vuota.
“Sono
Elizabeth Summers, piacere di conoscervi.”
Elizabeth
aggrottò le sopracciglia, domandandosi il perché di quelle facce allibite.
“Beh?
Mai visto un avvocato di Boston?”
“Non
è possibile…” mormorò Giles alzandosi in piedi.
“Ci
sono i treni, gli aerei, certo che è possibile. Allora, chi di voi devo
difendere in tribunale dall’accusa di omicidio?”
“Buffy?
Mio Dio, ma sei tu?”
“Come
mi ha chiamata?” domandò Elizabeth, già scocciata. Odiava sentire quel
diminutivo, eccetto che da una ristrettissima cerchia di persone.
“Ti
ho chiamata Buffy” continuò Giles. “Non è questo il tuo nome?”
“Il
mio nome è Elizabeth, e comunque non credo mi chiamerà mai così. Ora ripeterò
la domanda: chi di voi dovrò difendere in tribunale dall’accusa di omicidio?”
Willow
si alzò e le andò vicino “Sono io, ma B…cioè Elizabeth, non ti ricordi di noi?”
“Dovrei?”
Elizabeth
si guardò intorno. Quel posto per caso doveva esserle familiare? Non lo
ricordava per niente. Provò allora a concentrarsi sulle facce…e solo allora
fece il collegamento tra le persone che aveva davanti e il dossier che le aveva
mostrato Lirem.
“Oh,
porca miseria…siete voi? Cioè, Willow, Tara, Xander, Anya e Giles?”
“Sì…come
siamo felici di rivederti” disse Giles, indicandole una sedia.
“Elizabeth
si sedette, cercando di fissarsi in testa le immagini dei presenti “Mi fareste
un favore a dirmi come vi ho conosciuti. Dopo il crollo di quel palazzo a Los
Angeles sono stata in coma per nove mesi, e da quando mi sono svegliata soffro
di amnesia. Ho ricordato chi sono, so cosa facevo, ma per il resto della mia
vita ho solo brandelli di immagini e facce senza nome.”
Oltre
a incubi che mi costringono a prendere dei tranquillanti che stenderebbero un
elefante, completò mentalmente.
Giles
stava per aprire la bocca, quando la porta del negozio si aprì e si chiuse con
forza, rischiando di andare in pezzi.
“RAZZA
DI DISGRAZIATA, DOVE SEI?!”
Elizabeth
represse una risata mordendosi le labbra, mentre Faith entrava nel negozio a
passo di carica, fino a trovarla. Tutti i presenti eccetto Liz mostrarono chiaramente
la loro sorpresa e il loro disprezzo, ma sembrava che Faith non li notasse
nemmeno.
“E
finalmente! La vuoi piantare di sparire nel nulla?”
“Non
eri disponibile ad essere interpellata.”
“Perché
stavo dormendo, come fanno tutti i mortali dopo un viaggio da una costa
all’altra degli Stati Uniti! Quale parola nella frase ‘non te ne andare in giro
da sola perché non ricordi una mazza della città e potresti cacciarti nei guai’
non hai compreso?”
“Mi
dispiace.”
“Spiacente,
B, non te la cavi con così poco. E sai che vuol dire?”
“No,
per pietà!”
“Terapia.”
“Per
favore, piantatemi un pugnale nello stomaco e buttatemi dal palazzo più alto di
questa città, vi prego!”
“Tanto
non mi scappi…”
“Scommetti?”
“Che
cosa ci sei venuta a fare qui, Faith? Lo sai che non ti vogliamo.”
Era
stata Willow, con tono glaciale. Solo allora Elizabeth si era voltata, e aveva
visto gli sguardi di tutto il gruppo su Faith, ora in silenzio.
“Faith
sta con me. Lavoriamo insieme.”
“Dopo
tutto quello che ti ha fatto?” mormorò Xander, allibito. “O forse non lo
ricordi?”
Elizabeth
guardò quegli estranei che criticavano la sua migliore amica, e desiderò
pestarli. Erano stati fuori dalla sua vita per quasi una decade e pretendevano
pure di giudicare?
“Ricordo
perfettamente. Siamo state rivali, nemiche, ci siamo quasi ammazzate a vicenda.
E ora siamo amiche, colleghe e coinquiline… il mondo gira, la gente cambia.”
“Non
quelle come lei.”
“Vorrei
ricordarti che tra quelle come lei sono compresa anch’io…e francamente tra me e
lei quella che viene considerata pericolosa ora non è lei. Perdonatemi se non
ho fiducia nei vostri giudizi, ma come tutti i miei amici e colleghi di Boston
sanno io mi fido solo di pochissime persone: una è Dio, l’altra sono io, e la
terza è Faith. Le altre cinque non siete voi.”
Detto
questo, prese la giacca e se ne andò.
Ignorava
che qualcuno nell’ombra aveva seguito tutto il suo peregrinare per Sunnydale,
senza riuscire a credere ai suoi occhi.
[WIP]