AMNESIA

Di Jade

 

 

 

 

Parte prima: Anne

 

Quando aprì gli occhi in una stanza d’ospedale, la sua prima reazione fu quella di alzare una mano per toccarsi la faccia.

Si rese però subito conto che le faceva male anche solo muovere un muscolo, come se avesse migliaia di spilli su tutto il corpo che la trafiggevano. Anche gli occhi le facevano male…c’era troppa luce in quella stanza, le dava fastidio.

All’improvviso entrò un’infermiera, che senza prestarle attenzione, meccanicamente cambiò la flebo. Fu il movimento improvviso della sua mano a farle fare un salto, e a farla correre fuori chiamando il nome di un medico e dicendo che era avvenuto un miracolo.

Subito arrivò un giovane medico, che le controllò le pupille e il polso, e le sorrise.

“Bentornata.”

Subito la paziente indicò al dottore la sua gola, e l’infermiera, preso il dottore in disparte, le chiese se non fosse il caso di vedere un altro medico.

“Il respiratore. L’ha aiutata a lungo, e comunque è da molto che non parla. Aspetterei prima di preoccuparmi.”

E aveva ragione. Era solo debole, e i capelli scuri che le incorniciavano il viso la facevano sembrare ancora più minuta e pallida. Tutte le infermiere avevano cominciato a coccolare la bella sconosciuta, e il dottore che si occupava di lei le osservava mentre facevano recuperare alla ragazza il sorriso e un po’ di coraggio.

Circa cinque giorni dopo, il dottore, Daniel Hawthorne, andò da lei per farle alcune domande, e per darle delle spiegazioni. Doveva stare attento a come parlava però, avrebbe potuto rompere il suo fragile equilibrio, e Dio solo sapeva quanto era stato difficile per lei crearselo. Risvegliarsi da un coma è un evento traumatico.

“Buon giorno.”

“Buongiorno dottor Hawthorne” lo salutò lei sorridendo.

“Vedo che stai meglio. Hai ancora dolori?”

“Sì, ma non vedo l’ora di iniziare la riabilitazione. Da quanto hai detto, sono stata fortunata.”

“Dimmi, ti ricordi qualcosa di quanto ti è successo?”

Aggrottò la fronte. L’unica cosa che ricordava era una parola, ‘Perdonami’, ma non ricordava se l’aveva detta lei o qualcun altro, e chi fosse questo qualcun altro. Poi c’era stato il terremoto, il crollo del palazzo, le macerie che l’avevano seppellita viva rompendole qualche osso, e provocandole una commozione cerebrale.

“Sì, c’è stato un terremoto qui a Los Angeles nove mesi fa. Ti abbiamo tirato fuori dalle macerie di un palazzo che è crollato.”

“Oh mio Dio…nove mesi fa?”

“Sì. Era novembre, e ora siamo ad agosto.”

“Dimmi com’è successo.”

“Improvvisamente. I pompieri non sono riusciti a fare molto per gli altri rimasti imprigionati.”

“Ero da sola?”

“Non lo sappiamo. Devi dirmi come ti chiami, prima.”

“Gliel’ho già detto, dottore. Io non mi ricordo niente.”

“Forse ti posso aiutare” e le diede una busta di plastica. All’interno c’erano una croce d’argento, un anello, e un cristallo.

“Li avevi quando ti abbiamo trovata. Ti dicono qualcosa?”

Prese in mano il cristallo di rocca, stranamente di un color nero profondo, che era legato semplicemente con un sottile laccio di cuoio. Quello, oltre anche a quello strano anello con le due mani, la corona e il cuore, le erano più familiari.

“Questo anello e il cristallo…non ricordo chi me li ha dati, ma mi dovevano volere molto bene.”

“Che altro?”

La ragazza guardò l’anello.

 

* “Questo è il mio regalo per te. La mia gente, se ancora posso chiamarla così, se lo scambiava come segno di devozione…È un anello Claddagh. Le mani significano amicizia, la corona indica la lealtà, e il cuore…lo sai. Metti la punta del cuore verso di te. Significa che appartieni a qualcuno…*

 

“Questo…questo deve avermelo donato il mio ragazzo. Mi sembra di ricordare che si chiami claddagh.”

“È un anello claddagh, infatti. Viene dall’Irlanda. Del cristallo che mi dici?”

Buffy lo guardò attentamente, ricordava che qualcuno gliel’aveva messo al collo, ma come prima non riusciva a mettere a fuoco il suo viso.

Aveva abbassato lo sguardo, e Daniel le aveva messo un dito sotto il mento perché lo guardasse negli occhi.

“Non te la prendere. La memoria è una cosa misteriosa, e può tornare in qualsiasi momento.”

“O mai. Potrei morire senza mai sapere chi sono.”

“Non essere pessimista. Vedrai, andrà tutto bene. Al momento però ti serve un nome…che ne dici di Jane?”

“No. Non mi sento una Jane.”

“Mary? Claire? Andie?”

“Anne.”

“Anne?”

“Se proprio devo scegliere un altro nome, voglio che sia Anne.”

“Benissimo, Anne. Tra non molto sarai in grado di uscire dall’ospedale, se continui così.”

“Ma dove posso andare?”

“Ho discusso con mia moglie, Camille. Se tu sei d’accordo, potremmo ospitarti quando esci da qui per tutto il tempo che vorrai.”

“Non voglio essere di peso.”

“Io sono il tuo medico, e mia moglie è psicologa. Non aver paura, ti vogliamo aiutare.”

“Lo so. Grazie.”

Qualche giorno dopo, Camille venne a farle visita e a portarle qualche vestito. Era affettuosa e comunicativa, ed Anne cominciò ad immaginare come doveva essere vivere con loro, con il serio Daniel e l’estrosa Camille. Conclusione: non ne vedeva l’ora.

 

****************

 

Aveva protestato, ma Daniel non aveva voluto sentire ragioni.

“Ogni paziente viene dimesso su una sedia a rotelle. È la procedura.”

“Non se ne parla. Sono andata troppo vicina a doverci passare tutta la vita, e la mia risposta è no.”

“Anne, siediti e falla finita. Ti prometto che farò in fretta. Camille ci sta aspettando, e se continui si farà tardi e non potrai fare neanche un giro della città, prima di domani.”

Appena finito di pronunciare la frase si rese conto di aver detto le parole magiche. Anne sospirò, e si sedette sulla sedia a rotelle con il borsone sulle ginocchia.

“Facciamo in fretta.”

“Grazie.”

Appena gli infermieri videro aprirsi la porta della sua stanza, si guardarono l’un l’altro contenti, e lo dimostrarono anche alla ragazza, salutandola e augurandole di non vederla più in quel reparto tranne che per salutare.

Anne era felice di andarsene, anche se aveva un po’ di paura. Non aveva la minima idea di quello che l’aspettava là fuori, e affrontare il mondo senza un passato sarebbe potuto essere molto difficile. Meno male che aveva Daniel e Camille.

“Ciao, Annie. Allora, come va?”

“Bene. Sono curiosa di vedere com’è il mondo qua fuori. Mi hanno detto che non è male…” disse alzandosi dalla sedia a rotelle per andare ad abbracciare la donna.

“Uhm, una battuta ironica. Buon segno, piccola. Allora, ti piacciono i vestiti?”

Anne si diede un’occhiata. Aveva una gonna lunga grigia, e un maglione azzurro polvere scollato a V, e con le trecce che si era fatta sembrava proprio una bambina.

“Sì. Grazie mille.”

“Ricordami di trascinarti per negozi, un giorno di questi.”

Daniel aveva già messo in auto la valigia, e aveva salutato la moglie dicendole che sarebbe arrivato a casa alla fine del turno, forse un po’ più tardi a causa di un’operazione.

Camille lo salutò, e una volta salita in macchina con Anne le chiese se le andava di fare un giro della città, prima di andare nella sua nuova casa.

La ragazza non aveva niente in contrario, anzi, ora che finalmente era fuori dall’ospedale voleva vedere la città il più possibile.

Fu assolutamente per caso che Camille, facendo una curva, si trovò vicino alle macerie del palazzo che era crollato durante il terremoto, e da cui avevano tirato fuori Anne. Sperò che lei non se ne accorgesse, ma si rese conto che non solo le aveva notate, ma che non riusciva a staccare gli occhi da là.

“È lì che è successo, vero?”

“Mi dispiace, non volevo. Sbagliato strada.”

“Andiamo lì.”

“Anne, non so se è una buona idea. Non puoi sapere che cosa potrebbe succedere.”

“Ti prego.”

“D’accordo.”

Camille fermò la macchina in un parcheggio a pagamento, e mettendo un braccio intorno alle spalle della ragazza l’accompagnò fino a quanto rimaneva del centro congressi.

Anne camminò tra le fotografie, i fiori, e i lumini accesi per i defunti.

 

* “Dawn, andiamo. Siamo in ritardo.”

“Dobbiamo proprio conoscerla?”

Buffy sorride alla sorella, e le mette una mano sulla spalla.

“È la nuova moglie di papà, dobbiamo perlomeno mostrarci gentili.”

“Sì, ma che ci stiamo a fare in un centro congressi?”

“Lei sta terminando un meeting, poi andremo tutti a cena insieme…Dawnie, ma mi stai ascoltando? Sembra tu stia cercando qualcuno…”

Dawn getta un’altra occhiata al di fuori del palazzo, poi sorride, ha visto chi voleva, e raggiunge la sorella all’ascensore.

 

Il palazzo ora è crollato, Buffy ha le gambe imprigionate sotto una colonna crollata e non riesce a muoversi. Urla il nome di Dawn, si guarda intorno, e vede testa della sorella minore spuntare da sotto un blocco del piano che è loro crollato addosso.*

 

Camille corse da lei, ed Anne nascose il viso contro la donna.

“Mia sorella…mia sorella era là dentro con me!”

“Anne, calmati. Può essersi salvata.”

La ragazza però sollevò gli occhi verdi pieni di lacrime, e fece segno di no con la testa.

“Dawn…Dawn è rimasta schiacciata sotto le macerie…e io non ho potuto far altro che guardarla morire…”

Camille strinse a sé la ragazza, portandola via. Era stata una stupida a portarla lì, a farsi convincere. E sì che era un medico. Doveva saperlo, e fu quello che le disse anche Daniel quando ritornò a casa e venne messo al corrente. Voleva correre da lei per vedere come stava, ma Camille lo fermò prima.

“È sconvolta, ha appena rivissuto la morte di sua sorella. Si deve prendere il suo periodo di cordoglio, urlare, piangere…qualsiasi cosa. Ma se noi ci intromettiamo, non ne uscirà.”

Le parole di Camille erano dure, ma erano la pura verità. Anne non uscì dalla sua stanza per due giorni, troppo turbata anche solo per riuscire a mettere qualcosa dentro lo stomaco. Poi, la mattina del terzo giorno fece la sua comparsa. Era molto calma, e questo sorprese la coppia di medici. Sembrava che stesse progettando di fare qualcosa, e circa due settimane dopo decisero di chiederle che avesse in mente.

“Annie, come stai?”

“Meglio. Meglio, davvero.”

“Ti vediamo pensierosa. Che c’è? Problemi?”

“No. Voglio che voi due mi aiutiate.”

“A far cosa?”

“A trovare qualcosa da fare. Ammetto che non mi dispiacerebbe tornare a studiare.”

Camille e Daniel si erano lanciati un’occhiata interrogativa, e poi avevano cercato di spiegare ad Anne che forse non sarebbe neanche stato possibile, senza documenti o titoli di studio.

“E poi per quanto ne sappiamo del tuo passato potresti anche essere già laureata in fisica quantistica.”

“Uhm, no. Non credo di essere stata una secchiona nell’altra vita.”

“Nell’altra vita? Anne, guarda che non è per niente un capitolo chiuso. Dà tempo al tempo.”

“Il tempo non mi sta ad aspettare, Daniel, sono io a doverlo rincorrere e sono indietro di almeno tre lunghezze. Non voglio dipendere tutta la vita da ricordi che non ho.”

E così, insieme a Camille, Anne aveva fatto la sua comparsa al Community college. C’era un mucchio di gente, una confusione che le aveva messo allegria e che le era un po’ nota.

“Sai, credo di essere stata studentessa al college. Questa confusione mi è familiare.”

“Sono felice di sentirlo. Chi lo sa, magari girando un po’ per questi corridoi ti torna in mente qualcos’altro.”

“Non essere troppo ottimista…”

Camille stava per ribattere, quando il suo cercapersone iniziò a suonare.

“E ti pareva. Sanchez.”

“Caso importante?”

“Sì, se ritieni la paura di essere rapito dagli alieni molto grave. E ora? Non ti volevo lasciare da sola, insomma, non ti sai ancora orientare in città…”

“Tranquilla, l’ospedale so dov’è. Torno a casa con Daniel.”

“Benissimo. Ciao, tesoro, ci vediamo a casa.”

Anne salutò la donna, e la guardò allontanarsi.

“Bene, e ora dove andiamo?”

Decise di lasciar fare al caso, e percorso il corridoio si trovò fuori, nel giardino del campus. Prese un sentiero a caso, e poi un altro, e alla fine si trovò al dipartimento di Giurisprudenza.

Seguendo la massa di studenti, si ritrovò in un’aula dove una lezione stava cominciando. Diritto Penale, a quanto sembrava. Anne prese posto in un angolo, facendo attenzione a non farsi notare, e aspettò con gli altri il professore.

“Bene bene, vedo nuove facce qui” disse il professor Andrew Lagerback, entrando. “Vediamo quanto durate nel mio corso. Nel caso i vostri colleghi non vi abbiano avvistato sono il più bastardo e fetente dei professori di questo dipartimento, e con me potete anche dare il massimo, ma vi avviso che non sarà mai abbastanza. La Legge che andate a servire non ammette scansafatiche, e non li ammetto neanche io in questo corso. Vi ho avvisati. E ora cominciamo.”

Buffy guardò l’uomo, e deglutì forte. Le faceva paura, ma come succede in certi casi ci si trova a adorare quello che più si teme. Non era mancata neanche ad una sua lezione, si consumava gli occhi sui libri del corso e su quelli che consigliava, e non mancava di prendere appunti. Era diligente, forse anche troppo per una che voleva passare inosservata.

Alla fine di una lezione infatti, Lagerback tuonò “Ehi tu!”

Anne s’irrigidì, ma continuò a camminare, cercando di uscire alla svelta. C’era sempre la possibilità che non si stesse rivolgendo a lei.

“Dico a te, con la gonna nera e la maglia rossa!”

Anne si fermò. Maglia rossa e gonna nera? Sì, era lei. Si voltò verso il professore, cercando di capire in che modo lo avesse contrariato.

“Sì, professore?”

“Vieni qua subito.”

La stava fulminando con lo sguardo, e Anne aveva iniziato a tremare.

“Da quanto tempo è che sei nella mia classe, un mese? Due?”

“Tre, professor Lagerback.”

“E mi vuoi spiegare che diavolo continui a fare qui considerato che non sei iscritta e che questo corso è a numero chiuso e già al completo?”

“I-Io…”

“Come ti chiami, ragazzina?”

“Anne...”

“Anne come?”

“La ragazza abbassò gli occhi “Non lo so.”

“Non mi prendere in giro!”

Lo stava facendo arrabbiare, doveva essere convinto che gli stesse mentendo per cercare di non avere guai.

“Non la sto prendendo in giro, professore!”

“Per l’ultima volta. Come ti chiami?”

“Non lo ricordo. Anne è il nome che mi sono data dopo che mi sono risvegliata dal coma. Ho passato nove mesi in ospedale, e mi sono svegliata senza sapere niente di me, pertanto mi scusi se non so rispondere a questa domanda!”

Solo alla fine del discorso si accorse di aver urlato, e di stare piangendo. Guardò un’altra volta il professore, e poi scappò via correndo.

Corse fino all’ospedale, allo studio di Daniel. Fortunatamente non c’era nessuno dentro, visto il modo poco ortodosso in cui entrò. Daniel si era alzato dalla scrivania, per venirle incontro e chiederle che le era successo, e lei si era aggrappata a lui, ancora in lacrime.

A casa poi si era calmata, e aveva spiegato ai due cos’era successo.

“Non so che mi ha preso.”

“Ti sei sentita aggredita e ti sei difesa.”

“Non avrò più il fegato di farmi vedere là.”

Il campanello suonò in quell’istante.

“Per quanto mi riguarda” disse Camille alzandosi “dovrebbe essere questo Lagerback a venire a chiederti scusa per come ti ha trattato.”

Camille aprì la porta. Rimase a bocca aperta.

“Anne è in casa?”

“Non credo la voglia vedere dopo quanto è successo stamattina, professore.”

“Anne sa difendersi da sola. Voglio parlare con lei, Camille.”

Camille sospirò, e andò in soggiorno da Anne lasciando Lagerback sulla porta.

“Parli del diavolo e spuntano le corna, Annie. Ti vuole parlare. Tu vuoi parlare con lui?”

Anne si alzò dal divano, e si diresse verso la porta. Non aveva lo stesso sguardo che aveva a lezione. Sembrava quasi amichevole.

“Salve, professore.”

“Ciao, Anne.”

“Come mi ha trovato?”

“Uno dei ragazzi del corso fa il volontario in ospedale, e mi ha detto che vivi qui con il medico che ti ha avuto in cura. Possiamo parlare?”

Anne aveva fatto per togliersi dalla porta, ma Lagerback le aveva fatto un cenno con la mano.

“No, meglio fuori di qui. Temo per la mia incolumità se decido di entrare.”

La ragazza aveva accennato un sorriso, e presa la giacca era uscita con lui per una passeggiata.

“Mi dispiace veramente di averti aggredita a quel modo. Non immaginavo.”

“Non è colpa sua quanto è successo.”

“Hai perso qualcuno?”

“Ho visto mia sorella morire, quindi posso dire di aver perso lei, ma non so se eravamo da sole, o se c’erano anche i miei, o se…se si sono salvati.”

“Mia figlia Connie doveva presentare una sfilata, nei piani alti. Era il suo sogno. Il suo corpo è uno di quelli che sono stati identificati con certezza.”

“Mi dispiace.”

“Preferisco non pensarci.”

“So cosa vuol dire. È anche per questo che venivo a sentire le sue lezioni. Mi aiutavano.”

“Se lo vuoi, puoi ritornare.”

“Non ho niente in mano.”

“Ho bisogno di un’assistente.”

“Rimane il fatto che non ho un nome, una carriera scolastica, niente.”

“Sono uno degli anziani, e sono sicuro che posso permettermi di rischiare su di te. Basta che tu lo voglia.”

“Mi piacerebbe tantissimo. Cos’è che intende con assistente?”

“Qualcuno che mi aiuti nel mio lavoro, litighi con la segreteria al posto mio, raccolga gli appuntamenti degli studenti che vogliono saperne di più.”

“Mi lascerebbe abbastanza tempo per seguire gli studi e finirli nel corso legale?”

“Assolutamente.”

“Allora ci sto.”

Una stretta di mano, e l’accordo fu suggellato. Un po’ più difficile fu farla digerire all’impiegata dell’ufficio immatricolazione.

“Con un nome non posso…”

“Le ho spiegato il caso, signorina. La persona in questione si chiama Anne Hawthorne, e se non le può fornire altri dati è perché non li ricorda. Uno psichiatra ha certificato la sua amnesia.”

“Rimane il fatto che non sappiamo se è in grado di essere ammessa, o di sostenere la retta, o il peso degli studi e degli esami…”

“Lavora come mia assistente, segue il corso già da mesi e le ho già fatto sostenere la prova d’ammissione, che tra l’altro ha superato con ottimi risultati. Ha altre obiezioni?”

La donna non osò proferir verbo, dato che Lagerback godeva dell’appoggio incondizionato di molti sostenitori dell’università, e contrariarlo avrebbe voluto passare dei guai.

E così da ottobre si arrivò a novembre, e da novembre a dicembre. Una volta a casa per le vacanze, subissò Camille di domande su questa festa. Camille sorrideva e rispondeva a tutte le domande più strane, con una punta di dispiacere. Per lei quello sarebbe stato l’ultimo Natale di una lunga serie, ma per Anne era il primo, e se non cambiavano le cose l’unico che avrebbe ricordato dall’incidente, con una voragine spaventosa per tutti quelli che l’avevano preceduto. Ormai cominciava a dubitare che avrebbe mai ricordato la sua identità. Stava passando troppo tempo, non era un buon segno.

Anne tornò giù dalla soffitta con uno scatolone più grande di lei, dove aveva trovato le decorazioni per l’albero di Natale e per la casa, e gridò a Camille se voleva degnarsi di darle una mano.

“Anne, se mi avessi aspettato ti avrei dato una mano!”

“D’accordo, mea culpa. Dov’è l’albero?”

Camille indicò l’abete, in un angolo del soggiorno vicino alla finestra.

“Che ne pensi?”

“Stupendo.”

“Annie, hai tanto da fare in questi giorni?”

“Devo studiare, quando ritorno a scuola dovrò dare un esame di Diritto, ma niente che non posso terminare anche dopodomani. Perché?”

“Ti avevo promesso di trascinarti per negozi ancora mesi fa, o sbaglio?”

“Così prendiamo anche i regali. Ottimo!”

“Regali? E per chi?”

“Beh, per i miei amici di corso, Andrew, voi due…me…”

“Ah, allora guadagni bene.”

“Lavoro in quel negozio in centro, poi sono assistente di Andrew…sì, posso dire che me la cavo.”

“Sono felice per te. Stai iniziando a reagire.”

“Andrebbe meglio se mi ricordassi qualcos’altro.”

“Vedrai che ci riuscirai. Preparo una tazza di tè?”

“Andata. Camille, sarai anche in America da anni, ma certe abitudini inglesi non le perdi proprio, eh?”

Poi aggrottò la fronte. Questa faccenda le sembrava familiare. Che avesse qualche amico inglese?

Si alzò per prendere dallo scatolone alcune decorazioni, poi si ricordò di averne viste altre di sopra. Stava per ritornare in soffitta, quando distrattamente si guardò allo specchio, e si aggiustò la croce d’argento che portava sempre al collo. Un raggio di luce la colpì facendola risplendere, e Anne improvvisamente iniziò a fissarla.

 

* “Signorina, qualche problema?”

“Perché mi stai seguendo?”

“So cosa stai pensando, ma non preoccuparti. Io non mordo.”

 

“Se devi continuare a saltar fuori per fare lo sputasentenze, potresti almeno dirmi come ti chiami.”

“Angel.”

“Angel. È un bel nome.”

 

“…viveva sull’isola di Angelus un essere dalle fattezze angeliche…”

“Se è così, è lui.”

“Questo Angel ha forse un tatuaggio sulla spalla destra?”

“Ora ho qualcosa da dire. Buffy, lo hai visto nudo?”

 

“Buongiorno, sono nuova, e…”

“Signorina Elizabeth Summers?”

“Sì. Sono l’unica nuova a quanto pare…” *

 

“Buffy Summers…Elizabeth Summers. Elizabeth Anne Summers…”

Non avrebbe mai smesso di ripetere il suo nome. Suonava come musica alle sue orecchie.

Non si sarebbe mai aspettata un simile regalo di Natale.

 

Si stava guardando allo specchio, sorridendo e vicina alle lacrime, quando Camille le arrivò alle spalle.

“Tesoro, che c’è?”

la ragazza indicò lo specchio, ancora sorridendo.

“C’è che ora la ragazza qui riflessa ha finalmente un nome. Elizabeth. Anne. Summers.”

Camille non volle neanche sapere com’era successo. Era più felice di lei.

“Oh mio Dio…o mio Dio…e così ti chiami Elizabeth. Hai qualche diminutivo, te lo ricordi?”

“Mi pare mi chiamassero Buffy. Se vogliamo dirla tutta in molti dovevano essere convinti che doveva essere il mio nome.”

“E ora?”

“Ora voglio essere chiamata con il mio nome.”

“D’accordo, Elizabeth. Ti potrò chiamare almeno Liz?”

“Vedremo. Ora andiamo a dare la bella notizia a Daniel.”

Daniel dal canto suo fece una cosa che a Elizabeth risultò molto più gradita. Con una telefonata, era riuscito dio solo sa come ad ottenere di entrare all’ufficio anagrafe, a cinque giorni da Natale.

“Come hai fatto?” domandò Elizabeth.

“Ho curato il figlio e il marito della responsabile di questo ufficio.”

“E quanti favori devi ancora riscuotere in giro?”

“Credo di aver perso il conto. Guarda, lì c’è il terminale. Adesso mettiamo dentro il tuo nome e vediamo che succede.

Elizabeth chiuse gli occhi e incrociò le dita. Ti prego, Signore, ti prego…

Quando li riaprì, sul computer era comparsa la sua scheda.

“Elizabeth Anne Summers, 1981 – 2001. COME?!”

“Buon Dio, Liz. Credo ti abbiano dato per morta.”

“E come diavolo hanno fatto? Sono qui. Ti sembro uno zombie?”

“Risolveremo tutti i problemi. Vuoi leggere il resto?”

“Ovvio. Vediamo un po’…uhm, ero anche bionda. Che mi girava in testa, sto tanto bene con i capelli castani…guarda qui. Cacciata da Hemery per comportamento delinquenziale. Palestra bruciata. Trasferita a Sunnydale, iscritta alla Sunnydale high school. Espulsa nel 1998, riammessa nel 1999…interessante carriera scolastica. Lagerback mi ammazza se lo viene a sapere. Vediamo che c’è qui…ah, diplomata nel ’99, ammessa all’Università di Sunnydale, studi interrotti a metà del primo anno accademico…”

“Leggi qui sotto. Tua madre è morta in quel periodo.”

“Tumore al cervello. Dio santo, chissà che inferno che è stato per Dawn e me. Sono morti tutti, vero? Non ho nessuno della mia famiglia ancora vivo.”

“Mi dispiace.”

“Che altro dicono di me?”

“La tua fedina penale è immacolata, salvo alcuni problemi a scuola. Nessuna malattia grave.”

“Non è molto.”

“Scopriremo dell’altro.”

“Ti ringrazio. Ma prima voglio dare la notizia al mio professore. Ne sarà felice…più felice di lui sarà la signora dell’ufficio immatricolazione. Finalmente può riempire la mia scheda!”

 

******************

 

Era corsa da lui a casa. In qualità di sua assistente sapeva il suo indirizzo, e sapeva sempre dove rintracciarlo, e aveva colto l’occasione per portagli il suo regalo di Natale e un paio di pratiche che aveva dimenticato di consegnargli.

Bussò, ma nessuno venne ad aprire. Forse era uscito, ma Elizabeth invece si chinò verso la pianta vicino alla soglia, e alzò il vaso per prendere la chiave. Mentre entrava si ripromise di dire al professore di cambiare nascondiglio alla chiave. A lei non c’era voluto neanche un secondo per scoprirlo.

“Professor Lagerback? È in casa?”

Si guardò intorno, ma non lo vedeva. Poi, proseguendo verso le scale, si accorse che era a terra, e si stringeva il petto.

“Mio Dio, professore!”

Era subito corsa accanto a lui, cercando di aiutarlo, con un panico addosso che pensava sarebbe morta. E una strana sensazione di déjà vu.

“Anne…le pillole…” e le indicò un armadietto della cucina aperto. Elizabeth corse a prendergliele, e gliene fece prendere un paio con un bicchier d’acqua. Poi chiamò subito un’ambulanza, e ritornò da lui.

Rimase accanto all’uomo per tutto il tragitto fino all’ospedale, e fuori dalla stanza dove il medico lo stava visitando. In quel momento potevano piombare da lei e dirle che tutto quello che aveva passato era uno scherzo, ma non le sarebbe importato. L’unica cosa che voleva era che l’uomo in quella stanza si riprendesse.

“Signorina?”

Elizabeth si voltò di scatto, verso il medico che aveva parlato. Doveva avere un’aria spaventata a morte, perché l’uomo sorrise e le chiese come stava.

“I-Io? Io sto bene. Perché?”

“Perché il signor Lagerback mi ha chiesto di assicurarmi che stesse bene.”

“E lui sta bene?”

“Può chiederglielo di persona, se lo desidera.”

Elizabeth allora si era alzata, ed era entrata subito nella stanza d’ospedale. Guardando l’uomo a letto, quasi non riusciva a credere fosse la stessa persona che in classe faceva tremare tutti.

“Lo sa professore? Sembra quasi un comune mortale ora.”

Lagerback la squadrò con una delle sue solite occhiate, e le fece un mezzo sorriso.

“Dovrò lavorare sodo per ritornare al mio stato superiore, allora. Ti ringrazio, Anne.”

“Lei potendo avrebbe fatto lo stesso per me.”

“Perché eri passata a casa mia?”

“Dovevo portarle una cosa…le avevo preso un regalo di Natale. E…”

“Non avresti dovuto.”

“Professore, c’è anche un’altra cosa.”

“Dimmi, Anne.”

“Non mi chiami più Anne. Il mio nome è Elizabeth Summers.”

Il mezzo sorriso dell’uomo divenne un sorriso a tutti gli effetti.

“Sono felice per te…Elizabeth.”

Elizabeth si sedette accanto a lui “Pensavo di morire di paura quanto l’ho vista lì sul pavimento…avevo come l’impressione di aver già vissuto la scena. Poi mentre ero fuori mi sono ricordata di mia madre.”

“Hai trovato lei come avevi trovato me?”

“Lei era già morta. Aneurisma. Dio, mi sembra ieri…e invece stando ai dati sono già quasi due anni.”

“Dev’essere terribile per te.”

“Ho tanti ricordi frammentati, e metterli in ordine temporale è difficile.”

“Qualche nome?”

“Uno solo, a parte il mio. Angel. Potrei anche descriverlo fisicamente, ma per il resto buio a mezzogiorno. E ora me ne vado, lei deve riposare. Ha rischiato grosso, lo sa? Poteva finire male.”

“Ma non è successo. Ho una valida assistente.”

 

Elizabeth era tornata a trovarlo tutti i giorni, e aveva insistito perché passasse il giorno di Natale insieme a lei. Daniel e Camille si erano dimostrati d’accordo, e così aggiunsero un posto a tavola. Elizabeth osservò Daniel e Camille a tavola. Sembravano nervosi, e non ne capiva la ragione. Le avevano detto che non c’era problema, allora perché c’era tensione sotto quella patina di cortesia?

Alla fine liquidò la faccenda come nervosismo dovuto al fatto che non si conoscevano bene, e proseguì il pranzo.

Le feste passarono anche troppo in fretta, e arrivò anche il compleanno di Elizabeth. Daniel aveva il turno di notte e Camille molto lavoro con le cartelle mediche, e alla ragazza era dispiaciuto non averli intorno alla sue festa di compleanno che i suoi amici di corso le avevano organizzato. Comunque loro avrebbero voluto che si divertisse, giusto? E lei ubbidì, divertendosi come una pazza, ballando e alzando un po’ il gomito. Aveva come il sospetto di non aver mai fatto una cosa del genere in passato. Ora voleva recuperare.

Ringraziando il cielo il giorno dopo non aveva lezione. Si era alzata con fatica verso le undici, con un gran mal di testa e un’aria tanto sconvolta che Camille e Daniel a stento trattennero una risata.

“Notte brava, Lizzie?”

“Si fanno ventidue anni una volta sola. Sono a pezzi, ma mi sono divertita tantissimo…”

Solo un’altra volta mi sono divertita così, una sera, in compagnia di una ragazza dai capelli castani di cui non mi ricordo il nome, voleva aggiungere Elizabeth, ma poi decise di non dire niente.

“Bene, ora torna con i piedi per terra, miss Summers. E parliamo di te.”

“Cosa c’è Daniel?”

“Tu hai vissuto a Sunnydale cinque anni. Non credi dovresti tornare là? Magari trovi degli amici, vedi luoghi familiari, e…”

Daniel si fermò. L’espressione terrorizzata degli occhi di Elizabeth lo aveva lasciato a bocca aperta.

“Elizabeth?”

“No. Non ci voglio tornare.”

“Perché?”

Perchè? Elizabeth a parole non avrebbe saputo spiegarlo. Non appena Daniel aveva menzionato quella città, le erano venuti i brividi, e una gran paura si era impadronita di lei. Qualsiasi cosa ci fosse a Sunnydale, non voleva sapere di che si trattasse. E non ci fu niente che Daniel poté fare per convincerla del contrario.

 

 

Parte seconda: Elizabeth

 

Nevicava.

Sembrava che Boston fosse stata sostituita da un foglio bianco.

“Domani ci sarà da divertirsi, con tutto il ghiaccio che si sarà formato per strada, professore.”

Lagerback dalla sua poltrona aveva annuito, e poi aveva ripreso a leggere il suo libro.

Boston le era piaciuta subito, era un bel cambiamento rispetto all’assolata California dove aveva passato gli ultimi due anni, e poi c’era una buona facoltà di Legge che aveva accolto lei e il professore a braccia aperte. Lagerback continuava a prenderla in giro, ma lei sentiva di aver ricevuto la chiamata a difendere gli innocenti…

Le si era spezzato il cuore a lasciare Daniel e Camille, la sua famiglia, ma doveva farlo. Non poteva contare eternamente su di loro, e cominciare una nuova vita in una nuova città dove nessuno la conosceva poteva essere un buon inizio.

Si mise dietro le orecchie due ciocche ribelli e dopo essersi messa gli occhiali ricominciò a studiare.

Sul tavolo c’era ancora il giornale aperto alla pagina degli annunci. Riguardandolo, e ripensando alle offerte esorbitanti che vi aveva trovato, si sentì male di nuovo. Come avrebbe fatto? Non poteva rimanere ospite da Lagerback per tutta la vita.

Intanto che pensava a come risolvere il problema, passarono due anni. La laurea si avvicinava sempre di più, e ne era elettrizzata e spaventata allo stesso tempo. Prendendo esempio dalle carogne newyorkesi, pronte a tutto pur di trovar casa, aveva iniziato a leggere anche i necrologi sperando che si liberasse un appartamento. Non aveva grandi pretese…un bagno, una cucina, una stanza, magari uno studio…

 

Ho bisogno di una casa.

Era l’unica cosa che Faith riusciva a pensare. Era uscita dal carcere per buona condotta qualche giorno prima, con una scatola sottobraccio e 1500 dollari in tasca. La prima cosa che aveva fatto era stata comprare un biglietto per Boston, la sua città natale. Ora però aveva disperatamente bisogno di un posto dove stare. Passando davanti ad una vetrina, si fermò ed esaminò a lungo il suo riflesso. Era diventata un pochino più alta, era dimagrita. Solo il suo pallore era rimasto tale e quale, accentuato dalla mancanza di trucco. Non sembrava diversa da com’era entrata, ad una prima vista. E invece dentro era avvenuta una rivoluzione. C’erano tante persone a cui voleva chiedere perdono, ma la prima della lista era morta. Anche se lei non centrava, si sentiva un peso allo stomaco che non voleva andare via.

Tornò al motel dove si era sistemata, con un trancio di pizza e una coca cola. Sul letto c’era il giornale, non l’aveva ancora letto, e spinta ormai dall’abitudine guardò la pagina degli annunci immobiliari.

Non era possibile. Faith dovette rileggere quelle righe almeno due volte prima di crederci.

“Affittasi appartamento, due camere da letto, soggiorno, servizi…”

 

“…cucina, posizione centrale…per questa miseria?! Dio, è fantastico!”

“Frena con l’entusiasmo, Lizzie. L’affitto, quant’è?”

“C’è un numero di telefono. Ora chiamo, m’informo, e in caso trasloco.”

“Ti trovi così male con me?”

Elizabeth desiderò sprofondare. Ma non poteva pensare prima di aprire bocca?

“No, non volevo dire questo. È solo che le voci corrono…le avrà sentite anche lei.”

“Potrei essere tuo padre. Cosa che mi renderebbe anche fiero.”

Elizabeth sorrise. “Ma anche se non girassero quei pettegolezzi vorrei andarmene a stare per conto mio. Ha fatto tanto per me…è arrivato il momento che ricominci a camminare con le mie gambe in tutti i sensi.”

Aveva chiamato, e si era messa d’accordo con la proprietaria per vedere l’appartamento per il pomeriggio seguente. Era arrivata qualche minuto prima dell’appuntamento, e aveva visto la proprietaria con un’altra aspirante inquilina.

“Non voglio gente come te in casa mia!”

“Ma…”

“Fuori di qui. Ora.”

Elizabeth osservò la ragazza allontanarsi a testa bassa, e la donna scuotere la testa mormorando qualcosa che non riuscì a sentire.

Quando vide la situazione più tranquilla, fece la sua comparsa nel corridoio.

Con lei la donna fu un miele. Forse perché Elizabeth aveva chiesto subito quanto era l’affitto, e le aveva dato il primo mese quasi senza aver visto l’appartamento, dicendo che ne aveva un bisogno disperato.

“Bene, se le cose stanno così…sa, devo trasferirmi in Canada, e voglio essere sicura che la mia casa sia in buone mani. E lei, lei mi sembra proprio una persona perbene, non come l’altra che era venuta…appena uscita di galera, sa?”

La donna aveva già le valigie pronte, sembrava estremamente smaniosa di andarsene.

Elizabeth però non diede peso alla cosa. Stava per tornare a casa a dare la bella notizia a Lagerback, quando si accorse che seduta sulle scale c’era la ragazza mora di prima. Piangeva.

“Ehi, va tutto bene?”

“Certo. Cinque su cinque.”

“Cosa?”

Faith in quel momento si rese conto di conoscere quella voce, e alzò gli occhi per vedere la donna in faccia. Diventò pallida come un fantasma.

“Buffy.”

“Il mio nome è Elizabeth. Odio quel diminutivo…ma tu come lo sai?”

“Non sai chi sono?”

“No, mi dispiace. Ho avuto un brutto incidente quasi tre anni fa, e questo mi ha provocato una brutta amnesia. Chi sei?”

“Mi chiamo Faith.”

“Piacere, Faith” disse sedendosi sulle scale accanto a lei. “Odiosa quella donna, vero?”

“Una strega.”

“Beh, la cara padrona di casa è in Canada, e c’è un’altra camera da letto. Allora?”

“Cosa?”

“Sbaglio o hai bisogno di una casa?”

Faith spalancò gli occhi. Non riusciva a credere che Buffy – Elizabeth – le stesse proponendo di vivere insieme. No, non poteva ingannarla, doveva dirle la verità. Subito.

“Buffy…”

“Elizabeth.”

“Elizabeth, non credo sia una buona idea. Vedi, ci sono delle cose sul tuo…nostro passato…”

“Belle o brutte?”

“Vedi, io e te…”

“Aspetta. Io e te non siamo mai state amiche, perché non ci sopportavamo. Ci sono andata vicino?”

“Diciamo di sì. Non può funzionare.”

“E invece sì. Hai messo le cose in chiaro subito, sei stata sincera. Non ricorderò ancora niente di te, ma quello che vedo per il momento mi basta. Sii mia amica. Ti prego.”

Come poteva ora dirle di no?

 

Le era bastato un giorno per capire che quella ragazza, con la Buffy che conosceva lei, non aveva molto a che spartire. Prima cosa, studiava così tanto che Willow al suo confronto pareva una povera stupida. Seconda cosa, e questa l’aveva lasciata spiazzata, era l’allegria che aveva addosso. Forse era così che si sarebbero dovute sentire tutte e due se non avessero dovuto cacciare i vampiri, perché, dicendo le cose come stavano, era stato il diventare Cacciatrici a rovinare le loro vite. Per Elizabeth il discorso calzava…insomma, si innamora di un vampiro, poi di un soldato tutto muscoli e poco cervello che sorpresa, caccia demoni, e infine la sua vita (se le rimaneva tempo di viverla) era tutta costellata di Apocalissi e Ascensioni da sventare, sempre che nessuno volesse anche riaprire la bocca dell’Inferno. Per quanto riguardava lei il discorso calzava un po’ meno, quel che era diventata lo doveva per un buon ottanta per cento allo schifo di vita familiare che aveva avuto.

E terza cosa, si era resa conto che questa volta le cose avrebbero funzionato. Era una sensazione, niente di più. Rimaneva il fatto che non aveva ancora trovato il coraggio di continuare il discorso che aveva iniziato sulle scale, ma senza tutti i suoi amici a ricordarle chi era stata sarebbe stato più facile farle capire quanto era cambiata, grazie ad Angel e al carcere. Perché aveva scoperto che di Angel si ricordava molto, ed erano tutti ricordi di quando stavano insieme. Nessun ricordo invece di quando era diventato Angelus e, Faith su questo ci scommetteva, di sicuro Elizabeth non sapeva neanche che cos’era un vampiro. Beata ignoranza.

Una volta, per caso, era capitata dentro il campus dove Buffy studiava. Doveva venirla a prendere per andare poi a fare un giro fuori città per il weekend, ma sembrava proprio che la lezione dovesse finire tardi. Cercò l’aula, ma per errore s’imbucò dentro quella di Psicologia, e alla fine della lezione fu Buffy a doverla venire a cercare.

La cosa continuò per molto tempo ancora, fino a quando anche Faith tornò a casa raggiante dicendo alla sua coinquilina già laureata da un anno in Legge che ce l’aveva fatta, che ora era Psicologa a tutti gli effetti.

Ora rimaneva da affrontare il tirocinio in ospedale e allo studio legale Blair & Woodsboro, e dopo essersi trovate a casa dopo il primo giorno di Faith si consolarono dicendo che quello che non uccideva rendeva più forti. Faith era finita in un gruppo di secchioni, con un supervisore ancora più odioso, mentre Elizabeth da un anno doveva affrontare lo studio a più alta concentrazione maschile della città, dove per dimostrare di essere qualcuno avrebbe dovuto lavorare quindici ore al giorno se non di più.

Faith la guardava portarsi tonnellate di lavoro a casa, e aspettava. Circa un mese dopo, la chiamarono dall’ufficio dicendole quello che si aspettava, ovvero che Elizabeth aveva avuto un collasso. Quando la vide a letto, il ‘te l’avevo detto di non strafare, brutta zuccona’ che si era preparata per farle fare un sorriso, o una smorfia almeno, le morì sulle labbra. Era del colore del lenzuolo, ed era ancora sotto l’effetto del sedativo che le avevano dato.

Si era seduta aspettando il suo risveglio, che era avvenuto qualche minuto più tardi. Quando aveva aperto gli occhi e si era vista in una stanza d’ospedale praticamente uguale a quella dov’era stata ricoverata per mesi dopo l’incidente le era venuta una crisi di panico, pensando di aver sognato tutto. Faith l’aveva abbracciata, dicendole che andava tutto bene, che quello che ricordava era tutto reale, e sentì ancora una volta quella morsa allo stomaco. La stava ingannando da anni, non aveva mai trovato il coraggio di dirle tutto, ma ora che finalmente l’aveva conosciuta sapeva che tutto quello che le aveva sempre invidiato – amici, una casa, una famiglia – ora non esisteva più. Aveva solo lei, Daniel, Camille e Lagerback, e anche se sapeva di non poter vivere più a lungo nelle bugie, come psicologa sapeva che la sua amica aveva faticato anni a trovare una sua stabilità, e che dirle tutto avrebbe mandato il suo mondo in frantumi. Dirle la verità avrebbe voluto dire parlare di lei, del fatto che erano state cacciatrici e rivali, e dei vampiri, dei demoni, e di tutto quello che era stata la sua vita a Sunnydale. Di quello qualcosa doveva ricordare, perché ogni volta che sentiva nominare quel paese Elizabeth prendeva un’espressione spaventata e cambiava discorso all’istante.

Se poi successe, fu solo per caso. Elizabeth era tornata a casa un paio di giorni dopo, e parlava di tornare subito a lavoro. Faith invece non voleva neanche sentire un discorso del genere, e voleva che si divertisse quella sera. Alla fine avevano deciso che Faith sarebbe uscita per andare in un pub, e che Elizabeth l’avrebbe raggiunta un paio d’ore più tardi se se la sentiva.

E un paio d’ore dopo Elizabeth aveva buttato via il Codice Penale e si stava vestendo per uscire. Ripensò con dispiacere ai pantaloni di pelle che aveva macchiato ed erano ancora in tintoria, e pregando che Faith non la sbranasse dopo si era infilata in camera sua per prenderne in prestito un paio. Era stato frugando in un cassetto che aveva trovato un pugnale molto strano e familiare.

 

* Buffy, Xander, Willow, Cordelia e Oz sono nel retro del Bronze e osservano una ragazza mora combattere con un vampiro.

“Ciao Buffy” dice la ragazza continuando a colpire il vampiro “Mi chiamo Faith.”

“Non vorrei sbagliarmi” commenta Oz “Ma credo ci sia una nuova cacciatrice in città.”

 

Buffy e Faith sono insieme in un negozio di armi, dove sono entrate sfondando la porta.

“Buffy, la vita della cacciatrice è semplice. Vuoi? Prendi! È tuo.”

 

Ora si trovano nella sala di un’enorme casa. Buffy è incatenata alla parete, e vicino a Faith c’è Angel, che maneggia uno degli attrezzi di tortura a loro disposizione.

“Sono una cacciatrice, rischio la pelle come e più di te e chi sento nominare da tutti? Buffy. Allora cerco di assomigliare a te e di diventare una brava ragazza, e chi ringraziano tutti? Buffy!”

 

“Non pensavo avessi tanta rabbia dentro”

“Che posso dire? Sono la migliore attrice del mondo.”

 

Stesso posto, un po’ di tempo dopo. Le due cacciatrici hanno lottato, e sono finite per puntarsi simultaneamente un coltello alla gola. Faith sorride.

“Non mi puoi uccidere. Non sei ancora pronta per questo!”

Dà un bacio in fronte alla rivale e scompare.

 

Buffy e Faith sono sul tetto dell’appartamento della ragazza e combattono l’una contro l’altra. Buffy ferisce gravemente Faith con la sua arma, il pugnale, e la ragazza barcolla fino al cornicione.

“Mi hai ucciso…ma non servirà al tuo ragazzo.”

Guarda di sotto, sorride. “Dovresti provare, B. È un bel salto…”

Detto questo si lascia cadere, atterrando pesantemente nel cassone di un camion. *

 

Elizabeth aveva fatto cadere a terra il pugnale, sconvolta. E dopo averlo raccolto, era uscita come una furia, alla ricerca di Faith.

Aveva iniziato a piovere forte, ma Elizabeth quasi non se n’era accorta. Era furiosa come non lo era mai stata, e man mano che si avvicinava al locale i ricordi che aveva di Faith si facevano più nitidi. E quando finalmente la incontrò, Faith non riuscì a evitare il pugno che la prese in pieno e la fece finire a terra.

“Perché non mi hai mai detto niente, Faith?”

Faith la guardò senza capire, ma questa volta riuscì a schivare il pugno.

“Perché diavolo non mi hai detto di essere una Cacciatrice?” disse tirandole un calcio allo stomaco, facendola piegare in due. Prima che Elizabeth dicesse qualsiasi altra cosa, Faith la prese di sorpresa e le si avventò contro, facendole perdere l’equilibrio e gettandola a terra insieme a lei.

“Buffy, ascoltami…”

“Non ti voglio ascoltare! Mi hai solo mentito!”

“Non volevo che ti reagissi così!”

“Non dovevi mentirmi! Non dovevi mentirmi…non dovevi farlo…”

La rabbia di Elizabeth verso Faith si era tramutata in lacrime, e Faith la strinse forte riportandola a casa.

Elizabeth non era furiosa per quello che lei le aveva fatto, perché ricordava anche di averla pugnalata a morte e che poi grazie alla caduta che era seguita si era fatta otto mesi di coma, e questo aveva mandato le cose in pareggio. La cosa che la faceva arrabbiare era che Faith non le avesse detto tutto subito.

“Tu di me sai molto. Io voglio sapere, bene o male non mi interessa, non credo di ricordare tutto.”

“Beh, sei una Cacciatrice di vampiri, o forse è meglio dire che lo eri. Cacciavi demoni, ed eri una leggenda. Poi sei morta…sei rimasta morta per un minuto, ma sufficiente per attivare una seconda Cacciatrice. Lei è morta, e sono arrivata io. Siamo andate d’accordo per un po’, ma io ero gelosa di te. Avevi amici, famiglia, un futuro e tutti ti amavano…abbastanza perché decidessi di allearmi con un tuo nemico. Poi io sono finita in coma, lui è stato sconfitto, e quando mi sono risvegliata ho cercato di vendicarmi. Angel…cioè…”

“Il mio ex. Il vampiro con l’anima. Dai, va avanti…”

“Lui mi ha convinto a costituirmi. Mi sono fatta due anni di carcere, poi sono uscita per buona condotta e sono tornata qui. E mentre cercavo casa, ho incontrato te. Mi avevano detto che eri morta, immagina il colpo. Volevo dirlo subito ad Angel, ma qualcosa mi ha detto che sarebbe stato meglio di no. In pratica, che Buffy Summers è viva lo sappiamo solo io, te, e il medico che ti ha curato.”

“E ora?”

“Cosa?”

“Sei ancora gelosa di me?”

“Credo di esserlo stato perché non ti conoscevo. Ma dopo averti assistito nel dopo sbronza della tua festa di laurea, posso dirti di conoscerti molto bene…”

Elizabeth sorrise.

“Sapevo che ti avrei fatto sorridere…”

 

* “Sapevo che ti avei fatto sorridere.” *

 

E per Elizabeth fu come se qualcuno le avesse spaccato la testa con un ascia. Quando riaprì gli occhi, Faith le era accanto un un’aspirina. Le disse che aveva stretto la testa tra le mani, come se avesse dei dolori fortissimi alla testa, e che poi era caduta sempre stringendosi la testa, perdendo conoscenza.

“Liz, che ti è successo?”

Elizabeth cercò di concentrarsi su quello che aveva visto. Lei, su un dondolo, con vicino…

Si tenne stretta la testa durante l’ennesima fitta lancinante, e tenendosi le mani sul viso si lasciò sprofondare nei cuscini del divano.

“Non lo so. Quelle parole che hai detto…me le deve aver dette anche qualcun altro. Ma chiunque sia, a quanto pare non voglio ricordarlo.”

Se ne andò a dormire. Una volta chiusa la porta, sospirò e dal cassetto del comodino tirò fuori un flacone di pillole. Sperava che Faith non le vedesse mai, era roba piuttosto forte per dormire. Ma non voleva incubi, almeno per quella notte.

 

Il mattino dopo tornò allo studio legale molto presto. Se c’era una cosa che non voleva, era quella di essere vista arrivare dagli altri praticanti per essere presa in giro. Aveva dimenticato però che un paio erano tanto dediti al lavoro e all’ingraziarsi i superiori che a volte passavano là anche le nottate.

“Ehi, Summers! Sei uscita dall’ospedale finalmente?”

Elizabeth strinse forte i pugni, per non rispondere indietro al ragazzo che aveva parlato.

“Ciao, Avery.”

“Se non ce la fai a reggere, cambia mestiere.”

“E perché? Per perdermi lo spettacolo di quando toccherà a te? Oh no, caro.”

Detto questo si infilò nel suo minuscolo ufficio, pieno di scartoffie ammucchiate, e iniziò a lavorare. Dopo un po’ sentì la porta aprirsi, ma occupata com’era non staccò gli occhi dal computer e non smise di battere alla sua tastiera…fino a quando non gettò un occhio e si accorse di avere davanti alla scrivania Julian Turner, socio dello studio.

“Buongiorno, signorina Summers.”

“Signor Turner…oddio, mi scusi, non l’avevo proprio vista, ma sono così indietro…”

“Non si scusi, ho saputo di quanto è successo. Ma non è per questo che sono qui. Le vorrei affidare un caso molto importante, e sono sicuro che lei è la persona giusta.”

“E cosa glielo fa credere? Sono solo una praticante...”

“Lei viene da Sunnydale, esatto?”

“Sì…”

“Quindi immagino sappia qual è la grande attrattiva di Sunnydale.”

“Credo di aver compreso.”

“Il cliente in questione è un…beh, lo vedrà dal fascicolo. La aspetto nel mio ufficio appena terminato quello che sta facendo.”

Elizabeth lo aveva guardato con aria interrogativa mentre usciva dal suo ufficio, e cercando di muoversi finì di battere quel promemoria e andò filata dal suo superiore. Non riusciva a capire cosa c’entrasse Sunnydale con quel caso che avrebbe dovuto discutere. Forse un cliente era minacciato da un demone? Beh, lo avrebbe scoperto presto.

Bussò, le venne detto di accomodarsi, e Julian le chiese se voleva qualcosa da bere.

“Preferirei sapere di che si tratta, signor Turner.”

“D’accordo. Vede, signorina Summers, le voglio affidare questo caso perché il posto da cui viene brulica di…uhm, come possiamo chiamarli…non morti. E il nostro cliente principale, come di sicuro noterà dal suo fascicolo, è un non morto. Un vampiro. Vincent van Allen ha ricevuto un’accusa falsa e infamante, e desidero che sia lei a tirarlo fuori dal problema.”

“Vincent van Allen? U-Un momento…lo stesso van Allen a capo…?”

“Esattamente. La sua holding è importante, per non dire imponente, e necessita di uscire indenne da questa accusa. Per questo un avvocato che non si scompone all’idea di sentir parlare di demoni e che sappia tener nascosti questi dettagli è indicato per questo caso.”

Julian era incredibile. Parlava di demoni e del caso, un tentato omicidio, con la stessa naturalezza con cui avrebbe letto la lista della spesa. Una naturalezza inquietante, che a Elizabeth faceva venire in mente qualcuno…poi, nella sua testa esplosero delle immagini, sparate ad una velocità incredibile, ed Elizabeth ricordò a chi appartenevano quello stesso modo di comportarsi e quel sorriso. Richard Wilkins, il Sindaco di Sunnydale. A quel punto smise di ascoltare Julian, concentrandosi solo sul seguire un filo logico per quei ricordi che stavano affiorando tanto velocemente. Rivisse i momenti di cui Faith le aveva parlato, il momento in cui Angel venne avvelenato da Faith e di come lo aveva salvato, l’Ascensione, il Sindaco diventato demone, l’esplosione della scuola con il demone dentro, Angel che l’aveva abbandonata alla fine della battaglia.

“…e questo è tutto. Le è chiaro, Elizabeth?”

“Come? Sì, chiarissimo. Come il sole” rispose lei, afferrando il fascicolo e alzandosi per uscire.

“E si ricordi, questa pratica va trattata con discrezione. Se ha dei dubbi, si rivolga a me e a me soltanto.”

“Certamente. Con permesso” e uscì da quella stanza. Fece di corsa i passi fino al suo ufficio, e una volta dentro non riuscì a trattenersi dal saltare dalla gioia. Un caso importante, affidato a lei! Non vedeva l’ora di dirlo a Faith!

 

Faith odiava fare tra le due quella con il sale in zucca, ma ormai ci stava facendo l’abitudine.

“B, mi stai dicendo che ti hanno affidato un caso di quella portata solo perché vieni da Sunnydale e sai cos’è un demone?”

“Esatto. Non è incredibile? Se vinco, tappo la bocca a Avery e a tutti gli altri una volta per tutte…”

“E se perdi hai finito di lavorare lì e difficilmente troverai un lavoro altrettanto buono.”

“Faith, almeno per un microsecondo, puoi far finta di essere felice per me?”

“Lo sono, ma ti sto solo dicendo di stare attenta. Se cadi, stavolta ti puoi fare male sul serio.”

“Mi metterò polsiere e ginocchiere.”

Aveva studiato il fascicolo, fatto ricerche, e dedicato alla pratica delle attenzioni a dir poco maniacali. Il suo cliente, una persona rispettabile e dalla reputazione impeccabile, era stato accusato di tentato omicidio da parte di una segretaria. Non c’erano prove a supporto di quell’accusa, nessuno aveva visto, nessuno aveva sentito, e quanto trovato dalla polizia non era assolutamente rilevante. Semplicemente non c’era l’arma, e se non c’era l’arma come poteva esserci stato un tentativo di omicidio?

Era sull’onda di questa certezza che si presentò in tribunale due settimane più tardi. Non appena entrò in aula, si rese conto che a parte lei c’erano l’avvocato difensore e la sua cliente. Sembrava spaventata…beh, meglio così, si disse Elizabeth avvicinandosi al suo posto e posando la sua ventiquattr’ore. Ad un tratto avvertì un formicolio sulla nuca, segno che qualcuno la stava fissando intensamente, e quando si voltò vide che a fissarla era il suo cliente, Vincent van Allen.

Sostenne il suo sguardo fino a quando lui non venne vicino a lei, scortato da due uomini che non si curò di presentare.

“E così sarà lei a farmi uscire da questa impasse, avvocato Summers. Julian mi ha detto di avere fiducia in lei…”

E tanto era bastato a far venire i brividi a Elizabeth. Un’occhiata alla signorina seduta dall’altro lato, Mary Kildare, e constatò di non essere l’unica a tremare di fronte a lui, con la differenza che l’avvocato, Sean Connor, a lei aveva messo una mano sulla spalla per farle coraggio. Quella situazione venne interrotta dall’arrivo del giudice, piuttosto accigliato.

“Mi avete fatto venir via dalla festa di compleanno di mio nipote, spero per un buon motivo…ah, è lei, Connor, dovevo immaginarmelo.”

Già, il giudice aveva ragione di essere seccato. I casi di solito venivano discussi durante la mattina, e non dopo il tramonto. E se Connor aveva chiesto un’udienza a quell’ora doveva essere perché sapeva chi era van Allen in realtà.

“Avvocati, per favore avvicinatevi.”

Elizabeth e Sean obbedirono.

“Statemi a sentire, voi due. Voglio tornare a casa almeno per riuscire a mangiare una fetta di torta con Tommy prima che vada a letto, quindi muovetevi a discutere il vostro caso, e niente giri di parole, mi sono spiegato, Connor?”

“Non ce ne sarà bisogno, Vostro Onore. Le prove sono chiarissime.”

“Quali prove, avvocato Connor? Non mi pare ce ne siano. O non me le hanno fatte vedere?” disse Elizabeth, rivolgendosi a Sean con il suo tono più sarcastico.

“Lasciami indovinare. Primo giorno in aula?”

“Attento, potresti finir legnato da una novellina.”

“Finitela, voi due, e cominciate!”

Iniziò Sean Connor. Dopo averlo sentito parlare, Elizabeth iniziò a sentirsi meno sicura. Era bravo. Maledettamente bravo a mentire per non far saltare fuori la verità, ovvero che c’erano vampiri di mezzo. E come Faith le aveva detto ‘Ricorda che un avvocato è più credibile quando non crede a quello che dice.’ Il problema era che lei ci credeva, a quello che doveva dire…

Quando si alzò per iniziare il controinterrogatorio della signorina Kildare, si accorse che in fondo all’aula era comparsa una donna vestita di nero e con un paio di occhiali da sole, che tolse in quel momento rivelando un paio di occhi scuri e brillanti. Silenziosamente si era avvicinata a Connor mentre stava interrogando la teste, e gli aveva passato qualcosa.

Ora iniziava davvero a sentire un brutto presentimento.

E quando Connor si alzò per controinterrogare e menzionò un filmato in suo possesso che mostrava van Allen aggredire la signorina Kildare, Elizabeth si sentì le gambe di gelatina per un istante. Poi realizzò che il filmato doveva essere stato certamente rubato, e quindi come prova era inammissibile.

“Obiezione, Vostro Onore. Prove rubate, e quindi inammissibili!”

“Obiezione accolta. Avvocato Connor, mi meraviglio che…”

“Posso avvicinarmi al banco, Vostro Onore?”

A quel punto sia Sean che Elizabeth si avvicinarono per discutere.

“Vostro Onore, si tratta di una prova determinante…”

“Non cambia il fatto che sia rubata, Connor. E dai a me, della novellina?”

“Gallo contro Fuentes, Vostro Onore” disse Connor prendendo una sentenza dal suo tavolo e porgendola al giudice “in quel caso sono state presentate prove rubate, e accettate. È un precedente, Vostro Onore.”

“Vostro Onore, ma…”

“Ha ragione, avvocato Connor…la sentenza è regolare. Avvocato Summers, mi vedo costretto a respingere la sua obiezione. Continui, avvocato Connor.”

Mentre tornava al suo posto, aveva la netta impressione di sentire il boia affilare la mannaia. E quando venne fatto vedere il filmato, e l’accusa venne provata, la sentì calare sulla sua testa.

La donna vestita di scuro nel sentire il verdetto sorrise soddisfatta, e una volta uscito il giudice si era alzata per salutare Mary e congratularsi con Sean. Poi aveva gettato uno sguardo sprezzante a Van Allen. Era difficile dire quale dei due esprimesse più odio. Prima di uscire, aveva guardato anche Elizabeth. C’era una strana luce nei suoi occhi…

Elizabeth ci stava ancora pensando, mentre sentiva il boia affilare la mannaia per la seconda volta in quel giorno: il suo carnefice stavolta era Julian, che le rammentò come avesse messo in cattiva luce lo studio. Ma quello sarebbe stato il meno. Il peggio arrivò quando Julian le fece sapere che lo aveva deluso perché si aspettava che giocasse sporco, proprio come aveva fatto Connor.

“Le avevo spiegato che era importante. Doveva far di tutto per vincere. I nostri associati a Wolfram & Hart non saranno per niente contenti.”

“La prego, signor Turner…”

“Di sicuro vorranno la sua testa, e non posso fare a meno di dargliela. Lei è licenziata, Summers.”

“L-Licenziata?”

“Le darò tempo qualche giorno per sgomberare il suo ufficio…”

“Non ne avrò bisogno. Me ne vado ora.”

“Mi dispiace. Sarebbe potuta essere un elemento brillante, nel nostro studio.”

“Beh, signor Turner, se sono davvero così brillante forse sentirà ancora parlare di me.”

Questo più che a lui, Elizabeth lo diceva a sé stessa. Per autoconvincersi di non essere del tutto una fallita, ma che altro poteva sembrare davanti alla sesta vodka (a stomaco vuoto) in un bar a un paio di isolati dallo studio, con la scatola di cartone con le sue cose dell’ufficio ai suoi piedi?

“Un’altra.”

“Signorina, non vuole che le chiami un taxi?”

“Quello che voglio è un’altra vodka.”

“Francamente mi sembri un po’ ubriaca fradicia, Summers.”

A quel punto si era voltata verso l’altra persona che aveva parlato, una sagoma scura sulla porta che si stava avvicinando.

“Non sono ubriaca, sono solo imbecille…”

“Sono d’accordo sulla seconda, ma se t’infilo uno stoppino in bocca brucerebbe per un mese. Pago io il conto della signora” disse poi rivolgendosi al barista.

Ora Elizabeth riusciva a distinguerlo perfettamente. Era Sean Connor.

“Vattene al Diavolo, Sean Connor…sei tu che mi hai fatto licenziare, lo sai?”

“Niente di personale, Summers, davvero.”

“Lasciami in pace!”

“Spiacente, no.”

Detto questo la prese sotto braccio, e in seguito in braccio, per portarla fino alla sua macchina. Nella sua borsa trovò i suoi documenti e il suo indirizzo, e decise di portarla subito a casa sua.

 

Faith andò ad aprire alla porta, ed evitò per un soffio l’ennesimo colpo di piede di Sean contro la porta.

“Scusa, braccia occupate” disse entrando, con Buffy tra le braccia.

“Oh mio Dio, che le è successo?”

“Sei bicchieri di vodka di fila, dopo la notizia del licenziamento.”

“Vieni, camera sua è di qua.”

Sean la depose sul letto, e uscì dalla stanza. Faith chiuse la porta, e lo raggiunse in salotto.

“Grazie di avermela riportata…”

“Mi dispiace per tua sorella, senza volerlo le ho causato un bel problema…”

“Non è mia sorella. Siamo solo amiche. Che problema?”

“Te lo dirà lei domani…sempre che sia in grado di alzarsi.”

“Tranquillo, conosco un rimedio infallibile per il dopo sbornia. Non cambiare discorso, però. Che problema?”

“Non foglio finire menato, almeno per stasera. Ci penserà il mio principale.”

“D’accordo. Almeno dimmi chi sei.”

“Sean. Il mio nome è Sean.”

“Allora buonanotte, Sean.”

“Buonanotte anche a te…ehm…”

“Faith. Io sono Faith.”

“Buonanotte anche a te, Faith.”

 

Julian era ancora in ufficio, che fissava il muro. In realtà continuava a pensare e ripensare a quella frase che Elizabeth Summers aveva detto.

‘Se sono davvero così brillante forse sentirà ancora parlare di me’.

Diavolo, era quello che più temeva. E se Shameen metteva le sue mani su di lei, erano veramente finiti.

In quel momento squillò il telefono. C’era una sola persona che poteva chiamare.

“Mi dispiace, Vincent, per questo disguido.”

“Non ti preoccupare, Julian, non c’è niente che non sia riuscito a risolvere, lo sai. E si dà il caso che il giudice tenga molto al suo nipotino, e pur di non fargli succedere niente ha deciso di insabbiare il caso. Credo che abbia appena comunicato a Connor che un perito del tribunale ha esaminato il nastro reputandolo falso…”

“Sei un demonio, vecchio mio. Che ne farai di quella ragazza?”

“Verrà uccisa ovviamente, e non c’è posto dove Shameen potrà nasconderla da me stavolta, o persona che il suo fido avvocato potrà convincere della mia colpevolezza.”

“E riguardo Elizabeth?”

“Quella ragazza mi piace, Julian. Voglio che lavori per me.”

“I nostri soci di Wolfram & Hart hanno voluto la sua testa per quanto è successo.”

“Un gesto inutile e stupido. Voglio tenerla d’occhio da vicino, Julian, voglio sapere tutto di lei. Ho il vago sospetto che sia più di quanto crediamo, o di quanto creda lei stessa, e non sarei felice se fossero Connor e Shameen a fruttare le sue abilità.”

“Sarei proprio curioso di sapere cos’hai in mente per lei.”

“Lo saprai presto. Nel frattempo tienila lontana dalla Lega di Weimar.”

“Dopo come è andata, dubito seriamente che qualsiasi cosa Connor possa dire o fare Elizabeth lo starebbe a sentire.”

 

Parole sante. Sean Connor era l’ultima persona con cui Elizabeth avrebbe voluto avere a che fare.

Il giorno dopo un paio di mugolii provenienti dalla sua stanza fecero capire a Faith che la sua amica era sveglia e stava scontando la sbornia. Non riuscì a trattenersi.

“Oh, la bella addormentata ha riaperto gli occhi. Abbiamo mal di testa oggi?”

“Solamente un complesso di metallo pesante in testa ogni volta che parli…”

“Chi è causa del suo mal pianga sé stesso. E poi perché? Se non era per quel ragazzo che ti ha riportato a casa, saresti ancora lì.”

“Che ragazzo?”

Quando Faith le disse che era stato Connor a riportarla a casa, a momenti le prendeva un colpo.

“Chi? Sean Connor mi ha riportato a casa?”

“Con la sbronza che ti sei presa è stato davvero un atto di carità. Bevi e zitta” disse dandole un bicchiere pieno di qualcosa di cui, Buffy lo sapeva, non avrebbe mai voluto sapere l’esatta composizione.

“Ha mai ucciso nessuno questa roba?”

“Nessuno che non se lo meritasse.”

“Grazie” e lo buttò giù senza fiatare, salvo fare una faccia schifata dopo.

“Cielo, fa schifo!”

“Più schifo di quanto ti farebbe rivedere Sean? No, perché ha detto che passava per vedere come stavi.”

Buffy buttò giù in sequenza due bicchieri d’acqua e tre caramelle, per scacciare il sapore di quel rimedio anti sbronza fatto da Faith, e la guardò con l’espressione più calma che poteva.

“Faith? Ti ricordi che ieri sera ti ho lasciato un messaggio sulla segreteria dicendoti che avevo avuto una giornata del cavolo per colpa di un infame disgraziato e volevo stare da sola?”

“Sì.”

“Bene. La giornata del cavolo intendeva il fatto che avevo perso in aula, il mio superiore era furioso, e che mi ha licenziato. Ora, tutto si può ricondurre ad un’unica persona, perché c’è un unico responsabile per il mio licenziamento, e la sbronza. L’avvocato mio avversario. Indovina come si chiama?”

“Oh mio Dio, Sean Connor! L’infame disgraziato!”

“Lui in persona. Quindi spero capirai perché se lo rivedrò potrò fare qualche gesto di cui assolutamente non mi pentirò dopo.”

“L’unico gesto che farai dopo esserti ripresa sarà alzare la cornetta e chiamare Lagerback. Buff, hai bisogno di una mano, e considerato che quelli di Blair & Woodsboro faranno di tutto affinché tu non trovi lavoro in un altro studio legale...”

Ed era vero. La voce si era sparsa, e dopo una settimana alla ricerca di un lavoro disperava di trovarne uno anche come segretaria in uno studio legale di quella città. Faith aveva mollato il tirocinio, e almeno lei era stata fortunata da trovare lavoro nello studio di una psicologa come assistente. Continuava a insistere che chiamasse Lagerback e si decidesse ad ingoiare il suo maledetto orgoglio, e alla fine aveva ceduto.

Lagerback si comportò esattamente come lei aveva immaginato, e infatti le offrì il suo aiuto quando Elizabeth gli disse che se nessuno voleva assumerla allora avrebbe aperto il suo studio legale.

“Non se ne parla.”

“Almeno per i primi tempi. Ti servirà un locale abbastanza in centro, qualcuno che ti aiuti, contatti, e devi farti una clientela. Metti da parte l’orgoglio e lascia che ti dia una mano.”

“Hai già fatto troppo per me, Professore.”

“Mia figlia è morta prima di realizzare il suo sogno di diventare una stilista affermata, ma so che sarebbe d’accordo con me nel volere che almeno tu realizzi il tuo sogno.”

“Ti renderò tutto, lo prometto.”

“So che lo farai, ma anche se non ci dovessi riuscire, Lizzie, andrà bene lo stesso. Pensa al tuo futuro ora…e anche a come far rimangiare a quelli dello studio l’umiliazione che ti hanno fatto passare” aggiunse con un sorriso. A quel punto Elizabeth capì che qualcuno aveva telefonato al professore, ma si ripromise di abbracciare Faith per averlo fatto appena ritornata a casa.

 

Ogni volta che entrava nel suo ufficio le prendeva un attacco di riso. Era proprio minuscolo, a stento ci stava la sua scrivania e quella di Faith, che ogni tanto veniva a darle una mano perché ancora non poteva permettersi di pagare una segretaria e non voleva chiedere altri soldi a Lagerback. Ma era suo. Non c’era nessuno da accontentare cercando prove false o minacciando clienti per farli ritrattare. In quel minuscolo ufficio c’era solo un’ideologia da rispettare. La sua.

E Lagerback lo sapeva. Per questo le inviava quotidianamente persone a lui segnalate dal suo parroco, quasi tutte senzatetto, con problemi con l’assistenza sociale, e bistrattate dal sistema.

Alcuni insistevano per darle qualcosa. Niente di speciale…onorari di tre – quattro dollari, a volte una piantina un po’ sofferente, e cose del genere. Elizabeth all’inizio rifiutava, le sembrava che non fosse il caso, ma poi aveva capito che facendo così offendeva la loro dignità, una cosa che nessuno aveva ancora rubato loro, e aveva smesso.

E quando le sue vittorie smisero di passare in sordina, iniziò tra gli avvocati a spargersi la voce che in una via dove iniziava la periferia e finiva il centro c’era un piccolo studio legale che faceva la fame ma che vantava un’avvocatessa con i fiocchi, che difendeva con le unghie e con i denti chiunque le venisse a chiedere aiuto.

Van Allen non poté fare a meno di sentirsi compiaciuto.

“Te lo aveva detto, Julian, che avresti ancora sentito parlare di lei.”

“Un avvocato di strada…può diventare pericolosa. Chi vive senza una casa lo sa che succede di notte…sa dei vampiri.”

“Rimane la loro parola contro la mia, sempre che riescano a collegarmi a me e ai miei uomini.”

“Elizabeth può farlo. Grazie a noi due possiamo dire che ha perso molto…e credo che non aspetti altro che vendicarsi.”

“Connor l’ha più contattata?”

“Lei l'ha sempre mandato al diavolo, proprio come speravamo.”

“La terrà d’occhio, proprio come facciamo noi. Ma se quella maledetta…”

“Shameen, dici? Dubito seriamente che metterebbe in pericolo la sua incolumità per una ragazzina mortale.”

“Spero per te che sia così. Ma se ci prova, bloccatela, con ogni mezzo.”

“E di Elizabeth?”

“La voglio per me. E in quel caso, per noi non sarà neanche più una minaccia.”

 

“Faith, sono tornata!” esclamò Elizabeth di ritorno una sera dallo studio legale.

In casa però le luci erano tutte spente, e quando le accese di accorse di una figura nera piuttosto familiare accanto ad una finestra.

“Ti aspettavo, Elizabeth Anne Summers.”

“Tu sei la donna che ha aiutato Sean a farmi licenziare.”

“L’avresti fatto tu. Quello studio non faceva per te.”

“Che vuoi da me?”

“Darti una mano” disse voltandosi verso Elizabeth “farmi dare una mano.”

“Non lo so se mi va di starti a sentire.”

“Tu vuoi vendicarti di Turner e van Allen. Io posso offrirti i mezzi. In cambio desidero che tu lavori per me.”

“Hai già Connor, va da lui.”

“È Sean che mi ha fatto venire qui. A me non piace perdere tempo, Elizabeth, pertanto ora mi ascolterai. Sei di Sunnydale, giusto?”

“Sì.”

“E ti chiamavano Buffy.”

“Così dicono.”

“Allen non si è mai interessato alle Cacciatrici, si è sempre ritenuto intoccabile da voi. Non penso neanche che sappia chi tu sia in realtà.”

“Se è per quello, non lo so neanch’io. Non ho neanche un ricordo di questa vita, solo quanto Faith mi ha detto e quegli stracci di ricordi che ho. Francamente non basta.”

“E francamente al momento non m’interessa. M’interessa di più che tu sappia dei demoni.”

“Come te? Insomma, sei una vampira, giusto?”

“Complimenti per averlo capito. Di solito la gente ci mette molto di più, ma una cacciatrice lo rimane per tutta la vita.”

“Se è un complimento, grazie.”

“Sai niente della Lega di Weimar?”

“No. Cos’è?”

“La vedrai con i tuoi occhi.”

Spiegata in due parole mentre andavano verso una parte abbandonata della città, la Lega di Weimar era nata come una sorta di associazione di demoni esclusi per un motivo o per un altro dai loro clan, ma quasi sempre perché erano troppo umani per i loro compagni. Eleggevano un loro capo, e fondamentalmente si facevano i fatti propri, ma da quando era salita al potere Shameen El Mezrab, un’anziana del gruppo che era stata maledetta con un’anima, la Lega era come scomparsa dalla faccia della terra, diventando una specie di società segreta che metteva i bastoni nelle ruote ogni volta che poteva ai demoni con desideri di onnipotenza e che volevano tanto per cambiare distruggere il mondo. Inoltre, Shameen si occupava anche di persone prese di mira da demoni pericolosi. Lei li chiamava ‘desaparecidos’.

“Desaparecidos?”

“Durante il regime militare in Argentina sparivano nel nulla un sacco di persone, e di loro poi non si sapeva più niente. È quello che faccio io con queste persone. Come il programma di protezione dei testimoni…solo che praticamente a differenza di loro non vanto nessun morto e nessuna talpa.”

“Non ho ancora capito che ti servo a fare.”

“Molti di questi desaparecidos non riescono a stare con le mani in mano, e di solito sono professionisti: avvocati, poliziotti, investigatori e via dicendo. Non gli sta in tasca di perdere la loro vita, così cercano di incastrare i loro aguzzini. Talvolta aiutano anche altri a scoprire il perché sono qui e non nelle loro case. Poi servono avvocati per discutere il caso, ed è in quel ramo che sono carente. Sean si sobbarca venti ore di lavoro al giorno, e qualche avvocato mortale riabilitato dalla Lega gli dà una mano, ma quando è troppo è troppo.”

“E a me il lavoro si può dire che manchi.”

“Cos’è, sei interessata?”

Elizabeth si era fermata dietro Shameen, alle porte di un vecchio palazzo “Può darsi. Forse, come dici, una cacciatrice non va mai in pensione…mi pare stimolante come lavoro.”

“Ma è stressante. Fidati.”

“Credo lo sia stato anche essere la cacciatrice.”

Era incredibile quanta gente ci fosse là dentro nascosta. E ancora più incredibile era vedere che demoni e mortali erano mischiati assieme. Shameen le aveva detto di fare un giro da sola, e così aveva conosciuto molte persone finite nei guai solo perché si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato. Dopo un po’, si rese conto che il comune denominatore a quasi tutti i presenti era Vincent Van Allen. Era una sorta di ombra oscura sulla città, che tutto soffocava e tutto controllava. Shameen lo detestava, si capiva all’istante, e desiderava fermarlo a tutti i costi. E Elizabeth si rese conto che lo desiderava anche lei.

 

In mezzo a tutte quelle creature umane e demoniache, ce n’era una di cui Shameen si occupava quasi sempre di persona. Da quello che Elizabeth aveva capito era una vampira, impazzita a causa del suo sire, la cui condizione si era andata aggravando.

“Accetta solo me e altre due persone.”

“Come si chiama?”

“E chi lo sa? Non ce l’ha voluto dire. Noi la chiamiamo Edith, come la sua bambola.”

“Posso vederla?”

“Puoi provarci, ma francamente non penso sia una buona idea. E visto che non so cosa le è successo non so neanche cosa potrebbe sconvolgerla di nuovo…”

“Capisco.”

Improvvisamente sentirono delle voci che provenivano da dietro una porta. Qualcuno che stava cercando di calmare una donna che stava piangendo.

Shameen era corsa dentro, lasciando Elizabeth da sola, ma sembrava che neanche lei fosse in grado di fare niente. Una figuretta nera uscì dalla porta di corsa, ed Elizabeth cercò di fermarla, cadendo a terra insieme a lei.

“Ehi, calma. Va tutto bene…”

La ragazza la guardò in faccia con gli occhi pieni di lacrime e le prese una stretta allo stomaco. Lei la conosceva.

“…Drusilla.”

Shameen era arrivata di corsa, ed era rimasta sorpresa nel vedere il giovane avvocato aiutare la demone ad alzarsi, e tranquillizzarla.

“Edith, perché hai reagito così? Cosa succede?”

“I-Io…”

“Sì?”

“Io sono…” e guardò Elizabeth come a cercare aiuto. Elizabeth le sorrise e continuò per lei.

“Shameen, la nostra amica si chiama Drusilla. Io devo averla conosciuta, mi ricordo di lei e del suo nome. Non riesco a capire cosa faccia qui da sola, aveva qualcuno che si occupava di lei…”

“Qualcuno che deve averla lasciata. Vagava per le strade ed era sconvolta quando l’abbiamo trovata.”

“Mai pensato di avvalerti…come dire, di qualcuno di esterno, tipo uno psicologo?”

“Col rischio che gli salti alla gola? Meglio di no. Dru non ha anima, e rimane potenzialmente pericolosa…anche se in pratica non farebbe male ad una mosca.”

“Io ho la persona adatta.”

“Chi? Sono proprio curiosa.”

“Faith. Mia coinquilina, collega cacciatrice, e psicologa.”

“Che garanzie mi dai?”

“È una Cacciatrice come me, e se aveva problemi ora li ha risolti diventando un diavolo di dottoressa. Siamo diventate come sorelle, e ti garantisco che se c’è qualcuno che può rimettere in piedi Drusilla, quel qualcuno è lei.”

“Falla venire, ma se Faith fa qualcosa, io…”

“Tranquilla. Vedrai, sarà la delicatezza fatta persona.”

 

Apparve subito chiaro che Faith con Drusilla avrebbe fatto tutto tranne andarci piano come avevano fatto Shameen e le altre.

“Che pensi?” le chiese Elizabeth una volta a casa, allungandole una tazza di caffè.

“Che qualcuno mi dicesse che le è successo. Se Drusilla continueranno a trattarla così, hai voglia a vederla di nuovo in piedi. Non che questo sia un male, forse.”

“Abbandono?”

“No, il suo ragazzo lo aveva piantato proprio lei, questo lo so. Non ero distante quando è tornato a Sunnydale ubriaco fradicio per questo, e neanche tu.”

“Dev’essere successo dopo che ha lasciato la California, allora. Da sola, non è mai vissuta.”

“Perché io temo di sapere chi c’è dietro?”

“Dai, per quale motivo Van Allen avrebbe dovuto farle questo? Insomma, che può volere da Drusilla?”

“Per le sue visioni. Drusilla vede il futuro, ma lo fa meglio se in stato confusionale.”

“L’ha fatta impazzire lui? Arrivando a questo stato?”

“Sindrome post-traumatica da stress. Sommata a quella procurata dal suo sire. Ho studiato un paio di casi, ma non li ho mai applicati…ai demoni…io non so se sono in grado di tirarla fuori. Di scuoterla sì, però.”

“E allora fallo.”

“B, una domanda. Perché ti sei presa tanto a cuore la sorte di quella vampira?”

“Faith, io non sono diversa da lei.”

“Sei anche tu una vampira folle?”

“Sono stata anch’io sola, in un mondo che non capivo, con solo facce estranee intorno…spaventata a morte…”

Elizabeth s’interruppe. Stava parlando troppo.

“Fammi un fischio se ti serve una mano” e se ne andò.

Elizabeth aveva visto giusto. Faith era riuscita a fare una breccia nella corazza di Drusilla, e a instaurare una specie di rapporto. Quando era stata abbastanza forte, Shameen aveva domandato alla psicologa se secondo lei ora era in grado di fare del male consapevolmente.

“Shameen, è una vampira, e ha Angelus come sire…”

“Ok, non dire altro. Credo ci sia bisogno di un’anima.”

“Credo che più che altro ci serva un incantesimo e un traduttore per il rumeno antico.”

“Chiama Elizabeth. Chissà che tra io e lei non salti fuori qualcosa.”

“E io vi farò trovare un globo di Thesulah per la sera prossima, e avviserò Sean di non disturbarvi se non vuole finire male.”

“Perfetto.”

Shameen oltre che una donna di potere era anche una donna di profonda cultura. In quasi ottocento anni di vita aveva maturato una grande conoscenza delle culture mondiali, e parlava moltissime lingue in uso e anche dimenticate, come l’occitanico, il latino, e con grande fortuna anche il rumeno antico. Finalmente il rituale dei Morti Viventi aveva di nuovo una traduzione degna di questo nome. Mentre Shameen lo eseguiva, a Buffy non poté non tornare in mente il momento in cui Angel recuperò la sua. Non ricordava però come l’aveva persa, o perché. Ricordava solo di averlo baciato, e di averlo ucciso…ma questo veniva prima o dopo l’Ascensione? Angel era vivo o morto? Buffy si sorprese a essere preoccupata di questo. Perché poi? Quando aveva ricordato che era il suo ex, si era detta di non andare mai a cercarlo. Se era morto, il problema non si poneva. E se era vivo…anche. Lei aveva la vita, lui la sua. Punto. Ora c’era Drusilla che avrebbe avuto bisogno di loro, e soprattutto di Faith. Quest’ultima era diventata la psicologa ufficiale della Lega, e aveva un giro di pazienti che mai si sarebbe sognata: desaparecidos spaventati, demoni depressi, Drusilla, e alle volte anche Elizabeth, Sean e Shameen. E dato che pagavano, si era aperta uno studio tutto suo in centro dove ricevere anche altri clienti. Accanto a lei c’era un ufficio vuoto molto grande, che nessuno voleva perché dicevano ci avessero ucciso l’avvocato che ci lavorava. Lo disse ad Elizabeth, che lo riferì a Sean e Shameen. Tempo ventiquattrore ed Elizabeth lasciava il suo minuscolo studio alle porte della periferia per uno immenso in pieno centro che avrebbe diviso con il suo nuovo socio Sean, un paio di ex desaparecidos avvocati…e anche lo spettro dell’avvocato dello studio, che sembrava averli presi in simpatia e ogni tanto se ne usciva con qualche idea niente male per le cause in tribunale. Fu lui a far notare agli avvocati che avevano un gran bisogno di informatori, ed Elizabeth ne parlò a Sean una sera che lui la riaccompagnò a casa.

“Sean…qua ci serve aiuto. Abbiamo gente che tiene d’occhio per noi la situazione quasi dappertutto, ma nel sud-ovest siamo carenti.”

“Hai qualche nome in mente?”

“Eddie, il nostro informatore appena uscito di galera, mi ha fatto il nome di un’agenzia investigativa che può fare al caso nostro. Angel investigations.”

“E perché?”

“Perché da quanto mi ha detto, il fondatore era un vampiro, quindi tutti quelli che ci lavorano sanno dei demoni e della Bocca dell’Inferno. Meglio di così si muore.”

“E allora telefona. Al massimo ci diranno di no.”

E così, appena arrivata in casa, aveva preso in mano la cornetta e il numero di telefono, e aveva chiamato.

“Angel investigations, sono Cordelia.”

“Salve. Sono Elizabeth Summers, chiamo da Boston.”

“In che posso aiutarla?”

“Lei si occupa di demoni e di investigare su casi misteriosi, vero?”

“Esatto.”

“Non voglio parlarne per telefono. Può venire nel mio studio appena ha tempo?”

“A Boston?”

“Mi dispiace farle fare questo viaggio, ma la faccenda è importante e io sono impegnata fino a capodanno 2010…”

“Ho due colleghi che possono venire. Quando?”

“Quando vogliono. Io sono sempre qui, o in tribunale, e comunque tempo per loro lo troverei sempre.”

“Tribunale? Lei è un avvocato?”

“Sì.”

“Per chi lavora?”

“Ho un mio studio legale. Summers & Connor.”

“Conosce nessuno che si chiami Lilah Morgan o Lindsey McDonald?”

“Non ho mai avuto il piacere.”

“Conosce uno studio chiamato Wolfram & Hart, o ha mai lavorato per qualcuno che li conosceva?”

“Non mi pare…un momento, sì che li ho sentiti!”

“E…?”

“Hanno cercato di usarmi come capro espiatorio. Ora gli rendo pan per focaccia.”

“Brava. Arriveranno presto.”

“Grazie della disponibilità, Cordelia.”

“Figurati, Elizabeth. Credo che noi due andremo d’accordo.”

E la profezia di Cordelia si rivelò esatta. Quella voce al telefono a cui non poteva attribuire un volto, tranne che per la descrizione sommaria di quanto Gunn e Fred avevano visto, diventò la sua collega, la sua amica, e gran confidente.

 

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Gennaio arrivò senza che nessuno se ne accorgesse, e con lui anche il 26esimo compleanno di Elizabeth. Il giorno della festa coincise con una vittoria di Elizabeth contro Julian, quindi tutti si sentirono euforici il doppio. Avevano deciso di festeggiare allo studio insieme ai due avvocati e a Steven lo spettro, ed era venuta anche Shameen con Drusilla. Era raro che dopo la maledizione uscisse, passava sempre il suo tempo da sola nella sua stanza. Ma c’era una persona che Buffy attendeva con molta impazienza, e quella persona era Andrew.

Era felice della sua vittoria, e moriva dalla voglia di condividerla con l’uomo che reputava un secondo padre, ma era in ritardo e Buffy non riusciva a fare a meno di avere un brutto presentimento.

Sean, quando le portò un bicchiere di vino accanto alla porta finestra, la sorprese a controllare la segreteria del cellulare per la ventesima volta da quando era arrivata.

“Qualcosa non va?”

“No…è solo che…”

“Cosa?”

“Hai presente quando sai che c’è qualcosa che deve succedere ma non sai quando?”

“Fin troppo bene.”

“Allora sai come mi sento.”

“Due volte su tre si tratta di un falso allarme, lo sai?”

“Sì, lo so.”

“E allora butta giù un altro po’ di questo vinello bianco e piantala di deprimerti. Stai illanguidendo le piante verdi che stanno accanto a te.”

Elizabeth aveva fatto un sorriso alla battuta di Sean e aveva accettato il bicchiere che le porgeva.

“E io che pensavo fosse il riscaldamento.”

“Anche, ma tu stavi dando il colpo di grazia.”

“Ti odio.”

“Io di più.”

“La finite di comportarvi come due ragazzini all’asilo?” s’intromise Shameen avvicinandosi.

“Siamo due ragazzini all’asilo, non te n’eri mai accorta?”

“Qualche dubbio me l’avevate fatto venire…beh, fate riemergere gli avvocati, sono loro che hanno da festeggiare stasera. E a proposito, che fine ha fatto il tuo professore? Volevo conoscerlo.”

Elizabeth riguardò il cellulare “Speravo mi chiamasse. Sono preoccupata…”

“È lui il tuo brutto presentimento?”

“Esattamente. Guardate, non ce la faccio proprio a stare qui, sono troppo nervosa. Vado da lui, e poi faccio un salto a casa.”

“D’accordo. Salutalo anche da parte nostra.”

“Lo farò. Ciao ragazzi, ci vediamo domani.”

Detto questo s’infilò il cappotto e uscì dallo studio. Appena scesa in strada, aveva attraversato per raggiungere la stazione della metropolitana, e per poco non era stata investita da un’ambulanza.

Aveva guardato nella direzione in cui era diretta, e non sapeva perché ma si era messa a correre. Corse fino a quando non la vide fermarsi accanto a due atre persone accanto ad un uomo a terra privo di conoscenza. Andrew Lagerback.

Sconvolta, corse accanto a lui e chiese cos’era successo.

“I passanti dicono che ha avuto un infarto. Lei chi è?”

“Sono sua figlia” disse prontamente. Se avesse detto di essere la sua assistente non le avrebbero mai permesso di salire in ambulanza con lui, o di rimanere tutta la notte accanto al suo letto.

Erano anni che non piangeva. Le ultime volte erano state quando aveva ricordato la morte di sua sorella minore, e quando aveva scoperto la verità su Faith. Da allora era sempre riuscita a controllarle, ingoiandole a forza se necessario, ma vedere così l’uomo a cui in pratica doveva la sua vita dopo il coma era straziante. Ringraziando il cielo la mattina dopo si svegliò, ma era chiaro a tutti e due che il tempo a disposizione era veramente arrivato alla fine.

“Lizzie, voglio che tu faccia una cosa.”

“Qualunque cosa, Andrew.”

“Vai a casa mia, e portami due cose che stanno nella mia scrivania. Il mio portatile e una scatola nera del primo cassetto.”

“Non se ne parla. Non devi pensare al lavoro in questo momento!”

“Elizabeth, fa come ti ho detto. Devo sistemare delle cose…cose importanti, prima che sia troppo tardi. Ti prego, portami quello che ti ho chiesto.”

Ed Elizabeth non riuscì a dirgli di no, anche se continuava a disapprovare che volesse terminare un lavoro a tutti i costi. Sarebbe potuto costargli caro, ma sembrava non importargli minimamente.

Non gli aveva mai chiesto cosa riguardasse…ignorava che ben presto la cosa l’avrebbe riguardata, e più da vicino di quanto non pensasse.

 

Quando aveva capito che era arrivato veramente il suo momento, Lagerback mandò di corsa a chiamare Elizabeth, e le consegnò tutta la documentazione che aveva sistemato durante il ricovero.

“Voglio che tu la legga attentamente, Lizzie, dalla prima all’ultima parola.”

“Cos’è?”

“Leggi e lo saprai, piccola. Ti aspetto.”

E Elizabeth non le so fece ripetere. Corse a casa e quasi travolgendo Faith si precipitò al computer per vedere i CD – ROM che Lagerback aveva preparato. Erano informazioni. Una marea di informazioni sugli Stati Uniti, Messico, stati dell’america Centrale, e dell’america Meridionale, che comprendevano elenchi di persone divise per stato, con elencati i loro incarichi, e i demoni della zona. Relazioni precise e concise su tutti gli avvenimenti paranormali e su scontri di demoni da prima che lei avesse l’incidente. Faith, che le si era avvicinata, aveva la sua stessa espressione stupita.

“Osservatore.”

“Cosa?”

“Solo un membro del consiglio degli Osservatori possono avere scritto questa roba. Non ci credo che Lagerback è uno di loro.”

“Guarda, non è finita. Ci sono dei file…file su di noi, e su due che si chiamano Kendra M’Balagi e Adela Castillo” disse indicando quattro cartelle di file.

Aprì quella che portava il suo nome, e rimase un’altra volta a bocca aperta. Lì dentro c’era lei, ma non lei come persona. Lei come Cacciatrice. E la stessa cosa valeva per Faith. Insieme poi guardarono la cartella di Kendra, la Cacciatrice che era venuta prima di Faith, ma quando fecero per aprire quella di Adela, la trovarono vuota.

“Forse Adela è la probabile candidata a sostituirci” disse Faith.

“Forse…ma credo che Lagerback me lo dovrà dire.”

 

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I entered the room

Sat by your bed all through the night

I watched your daily fight

I hardly knew

The pain was almost more than I could bear

And still I hear

Your last words to me.

 

Correndo come delle pazze e sfidando il traffico riuscirono ad arrivare in ospedale in un tempo relativamente breve. Mentre Faith cercava un parcheggio, Elizabeth corse su fino al reparto di cardiologia con un tremendo presentimento nel cuore. E quando arrivò nella stanza di Andrew, la trovò affollata da medici e infermieri. Uno sguardo all’elettrocardiogramma, e vide che era piatto. Il medico stringeva ancora le piastre in mano, e guardava sconsolato la linea piatta.

“Ora del decesso…dieci e ventitré.”

Elizabeth rimase sulla soglia fino a quando la stanza non si svuotò. E poi iniziò a tremare.

 

Heaven is a place nearby

So I won't be so far away.

And if you try and look for me

Maybe you'll find me someday.

Heaven is a place nearby

So there's no need to say goodbye

I wanna ask you not to cry

I'll always be by your side.

 

Qualche minuto dopo, un’infermiera le si accostò dicendole che il medico di suo “padre” voleva darle qualcosa per farla calmare, e una lettera che Andrew le aveva scritto appena prima della crisi.

Appena uscita dallo studio del dottore, Elizabeth cercò la porta delle scale di emergenza e si sedette sui primi scalini, con in mano la lettera che voleva leggere.

 

Mia carissima Lizzie,

te ne sei appena andata e ho paura che non farai in tempo a parlarmi un’altra volta. Ho avuto già un paio di infarti e so riconoscerne l’inizio…ma veniamo alle cose importanti. Spero tu abbia già visto il materiale che ti ho detto di portare a casa, e che tu abbia capito di che si tratta. Forse Faith ti avrà detto che sono un Osservatore. Sì, lo ero, ma molte cose sono cambiate e vorrei tanto che tu facessi parte di quest’ondata di cambiamenti. Il lavoro non ti ha mai spaventato, l’ho visto in tutti questi anni, e hai una grande intelligenza e forza d’animo, oltre che un notevole coraggio. Pochi si sarebbero rialzati dopo quello scherzo che ti hanno fatto, ma tu ci sei riuscita egregiamente, piccola. Mi auguro che tu ora sia pronta a riprenderti il posto che ti spetta di diritto, perché molte persone sono ansiose di conoscere la famosa Buffy Summers e di vedere di cosa sia capace. Se accetterai, in fondo a questa lettera troverai un numero da chiamare e le due persone che dovrai contattare.

Grazie per aver ricordato ad un vecchio burbero cosa vuol dire avere una famiglia.

Andrew

 

 

Erano passate due settimane, ma Elizabeth continuava ad affondare nella sua depressione. Sembrava che niente la interessasse più. Al lavoro non si faceva più vedere, e a casa la sua presenza era sempre più simile a quella di un fantasma. Faith aveva cercato di parlarci, ma era un po’ difficile aiutare una persona che non voleva essere aiutata. Va bene, si disse dopo l’ultimo tentativo, a mali estremi, estremi rimedi.

E le sventolò sotto il naso un biglietto aereo.

“Sai cos’è questo, Buffy?”

“Un biglietto aereo.”

“Esatto. E con questo io ho intenzione di salire sul volo delle tredici e trenta della TWA per Miami, dove terranno un seminario di psicologia criminale che durerà quattro giorni e a cui io sono stata invitata, il che è già un miracolo di suo. Questo sottintende che ti mollo qui, dolcezza.”

“Ti prego, Faith non andare.”

“E invece andrò! Dannazione, Buffy, il mondo non si è fermato con la morte di Andrew. Dispiace anche a me che lui non ci sia più, ma non per questo ho intenzione di lasciarmi morire! E lasciatelo dire, non è quello che lui voleva per te, e lo sai.”

Sapeva di essere crudele, ma quelle lacrime negli occhi di Buffy non facevano altro che farla infuriare di più. Aveva preso la sua borsa da viaggio, e se n’era andata lasciandola in piedi in mezzo al soggiorno, pentendosi di averlo fatto dopo circa due passi fuori dal loro appartamento. Ma era certa di una cosa: che quel seminario fosse una benedizione per lei, perché le permetteva di migliorare e di essere più utile nel lavoro alle sue amiche, e per Buffy perché bene o male, al suo ritorno la situazione si sarebbe sbloccata. Buffy avrebbe dovuto reagire in un modo o nell’altro, e Faith sperava con tutto il cuore che tutto andasse per il meglio.

 

Elizabeth passò in stato vegetativo l’intera serata, e poi la mattina e buona parte del pomeriggio successivo. Quando finalmente si alzò dal letto perché aveva i crampi allo stomaco dalla fame, erano circa le quattro del pomeriggio. Aveva aperto il frigo e meccanicamente si era ingoiata la prima cosa che aveva trovato, un avanzo di pollo praticamente gelato. Poi era tornata nella sua stanza, si era messa tuta e scarpe da ginnastica ed era uscita correndo. Non aveva una meta, sapeva solo che voleva correre, sempre più veloce, fino a quando non avrebbe sentito il cuore esplodere e i suoi polmoni farle male.

 

You just faded away

You spread your wings you had flown

Away to something unknown

Wish I could bring you back.

You're always on my mind

About to tear myself apart.

You have your special place in my heart. Always.

 

Non si accorse neanche che la giornata nuvolosa aveva lasciato il posto ad una pioggia fitta, che le aveva inzuppato vestiti e capelli…continuò a correre fino a quando non le si piegarono le ginocchia e crollò con le mani avanti per evitare di sbattere il viso a terra, ferendosi ad un palmo. E finalmente si lasciò andare alle lacrime che si teneva dentro da quando Andrew era morto.

 

 

 

 

Heaven is a place nearby

So I won't be so far away.

And if you try and look for me

Maybe you'll find me someday.

Heaven is a place nearby

So there's no need to say goodbye

I wanna ask you not to cry

I'll always be by your side.

 

And even when I go to sleep

I still can hear your voice

And those words

I never will forget

(Lene Marlin – A place nearby)

 

Stava ancora piangendo inginocchiata a terra, quando si accorse di un paio di piedi fermi accanto a lei. Alzando lo sguardo, riconobbe Drusilla, che aveva messo l’ombrello in modo che riparasse anche lei.

“Che cosa stai facendo, Buffy?”

Non aveva risposto, ma aveva accettato la mano che Drusilla le porgeva per rialzarsi, e non aveva detto niente quando, ancora tenendole la mano, la riportò a casa per evitarle di prendere una polmonite.

Mentre Buffy si cambiava mettendosi abiti asciutti, Dru in cucina preparava una tazza di tè, e appena arrivò in salotto gliela porse.

“Va meglio?”

“Ti ringrazio di avermi riportato a casa.”

“Non ringraziarmi, avresti fatto la stessa cosa.”

“Il mio mondo è andato in frantumi.”

“So piuttosto bene cosa vuoi dire. Ma ce l’hai fatta a sollevarti, e ce l’ho fatta anch’io che se permetti è tutto dire.”

“Sono stanca, Dru.”

“Anch’io sono stanca di lottare, ma se ben mi ricordo sei tu che mi hai tirato fuori dal mio mondo e mi hai detto che la vita non era quella che credevo, e che non era facile. Quindi stanca o non stanca, sono ancora qui.”

“Se non mi azzardo a riprendermi, credo che tu, Sean, Faith e Shameen mi ammazzereste.”

“E faremmo bene. Non sopportiamo di vedere questa tua pallida imitazione, rivogliamo l’originale rompiballe e pignola a cui vogliamo bene.”

Elizabeth guardò di sottecchi Drusilla “Rompiballe e pignola?”

“E egocentrica, insopportabile, stacanovista, e potrei andare avanti fino a domani.”

Drusilla l’aveva fissata con un espressione…ed Elizabeth si era trovata a ridere insieme a lei.

“Drusilla, ora dove vivi?”

“Al convento di St. Agnes.”

“O Signore. Vivi in un convento? Non avrai intenzione di riprendere i voti!”

“La vita mondana mi piace troppo, anche se per riparare a tutto il male che ho fatto farmi suora sarebbe la soluzione migliore per salvarmi l’anima…No, ci abito perché ho bisogno di ritrovare un po’ quella che ero prima che tutto iniziasse.”

“Eri tutta casa e chiesa a sentire Sean.”

“A differenza del mio fratellino.”

“Fratello?”

“Sono sua sorella minore. In famiglia Sean era il maggiore, poi venivo io, e Annie. Non immaginavo che Darla, sai, il sire di Angel, avesse vampirizzato anche lui.”

E che mi dici di tuo fratello?”

“Che non so chi tra lui e il mio ex sia stato il più scapestrato da vivo.”

“Non parli molto di questo tuo ex. Sentiamo.”

“Beh, è stata, diciamo, anche la mia prima storia. William mi voleva molto bene, ma poi sono stata io ad andarmene.”

“Perché?”

“Ero pazza. Ho bisogno di altre giustificazioni? Quello che facevo di solito aveva logica, ma solo per me. E ora comincia ad essere tardi, devo tornare in convento.”

“Dru, sono appena…cavolo, le sei e un quarto!”

“O sto fuori tutta la notte o rispetto gli orari. C’è il vespro, non posso mancare.”

“D’accordo.”

“Perché non vieni anche tu? Male non ti farebbe.”

“Non credo di essere mai stata un tipo molto credente, comunque…va bene, vengo!”

Rimase accanto alla porta della chiesa tutto il tempo, osservando Drusilla inginocchiata vicino all’altare insieme alle altre sorelle, con in mano un rosario, recitare le preghiere.

“Recitane un paio anche per me, Dru. Ne avrò bisogno” disse uscendo silenziosamente dalla chiesa, prima della fine del rito. Era andata sulla tomba di Andrew, per riflettere su quello che doveva fare, e alla fine si diresse verso casa con un’espressione determinata in volto.

 

Era entrata in casa, buttando all’aria tutto nella sua ricerca di quella lettera e di quel numero di telefono, e alla fine, una volta in mano sua, afferrò il telefono e compose quel numero.

“Pronto?”

“Mi chiamo Elizabeth Summers.”

“Lieta di sentirla, miss Summers.”

L’uomo che rispose al telefono non si curò di presentarsi, ma le disse che stava disperando di non ricevere mai quella telefonata.

“Vorrei parlare con Lirem.”

“Mi dispiace, miss Summers, ma sua eccellenza non è qui al momento.”

“Allora…Daniel?”

“Comunicherò la sua richiesta. Si aspetti una telefonata entro le prossime ventiquattr’ore da parte mia. Le comunicherò luogo e data dell’incontro.”

“Bene. La ringrazio.”

“Sono io che ringrazio lei, miss Summers. A presto.”

 

Strana telefonata, pensò mentre metteva giù la cornetta.

Buffy si sorprese a fissare il telefono per più di una volta, aspettando quella fatidica telefonata. Avrebbe tanto voluto che Faith fosse lì con lei…quando finalmente il telefono si decise a suonare, Buffy era sotto la doccia. Appena sentito lo squillo, afferrò un asciugamano e ancora tutta piena di sapone dalla testa ai piedi si diresse verso il telefono, minacciando di scivolare ad ogni passo e di rompersi l’osso del collo.

“Sono qui!”

“La disturbo, Miss Summers?”

“Cosa? No, assolutamente…mi ero…mi ero assopita un momento.”

“Le comunico che il suo contatto verrà a New York domani, alla Statua della Libertà. Si presenti qualche minuto prima dell’orario di chiusura all’ultimo piano del monumento.”

“La ringrazio.”

“Le auguro molta fortuna, miss Summers.”

L’uomo misterioso riattaccò prima che Buffy potesse chiedere il nome di questo suo contatto. Sapeva solo che si chiamava Daniel…ad un tratto pensò al medico che l’aveva curata, e si mise a ridere al pensiero assurdo che potesse essere lui.

Dopo aver realizzato in parte quanto la sua vita potesse cambiare da quel momento in poi, fu presa dal panico. Non aveva la minima idea di cosa fare…beh, a parte tornare sotto la doccia perché stava gelando. Dopo essersi rivestita, fece un respiro profondo e cercò di fare le cose con ordine. Prenotò un posto sul primo volo del pomeriggio per New York (poteva essere anche l’occasione di svolta per la sua vita, ma tre orette di shopping da Bloomingdale le voleva passare), poi passò in camera e passato in rassegna il guardaroba scelse cosa mettersi il giorno dopo per questo fatidico incontro. Poi fece per chiamare lo studio per comunicare loro la notizia, ma appena composto il numero mise giù il telefono. Al diavolo, se proprio doveva riemergere lo voleva fare da sola.

Arrivò alla statua della Libertà con almeno tre borse per braccio, e ogni volta che le riguardava si sentiva rimordere la coscienza. Aveva speso senza alcun ritegno, ma si era divertita un sacco! Ora che con lo studio andava bene, e aveva anche altri clienti che gli onorari li pagavano eccome, finalmente il suo conto in banca si era risollevato e lei non sentiva più la colonna sonora di “Profondo rosso” ogni volta che guardava l’estratto conto.

Aveva preso una stanza per una notte in un albergo del centro, e lì dopo la scarpinata per negozi era andata a cambiarsi d’abito, e a prepararsi spiritualmente per l’incontro con quel tale chiamato Daniel.

Fece come le era stato detto, e circa venti minuti prima dell’orario di chiusura salì sull’ascensore che l’avrebbe portata in cima al monumento. Era già praticamente deserto, e sentiva riecheggiare il leggero rumore dei suoi tacchi sul pavimento. Aveva il cuore che batteva a mille, mentre sentiva le ultime tre persone scendere a terra. Il prossimo rumore che avrebbe sentito provenire dall’ascensore, sarebbe stato il suo contatto. La sua mano tremava quando frugò nella borsetta alla ricerca di una compressa di valeriana, per calmarsi un po’. Stava per ingoiarla, quando sentì i fatidici rumori dietro di lei. Una porta che si apriva. Dei passi dietro di lei. Una mano sulla sua spalla.

“Ciao, Annie.”

Elizabeth si sentì come se fosse stata colpita da un fulmine, e si voltò a fissare il volto familiare di Daniel Hawthorne.

“Non è possibile…”

“A questo mondo non c’è niente di impossibile, e conoscendo Camille dovresti sapere che è la sua filosofia di vita.”

“E io che ritenevo assurdo che potessi essere tu…come sta Camille?”

“Ci siamo trasferiti a Londra dopo che te ne sei andata a Boston. Le manchi tanto.”

“Anche lei mi manca…dimmi una cosa. Tu l’hai sempre saputo che ero, vero?”

“Mi dispiace averti mentito, Lizzie, ma non volevo sconvolgerti. Preferivamo che ricordassi da sola, e l’hai fatto.”

“Chi era Lagerback?”

“Era un ex Osservatore, che sovrintendeva alla zona degli Stati Uniti, America Centrale, e America del Sud. Faceva parte di una élite del vecchio Consiglio, che ora è diventata il nuovo Consiglio.”

“Anche tu ne fai parte?”

“Sì.”

“E volete che vi entri anch’io.”

“Esatto.”

“Forse non ti sei letto il mio fascicolo. Io e il Consiglio, da quanto ho letto, non ci sopportiamo.”

“Le cose sono cambiate, credimi. Il Consiglio che hai conosciuto tu è morto, Lirem ha fatto in modo che morisse.”

“Inizia a spiegarmi chi è questo Lirem.”

“Lo vedrai da te. Ti vuole conoscere. E se sei d’accordo, ti voglio portare da lui subito.”

“Dove?”

“Scozia.”

“Domani.”

“Benissimo.”

“Ci troviamo all’aeroporto?”

“D’accordo.”

“Ma ti avviso che non ho deciso niente.”

“Lirem ti vuole solo conoscere, fidati. Se poi riuscirà a farti imbarcare in questa pazza vita…beh, staremo a vedere.”

 

Stranamente, durante il viaggio in aereo che l’avrebbe portata da Lirem, Elizabeth non pensò a niente. Non era riuscita a dormire, e non voleva disturbare Daniel e le altre persone accanto a lei accendendo una luce per leggere un po’. Si limitò a guardare fuori dal finestrino, ammirando la miriade di stelle che brillavano là fuori, e osservando verso l’alba il cielo cambiare lentamente colore, fino a quando il sole non apparve nel cielo.

Rimase in silenzio durante tutto il tragitto dall’aeroporto fino al villaggio scozzese dove Lirem viveva. Questo la sorprese: mai avrebbe pensato che il capo supremo del Consiglio vivesse in un posto tanto piccolo e tanto fuori dal mondo. Ancora non conosci Lirem, però, altrimenti questo non ti sorprenderebbe più di tanto, le disse Daniel, conducendola fino ad una rustica casa di campagna abbastanza fuori dal villaggio.

“Ora devi andare da sola” disse fermandosi al cancelletto d’entrata.

“Perché?”

“Perché ti vuole a parlare a quattr’occhi senza rompiballe intorno. Parole sue.”

“Non sono facile da convincere.”

“Questo lo so, ma lui ti vuole conoscere soprattutto perché sei anche la famosa Buffy Summers eccetera eccetera. Vuole sapere come hai fatto a mettere in riga il Consiglio, farsi quattro risate…questo, in pratica.”

Le fece cenno di entrare, ed Elizabeth non vide altra scelta se non camminare fino alla porta e bussare.

Le venne ad aprire un signore abbastanza anziano, dagli occhi ancora però molto vigili e vivi.

“Posso aiutarla in qualcosa, signorina?”

 

“Lirem è in casa?”

“Dipende. Chi lo desidera?”

“Sono Elizabeth Summers.”

“Ah, capisco! Devi essere Buffy.”

“Elizabeth.”

“Perché ti attacchi tanto a un nome?” disse facendola entrare e chiudendo la porta “Sei stata Anne Hawthorne, ora sei Elizabeth Summers, ma all’inizio di tutta questa storia tu eri Buffy.”

“E ora non lo sono più.”

“Non si cambia quello che si è solo perché si cambia nome, bambina.”

“Ma lei chi diavolo è?”

“Che sbadato, non mi sono ancora presentato. Sono Lirem.”

 

Elizabeth desiderò sprofondare quando comprese che quello che aveva davanti era colui che aveva creato il Consiglio, e non un domestico come pensava.

“Anche Anethe-Marit mi ha scambiato per un domestico, proprio come hai fatto tu…lo so perché hai la sua stessa espressione.”

Anethe-Marit? Buffy si domandava chi fosse, ma non lo chiese.

“Che le ha detto Daniel di me?”

“Non ne aveva bisogno. Io so tutto di te.”

“Quello che sa anche il Consiglio, immagino.”

“No. So per esempio che sei nata con una complicanza respiratoria, e che i tuoi genitori andavano a pregare giorno e notte nella cappella dell’ospedale perché guarissi. Poi a cinque anni, tuo padre ti regalò un cane, che tu battezzasti Mirtillo nonostante i tuoi genitori volessero chiamarlo Lucky. E appena hai iniziato a ribellarti ai tuoi genitori…mi sembra prima che Merrick venisse da te…per fare loro un dispetto ti sei fatta fare un tatuaggio sull’anca destra, il simbolo cinese dell’integrità. Hai sempre detto a tua madre che l’avevi fatto togliere, ma invece ce l’hai ancora.”

Elizabeth sentì il bisogno di sedersi, per darsi un contegno. Era rimasta a bocca spalancata: il cucciolo, la malattia, il tatuaggio…tutto esatto. Erano cose di cui solo la sua famiglia e lei erano a conoscenza. Stupefacente.

“Co-Come fa…?”

“Dammi del tu, Buffy. Preferisco.”

“Come diavolo fai a saperlo?”

“Vedi, sono parecchi anni che sono al mondo, e ho visto tante cose, conosciuto molte persone. Ma tu, Anethe-Marit, Nikolai, Daniel e Aisha siete speciali. Vi ho seguito da quando siete venuti al mondo, e sapevo che sareste stati chiamati a fare cose importanti, e infatti siete diventati un avvocato, una ricercatrice, un agente governativo, un medico, una professoressa universitaria. Ora ti chiedo se vuoi aiutare me e unirti a loro.”

“Io non voglio avere niente a che fare con il Consiglio.”

“Daniel non ti ha detto che le cose stanno cambiando?”

“Vorrei sapere CHE COSA sta cambiando.”

“Quando ho creato il Consiglio avevo più o meno la tua età, e i primi Osservatori erano maghi e streghe della mia epoca. Noi consigliavamo la Cacciatrice, e ci lasciavamo anche mandare al diavolo. Non c’importava, bastava che lei facesse il suo lavoro e sapesse che in caso di bisogno poteva avere in noi un punto di riferimento. Ma i miei amici sono morti, com’era giusto, e il Consiglio a iniziato a cambiare orientamento fino a quando non è finito in mano a persone molto diverse da me e i miei amici, e così sono stato mandato in esilio qui. L’unica concessione, perché sapevano bene di non potermi eliminare causa una certa…immortalità…è stata quella di creare i Cinque, un gruppo di Osservatori che vigilava sul Consiglio e che godeva di un potente diritto di veto…come se sarebbe servito. Tutti gli Osservatori che mi mandavano affinché io scegliessi erano deboli, ottusi, facili da manovrare. Una vergogna, per tutta la loro categoria. Durante uno di questi incontri ho incontrato un giovane di nome Andrew Lagerback. Voleva che le cose cambiassero, ed è stato i miei occhi e le mie orecchie all’interno di quel nido di serpi per molto tempo. Insieme a lui ho trovato voi cinque, e vi ho potuto incontrare per chiedervi di assumervi questa responsabilità…so cosa stai per dire, e no, a parte me voi non rispondete del vostro operato a nessuno. Tantomeno al Consiglio, perché non esiste più. L’ultimo gesto di Andrew come capo dei Cinque è stata quella di inviarmi una mozione di sfiducia all’intero consiglio e la richiesta di un mio ritorno al comando. Il consiglio si è opposto, i Cinque hanno usato il diritto di opposizione, e hanno fatto sciogliere d’autorità il vecchio Consiglio. E forse puoi indovinare il mio primo ordine come capo?”

“Fare dei Cinque il nuovo consiglio…”

Elizabeth era sempre di più a bocca aperta.

 

Anethe-Marit Djessen fu la prima ad arrivare. Capelli di un biondo chiarissimo, occhi azzurro ghiaccio, e molto alta, era la tipica bellezza nordica, e si occupava dei paesi dell’estremo Nord come la sua nativa Norvegia, Svezia, Islanda, la Siberia, Canada e via di seguito. Vedendo Daniel camminare avanti e indietro come se fosse sulle spine, andò verso di lui sorridendo, e Daniel vedendola le domandò se una volta, tanto per cambiare, potesse mettersi un paio di scarpe basse ed evitare di farlo sentire sempre uno gnomo.

Marit lo guardò, indecisa se interpretare il tono come scherzoso o stizzito. Optò per la seconda ipotesi.

“Scontrosetto oggi. Camille?”

“Affari miei, ti dispiace?”

“Preoccupato che dica di no?” disse indicando con un cenno della testa la casa di Lirem.

“Sono terrorizzato all’idea che dica di sì. Lei c’è vissuta sei anni in questo mondo, e come Cacciatrice è stata fortunata a vivere tanto. Ha avuto la possibilità di vivere una vita normale, ma se decide di scegliere un’altra volta questa vita…Cacciatrice e membro dei Cinque, a me suona quasi come una condanna a morte.”

“Chi è che è condannato a morte?” esclamò un giovane che li aveva appena raggiunti, e a cui Marit scoccò un’occhiata fulminante.

“Tu, Nikolai, se non la smetti di rompere.”

Daniel sorrise, guardando il perenne sorriso ironico di Nik, e gli occhi lampeggianti di rabbia di Anethe-Marit. Se non fosse stato che la sua amica e Nikolai Vukavich, che si occupava della sua patria, la grande madre Russia, e del Sud-Est asiatico, si odiassero a morte, biondi e con gli occhi azzurri com’erano avrebbero potuto benissimo essere fratello e sorella. Ovviamente, il solo dirlo avrebbe causato a Marit un travaso di bile immediato.

“Daniel, allora che mi dici di questa misteriosa Elizabeth?”

“Che da quanto so di lei si potrebbe definire una tua versione leggera.”

“Oh cielo, ci mancava anche questa” sospirò Marit.

“Marit, per una volta nella vita, chiudi la bocca.”

La frase non era venuta da Nikolai, ma da una donna di colore che si era avvicinata in silenzio qualche minuto prima e aveva semplicemente ascoltato.

“Aisha, che piacere.”

“Risparmiami.”

Daniel la guardò sorpreso. Aisha non era tipo da rispondere così, a meno che…

“Problemi con il volo?”

“Sudafrica – Marocco, Marocco – Italia, Italia – Germania, Germania – Scozia. E non sto parlando di partite dei mondiali. Alla faccia del volo diretto, sarà da un giorno intero che sto viaggiando.”

“E come va all’università, professoressa?” chiese Marit.

Già, l’università. Sia lei, come Marit, avevano dovuto accantonare le loro professioni (ricercatrice in un prestigioso laboratorio di virologia in Norvegia e professoressa di Culture tribali africane a Città del Capo). Aisha M’Balagi sospirò.

“Ormai mi avranno dato per dispersa, ma dovendo sovrintendere all’Africa nera e ad un bel po’ di arcipelaghi nel Pacifico…ringraziando il cielo prendiamo un bello stipendio tutti e quattro.”

“Tra non molto, saremo cinque. Elizabeth è dentro da un po’ a parlare con Lirem.”

“Non mi dispiacerebbe se accettasse. Finalmente saremmo in maggioranza noi ragazze.”

“Male non sarebbe” continuò Marit “Se non si rivelasse la copia esatta di Nikolai.”

“E dov’è il problema? A me Nik piace.”

Altro scambio di occhiata fulminante e sorriso ironico.

“Incassa questo, vichinga.”

Marit strizzò gli occhi e iniziò a insultarlo in dialetto norvegese stretto, conscia del fatto che non potesse capire una sillaba.

“Giuro che pagherei per sapere che mi hai appena urlato…occhio, Marit, con quel tic all’occhio e la faccia rossa sei una candidata perfetta per un ictus.”

“Ti ha detto, più o meno, perché il dialetto delle parti di Øvre Årdal non lo capisco molto: vai all’inferno razza di elfo malefico della Siberia, sottospecie di osservatore senza palle e spina dorsale, quanto vorrei buttarti dentro quella tua Bocca dell’Inferno. Non sono sicuro sulla parte dell’elfo, ma per il resto ci siamo.”

Lirem. Con a fianco una ragazza castana che stava facendo del suo meglio per non ridere.

“Vi presento Elizabeth Anne Summers. E ora la nostra assemblea è completa.”

 

Lirem li aveva invitati ad entrare, ma tutti avevano detto che avrebbero proseguito per Londra, giusto per far venire un infarto a Travers e al resto dei suoi accoliti.

“Una scusa come un’altra per farti il terzo grado in un posto da cui non puoi scappare, Elizabeth” disse Aisha, salendo sull’aereo privato del Consiglio insieme agli altri.

Una volta decollati, il secondo pilota venne da loro ad annunciare che l’arrivo a Heathrow era previsto entro due ore, dopodiché, davanti ad un caffè una vodka o un’aranciata iniziarono finalmente le presentazioni.

“Piacere di conoscerti, Elizabeth, io sono Anethe-Marit Djessen, e mi occupo delle zone a Nord.”

“Piacere…”

Nikolai diede una spallata a Marit, che si era trovata suo malgrado a sedersi vicina alla sua nemesi. “Guarda che ci siamo anche noi. Io sono Nikolai Vukavich, Russia e Asia, e collaboro con la qui presente…Annette…e con Aisha.”

Il sentir storpiare il suo primo nome provocò a Marit un certo attacco di nervi, localizzato soprattutto sulle mani che stavano stritolando senza pietà un bicchiere di plastica.

“Aisha Hani M’Balagi” disse l’altra donna tendendole la mano “io sto in Sudafrica e mi occupo del continente africano e di un imprecisato numero di isolette sparse per il pacifico. Quelle nell’indiano se le cucca Nik.”

“E poi vengo io, Lizzie” disse Daniel “A me tocca l’Europa e il Mediterraneo.”

“E a me che tocca?”

“A conti fatti…l’America. Stati Uniti, America Latina, e America del Sud.”

Da come ne parlava, sembrava quasi si riferisse ad un villaggio di massimo cento persone.

“E…E me ne devo occupare da sola?”

“No, tranquilla. Ognuno di noi si sceglie i propri collaboratori, e di solito è meglio se sono del posto. Un piccolo consiglio.”

Quindi se aveva capito bene, ora avrebbe dovuto cercare qualche altro pazzo come lei per cercare di controllare la zona che le era capitata, e che avrebbe dovuto rendere conto a lei sola.

“Già qualcuno in mente?”

“Nessuno della vecchia guardia. Meglio se conoscono la Bocca dell’Inferno…”

“Le” la corresse Nikolai.

“Le? Io ho sempre pensato che ce ne fosse solo una.”

“In verità sono tre. Una a Sunnydale, una in Belize, e una in Russia, nella Tunguska.”

“Quindi io me ne cucco due? Non mi pare equo.”

“Io ho in Russia una Bocca che vale le tue due, credimi.”

“Culti tribali africani. Ora sanno che li studio, ma ho rischiato di finire scuoiata viva almeno un centinaio di volte da alcune popolazioni.”

“In Islanda vivono demoni come non li avete mai visti. Sanno gelare il tuo corpo dentro e fuori, e intendo proprio trasformare in ghiaccio. Roba che se aspetti il sole ti sciogli peggio di un ghiacciolo e di un vampiro messi insieme.”

“E io devo vedermela quotidianamente con quelli della vecchia guardia, che non hanno ancora capito che non li sopporto, loro e i loro consigli.”

“Oddio, questo batte le Bocche dell’Inferno mie e di Nik, i culti tribali di Aisha, e i demoni di Marit!”

“È quello che dico anch’io, ma loro non mi vogliono credere…”

“Cambiamo discorso. Tu che fai di lavoro, nel tempo libero?” domandò Marit.

“Perché, avrò anche del tempo libero?”

“A volte. Io sono ricercatrice in un laboratorio di virologia dalle parti di Oslo. Un tempo lavoravo per il CDC di Atlanta.”

“Lavoretto interessante.”

“Anche se a farlo part – time non ci si diverte. Insomma, non fai in tempo a prendere Ebola Zaire che devi già andare fuori dal laboratorio…”

“E ricorda, le fiale possono rompersi e contaminare chi le maneggia.”

“Ti ho già detto ultimamente quanto ti odio, razza di caricatura di agente segreto?”

“Non negli ultimi cinque minuti, dolcezza. Stai perdendo colpi?”

Marit stava di nuovo diventando paonazza, ma contando fino a venti riuscì a calmarsi sotto lo sguardo divertito di Nikolai.

Elizabeth li osservava, e più quei due litigavano più si convinceva di aver già assistito a scene del genere. O forse era stata una dei protagonisti in scene del genere?

“E tu, Elizabeth?”

“Sono avvocato penalista, e insieme ad un amico ho aperto uno studio legale.”

“Ho come l’impressione che ci sia dell’altro” disse Aisha finendo la sua acqua minerale “Dai, Liz, con noi puoi essere sincera.”

“D’accordo…il mio socio è un vampiro con l’anima. E lavoriamo insieme alla lega di Weimar.”

“Scusa l’ignoranza, ma da quando i vampiri si laureano in Legge?”

“Ha trecento anni, ha fatto in tempo a laurearsi da vivo. Poi si è sempre tenuto informato, e quando Shameen gli ha offerto il lavoro non gli è sembrato vero.”

“Shameen?”

“Shameen El Mezrab è anche lei una vampira, ed è il capo. La Lega si occupa di aiutare chi è oppresso dai demoni in qualsiasi maniera, e di nascondere quelli in pericolo. Abbiamo un conto aperto con un demone di Boston, e aspettiamo il momento buono di fargli rimpiangere di aver messo piede in America.”

“Davvero? Fuori il nome.”

“Vincent van Allen.”

“Caschi male, bellezza. Allen prima di stare in America stava in Russia, e non scherzo quando dico che lui, la mafia russa e la Jakuza giapponese erano una cosa sola. Lo so perché…beh, diciamo che la mia famiglia non era estranea a questo giro e per un po’ non lo sono stato neanch’io, prima di venire a studiare a Londra e a fare il bravo bambino…”

“Parlami di lui, Nikolai.”

“Da dove vuoi che cominci? Dal traffico di droga e di ragazze dall’Est, o dagli omicidi su commissione?”

“Come può riuscire a mantenere una facciata rispettabile? Me lo domando da una vita.”

“Non mi dire che non sai cosa il denaro può fare.”

“Sto cominciando a farmene un’idea.”

“Parlaci un po’ di questa Lega di Weimar. Non l’abbiamo mai sentita.”

Elizabeth aspettò un attimo prima di parlare, osservando i volti dei suoi nuovi colleghi. Shameen le aveva fatto giurare che non avrebbe mai rivelato a nessuno l’esistenza della Lega, o di come era formata, e ancora non sapeva se faceva bene. Erano Osservatori, dopotutto.

Ma a questo punto non lo era anche lei?

“Shameen mi ammazza se lo viene a sapere, ma d’accordo.”

Per il resto del volo discussero della Lega, della possibilità che avrebbero o meno accettato una collaborazione con loro, e di quello che loro avevano definito ‘periodo di transizione.’

“Che traducendo, sarebbe?”

“Ti fai un bel giro del mondo, Lizzie. Vai a Oslo da Marit, poi da Nikolai in Russia, da me in Sudafrica, e da Daniel in Spagna. Ti facciamo un quadro della situazione mondiale, e poi vai a farti un sopralluogo della tua zona. Soprattutto della parte a Sud.”

“Sarò SEMPRE in viaggio tutto l’anno…dubito seriamente che rivedrò mai un tribunale…e francamente un po’ mi dispiace. Avevo iniziato a divertirmi.”

“Credi, anche a me piaceva insegnare, come a Daniel piaceva fare il medico e a Nikolai lavorare per i servizi segreti sovietici, ma nessuno di noi è pentito. Anche questo lavoro sa essere divertente.”

“Soffro d’amnesia, fatemi un paio d’esempi.”

“Te li faccio io. Per esempio quando becchi un demone e gli fai sputare a forza quello che sa insieme ai denti, se li ha, o quando sei in battaglia in netta minoranza, e vinci. Quelli sono momenti degni di essere vissuti!”

“E ricorda che al termine come al solito ti attende una camicia di forza e una cella dalle pareti imbottite.”

Marit.

“Cosa c’era in quel caffè, amore? Panna e fiele?”

Marit sorrise e non rispose. Guardò Elizabeth, per vedere come avrebbe risposto.

“O come…?”

“O come…cosa?”

“O come quando sventi l’ascensione di un demone e fai esplodere il tuo ex liceo insieme a lui e al suo esercito di demoni e vampiri?” domandò con aria imbarazzata, cercando gli occhi di Nikolai.

Nel sentire questo, il sorriso di Nikolai si fece ancora più ampio, Daniel e Aisha si misero a ridacchiare, e Marit alzò gli occhi al cielo e dalla disperazione si alzò per andare nella cabina dei piloti a chiedere quanto mancava per Londra.

 

A Londra, Elizabeth per prima cosa corse da Camille, che non vedeva da una vita, e quest’ultima la trascinò in giro per Londra. Tanto era solo quella sera, l’incontro con quelli della vecchia guardia che erano rimasti, e francamente pareva solo una mera formalità.

Elizabeth non vedeva l’ora di vedere Travers. Di lui si ricordava abbastanza bene, specialmente del momento in cui le aveva fatto affrontare un vampiro psicopatico che aveva rapito sua madre, e quando rifiutava di darle le informazioni di cui aveva bisogno per combattere il suo nemico. Ora che stava per entrare nella sala dove lui e gli altri la stavano aspettando, sentì una sorta di eccitazione dentro di sé, insieme a una voglia matta di ridergli in faccia. A pensarci bene, quella era la prima volta che lei entrava in un posto con la sua nuova autorità…come membro effettivo dei Cinque…ancora non ci credeva.

E quando incontrò gli occhi dei vecchi Osservatori e le loro facce sconvolte, si rese conto che non ci credevano ancora neanche loro.

“Buonasera. Scusate il ritardo.”

“Conoscendola, quindici minuti di ritardo sono veramente niente.”

Elizabeth vide che ad aver parlato era stato proprio Travers. Bene, ora ci divertiamo…

“Si chiama quarto d’ora accademico, ma forse lei non se lo ricorda…quanto è passato dalla sua permanenza all’università? Un secolo?”

Travers diventò paonazzo come Marit, e lei sorrise divertita, come aveva visto fare a Nikolai.

“Portami rispetto ragazzina. Noi rappresentiamo il passato del Consiglio, siamo la sua memoria…”

“Noi invece siamo il futuro, e voi signori avete fatto solo danni. Cosa che io so bene, avendolo sperimentato di persona. Qualcuno lassù ha voluto che arrivassi qui, e la sapete una cosa? Ne sono felice. Finalmente cambierà la musica da queste parti.”

E questo tappò la bocca all’Osservatore per la serata. Era furibondo perché Lirem aveva deciso di dare a quella rediviva cacciatrice tanto potere, ma non così stupido da dirlo apertamente di fronte a tutti e cinque. Da come gli altri le stavano intorno, si capiva subito che a tutti piaceva. Non voleva essere lui il primo a sperimentare cosa quei quattro avrebbero fatto per proteggerla…o cosa avrebbe fatto lei per proteggere loro.

Come le avevano detto, avrebbe trascorso un po’ di tempo con ognuno di loro nelle loro zone d’influenza, e Marit tutta contenta le disse che sarebbe venuta da lei per cominciare.

“D’accordo, Marit, ma prima devo chiamare Boston.”

E prepararmi alle sfuriate di Faith, Shameen, Sean e Drusilla per non essermi fatta vedere per quasi una settimana.

Iniziò da Faith.

“E DILLO CHE MI VUOI MORTA, CAZZO! MA DOVE DIAVOLO ERI SPARITA? E IO CHE CREDEVO TI FOSSI BUTTATA DA QUALCHE PONTE! E TU INVECE TE LA SPASSAVI IN EUROPA, RAZZA DI INFAME DISGRAZIATA!”

In un certo senso, sentire le urla di Faith le fece piacere. Mai avrebbe creduto che un giorno sarebbe arrivata a farle la paternale sull’avvisare quando si parte o quando si arriva.

“Non me la sto spassando, sto lavorando. Te li ricordi i file di Lagerback, no?”

“B, non mi sarai diventata un’Osservatrice?”

“Credo proprio di sì…”

“MA TI È ANDATO DI VOLTA IL CERVELLO? O TE LO SEI BEVUTO BEN SHAKERATO IN UN BICCHIERE CON L’OMBRELLINO? NON TI RICORDI COSA HANNO FATTO A NOI QUEI DANNATI OSSERVATORI?”

Elizabeth, che stava chiamando da un locale dove loro cinque erano andati a spassarsela dopo aver preso per un po’ a pesci in faccia Travers e aver discusso più seriamente con gli altri, stava osservando Nikolai che sfidava Marit in una gara con la vodka…e il russo era sotto di un giro a giudicare l’aria soddisfatta di Marit. Incredibile ma vero. Daniel stava ballando con Camille, e Aisha osservava tutta la scena ridendo.

“Credimi, questi sembrano tutto tranne osservatori. Fidati, sono con loro in un pub a bere birra e a prendermi una sbronza, e i due nordici si stanno sfidando ad una gara con la vodka.”

Faith non rispose. Buffy pensò che doveva essere stramazzata.

“Faith, sei ancora viva?”

“B, tesoro, dimmi che droga prendi, che la voglio anch’io.”

“Esagerata. Sono simpaticissimi, credimi, e mi piacciono sul serio. Credo che domani tornerò a Boston…”

“Alla buon’ora!”

“…ma non per restare. Dovrò ripartire entro brevissimo per Oslo.”

“OSLO? E CHE CI VAI A PARE A OSLO?”

“Pratica. Devo capire come funziona il gioco, prima di giocarlo, e Marit, Nikolai, Daniel e Aisha me lo spiegheranno…almeno spero. Su Nik non ho molte speranze.”

“Shameen ti farà uccidere, lo sai?”

“Faith, sono io a doverti chiedere che droga prendi, così ti ammazzo lo spacciatore…com’è che sei così paranoica?”

“Reminescenze del corso. Più nessuno con cui parlare.”

“Ho capito, fai leva sul senso di colpa.”

“Ovvio che lo faccio. Non sono mica te.”

“Ti va di venirmi a prendere all’aeroporto domani sera?”

“Non fanno niente d’interessante né alla tv né al cinema, quindi penso di sì.”

“Allora ci vediamo.”

“Ciao, Buffy.”

 

Ok, ora sistemiamo Shameen.

“Faith pensava che ti fossi suicidata, e francamente anch’io. Ma dove sei?”

“Londra.”

“Giuro che se non mi dai una spiegazione entro tre secondi sarai fortunata a vivere un’altra ora.”

Era calma, e questo metteva paura molto più delle urla di Faith.

“Lagerback, il mio vecchio professore che tu non hai mai conosciuto, faceva parte del Consiglio degli Osservatori. Le cose sono cambiate, e visto che sono Cacciatrice mi hanno detto che se voglio posso entrare nel nuovo Consiglio, che per altro conosco già. E francamente ne sono molto tentata.”

“Non voglio perdere uno dei miei migliori avvocati.”

“Non mi perderesti. Tornerei a lavorare in America, e…”

“E non avrai tempo per la Lega. Elizabeth, pensavo che avessi un certo obbligo nei miei riguardi.”

“Mi dispiace che tu la pensi così, ma se pensi che voglia mollarti beh, sbagli. Più che un mio capo sei un’amica, e credo che Drusilla mi pianterebbe i denti nel collo se mi azzardassi a lasciarvi a piedi. Forse potrò svolgere meno lavoro, ma potrai sempre contare su di me. Giuro.”

“Non giurare se non sei certa di mantenere la parola.”

“Vedremo.”

 

Ora era il turno di Drusilla e Sean. Se aveva capito giusto quel che aveva detto Faith, lui e Dru dopo la sua permanenza in convento erano andati a vivere nella stessa casa…non era certa di trovarli. C’era pur sempre la non remota possibilità che si fossero già scannati a vicenda.

Drusilla rispose al primo squillo “Chiunque tu sia grazie, mi hai evitato le ramanzine di mio fratello…”

“Felice di esserti utile, Dru.”

“Che? Buffy? Finalmente! Faith ha dato di matto quando non ti ha trovato.”

“Lo so, me l'ha gentilmente urlato al telefono circa dieci minuti fa.”

“Come va?”

“Non lo so ancora. Dopo che ti ho lasciato al convento ho chiamato un numero che mi aveva dato Lagerback…e così sono andata a New York. Da New York sono finita in Scozia e da lì a Londra.”

“E cos’è successo, in parole povere?”

“In pratica, sono diventata membro del nuovo Consiglio, che si compone di me e altre quattro persone. Controllo insieme a degli altri osservatori che devo scegliere praticamente tutto il continente americano.”

“Hai intenzione anche di mangiare e dormire ogni tanto, Buffy?”

“Ce la posso fare.”

“Shameen ti uccide se le fai questo discorso.”

“Gliel’ho fatto circa cinque minuti fa. E sono ancora viva.”

“Va a mettere un cero al Santo Patrono delle Cacciatrici, se esiste!”

“Strano che tu non lo sappia. Con tutte le litanie di santi e sante che reciti…”

“Spiritosa. Senti, ti lascio, c’è quel deficiente con cui purtroppo ho dei legami di parentela che minaccia di bruciarmi Miss Edith se non gli mollo il telefono…E LASCIA QUEL MALEDETTO ACCENDINO, SEAN!!!”

Elizabeth cercò di sentire meglio quel che stava succedendo. Sembrava quasi che stessero lottando per quella bambola, fino a quando Drusilla riuscì a strappargliela dalle mani e a tirargli un calcio da qualche parte a giudicare dall’esclamazione colorita che aveva urlato Sean.

“Ohi…ciao, Liz, come va?”

“Sono io che lo chiedo a te.”

“La mia dolce sorellina mi ha appena tirato un calcio sugli stinchi.”

“Non stuzzicare il can che dorme, Sean.”

“Me ne ricorderò.”

Com’è che non mi fai la ramanzina anche tu su come sono sparita?”

“Ah, perché, sei sparita? Guarda un po’, con tutto il lavoro che mi sono dovuto sorbire non me ne sono neanche accorto.”

“Scusami, è stato un comportamento infantile da parte mia, ma sentivo che dovevo farlo.”

“Meno male che te ne rendi conto. Pensavo fossimo amici, Liz.”

“Volevo avvisarvi, lo giuro, poi…poi non lo so. Avevo già composto il numero dello studio, e poi ho messo giù dopo due squilli. Forse avevo paura che mi avreste impedito di andarci.”

“O forse ti avremmo fatto i nostri migliori auguri e ti avremmo accompagnato all’aeroporto. Solo che non lo sapremo mai.”

“Sean?”

“Sì?”

“Ora prometti di non uccidermi?”

“Odio quando mi fai promettere una cosa del genere. Cos’hai combinato stavolta?”

“Torno a Boston, ma dovrò ripartire per Oslo entro breve.”

E gli spiegò cos’era successo nei dettagli, insieme a tutto quello che comportava.

“Sei pazza da legare.”

“Se qualcun altro me lo dice, mi comprerò una camicia di forza e mi farò imbottire le pareti della mia stanza.”

“Sarebbe un ottimo investimento per il futuro, parlando di te. Come pensi di gestire tutto? Lo so che sei brava, ma nessuno è così bravo.”

“Sai che mi ha detto Lirem prima di presentarmi agli altri? ‘Ti prego, aiutami.’. io ho risposto ‘Sai che lo farò. In cosa vuoi che ti aiuti?’ ‘Nell’impossibile.’ Io gli ho risposto ‘Farò del mio meglio.’. E dannazione, lo farò.”

“Detesto quando fai così. T’impunti e non c’è verso di smuoverti, cocciuta come un mulo sei. Ti serve una mano?”

“Avrò bisogno di tutto l’aiuto che riesco a raccattare. Sempre che abbia ancora amici disposti ad aiutarmi…”

“Che razza di profittatrice. Ci parlo io con Shameen…non l’ha presa molto bene, vero?”

“Pensavo volesse incenerirmi per telefono.”

“Non sopporta le persone che le disobbediscono. Sai com’è, è abituata a comandare la gente a bacchetta, e tu devi essere una delle poche persone che ha osato dirle ‘no’ ed è rimasta viva.”

“Come te?”

“Esattamente.”

“Allora, mi perdoni?”

“Ma certo che ti perdona!” sentì Drusilla gridare dalla spalla di Sean, indizio che doveva aver origliato buona parte della conversazione.

“E piantala, Dru!”

“Allora, Vostro Onore, il verdetto qual è?”

“Dichiaro l’imputata completamente assolta. Forza, che ti vogliamo rivedere qui!”

“Ho già il biglietto di ritorno in tasca.”

“Ottimo. Allora ci vediamo.”

“Ciao, Sean. Mi ripassi Dru?”

Sean non fece in tempo a rispondere che Drusilla gli aveva già strappato la cornetta.

“Muoviti a tornare. Mi manchi.”

“Torno tra poco, non mi sparire in convento di nuovo, Ok?”

“Cercherò. Ciao!”

Elizabeth spense il cellulare e scoppiò a ridere. Guardando i suoi amici, vide Nikolai abbastanza ubriaco e Marit ancora abbastanza sobria, Aisha che scuoteva la testa, e Daniel e Camille ancora persi nel loro mondo. Elizabeth decise di essere stata da sola abbastanza e raggiunse Aisha.

“È così che vi divertite di solito?”

“No, è così che di solito ci facciamo buttare fuori. Marit, Nikolai, devo chiamare la maestra o la smettete da soli?”

Nikolai aveva la testa appoggiata al tavolo, e una Marit felice per avergli dato una lezione si alzò dal tavolo e ridendo venne da loro.

“Anethe-Marit? Sfidare un russo ad una gara di vodka e vincerla pure? Dicci come hai fatto.”

Marit fece un sorriso malizioso, e dalla borsa tirò fuori quella che sembrava una busta di un medicinale e gliela fece vedere.

“Sono la vergogna della famiglia perché di solito non bevo. Non perché non mi piaccia, ma perché dopo due bicchieri mi devono portare via a braccia…con l’aiuto di questo reggo, e anche meglio di un russo, alle loro gare di vodka…”

“Che imbrogliona…praticamente è come se ti fossi bevuta acqua fresca!”

“Cortesia dei miei amici dottori a Oslo.”

“O piuttosto cortesia di Sven?”

Marit alzò gli occhi al cielo e senza dubbio mandò Aisha all’inferno in norvegese, mentre se ne andava.

“Scusa l’ignoranza” disse Elizabeth “Ma chi è Sven?”

“Sven è il fidanzato che Marit non ha, ovviamente, e che piuttosto di ammettere di esserne cotta si butterebbe da un ponte con una macina al collo.”

“Allora spero di non incontrarlo quando sarò a Oslo. Non credo mi piacerebbe se la mia guida improvvisamente decidesse di suicidarsi.”

 

Una settimana. Al massimo otto giorni, non uno di più. Ecco quanto aveva di tempo per far cambiare idea a Shameen sul fatto di ucciderla e per farsi perdonare concretamente dagli altri.

Ma prima di tutto questo c’era una cosa che ora voleva fare sul serio…e scommetteva che appena l’avrebbe sentita, Faith avrebbe fatto i salti alti fino al soffitto.

Faith come sperava non aveva trovato niente di meglio da fare che venirla a prendere all’aeroporto, e l’aveva subissata di domande. Prima di dare una risposta, Elizabeth l’aveva gelata con una frase.

“Faith, credo di aver bisogno di una restaurata.”

Faith a momenti ci rimase secca. Tutte le volte che ci aveva provato a convincerla a cambiare immagine aveva ricevuto un secco ‘no’ in risposta. E ora di punto in bianco lo proponeva lei?

“E chi sarebbe ad averti fatto cambiare idea visto che sono anni che ogni volta che te lo dico fai orecchie da mercante?”

“Nessuno. È solo che è proprio ora di un cambiamento.”

“Che fai, torni bionda?”

“Per carità. Sembravo una bambola!”

“Che ne dici di provare ad andare dove vado io…sai a chi mi riferisco, no?”

Elizabeth si era girata molto lentamente verso Faith. Certo che lo sapeva. Felipe’s. Una volta c’era entrata per aspettare Faith, e ne era uscita sconvolta.

“Sai, non vorrei uscire con i capelli verdi…”

“Basta che tu dica esattamente a Felipe come vuoi uscire.”

Faith era ovvio che moriva dalla voglia più di Elizabeth e il mattino dopo ce la portò quasi trascinandola per strada. Una volta al cospetto di questo famoso Felipe – un afroamericano di almeno due metri, grande e grosso, con cipiglio, bandana e orecchino da corsaro – l’uomo le fece la fatidica domanda.

“Beh?”

Elizabeth si guardò allo specchio, e per la prima volta da quando si era risvegliata odiò il riflesso che lo specchio le rimandava, come aveva odiato le foto che Lirem le aveva fatto avere di com’era prima del coma.

“Il mio problema è che sembro troppo una fanciulla indifesa. Io so di non esserlo, e anche chi mi conosce bene lo sa. Non sarebbe male se ora lo intuissero al volo anche gli altri…si può fare?”

“Agli ordini, milady.”

Faith quando se la vide davanti due ore dopo quasi non la riconobbe. Ora i capelli erano rossi, e perfettamente lisci, lunghi fino alle spalle. Un bel contrasto con gli occhi verdi e la carnagione chiara. E quella luce negli occhi…

“Oh mio Dio. È questa la nuova Buffy Summers riveduta e corretta?”

“Sì, che io sia dannata. E ora che qualcuno provi a fermarmi!”

 

Quel qualcuno, Buffy se ne rese conto, l’avrebbe incontrato quella sera. Aveva infatti deciso di affrontare Shameen di persona.

Sapeva che ce l’aveva con lei, e francamente un po’ di ragione ce l’aveva, ma voleva spiegarle che voleva lo stesso continuare a lavorare per lei.

Aspettò le sei e un quarto, ora in cui Shameen andava nella veranda della sua casa per guardare il cielo ancora illuminato dagli ultimi raggi rimasti del sole tramontato e per cenare in santa pace.

Suonò alla porta dell’appartamento, e le venne ad aprire Drusilla.

“Sapevo che eri tu. Non so sei fai bene a parlarle…”

“È ancora così incazzata?”

“Wolfram & Hart ci hanno tirato un brutto tiro. Pensa che ha tirato dietro A ME un piatto di ceramica e mi ha mancato per un soffio…”

Elizabeth deglutì nervosamente. Se alla sua adorata numero due aveva tirato dietro un piatto, a lei cosa faceva? La scaraventava di sotto?

“Dru, se non le parlo ora, non le parlo più.”

“Allora auguri. Ah…belli, i capelli.”

Elizabeth le sorrise, e facendo strada Drusilla l’accompagnò in veranda dove Shameen stava bevendo un tè alla menta.

“Non ti ho sentita entrare. Molto strano. Drusilla, lasciaci sole.”

Drusilla battè una mano sulla spalla di Elizabeth e si ritirò.

“Perché, mi avresti buttato fuori?”

“Non è improbabile.”

“Mettiamo le carte in tavola, vuoi? Io sono la Cacciatrice. Me lo hai detto proprio tu, anche se io ho ancora ricordi abbastanza vaghi di tutta la faccenda. Ora però con i vampiri ci lavoro, ho imparato a fidarmi e loro hanno capito che possono fidarsi di me…rimane il Consiglio. E a questo Consiglio io voglio rendere conto, perché sono persone che sanno quello che fanno e soprattutto sanno ragionare con testa e cuore, e non con i piedi.”

“Lo hai deciso da sola. È stata una tua decisione, non mia.”

“Ho parlato loro della Lega.”

“Che cosa hai fatto?!”

“Zitta e ascolta. Uno di loro, che vive e lavora in Russia, conosce il nostro amico van Allen, e sarebbe estremamente felice di aiutarci.”

“Ti fidi di lui?”

“Abbastanza.”

“Fammi avere le informazioni, deciderò in seguito se fidarmi o meno.”

Quello era un tono che non ammetteva repliche. Elizabeth invece, perseverò.

“Senti, non l’ho fatto per farti un dispetto, ma se credi che abbia poco giudizio o che sia stupida, mi spiace davvero. Ma prima di essere il mio capo sei una mia amica, e se basta un’incomprensione per mandare tutto al diavolo, beh, non sei la donna che credevo.”

“Hai finito?”

“Adesso sì. Buonanotte, Shameen.”

Una volta uscita Elizabeth, Drusilla andò subito da Shameen, e per la prima volta in vita sua la vide in preda a quello che sembrava un gran dilemma.

“Perdonare o non perdonare, questo è il problema” disse Drusilla sedendosi di fronte a lei, e versandosi una tazza di tè.

“È un bravo avvocato, ma è così indisponente…”

“Solo perché finalmente ha ripreso in mano la sua vita e non ha più bisogno del tuo aiuto? Buffy ha sempre fatto quel che voleva, e ti conviene prenderla così o non averci più a che fare.”

“E di te che mi dici?”

“Di me?”

“Sono così soffocante?”

“A me piace. Tu e mio fratello siete la mia famiglia, ora. Liz è troppo libera per stare alle tue regole. Ma l’hai conosciuta e sai che se ha detto una cosa, allora la farà.”

“Ho bisogno di tempo.”

“Non ce ne mettere troppo.”

 

 

“Per l’amor del cielo, Liz!”

“Aspetta un attimo, Cordy. Ma che diavolo vuoi, Sean?”

Elizabeth aveva deciso che quei pochi giorni che le restavano li voleva passare lavorando, e le cose in ufficio erano ritornate come prima. Beh, quasi. Sean ora sapeva che la sua amica non ci sarebbe più stata tanto spesso, e anche se non voleva ammetterlo le sarebbe mancata.

Lungi dal farglielo sapere, però, come in questo momento, quando era entrato come una furia nel suo ufficio per una pratica e l’aveva trovata al solito al telefono con Cordelia.

“Taglia, dannazione! Lo sai quanto costa?”

“Che vuoi?”

“Hai preparato la difesa per Gutierrez?”

“Guarda sulla tua scrivania, amore. Cosa? Cordelia, stai scherzando?”

“Fatemi sapere quando vi sposate voi due, ok?” borbottò l’avvocato mentre usciva.

“No che non scherzo, Lizzie.”

“Ma pensa. Sono nata a Los Angeles, ci sono cresciuta, e sono venuta via qualche anno fa. E in due anni dopo il coma e circa una ventina prima tutto quel lasso di tempo non ci siamo mai incontrate?”

“Beh, almeno non siamo state vicine di casa. Questo l’abbiamo appurato. Che voleva Sean?”

“Rompermi le scatole. È un avvocato con i fiocchi, ma è un gran rompiballe per il resto.”

“E se non mi sbaglio c’è un’altra donna che condivide l’opinione…più o meno…”

“Dai! Faith e Sean si odiano!”

“E a proposito, come va con Greg?”

“Benissimo. L’ho piantato.”

“OK. Ora dimmi la versione ufficiosa.”

“Non sopportavo più che titubasse tra me e l’ex moglie. Gli ho detto “Scegli!”, e lui ha fatto i bagagli. Credo che in questo istante siano in viaggio di nozze in Nuova Zelanda.”

“Capisco…conficca un paio di spilli nel feticcio che hai a sua immagine da parte mia.”

“Se trovo ancora un buco libero sicuro, sorella. Tu non hai certi problemi, vero donna sposata?”

“Verissimo, donna single. Ho un marito che è un amore, un figlio che adoro come se fosse davvero mio, un lavoro che dopotutto mi piace da matti…una cosa ci sarebbe per terminare il quadretto. Due chiacchiere con te di persona. Sicura di non potere? Liz, guarda che possiamo combinare.”

“Certo, in un’altra vita o all’altro mondo. Diciamoci la verità, Cordy, siamo due donne maledettamente impegnate.”

“Vero. Oh, che tardi, devo andare a prendere il bambino. Oggi io e mio marito festeggiamo l’anniversario. Non ho la più pallida idea di cosa abbia preparato, e questo mi spaventa.”

“Uhm…Anniversario. Lui che ti fa sorprese. Auguri. Credo di essere allergica ai rapporti a lungo termine.”

“E che tra non molto sarà ancora più saldo…aspetto un bambino, Elizabeth!”

“Oh mio dio! Congratulazioni! E tuo marito lo sa?”

“Beh, è il mio regalo per stasera.”

“Lo sfido a fare di meglio. Questo rapporto minaccia davvero di essere per sempre. Sei fortunata, Cordy, sono felice per te.”

“Per sempre. È proprio questo il bello. Ciao!”

 

Elizabeth era rimasta con la cornetta in mano.

 

*“Per sempre. È proprio questo il bello…”*

 

Dove aveva già sentito questa frase? Forse era stato Angel a dirgliela. Insomma, se era lui ad averle donato il claddagh…Ripensò a quello che Lirem le aveva detto su di lui durante il loro incontro. Un vampiro con l’anima di circa 250 anni, che aveva ricevuto la chiamata ad aiutarla e che si era innamorato, ricambiato, di lei. Aveva letto le informazioni che le aveva dato, sempre non riuscendo a credere che quella storia degna di un romanzo d’amore fosse proprio successa a lei. Una storia triste, visto che era finita e lui se n’era andato. Le avrebbe anche detto dove si trovava ora, ma Elizabeth non vedeva il motivo di piombare nella vita del suo ex per chiedergli aiuto. Ce l’avrebbe fatta da sola.

 

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E ce l’ho fatta, da sola, si disse mentre volava verso Mosca, ultima tappa del suo viaggio. Tremava al pensiero di quello che avrebbe trovato…

Alla fine, una volta arrivata a Oslo, aveva trovato la sorella di Marit, Anouk, che le chiedeva di scusare la sorella, ma che dei problemi l’avevano trattenuta e che insieme alla sua equipe stava lavorando alla decontaminazione del laboratorio. Quello, più la quarantena, l’avrebbe tenuta occupata per un pezzo, e Daniel si era offerto di badare a lei. Più che un soggiorno di studio era stata una rimpatriata tra vecchi amici. Era ritornata seria quando era andata da Aisha, in Sudafrica, dove la donna combatteva ogni giorno contro i pregiudizi razziali, oltre che contro demoni, vampiri e osservatori, e si era rilassata di nuovo quando era tornata ad Oslo. Marit era scampata al contagio di un virus di Secondo Livello, e si era presa le sue tanto sognate ferie dal Consiglio e dal laboratorio per stare con Anouk, suo marito Haakon, e i nipoti Annika, Martha, Olaf e Sven.

A Buffy quasi dispiaceva di doverli lasciare, ma rimaneva ancora Nikolai.

Anethe-Marit, Haakon e Anouk l’avevano accompagnata all’aeroporto per prendere il volo per Mosca. Marit non era stata zitta un solo secondo, a furia di fare raccomandazioni a Elizabeth su Nikolai.

“Nikolai è un ex del KGB, non so se mi spiego…e viene da una famiglia di quelle che te le raccomando.”

“Perché?”

“Secondo te come fa a sapere così bene chi ha contatti con la mafia e chi no? La sua famiglia. Lui si è chiamato fuori da anni, ma questo non vuol dire che lo hanno fatto anche i suoi parenti. O la sua ragazza. Tatiana è pazza quanto lui.”

“Terrorista?”

“Ladra per vocazione e sicario dei servizi segreti. Pensa a Nikita, solo mora e un po’ più gelida.”

Se quello che stava dicendo aveva lo scopo di farle venire paura e di tornare in Norvegia o in Inghilterra a tempo di record, era fiato sprecato. Nik le piaceva, ed era curiosa di conoscere Tatiana.

“A proposito di Tatiana” fece Anouk dal sedile davanti “Nikolai se la sposa o no?”

“Sono proprio curiosa di vedere se ce la fa, sorellina.”

“Io credo che sarà comunque entro l’anno. Dopo l’ultima volta che hanno rotto, mi è sembrato di capire che stavolta poteva essere la volta buona. E così al nostro Nik rimane poco tempo per fare l’allegro scapolo…”

“Sempre troppo, per la mia pace di spirito” borbottò Haakon.

Anouk stralunò gli occhi e sorrise “Dio, una volta è venuto da noi. Una. E non è successo niente perché quando è arrivata Marit a momenti lo inseguiva sotto la neve menandolo con la scopa!”

“Vorrei conoscere la donna che non cadrà ai piedi di quel russo, ammesso che esista.”

“Haakon, dolcezza, sei in macchina con tre donne di questo tipo” disse Anouk, e tutti scoppiarono a ridere.

 

Noticina ina ina: il personaggio di Tatiana Ulanov non è mio. Il nome sì, come la sua nazionalità, ma per il resto (storia, spada, circostanze e nom-de-guerre) è tutta farina del sacco del grande Quentin Tarantino. La Sposa è il personaggio principale del suo prossimo film, Kill Bill.

 

Non vedeva l’ora di scendere dal volo. Letteralmente. Un po’ per la curiosità di vedere quanto di quello che aveva detto Marit fosse vero, un po’ per lasciarsi alle spalle la compagnia russa con cui stava viaggiando, e che mai avrebbe avuto il piacere di riaverla a bordo.

Guardò sconsolata la zona passeggeri, completamente vuota, e si domandò dove diavolo fosse Nikolai, dato che aveva promesso che sarebbe venuto a prenderla.

Con quel poco di russo che le aveva fatto apprendere Marit riuscì a prendere un taxi fino alla casa di Nikolai. Vuota anche quella.

“Nikolai, giuro che ti ammazzo, appena riesco a metterti le mani addosso…”

Però fuori aveva iniziato a nevicare, e francamente non aveva voglia di uscire con quel tempo. Quel che fece invece fu accendere il fuoco, e ci si mise davanti con una coperta sulle spalle. Nikolai, aveva scoperto, si era dimenticato di pagare il riscaldamento un po’ troppe volte.

Idem per la corrente elettrica.

Elizabeth aveva appena iniziato a scaldarsi, quando sentì dei rumori che provenivano dalla porta.

 

La porta si spalancò con una pedata.

“Perché siamo qui? È chiaro che la Sposa non sarà così stupida. E poi lo vedi da solo, Boris” disse l’uomo al compagno, indicando la stanza vuota e il fuoco spento “che non c’è nessuno.”

“E invece qualcuno c’è.”

“Come fai a dirlo?”

Boris si chinò per osservare i ceppi di legno, e sfiorandoli si accorse che erano bagnati. Bagnati, ma come indicava il calore che ancora c’era nella stanza, dovevano essere stati spenti frettolosamente e da poco.

“D’accordo, Sposa, esci e non ti faremo del male. Goran ti vuole solo parlare.”

 

Sposa?

 

Goran?

 

Elizabeth si appiattì ancora di più contro il muro, sempre osservando i due uomini entrare in casa e cominciare a cercarla.

Devo andarmene da qui e subito, si disse, ma come?

Distolse un attimo lo sguardo da quello che si chiamava Boris, e l’attimo dopo se lo ritrovò a tre centimetri dal suo viso.

“Ciao, Sposa.”

Prima che se ne potesse rendere conto, Boris la colpì allo stomaco, facendola cadere in ginocchio, e con un colpo secco alla nuca le fece perdere i sensi.

“Siamo sicuri che sia lei?” disse l’altro uomo avvicinandosi ad Elizabeth, legandole mani e polsi, e perquisendola alla ricerca di armi.

“È abile a camuffarsi…ma come pensavo alla fine ha iniziato a ragionare come una donna innamorata, ed è stata la sua rovina. Forza, drogala e portiamola via. Goran credo voglia ucciderla di persona, e poi occuparsi del pretendente numero due.”

 

C’era qualcosa di confuso sopra la sua testa, che Elizabeth non riusciva a distinguere…poi iniziò a delinearsi lentamente la faccia di Nikolai.

“Nikolai…che sta succedendo?”

Nikolai aveva un’espressione estremamente dolente.

“Mi dispiace Elizabeth di averti tirato in mezzo a questo casino, ma…”

Elizabeth si alzò lentamente in piedi, aiutata dal ragazzo, e cogliendolo di sorpresa gli tirò un pugno che lo fece barcollare contro il muro.

“Ti dispiace? Ma si può sapere che hai in testa per farmi venire in questa bolgia? Rapimenti, questa prigione…”

“Posso spiegarti.”

“Lo spero proprio, dannazione!”

“Mi sono confuso e pensavo che arrivassi…ehm…la settimana prossima.”

Elizabeth d’un tratto non si sentì le gambe, e dovette appoggiarsi al muro incerta se ridere, piangere, o pestare Nikolai a sangue.

“Beh, almeno spero mi spiegherai chi è questa Sposa, visto che mi hanno scambiato per lei.”

La Sposa? Loro sono venuti da me cercando la Sposa?”

“Sì.”

“Tatiana.”

“La tua fidanzata?”

“Sì. Tatiana Ulanov. È lei la Sposa. Dio, spero che stia bene, se Goran e Boris la trovano…”

“Perché si chiama così?”

“Per non dimenticare. Lei era un sicario su commissione, con un padrino iperpossessivo. Il giorno che aveva deciso di lasciare quella vita per l’uomo di cui si era innamorata, Goran è arrivato in chiesa, e ha ucciso tutti: il prete, l’organista, i testimoni, e anche il suo futuro marito. Poi quando è arrivato a lei le ha tirato un colpo, alla testa…nonostante sapesse che era incinta, e che il bambino era suo. Ha passato cinque anni in coma, e da quando si è risvegliata sta inseguendo la sua vendetta. ‘La Sposa’ è il suo nome di battaglia. Vuole vendicare Gavrilo e la sua piccola mai nata…”

Nikolai sembrava soffrirne, ed Elizabeth mai avrebbe immaginato che la famosa Tatiana con cui tanto spesso litigava al telefono e con cui si mollava e si rimetteva insieme un sacco di volte, fosse una donna tanto complicata.

“Credo che al suo posto io farei lo stesso. Dev’essere una cosa orribile perdere l’uomo che ami e un bambino nello stesso momento…Dov’è ora?”

“Spero lontano da qui. Goran è l’ultimo sulla sua lista, ma sa che lei lo cerca…perché credi che io sia qui, altrimenti?”

La porta di quella cella si aprì, ed entrò uno un uomo all’apparenza di etnia slava sui quarant’anni, seguito da Boris. Conversavano in russo molto velocemente, ed Elizabeth riusciva a cogliere solo qualche frammento di frase, ma capì che Boris stava indicando lei come ‘La Sposa’.

Goran le lanciò una lunga occhiata, e poi parlò in inglese in modo che tutti capissero.

“Tatiana ha i capelli lunghi e neri, e occhi blu scuro. Lei ha gli occhi verdi e i capelli rossi. La buonanima di mia madre aveva proprio ragione. Se vuoi una cosa fatta bene” disse sollevando una pistola all’altezza della testa di Boris “falla da te.”

Boris iniziò a tremare di paura mentre Goran stringeva il grilletto dell’arma sempre più forte…

Il colpo non era in canna.

Boris si rilassò.

Goran sorrise e lo uccise con il proiettile successivo.

“Roulette russa, amico mio…non pensate anche voi che sia un bel modo di sfidare la sorte?”

Elizabeth non proferì parola, e neanche Nikolai. Aveva sempre pensato di morire per mano di un vampiro, o in quel palazzo che era crollato, o per causa di Julian Turner e Vincent Van Allen, ma mai per mano di un uomo del genere e della sua pistola, che ora puntava proprio dritto su di lei.

“Sarei scortese ad ammazzare questo qui prima di te. La cavalleria m’impone di iniziare dalle signore. Quindi, mia bella sconosciuta, credo proprio che inizierò da te.”

“Non la toccare!” ruggì Nikolai, facendo per proteggerla, ma d’un tratto Goran impallidì di colpo.

Davanti al suo collo c’era la lama di una katana, lucente e affilatissima, a distanza forse di un millimetro dalla pelle.

La Sposa in persona. Che onore.”

“Non farmi perdere la pazienza, Goran. E lascia subito andare i miei amici.”

“E se non lo faccio?”

Tatiana sorrise. Un sorriso gelido.

“Allora morirai, ma avvelenato dalla mia lama. Non è un kriss malese, ma temo che ti dovrai accontentare.”

Goran aveva lasciato cadere la maschera di sicurezza. Che le credesse o meno, cominciava a temere qualcosa.

“I miei uomini…”

“Non era il loro giorno fortunato. Hanno incontrato me. E tu, Goran, dimmi, ti senti fortunato oggi?”

La lama della spada della Sposa si era fatta ancora più vicina al collo, ferendolo leggermente e lasciando uscire qualche goccia di sangue.

Tatiana sorrise soddisfatta del terrore dell’uomo, che si stava domandando se bastava quel minimo contatto ad avvelenarlo.

“Lascia subito andare i miei amici” ripeté, e stavolta Goran, facendo attenzione alla spada, annuì velocemente.

“Fuori, voi due! Subito!”

Elizabeth uscì per prima, desiderosa di lasciarsi l’esperienza alle spalle.

In fondo al corridoio si accorse che Nikolai era ancora vicino a Tatiana. Parlavano.

“Tatiana, ti prego.”

“Va via, ho detto. Porta la tua amica lontano da qui.”

“Non lo fare.”

“Non sarai tu a fermarmi. Vattene, o assisti, a te la scelta.”

Nikolai si voltò, e portò Elizabeth fuori dal palazzo abbandonato in mezzo alla neve. Aveva un’espressione indecifrabile in volto.

Poi un urlo agghiacciante e il sibilo di un fendente calato velocemente li raggiunse.

Si erano fermati di colpo, si erano voltati verso la porta da cui erano usciti, e avevano aspettato che facesse la sua comparsa Tatiana. Finalmente Elizabeth riusciva a distinguere chiaramente in viso della donna. Era molto bella, con i capelli neri ricci, gli occhi scuri, e un incarnato color avorio.

Sembrava sull’orlo delle lacrime, il suo sguardo completamente assente mentre veniva verso di loro con in mano la sua spada grondante sangue, che tingeva di rosso la neve immacolata.

Nikolai l’aveva guardata fissamente, mentre lei si avvicinava a lui.

“Tatiana?”

“Goran è morto.”

“Lo so.”

“Gavrilo e Larissa sono vendicati.”

“Sì, Tatiana.”

Per un istante sembrava sul punto di cedere alle lacrime che volevano uscire dai suoi occhi, ma lo sguardo di Tatiana riprese subito l’abituale freddezza, cancellando quella possibilità.

“Dobbiamo andarcene subito da qui.”

 

I tre avevano preso la strada per la casa di lei. Elizabeth non sapeva bene che aspettarsi. Tatiana era un sicario su commissione, che da quanto era visto era gelida e vendicativa, e pensava che la casa rispecchiasse in pieno il suo modo di essere. Non pensava all’appartamento caldo e accogliente dove li portò.

Nikolai appena entrato afferrò la bottiglia di Whisky e bofonchiò che si prendeva un paio di bicchieri di liquore e poi andava a dormire, dopodiché lasciò le ragazze da sole e imbarazzate in soggiorno.

“Ehm…Elizabeth? È così che ti chiami, giusto?”

“Giusto.”

“L’orso ormai sarà in letargo, dubito che lo rivedremo fino a domattina. Caffè?”

“No, credo di essere già abbastanza nervosa.”

“È colpa mia, mi dispiace. Ti hanno visto nella casa di Nik, e hanno pensato fossi io.”

La Sposa…già.”

“Nikolai ti avrà spiegato le ragioni del mio soprannome.”

“Sì, mi ha raccontato la storia.”

“Non elemosino comprensione o pietà. E non mi pento della mia vita.”

“Non ti volevo compatire. Dico solo che ci vuole un bel coraggio.”

“La vendetta. Essa comanda, e uccide. E Goran meritava di morire.”

“Lo penso anch’io. E questa filosofia vendicativa da dove viene fuori?”

“Dalla mia gente. La mia famiglia è di origine rumena e i miei bisnonni erano zingari Calderash. Il mio clan crede nella vendetta, e se non lo avevo capito prima, di sicuro l’ho capito ora.”

“Calderash? Gli stessi Calderash che…”

“Che cosa?”

“Conosci un certo Angelus?”

“Come posso non conoscere il nome del vampiro che ha ucciso la guaritrice della tribù? E tu, come lo conosci?”

“Dopo la maledizione, io l’ho conosciuto. Per colpa mia, mi è stato detto, ha perso l’anima ed è ritornato malvagio…e l’ho ucciso, spedendolo all’Inferno.”

“Ora vive a Los Angeles, in cerca di redenzione da quanto ne so. Ma non m’importa di quello che fa.”

“Sposerai mai Nikolai?”

“Non so se sposerò mai qualcuno, ma se dovessi farlo, credo che sposerei Nikolai.”

“È una mia impressione o non mi hai risposto?”

Tatiana sorrise, enigmatica, e alzandosi dal divano accompagnò Elizabeth nella sua stanza.

Al mattino dopo, era già sparita. Elizabeth e Nikolai fecero ritorno a Mosca da soli, e finalmente Nikolai iniziò a spiegarle cosa voleva dire lavorare in Russia in bilico tra gli ex colleghi del KBG, i contatti della mafia, e il Consiglio. Elizabeth però non lo stava ad ascoltare. Pensava a Tatiana. E sperava di rivederla.

Come aveva immaginato, Nikolai le parlò molto velocemente di quello che combinava in Russia, e per il resto del tempo la portò in giro per Mosca, e presa poi la Transiberiana la portò a Vladivostok.

“Io mi fermo qui, Liz. Tu ora prendi l’aereo e te ne torni a casa.”

“Capirai se ti ringrazio solo per questa parte del soggiorno. La permanenza in quella cella non è stata edificante.”

“Tatiana mi ha detto di dirti che le dispiace, ma che ora che è ritornata in seno ai servizi segreti ti terrà lontano tutti quelli che potranno romperti le balle.”

“Ringraziala da parte mia.”

“Fallo tu” disse dandole un foglietto di carta “qui ci sono il suo numero di casa, l’Iridium, e il suo numero privato in ufficio. Ha detto di farle un fischio se hai bisogno di una mano.”

 

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“Ragazze, vi rendete conto che siamo tutte senza un fidanzato degno di questo nome?”

Era stata Faith a parlare, ovviamente. Era quella che più lo cercava a dire il vero, ma tutti la stufavano dopo un paio di settimane. Il rapporto più lungo era durato un mese, cinque giorni, tre ore e una manciata di minuti. Elizabeth aveva cronometrato il tempo. Tanto non aveva molto altro da fare, anche lei era sola, ma non perché non avesse uomini che le facevano la corte, ne era piena. Ogni volta che trovava qualcuno però, trovava sempre un dettaglio che le faceva ricordare Angel, o uno dei due ragazzi che aveva avuto al college e che ricordava solo per essere rimasta scottata dalle relazioni che aveva avuto con loro. E aveva iniziato a piantarli, immancabilmente dopo averli sedotti. Era come prendersi una rivincita dopotutto, e la cosa aveva iniziato a divertirla.

Era tornata dalla Russia da appena un giorno, che subito i suoi amici avevano organizzato una serata da passare insieme. Amici…che bella invenzione, si disse mentre sprofondava nel divano e si apprestava a rispondere a Faith.

“Perché, esistono ancora uomini degni di questo nome?”

“Buff, tu sei anche troppo critica riguardo agli uomini. Ci vedi sempre qualcosa che non va…cerca di accontentarti.”

“No, non lo farò. Troverò il mio principe azzurro…”

“Principe azzurro?” ripeté Drusilla, sul punto d’ingoiare un’enorme cucchiaiata di gelato al cioccolato.

“Che c’è di male?”

Drusilla cercò di inghiottire in fretta, ma stava rischiando di soffocare dalle risate.

“Proprio tu usi la definizione principe azzurro?!”

Faith le tirò un cuscino in faccia “Ma ci credi alle stronzate che dici?”

Elizabeth le restituì il colpo “In tre anni prima del coma ho avuto quattro fregature, di cui due da parte dello stesso uomo. Dopo il coma avrò avuto un paio di relazioni, e sono finite male. Non ho perso le speranze di trovare uno che mi vada bene, ma se ora come ora preferisco star sola a leccarmi le ferite, ed essere io a dare fregature, che male c’è?”

“Prega di non dare una fregatura a quello giusto” le disse Drusilla passandole il barattolo di gelato.

“È l’esperienza che parla?”

“Anche se comincio a credere di sbagliarmi. Aveva perso la testa per te pure lui, tanto per cambiare. Lui diceva di odiarti, ma continuava ad essere ossessionato da te. Lo amavo, era pazza di lui, ero certa che fosse il mio destino…ma Dio Onnipotente, era diventato una lagna. O lo piantavo o l’ammazzavo.”

“Sai se si è ripreso?”

“Per quanto mi riguarda, potrebbe anche esserselo ingoiato la Bocca dell’Inferno, insieme alle legioni infernali.”

“Amen, sorella. Allora il fatto del convento vuol dire quello che pensavo.”

Elizabeth si beccò un’altra cucinata, stavolta da Dru “Ma sta un po’ zitta!”

“E qual è il problema dei vampiri etero di questo posto?”

“Che non ne ho ancora trovato uno! In compenso però ho trovato due amici gay fantastici.”

“Contenta tu.”

“Ma questo film quando inizia?”

“E voi quando la finirete di fare questi discorsi da harem? Guarda, stai a vedere che l’hanno cambiato all’ultimo momento. È in queste occasioni che sento la mancanza del caro vecchio cinematografo. Questi network…quanto li detesto.”

Le ragazze si erano voltate verso la cucina, dove rimaneva l’ultimo membro del gruppo che aveva appena parlato.

“Vuoi una mano?”

“Ce la faccio! Non ho secoli sulle spalle per niente!” protestò Sean uscendo con un’enorme ciotola di pop corn su un braccio e un cartone con quattro birre nell’altra.

Ad ogni modo Drusilla si era alzata di corsa per aiutare il fratello “Dammi qua o farai una caduta epica.”

“OK…cosa dovevano dare, Faith?”

“Qualcosina di classico…l’Esorcista.”

“Che bastardi.”

“Eh già.”

“Ragazze…ci riguardiamo il Silenzio degli Innocenti? Di ritorno dal viaggio ho preso anche Hannibal e Manhunter…che dite, ce la facciamo una maratona in onore di Hannibal Lecter?”

“Speravo lo dicessi.”

Aveva fatto per alzarsi e prendere le cassette, quando il suo telefono cellulare aveva iniziato a squillare.

“È Cordelia. Chissà cosa c’è, ci siamo sentite in ufficio neanche due ore fa…Pronto?”

“Liz, ciao. Ho bisogno di aiuto.”

“Cordy, che c’è? Problemi?”

“Direi proprio di sì. Ho un’amica…un’ex compagna di liceo. L’hanno accusata di omicidio.”

“Omicidio?”

“Ti giuro che è innocente! Willow non farebbe male ad una mosca. Angel…mio marito, si è offerto di fare qualche indagine, ma la questione di fondo è che ci serve un avvocato penalista. Sei l’unica che ci può aiutare.”

“Lo sai anche tu che non amo quei casi. I desaparecidos…”

“Ti prego, Liz. L’altro punto che mi fa dire che sei perfetta, è che Willow è una strega…e quello che è morto è stato trovato in un posto dove si dice si ritrovi chi pratica la magia nera. Aiutami a tirarla fuori dai guai…”

“D’accordo, Cordelia, verrò a Los Angeles.”

“No. Willow vive a Sunnydale.”

“Sunnydale?”

Di nuovo aveva i brividi. Perché poi? Sapeva che c’era la Bocca dell’Inferno, che ci vivevano delle persone chiamate Willow, Xander, Anya, Tara, e Giles che un tempo erano suoi amici ma di cui non ricordava un accidente, e che un paio di volte ci aveva lasciato le penne, ma non capiva tutta questa paura ingiustificata, e francamente ora era arrivato il momento di finirla.

“So che non ti è mai andata di venire quaggiù, ma ho veramente bisogno di te, e…”

“Accetto.”

“…e Willow ha tanto bisogno d’aiuto, lei non lo merita…scusa che hai detto?”

“Che accetto. E fa presto a dirglielo, prima che cambi idea.”

Quando rimise giù il telefono, fece un respiro profondo e si preparò a dirlo ai suoi amici.

“Mi ha chiamato la mia investigatrice a Los Angeles, ha bisogno di un avvocato e io sono l’unica abbastanza brava.”

“Che ha fatto? Ha ammazzato qualcuno?”

“Non lei, una sua amica. Dice che l’hanno incriminata ingiustamente…vedremo. Tu e Shameen mi ammazzate se vado a Los Angeles per il processo?”

“Richiameremo qualche ex desaparecidos, non farti problemi.”

“E poi era ora che tu tornassi ad affrontare il tuo passato…mi dispiace di non esserci…anzi, Faith, perché non vai con lei?” disse Drusilla.

“Dai, non è necessario.”

“Sì, invece. Ti eviterò di fare gaffe del tipo dare del lei a una persona che dovresti conoscere.”

“D’accordo…ma sei sicura? I miei amici mi pare di aver capito che sarebbero felici di vederti spellata lentamente da viva e fatta a pezzettini da morta.”

“Lo vedi cosa mi tocca fare per tenerti fuori dai guai?”

“Senti da che pulpito…”

Beh, prima di partire c’erano alcune cosette da fare, ovvero chiamare Marit, che stava in Canada, e Nikolai, che in quel periodo sorvegliava Vladivostok (e un sospetto traffico d’armi), e dire che se potevano buttare un occhio per lei sul Nord degli Usa non sarebbe stata una brutta cosa. Non fidandosi di Sean, avvisò di persona Shameen, anche se la cosa si ridusse ad un monologo con la segreteria telefonica. Chiamò i suoi capizona e li avvisò della sua partenza, chiamò quelli del Sud, e li avvertì del suo arrivo, e quando alzò gli occhi per dire a Sean che partiva il giorno dopo si accorse che lui e Drusilla erano andati via da un pezzo e che Faith si era addormentata sul divano.

 

 

 

Mentre Faith dormiva, Elizabeth si preparò spiritualmente a quello che doveva accadere.

Che ricordava esattamente di Sunnydale?

Ci era andata a vivere con sua madre, ma non ricordava di aver avuto Dawn intorno almeno fino all’università…forse prima viveva con loro padre. Poi ricordava Angel, la loro storia, aveva letto di Angelus e di come l’aveva ucciso, poi c’era un vuoto fino al momento dell’Ascensione, e poi dall’Ascensione fino a quando si era risvegliata nel letto di ospedale. Aveva letto quello che le era successo, i nomi dei suoi amici di prima, ma non le dicevano assolutamente niente.

Di quel periodo aveva solo brandelli minuscoli di ricordi, flash che apparivano e sparivano altrettanto velocemente. E quando non erano brandelli di immagini, erano fitte lancinanti, che le facevano venire voglia di urlare dal dolore.

Stare alla finestra a torcersi le mani non era esattamente la sua idea di trascorrere il tempo fino all’ora del volo, così si diresse in camera e iniziò a preparare una borsa. Non contava di stare in California per molto…di solito riusciva a cavarsela velocemente, e comunque si sarebbe trattato solo di un sopralluogo. Almeno sperava.

Finita la borsa, si sedette sul letto e tirò fuori dal cassetto la confezione di sonniferi che teneva nascosta a Faith ormai da una vita, prendendo dal contenitore due pillole sperando che bastassero a calmarla. Una volta sotto le coperte giocherellò un poco con il cristallo nero che portava al collo, e poi si addormentò.

 

Faith dovette urlare per svegliarla il mattino dopo, e mentre stava seduta in cucina di fronte ad un bel caffè forte Faith correva da un lato all’altro della casa per preparare i suoi bagagli.

Più passava il tempo, più si convinceva che tornare era una cosa assolutamente sbagliata. Insomma, aveva la sua vita, i suoi amici, ricordi del passato in numero ragionevole…che gliene fregava di quattro che aveva conosciuto al liceo e di cui non ricordava né nomi né facce?

Ma c’era questa Willow, amica di Cordelia. E lei non aveva mai lasciato un amico nei guai, per nessuna ragione. Cordelia aveva un problema, e lei l’avrebbe aiutata a risolverlo.

Era ancora in parte sotto l’effetto di quei sonniferi quando salì sull’aereo, tanto che si addormentò di schianto appena appoggiata la testa sullo schienale del sedile.

Quando riaprì gli occhi, davanti a lei c’era Faith che la scuoteva dicendole che era ora di slacciare la cintura. Erano arrivate a Los Angeles.

“Di già? Cavolo, ma abbiamo preso il Concorde?”

“No, ma tu ti sei fatta dormendo tutto il viaggio. Perlomeno sarai sveglia quando incontreremo la tua cliente.”

“E dove dobbiamo incontrarla, di grazia?” disse soffocando uno sbadiglio e stiracchiandosi braccia e gambe, preparandosi a scendere.

“Sunnydale. Magic Shop. I proprietari sono Rupert Giles e Anya…ti dicono qualcosa questi nomi?”

“Faith, piantala di fare la psicologa e di usare questi giochini, e dimmi quello che sai.”

“Giles è il tuo ex Osservatore. Inglese, palloso, e troppo inquadrato per i miei gusti. Anya è una ex demone della Vendetta, che si chiamava Anyanka…” disse Faith, spingendo Buffy giù per la scaletta mentre portava i bagagli a mano.

“Questo nome già mi dice qualcosa…”

“Ci avrei scommesso.”

“Quindi ora è umana…sfido che quando la invocavo per i miei ex non veniva!”

“Lo sai che sei da ricovero?”

“Perché, tu no?”

“Io sono un caso a parte, dolcezza. E ad ogni modo, non ho mai invocato un demone per vendicarmi di un ex…mi è bastato vedere come ti sei arrangiata tu. A Greg sarà poi venuta via quella scritta fatta con la vernice nera che gli hai lasciato sulla schiena quando l’hai mollato?”

“Boh…non che me ne freghi. Non mi piace essere tradita, e credo che ora lo sappia anche lui…”

“Fin troppo bene.”

“Andiamo dirette a Sunnydale o alloggiamo a Los Angeles?”

“Sunnydale.”

“Ci sono alberghi decenti a Sunnydale? E prima che tu parli, no, lascia perdere il tuo motel.”

“Col conto spese che ci ritroviamo in due ce la potremmo comprare quella topaia. Ora ti dico cosa cerco: un quattro, anzi meglio cinque stelle, bello, con camere grandi, e il servizio in camera…e un massaggiatore somigliante a Brad Pitt che sappia fare i massaggi shatzu.”

“Nient’altro?”

“Dammi tempo…e intanto troviamo un taxi!”

 

Elizabeth una volta arrivata a Sunnydale decise che voleva farsi un giro per conto suo. Faith non era molto d’accordo, ma la stanchezza del viaggio che la sua amica non aveva lavorò contro di lei facendola crollare di schianto sul letto della sua stanza.

Prima di uscire, le lasciò un messaggio che diceva che si sarebbe recata al Magic Shop, e poi si avventurò per le strade della cittadina. Buffo come tutto le appariva estraneo e familiare allo stesso tempo…ma ricordava la scuola, ancora ridotta in macerie perché nessuno si azzardava a costruirci qualcos’altro, e poi il cimitero, e la casa dove aveva vissuto.

Il cartello ‘vendesi’ era molto vecchio e rovinato, senza dubbio doveva stare là da tanto tempo. Evidentemente, dopo la morte di sua madre, e poi la morte sua e di sua sorella, qualcuno doveva aver pensato che sulla casa ci fosse una sorta di maledizione e nessuno quindi voleva comprarla.

Levandosi una forcina dai capelli, si avvicinò alla porta e iniziò a forzare la serratura. Quando dopo un paio di minuti scattò, ringraziò mentalmente Nikolai per averle insegnato questo ed altri trucchetti.

Che desolazione. La casa sembrava morta con le proprietarie. Dopo aver fatto un giro del piano terra, levando tutti i teli che coprivano i mobili, salì al piano di sopra diretta nella sua vecchia stanza. Anche lì tutto era coperto, e le sue cose erano state ammonticchiate in due o tre scatoloni. E guardando quella stanza, prese dalla tasca il cellulare, per chiamare il numero che aveva visto sul cartello fuori.

“Hamilton immobiliare, posso esserle utile?”

“Credo proprio di sì.”

Quando disse l’indirizzo della proprietà che le interessava, alla segretaria a momenti venne un colpo.

“Da-Davvero le interessa quella casa?”

“Ha un suo fascino. Quanto vuole?”

“Ehm…controllo. Un momento.”

La cifra che le disse era veramente irrisoria, e le disse che però sarebbe stato necessario rifare l’impianto elettrico, quello idraulico, riparare qualche piccola fessura nel tetto, e liberarla dai mobili rimasti, e che questo faceva lievitare il prezzo se non voleva accollarseli lei.

“Ma per me non è un problema. Era casa mia, un tempo. E per la cifra le farò un bonifico domani mattina, le porterò la ricevuta e firmerò il contratto di compravendita. Siamo d’accordo?”

“Sì…certamente. A domani, signorina.”

Elizabeth sorrise. Era stata una cosa totalmente impulsiva, ma era felice di avere di nuovo la sua vecchia casa. Ora però bisognava trovare il modo di dirlo a Faith, ma lo avrebbe fatto più tardi. Voleva proprio vedere se ricordava la strada per quel locale chiamato Bronze, e per quel negozio di oggetti magici, The Magic Shop.

 

“Sei stata molto fortunata, Willow, la cauzione che quel giudice ha fissato era abbastanza bassa” disse Xander sedendosi accanto alla sua amica al tavolo del Magic Shop, dove si trovavano anche Anya, il signor Giles e Tara.

“Che ha detto Cordelia?”

“Cordelia mi ha fatto sapere che ha un’amica avvocato. Le ha parlato del caso, e dovrebbe arrivare stasera. Stai tranquilla, vedrai che andrà tutto bene.”

“Una cosa non la capisco, però” esclamò Anya “Quel tipo, Gage, che ora ti accusa, da dove salta fuori? E quelle prove?”

“Non ne abbiamo la più pallida idea, Anya, ma su una cosa siamo sicuri. Mente.”

“Spero tanto che questa avvocatessa possa fare luce su tutta questa faccenda” mormorò Willow, torcendosi le mani. Tara le mise un braccio intorno alle spalle e la attirò un po’ contro di sé, per confortarla.

Sentirono il campanello sulla porta del negozio suonare un paio di volte, segno che qualcuno era entrato e aveva chiuso la porta.

“C’e nessuno?”

“Chi è?” domandò Giles.

“L’avvocato che vi manda Cordelia Chase” disse la voce, intanto che avanzava verso lo scaffale pieno di libri che nascondeva il tavolo dove tutti erano seduti.

Finalmente Elizabeth raggiunse il tavolo e posò la giacca su una sedia vuota.

“Sono Elizabeth Summers, piacere di conoscervi.”

 

Elizabeth aggrottò le sopracciglia, domandandosi il perché di quelle facce allibite.

“Beh? Mai visto un avvocato di Boston?”

“Non è possibile…” mormorò Giles alzandosi in piedi.

“Ci sono i treni, gli aerei, certo che è possibile. Allora, chi di voi devo difendere in tribunale dall’accusa di omicidio?”

“Buffy? Mio Dio, ma sei tu?”

“Come mi ha chiamata?” domandò Elizabeth, già scocciata. Odiava sentire quel diminutivo, eccetto che da una ristrettissima cerchia di persone.

“Ti ho chiamata Buffy” continuò Giles. “Non è questo il tuo nome?”

“Il mio nome è Elizabeth, e comunque non credo mi chiamerà mai così. Ora ripeterò la domanda: chi di voi dovrò difendere in tribunale dall’accusa di omicidio?”

Willow si alzò e le andò vicino “Sono io, ma B…cioè Elizabeth, non ti ricordi di noi?”

“Dovrei?”

Elizabeth si guardò intorno. Quel posto per caso doveva esserle familiare? Non lo ricordava per niente. Provò allora a concentrarsi sulle facce…e solo allora fece il collegamento tra le persone che aveva davanti e il dossier che le aveva mostrato Lirem.

“Oh, porca miseria…siete voi? Cioè, Willow, Tara, Xander, Anya e Giles?”

“Sì…come siamo felici di rivederti” disse Giles, indicandole una sedia.

“Elizabeth si sedette, cercando di fissarsi in testa le immagini dei presenti “Mi fareste un favore a dirmi come vi ho conosciuti. Dopo il crollo di quel palazzo a Los Angeles sono stata in coma per nove mesi, e da quando mi sono svegliata soffro di amnesia. Ho ricordato chi sono, so cosa facevo, ma per il resto della mia vita ho solo brandelli di immagini e facce senza nome.”

Oltre a incubi che mi costringono a prendere dei tranquillanti che stenderebbero un elefante, completò mentalmente.

Giles stava per aprire la bocca, quando la porta del negozio si aprì e si chiuse con forza, rischiando di andare in pezzi.

“RAZZA DI DISGRAZIATA, DOVE SEI?!”

Elizabeth represse una risata mordendosi le labbra, mentre Faith entrava nel negozio a passo di carica, fino a trovarla. Tutti i presenti eccetto Liz mostrarono chiaramente la loro sorpresa e il loro disprezzo, ma sembrava che Faith non li notasse nemmeno.

“E finalmente! La vuoi piantare di sparire nel nulla?”

“Non eri disponibile ad essere interpellata.”

“Perché stavo dormendo, come fanno tutti i mortali dopo un viaggio da una costa all’altra degli Stati Uniti! Quale parola nella frase ‘non te ne andare in giro da sola perché non ricordi una mazza della città e potresti cacciarti nei guai’ non hai compreso?”

“Mi dispiace.”

“Spiacente, B, non te la cavi con così poco. E sai che vuol dire?”

“No, per pietà!”

“Terapia.”

“Per favore, piantatemi un pugnale nello stomaco e buttatemi dal palazzo più alto di questa città, vi prego!”

“Tanto non mi scappi…”

“Scommetti?”

“Che cosa ci sei venuta a fare qui, Faith? Lo sai che non ti vogliamo.”

Era stata Willow, con tono glaciale. Solo allora Elizabeth si era voltata, e aveva visto gli sguardi di tutto il gruppo su Faith, ora in silenzio.

“Faith sta con me. Lavoriamo insieme.”

“Dopo tutto quello che ti ha fatto?” mormorò Xander, allibito. “O forse non lo ricordi?”

Elizabeth guardò quegli estranei che criticavano la sua migliore amica, e desiderò pestarli. Erano stati fuori dalla sua vita per quasi una decade e pretendevano pure di giudicare?

“Ricordo perfettamente. Siamo state rivali, nemiche, ci siamo quasi ammazzate a vicenda. E ora siamo amiche, colleghe e coinquiline… il mondo gira, la gente cambia.”

“Non quelle come lei.”

“Vorrei ricordarti che tra quelle come lei sono compresa anch’io…e francamente tra me e lei quella che viene considerata pericolosa ora non è lei. Perdonatemi se non ho fiducia nei vostri giudizi, ma come tutti i miei amici e colleghi di Boston sanno io mi fido solo di pochissime persone: una è Dio, l’altra sono io, e la terza è Faith. Le altre cinque non siete voi.”

Detto questo, prese la giacca e se ne andò.

Ignorava che qualcuno nell’ombra aveva seguito tutto il suo peregrinare per Sunnydale, senza riuscire a credere ai suoi occhi.

 

 

 

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