GLI ULTIMI GIORNI DI SUNNYDALE

Di ReaderNotViewer

 

 

 

TITOLO: Gli ultimi giorni di Sunnydale

AUTORE: ReadeNotViewer

COMPLETATA: estate 2005

TIPOLOGIA: storia a capitoli

WORDCOUNT: 71504

TIME LINE: settima stagione di Buffy

PERSONAGGI: un po’ tutti quelli del telefilm

GENERE: commedia, drammatico

RATING: giallo

 

DISCLAIMER

I personaggi tratti da Buffy sono di Joss Whedon e ahimè non sono miei, anche se li frequento da così tanto tempo che tendo a dimenticarmene. Però ce ne ho messi anche di miei (e naturalmente Joss ha il mio permesso per usarli, visto che io ho usato i suoi…).Gli avvenimenti narrati si svolgono - o avrebbero potuto svolgersi - durante la settima stagione di Buffy.

Spoilers sulla quarta stagione di Angel (abbastanza velati e solo in uno dei capitoli, ma è mio dovere avvertirvi).

Per citare, riprendere, tradurre questa storia in parte o in toto dovete avere il mio esplicito permesso.

Introduzione

La mia protagonista è Tarantula, ve la ricordate?, la ragazza che Spike ha portato al matrimonio di Xander nella sesta stagione. Per esigenze narrative e dal momento che non credo che Tarantula sia il suo vero nome, le ho dato anche un nome, un cognome, una famiglia, una storia, un lavoro e tante altre cose che mi tornavano utili.

Mi piace pensare che questa fanfic sia In Carattere e ho fatto del mio meglio per restare in canone.

Per mia fortuna della mia protagonista si sa troppo poco per potermi accusare di essere Fuori Carattere.

In quanto agli altri personaggi, le libertà che mi prendo sono tanto maggiori quanto meno è rilevante il loro ruolo nel telefilm.

Poiché la classificazione di una fanfic non è una scienza esatta, qualcuno potrebbe non condividere le mie scelte: se così fosse, vi giuro che non ho fatto apposta per farvi arrabbiare!

Ringraziamenti

 

È un vero peccato che le persone che maggiormente meriterebbero i miei ringraziamenti, vale a dire i miei colleghi e i membri della mia famiglia, siano anche quelle stesse che è molto meglio non sappiano come ho occupato una parte del tempo che avrei dovuto invece usare per far fronte agli impegni della vita reale.

Venendo a coloro che posso ringraziare senza correre rischio di licenziamento o di divorzio, i primi sono innanzitutto coloro che mantengono vivo il mondo di Whedon in rete in Italia perché il loro impegno mi ha garantito un facile accesso alle informazioni che mi servivano per incastrare la mia fantasia con gli avvenimenti realmente raccontati nel telefilm.

Ma tutto questo non sarebbe stato possibile innanzitutto senza le mie magnifiche beta-reader, che mi hanno spronato e incoraggiato a cominciare, continuare e soprattutto portare a termine questa, che è la prima fanfic della mia vita.

Perciò un grazie di cuore sia a Cinderella per il suo sostegno, i suoi consigli e il costante apprezzamento del mio lavoro sia soprattutto a Jean Genie che oltre a non farmi mai mancare il suo appoggio ha messo generosamente a mia disposizione la sua competenza professionale svolgendo un'insostituibile, preziosa ed accurata funzione di editing. Farina del suo sacco sono il diminutivo - Tula - con cui gli amici chiamano la mia protagonista e la scelta della canzone in testa al secondo capitolo: insomma, così come per i vampiri con l'anima, se questa ragazza non esistesse bisognerebbe proprio inventarla.

1. Un demone per capello

 

“Gracias a la vida que me ha dado tanto

me dió el corazón que agita su marco

cuando miro el fruto del cerebro humano

cuando miro al bueno tan lejos del malo

cuando miro al fondo de tus ojos claros”

Gracias a la vida di Violeta Parro

 

 

 

Ho sempre odiato Sunnydale. Eravamo all’asilo, io e la mia amica di quando avevo quattro anni, Gladys con le treccine bionde e i pomelli sulle guance, e io le dicevo seria seria “Quando divento un po’ più grande prendo la mia Jenny — era la mia bambola preferita, anche se già a quell’epoca sembrava uscire dal campo di battaglia più che dalla scatola dei giochi — e scappo col treno.” La mia amica Gladys annuiva così energicamente che le trecce ondeggiavano di qua e di là, entusiasta di quest’idea di abbandonare Sunnydale non appena le nostre gambette ce lo avessero consentito.

 

E se lo avesse fatto davvero, forse non sarebbe giù nella terra scura sotto quella bella lapide bianca con l’angioletto che la sua famiglia ha fatto scolpire per lei giusto una settimana dopo il suo sedicesimo compleanno. Uno spaventoso incidente stradale con la vecchia macchina che Bobby, il suo ragazzo, aveva sgraffignato al nonno, a quanto pareva il motore li aveva traditi lungo la strada di ritorno dal cinema e un maledetto pirata della strada li aveva travolti e uccisi mentre Bobby cercava ancora di capire cos’era successo con la testa dentro il cofano e Gladys gli faceva luce con la torcia elettrica.

 

C’era sangue dappertutto, sapete, un lago di sangue in cui il motore sembrava galleggiare come un pezzo di manzo in brodo di rape quasi fossero stati investiti da una mietitrebbia, non da un’altra macchina, ma da quando in qua i mietitrebbia se ne vanno in giro in una piovosa serata di gennaio, domando io? Maledetta Sunnydale, i suoi strani incidenti stradali e i suoi molti cimiteri.

 

Ed eccomi qui di nuovo nonostante tutto a Sunnydale come se ci avessero attaccato un elastico a quel suo stupido cartello di benvenuto, sì, proprio quello che tutti gli ubriaconi abbattono quando capitano in città, e l’altro capo dell’elastico me l’avessero attaccato al bottone dei jeans, o giacché ci siamo all’asola delle mutande, sempre se io portassi mutande e se queste avessero un’asola.

 

Ero tornata in città da poche ore — giusto il tempo di scaricare i bagagli a casa e di godermi un caloroso benvenuto di bestemmie da papà — e chi è il primo che ti incontro? Clem, naturalmente, e chi altri. Voglio dire: benvenuti a Sunnydale, l’unica cittadina della California in cui non solo vivono più demoni che esseri umani ma spesso i primi sono più simpatici dei secondi, e si sanno anche comportare meglio, come la primavera scorsa ad esempio, quando quel ricevimento di non nozze a cui tra l’altro ero pure stata invitata si è trasformato in una rissa coi fiocchi e a sentire Dolores, la mia amica del catering, cominciarono proprio gli esseri umani a dar fuori di matto.

 

In confronto a quello del mio caro genitore, che si era riscosso dal suo stupore alcolico solo per darmi della puttana e della fallita, il benvenuto di Clem fu un vero balsamo sulle ferite del mio animo, con genuino piacere di rivedermi, pacche sulle spalle e autentico dispiacere che le cose mi fossero andate male a Houston, e Dio, se mi erano andate male, non potete nemmeno avere idea di quanto.

 

Così Clem mi offre da bere al suo bar preferito — più demoni che umani anche lì, ma chi se ne frega, come se gli umani non potessero essere abbastanza demoniaci, guardate ad esempio quel maiale di mio cugino Ronnie — e io gli racconto i miei guai e gli piango sulla spalla, o per meglio dire su tutte quelle pieghe di pelle che ha attorno al collo e che di solito tiene accuratamente ripiegate e figuratevi che sto anche attenta a censurare le parti più scabrose e avvilenti del mio racconto perché ho paura che se la prenda troppo a cuore e non sia mai che perda il suo eterno ottimismo.

 

Così quando ho finito di piagnucolare e di bere Cuba Libre lui mi chiede che cosa ho intenzione di fare adesso, con quello sguardo tutto speranzoso di chi si aspetta che tutto torni al suo posto, ed è chiaro che se fosse per lui potremmo rientrare in affari anche subito, come se non me ne fossi andata e l’avessi lasciato lì come una stronza proprio alla fine della primavera, quando le giornate si allungano, le notti si accorciano e tutti i demoni di Sunnydale hanno un mucchio di tempo libero da passare al chiuso e al coperto. Addirittura mi chiede se ho imparato qualcosa di nuovo a Houston e io potrei dire di no, che a togliermi di dosso uno che ha in mente di violentarmi con un bel calcio nelle palle lo avevo imparato già da prima, solo che non mi era ancora capitato a Sunnydale di doverlo fare con uno di famiglia, e in quanto al lavoro avevo passato quasi tutto il tempo a scopare capelli dal pavimento, a pulire i pettini e a tenere aperta la porta alle clienti perché Monsieur Alexandre non fa certo mettere le mani in testa alle sue clienti dalla prima venuta, soprattutto quando le referenze che questa gli potrebbe portare sarebbero firmate col sangue o magari col sigillo dei demoni Kaa.

 

Tant’è vero che stare in una cantina a disegnare la riga con l’eye-liner semipermanente sulla palpebra di vampire annoiate o a fare la permanente a un demone della vendetta secondo la moda del 1920 dopo il mio soggiorno a Houston non sembra in fondo così male ed eccomi lì a chiedere a Clem se il salone è ancora aperto e se sua cugina ha già trovato qualcuno per sostituirmi. Peccato che durante l’estate sua cugina si sia trasferita a Cleveland per stare vicina alla madre ammalata di una misteriosa affezione dermatologica, confermando così ancora una volta l’indiscussa superiorità morale dei parenti di Clem rispetto ai miei e che il salone sia andato distrutto nel corso di un non meglio precisato raduno di una setta di adoratori del fuoco che probabilmente avevano esagerato con le loro manifestazioni di adorazione.

 

E io già sto pensando che con la scalogna che c’ho addosso, diciamo pure che mi sta attaccata come fossimo gemelle siamesi dalla nascita, va a finire che mi tocca andare a fare i turni serali al Doublemeat Palace, per intenderci quelli che non vuole fare nessuno perché a parte il lavoro che è uno schifo in sé e per sé ogni volta che vai a buttare la spazzatura corri il rischio che qualcuno abbia voglia di farsi uno spuntino con te invece che da te, se capite cosa intendo; e io non ho neanche uno straccio di ragazzo che venga a prendermi con la macchina, per non parlare di madri amorose o padri preoccupati per la mia incolumità, nel senso che mio padre si preoccuperebbe per la mia incolumità soltanto se andassi in giro con delle bottiglie di whisky infilate nelle tasche e in quanto a mia madre ha avuto l’accortezza di filarsela niente di meno che a Detroit, cioè praticamente nel posto più lontano da qui in cui uno possa andare senza lasciare il continente e senza espatriare, a parte l’Alaska naturalmente. Ma qui potrei sbagliarmi perché la geografia non è mai stata il mio forte a scuola; inoltre la mia insegnante di geografia è sparita misteriosamente prima della verifica finale, e per quanto possa sembrare strano questo è un modo tutt’altro che insolito di finire i corsi scolastici a Sunnydale.

 

Ma Clem si dimostra portatore non solo di amicizia e di beveraggi gratuiti perché già mi rassicura che un posto per me nel ramo cure estetiche settore demoniaco ci sarà sempre e che lui può trovarmi un lavoro così, e nel dire questo tenta di schioccare le dita, emettendo una sorta di plop al posto dello schiocco per via della sua particolare conformazione morfologica, perché lo sanno tutti che ero brava e coscienziosa, prova ne siano le mance sostanziose che mi lasciavano anche i demoni della vendetta, che tutti lo sanno quanto sono parsimoniosi. Giuro che dice proprio così — “parsimoniosi”— ma solo perché Clem non darebbe del taccagno nemmeno a Zio Paperone. I demoni della vendetta restano in circolazione un mucchio di tempo, sarà per questo che sono avare come un ebreo che prestasse denaro a strozzo ad Edimburgo. Sapete quel proverbio che dice “la farina del diavolo va tutta in crusca”? Si direbbe proprio che la stessa cosa succeda alla mancia del demone, e questo è un altro dei motivi per cui ho tentato di trasferirmi a Houston, perché ne avevo davvero abbastanza di ricevere in cambio dei miei servizi gattini, monete fuori corso e cartamoneta che alla luce del sole si riduceva a un mucchietto di polvere.

 

— Ma senti, credi che mi darebbero dei soldi veri questa volta?

Clem mi guarda con tristezza e una traccia di offesa sul viso, come se stessi implicando che nemmeno lui sia del tutto vero, cosa che in effetti è difficile a credersi, perché è così gentile e cordiale che potrebbe benissimo essere una leggenda come Babbo Natale, e io mi affretto a chiarire:

— Devo fare la spesa al supermercato se voglio mangiare, lo sai. E non posso nemmeno abitare in un sotterraneo o in una bella cripta perché mi farebbe proprio male alla salute.

— Ah, Tarantula, scusami, anche se la tua pelle è così tirata dimentico sempre che tu sei solo un essere umano.

 

Decido di prenderlo per un complimento, ci mancherebbe altro che alla mia età la pelle non sia tirata; e per di più sarebbe anche un pessimo biglietto da visita per il lavoro. Insomma Clem alla fine mi rivela che un’altra parente (no, non proprio una parente ma la sposa vivente di un membro dormiente del suo clan, e grazie no, non voglio assolutamente andare a fondo sul significato di questo particolarissimo stato civile) ha aperto di nuovo la stessa buona vecchia attività proprio in centro, in un posto sicuro dove prima ci stava un certo Brack o Grack a spacciare magia nera al migliore offerente a quanto pare con tanto di ogni comfort, sala d’aspetto e schermatura anti-umani comprese.

 

A questo punto chiedo a Clem che fine ha fatto lo spacciatore e lui si agita sulla sua sedia a disagio finché questa comincia a scricchiolare in modo sinistro sotto il suo peso, e poi comincia a raccontarmi la storia più assurda delle storie assurde che mi sono state raccontate a Sunnydale, in cui per di più è immischiata un mucchio di gente che conosco solo di vista, sicché ogni quattro parole è costretto a farmi un identikit; e davvero non vorrei essere nei panni di un povero disgraziato di disegnatore della polizia che avesse Clem come testimone principale di un delitto, perché sarebbe una di quelle esperienze che ti viene voglia di tirarti un colpo in testa pur di farla finita alla svelta. Alla fine insomma mi sembra di capire che una strega della cricca della Cacciatrice sia andata fuori di matto dopo che uno spostato aveva sparato al suo amato bene e abbia fatto il solito macello di mezza primavera (che a Sunnydale è puntuale come lo sarebbe una fiera dei fiori in luoghi più bucolici e meno infernali) nel corso della quale lo spacciatore di magia nera così ben alloggiato ha perso anche l’ultima delle diverse vite di cui era dotato e ha tolto definitivamente l’incomodo. Il tutto con un contorno di spellamenti, viaggi sul piano astrale, combattimenti con mostri di terra e altre amenità che vi risparmio, tolto il particolare che mi interessa dal punto di vista professionale che nel pieno di questa furia omicida la strega di cui sopra ha operato su sé stessa una tintura full-immersion, che francamente se si potesse fare davvero mi tornerebbe veramente utile anche in occasioni meno funeste.

 

— E adesso la strega dov’è? — chiedo a Clem dopo che mi ha confusamente spiegato come Xander Harris in persona, il mancato sposo del mancato ricevimento di nozze a cui avevo mancato di partecipare fino alla fine, abbia convinto la sciagurata a più miti consigli attraverso una storia d’asilo; magari proprio quello stesso asilo che avevo frequentato con la mia amica Gladys. Sì, perché io ho due anni meno di Xander Harris e ho frequentato le stesse scuole fino alla fine, nel senso fino all’esplosione che ha distrutto il liceo di Sunnydale proprio durante la cerimonia di consegna dei diplomi. Quella fu l’unica occasione in cui ebbi fortuna, in effetti, perché se quell’anno George, il disgraziato che era la mia palla al piede di allora, avesse passato più tempo sui banchi di scuola e meno a rubare autoradio, fumare spinelli e tradirmi a destra e a manca, probabilmente sarebbe anche riuscito a diplomarsi, quindi sarebbe stato presente alla cerimonia e di conseguenza io ce l’avrei accompagnato. E magari ci avremmo lasciato la pelle tutti e due, come il nostro beneamato sindaco Wilkins, l’indimenticabile preside Snyder e un certo numero di studenti e di invitati.

 

Invece quel giorno io e George passammo la giornata al mare e nel momento preciso in cui la scuola saltò per aria io e lui giocavamo come due cuccioli fra le onde, tirandoci l’acqua addosso e facendoci scherzi scemi come se fossimo una coppia di attempati e spensierati amanti in una pubblicità di colla per dentiere. A pensarci bene, è stata anche una fortuna che quello sia l’ultimo ricordo che ho di lui, cioè un ricordo buono, perché con l’andazzo della nostra relazione le probabilità che l’ultima immagine che mi restasse di lui fosse una cosa bella che avevamo fatto insieme era una su dieci. La settimana successiva Lois Grey scoprì che George, che era suo vicino di casa, aveva messo incinta sua sorella Selma e gli spaccò il naso. George andò al Pronto Soccorso per farsi tamponare l’emorragia e da lì dobbiamo supporre che abbia raggiunto direttamente la stazione degli autobus perché da allora nessuno in città l’ha mai più visto. Mi mandò una cartolina da L.A. dopo un paio di settimane — un fondo di magazzino di cartolina con su la scritta “Hollywood” — senza dire né dove stava né come stava ma solo che gli mancavo: “Mi manchi. George.” La stessa identica cartolina con la stessa identica frase la mandò a quella povera donna della madre — lo so perché ci incontrammo io e lei con le nostre rispettive cartoline in mano, avendo pensato tutte e due che l’altra avrebbe avuto piacere di sapere che i vampiri non si erano mangiati George nel tragitto tra il Pronto Soccorso e la fermata degli autobus, però a Sunnydale non rimise più piede. Non posso nemmeno dargli torto: lo avete presente Lois Grey? Lavora al macello, è quello grosso con i capelli rossi che una volta ha usato la mannaia per tagliare la testa a un vampiro che era troppo malconcio per la caccia e si voleva rifornire all’ingrosso del meno pregiato sostituto di origine animale, almeno secondo Tony Delmonte, il suo compagno di lavoro ubriacone, ovvio se voi state a sentire quello che dice uno che alle dieci di mattina ha già gli occhi lucidi e il naso rosso.

Questo mi riporta al mio babbo e alle sue abitudini, e al fatto che in casa con lui è igienico restarci il meno possibile, e quando dico igienico mi riferisco anche al fatto che ci sono scarafaggi in giro, piatti pieni di muffa sotto i mobili della cucina e macchie di origine sospetta sui materassi e io non sono più la piccola Cenerentola che dopo la scuola correva a casa a lavare le chiazze di vomito dal pavimento e a raccogliere i bicchieri rotti da sotto il divano. E che quindi devo trovarmi un alloggio decente e per quanto gli affitti a Sunnydale siano sospettosamente convenienti per avere una casa ci vuole pur sempre un lavoro.

 

* * *

 

— Tu — dico a quella forma umana con i capelli a cespuglio che occhieggia da un angolo come un cane randagio — Io non lo voglio aiutare lui, Clem, nemmeno se è amico tuo.

 

Spike, niente di meno. Qui si rende necessaria una breve digressione sui miei principi. Come tutti, io ho degli standard riguardo agli uomini con cui mi accompagno, standard bassi, d’accordo, ma pur sempre standard. E avere un battito cardiaco è una condizione sotto la quale non sono disposta ad andare. Io non ho niente contro il fatto che uno voglia fare sesso con me, ma il fatto che voglia fare pranzo con me mi indispone parecchio, scusate tanto ma sono fatta così.

 

Naturalmente per Spike io e altre avremmo fatto volentieri un’eccezione perché questo particolare vampiro è la nostra specialità locale, per così dire, uno schianto di giovanotto con occhi blu e un accento che ti viene voglia di mangiartelo, e il vantaggio supplementare di non poterti azzannare senza che gli venga un tremendo mal di testa.

 

— Ma lo potrei fare lo stesso, se ne valesse la pena — come precisa lui a questo proposito con quel tono blandamente minaccioso che lo fa sembrare ancora di più un gatto affamato, ma insomma, è un buon deterrente. Senza contare che una paria come me un altro paria lo sa riconoscere, e un vampiro qui a Sunnydale che non può banchettare con i bravi cittadini ma si deve accontentare di fare il cane da guardia per la Cacciatrice per tirare avanti non è esattamente un candidato al titolo di vampiro dell’anno.

 

Al contrario è il candidato ideale — nonché probabilmente l’unico disponibile — ad occupare il posto di buttafuori in un salone di bellezza riservato ai demoni in cui una povera fragile e commestibile lavorante umana entra quattro sere alla settimana alle 09:00 p.m. sperando di uscirne, viva e tutta intera, alle 02:00 a.m., straordinari esclusi.

 

Io sono brava. Davvero, non si direbbe a vedere come mi pettino e come mi trucco io, ma quando si tratta di tingere capelli o squame o piume o di sfumare ombretto sulle palpebre o sui bargigli o di laccare unghie o artigli o zoccoli io non temo rivali; certo, Monsieur Alexandre è più informato di me sulle ultime tendenze di moda ma non credo proprio che se la caverebbe meglio se dovesse tingere le criniere di un intero clan di demoni Kaa in una sola notte e in modo che risultino tutte intonate o se dovesse truccare una neo-vampira in modo che assomigli a Barbie anche con le fauci di fuori e gli occhi gialli (diciamo una Barbie-vampira, va bene?)

 

Ora, il demone medio di Sunnydale è altrettanto stupido del cittadino medio di Sunnydale, visto che il primo si ostina ad abitare nella stessa città in cui risiede la Cacciatrice e il secondo insiste a voler coabitare con creature che lo trovano appetitoso, tuttavia non è così stupido da fare a pezzi gli esseri umani che contribuiscono al suo benessere, per quanto siano commestibili o importuni. Inoltre la cugina di Clem, nonostante la sua indole pacifica e il suo buon cuore, è perfettamente in grado di difendere sé stessa e le sue lavoranti da un certo numero di minacce che potrebbero comportare perdita di produttività o di parti del corpo o di entrambe. A un certo punto dell’anno scorso, però, un paio di giorni dopo quello in cui tutti si sono messi a cantare e a ballare — e no, non parleremo qui del valzer lento che ho ballato con mio padre e la sua bottiglia di vodka: l’unico vantaggio di vivere con un ubriacone è che non devi fare molta fatica per convincerlo che in realtà non è successo proprio niente, era solo un’altra crisi di delirium tremens— il compagno di una vampira che non era rimasta soddisfatta della sua permanente si mise in testa di spezzare il collo dell’altra lavorante, una demone mezzosangue molto simile per la verità a una normale donna grassa con un brutto caso di acne, che per sua disgrazia si era resa responsabile dell’affronto agli indomabili capelli crespi di quella lagnosa succhiasangue.

 

Felicity, la cugina di Clem, li mise in fuga tutti e due con uno spruzzatore di profumo riempito di acqua santa e una serie di oscenità che non avrei mai creduto conoscesse e che mi svelarono un mondo completamente nuovo riguardo alle abitudini sessuali di alcuni clan demoniaci senza che la mia collega subisse conseguenze più gravi di un fastidioso torcicollo, ma poco prima della chiusura quei due disgraziati si rifecero vivi, o forse dovrei dire non-morti, con un paio di amici della stessa razza pronti a dar loro man forte nel fare a pezzi il locale e le sue occupanti. Quella notte però era mercoledì e il buon Clem doveva venire a prendere Felicity per andare a giocare a pinnacolo come tutti i mercoledì, e difatti si presentò sulla porta nel momento stesso in cui uno dei rinforzi dava inizio alla festa cercando di togliermi un occhio con il ferro arricciacapelli — che per mia fortuna però non è una cosa molto facile da fare con un arricciacapelli elettrico — e come Clem fece un salto di lato, spaventato dallo spettacolo, ci accorgemmo tutti che non era venuto da solo ma si era tirato dietro un tizio con i capelli ossigenati e un soprabito di pelle nera, un po’ il mio look, se vogliamo, che con un marcato accento inglese e un eccessivo uso di imprecazioni pittoresche stava dicendo qualcosa su una donna che lo faceva diventare pazzo. Come vide la scena che si stava svolgendo nel locale, il nuovo venuto sorrise come un bambino che avesse trovato una bicicletta nuova sotto l’albero di Natale e disse in tono di apprezzamento “Una festa! Posso partecipare?” Gli avvenimenti successivi sono abbastanza confusi, però, soprattutto perché il bastardo che mi teneva per il collo si mise in agitazione e senza farlo apposta riuscì quasi a sgozzarmi con quel dannato arricciacapelli prima che riuscissi a divincolarmi e a strisciare nel retrobottega, dove sapevo di potermi trincerare dietro una scorta di acqua santa in bottiglioni. Mentre io strisciavo l’amico di Clem aveva già fatto qualcosa di brutto e definitivo all’altro sgherro, era saltato sul banco provocando un fragore di vetri rotti e un diluvio multicolore di essenze e di tinture e da lì teneva impegnati gli altri due vampiri maschi usando il manico della scopa come paletto. Come lo vidi balzare dal pavimento al banco in quel modo capii subito che o era un vampiro o era un acrobata molto bravo e ditemi un po’: cosa ci avrebbe fatto un acrobata così bravo a Sunnydale invece di lavorare a Hollywood come controfigura? A quel punto i suoi avversari erano ancora in tempo a usare il loro buon senso e a dileguarsi su per le scale ma evidentemente avevano dimenticato il cervello a casa e insistettero in una futile schermaglia finché vennero infilzati uno alla volta e contribuirono con la solita polvere grigiastra ad incrementare il volume della poltiglia di creme e di lozioni che ricopriva il pavimento. A quella vista la vampira — il cui stupido gusto in fatto di acconciature in fin dei conti aveva provocato tutto questo sconquasso — emise un suono stridulo, sfuggì con uno strattone alla inefficace presa dei due demoni dalla pelle floscia e si buttò con tutta la sua forza sulla porta di servizio. Il telaio della porta e il chiavistello cedettero contemporaneamente ed evitando per un pelo di impalettarsi da sola con le schegge di legno la bella riuscì a fiondarsi nelle fogne, dove nessuno dei presenti ebbe il desiderio o lo stomaco di seguirla.

 

Il nostro salvatore si spazzolò il soprabito, che a dire la verità era già molto conciato di suo, si guardò intorno e commentò “Bel posticino, un po’ in disordine però.” Solo allora mi resi conto che anche se era un vampiro non aveva perso per un momento il suo volto umano, e che quel volto umano era tutt’altro che sgradevole da guardarsi.

 

Ma questo succedeva quasi un anno prima del momento in cui io e Clem siamo nel sotterraneo del ricostruito liceo di Sunnydale e guardiamo questo mentecatto che parla da solo come quei barboni cha vagano per le strade e dormono sotto i fogli di giornale — a Houston, non a Sunnydale, perché ovviamente noi qui non abbiamo gente che passa le notti all’aperto. Non per molte notti, quantomeno — Io mi sento anche un’idiota, con il mio borsone degli attrezzi del mestiere, e sussurro a Clem:

— Perché non me lo hai detto che si trattava di lui?

— Perché se te lo avessi detto non saresti venuta — mi risponde Clem — Lo vedi anche tu come s’è ridotto. Poverino.

Mi viene da ridere a sentir dire “poverino” a Spike, come se non fossi io la poverina qui tra i presenti, senza un lavoro e con una casa piena di scarafaggi. E con dei parenti da schifo. È anche vero che non so per i parenti, se li sarà mangiati quando è diventato un vampiro, ma in quanto a specie animali moleste qui di certo è pieno di topi. Suppongo anzi che si nutra di topi, visto che non può né cacciare come fanno i vampiri di solito né andare dal macellaio come credo facesse l’anno scorso. Come se mi avesse letto nella mente, Clem dice:

— Io gli porto dei gatti ma il più delle volte non li tocca nemmeno.

Scuote il testone preoccupato e si avvicina a Spike, che come lo vede arretra spaventato e comincia a dire:

— No, no. Non devi incontrare Harry, lui non crede ai mostri.

— Ha una ricrescita di quattro mesi — dico senza muovermi dal mio posto — forse di più. Dev’essere ancora la tinta che gli avevo fatto io a suo tempo. Che cosa gli è successo?

— Non lo so con esattezza: di sicuro qualcosa di tremendo. Ha perso tutto il suo buonumore, non vedi?

— Veramente a me sembra che abbia perso la testa — obietto.

Buonumore? Non mi sembra che Spike sia mai stato un campione di buonumore. Non che non abbia un suo senso dell’umorismo, anzi, ma è un umorismo che ti fa a fette come una lama d’acciaio.

— Anche — ammette Clem e poi si china su di lui, che sta dicendo a un fantomatico Harry che non avrebbe dovuto portargli i compiti, e da come parla ho paura che creda proprio di avere sei anni e di andare a scuola. Gesù, quanto tempo sarà passato da quando questo qui ha veramente avuto sei anni e ha imparato a scrivere? Clem gli parla come si parla ai bambini e ai matti.

— Guarda, ti ho portato Tarantula così ti taglia i capelli e te li mette a posto. E dove hai messo i vestiti che ti ho dato l’altra volta? Guarda qui, li hai tutti rovinati — si lamenta Clem accorgendosi che c’è qualcosa sotto il ginocchio di Spike.

— Gli avevo portato le sue cose — mi spiega cercando invano di raccogliere una camicia da terra, perché adesso il vampiro ci si è aggrappato con tutta la forza soffiando come un gatto arrabbiato, e io so già su chi scommettere se questi due vengono alle mani.

— Clem… — tento di avvertirlo ma Spike gli è già balzato addosso con un unico movimento tanto più impressionante dopo il pietoso farneticare di poco fa e ora gli sta seduto a cavalcioni sull’ampio petto e gli torce il naso, o quello che è, con una mano.

— Ahia, ahia! — grida Clem — Mi fai male!

— Siamo… tutti… demoni… qui? — chiede Spike sottolineando ogni parola con una strizzata di naso — Siamo tutti demoni cattivi?

Io no, mi dico, e devo fare qualcosa prima che Clem si ritrovi senza qualche importante pezzo della sua fisionomia — e io senza l’unica possibilità di rientrare nel giro cure estetiche per i demoni di Sunnydale. Questo mi fa decidere — sono sempre stata una vigliacca, cosa credete? non lo fossi stata avrei bussato già da anni alla porta di Ravello Street e chiesto alla Cacciatrice se le serviva una mano, lo fa Xander Harris, forse che non lo potrei fare io? — e mi avvicino lentamente, parlando ancora più lentamente, come faccio quando mio padre ha bevuto tanto da vedere cose che non ci sono

— Clem è buono, Spike. Clem è tuo amico. Lascialo andare adesso.

Mi chiedo se nel suo attuale stato di alienazione mentale il vampiro si lascerebbe scoraggiare da un po’ di mal di testa nel caso la mia vista gli mettesse appetito. Sarò più o meno appetitosa dei gatti che gli porta Clem?

 

Ormai sono a un passo, Clem sempre sdraiato per terra, Spike sempre seduto su di lui con le ginocchia strette in una presa d’acciaio, una mano attorno al naso del demone e l’altra sul collo per impedirgli di usare l’unica arma di difesa che ha. Ho sentito dire che la pazzia moltiplica le forze degli uomini, spero solo che non accada lo stesso ai vampiri perché Spike potrebbe strozzarmi con una mano mentre si accende una sigaretta con l’altra senza aver bisogno di nessun aiuto da parte della sua pazzia. Più per scaramanzia che per altro, ho preso dalla borsa il mio pennellone per il fard, che ha un bel manico di legno appuntito, ma dubito che sarei capace di infilarlo nel cuore di Spike, anche perché sto tremando come una foglia, del resto non è che possa nemmeno lasciargli strapazzare in quel modo una delle poche creature in questo mondo che mi abbia dimostrato dell’affetto. Per fortuna il vampiro sembra prestare orecchio alle mie parole e ripete lentamente:

— Lascialo andare, adesso — come se parlasse a qualcun altro.

Odio quando fanno così, quando parlano con sé stessi come se ci fossero diversi coinquilini dentro un corpo solo, mi fanno sentire come se fossi sciroccata anch’io.

 

All’improvviso lascia la presa, si gira verso di me e io vedo i suoi occhi blu riempirsi di lacrime: sono affascinata, non ho mai visto un vampiro piangere, credevo che non avessero ghiandole lacrimali. Ad essere sincera, non ho mai capito che cosa i vampiri abbiano e non abbiano, questo qui ad esempio è sempre sembrato in tutto e per tutto una persona come me, solo più vecchio, più forte e magari anche più bello.

Mentre le lacrime gli scivolano lentamente sulle guance smagrite scavandosi una stradina bianca tra lo sporco il mio primo pensiero, assolutamente fuori di luogo, lo ammetto, è che anche lurido come un topo e matto come un cavallo è sempre l’uomo più attraente con cui sono uscita, e probabilmente anche il più educato, il che la dice lunga sul modo di comportarsi dei George e dei Ronnie di questo mondo. Non che il vampiro sia stato educato con me, figuriamoci, ma lo capivo anch’io che aveva delle potenzialità in questo senso, che doveva essere uno di quelli che ti aprono la portiera della macchina e ti regalano mazzi di fiori, e che se prendono fuoco le tende non scappano dalla porta della cucina senza neanche avvertirti come quella volta George alla festa di suo cugino. Tanto per fare un nome a caso.

 

Mentre Spike piange e mi fissa — e chissà cosa sta vedendo invece della mia faccia — Clem riesce a strisciare via senza che lui faccia più niente per trattenerlo, avendo perso interesse nel suo demoniaco amico come un bambino che si è improvvisamente stancato di un giocattolo; io resto ferma, mormoro “Su, su, non fare così.” e quasi quasi mi sto per commuovere anch’io quando il vampiro all’improvviso comincia a ruggire come una belva — una cosa tanto più spaventosa perché nel frattempo il suo volto resta completamente umano — come una belva che sta soffrendo, che sta morendo anzi, e allora io faccio un balzo all’indietro tenendomi le mani sulle orecchie e sugli occhi perché non voglio più vederlo, non voglio più sentirlo, non voglio avere niente a che fare con i fantasmi o i mostri o qualsiasi altra cosa spaventosa che abita nella sua testa e grido a Clem:

— Andiamo via, Cristo, non c’è niente che possiamo fare adesso.

 

Così ce ne andiamo lasciando il vampiro allo strazio della sua follia e alla ricrescita dei suoi capelli, Clem con le lacrime agli occhi non so se per il male che gli fa il naso o quello che stringe il suo cuore sensibile, io con un gusto amaro di rivalsa in bocca, perché anche se a suo tempo ho augurato a Spike di andare all’inferno, non intendevo proprio alla lettera. Per quanto qui a Sunnydale sia sempre meglio fare attenzione alle parole che si usano.

 

Tre sere dopo, sono ancora a casa di mio padre e sto parlando al telefono — il mio cellulare perché mio padre si è dimenticato di nuovo di pagare la bolletta — con la mia amica Dolores che mi racconta di quello che è successo a scuola a suo fratello minore, Carlos, e mi sta dicendo che è una fortuna che finalmente il ragazzo si sia dato una regolata perché se il preside li fa chiamare ancora una volta, é quella buona che suo marito Luis butta fuori di casa Carlos una volta per tutte e il ragazzo se ne torna in Messico dalla nonna (l’avessi io una nonna in Messico, a quest’ora sarei là a mangiare tortillas e frijioles, ma non è quello che Dolores vuole sentirsi dire, perciò sto zitta) ed ecco che proprio mentre Dolores fa una pausa per prendere fiato suona il campanello della porta.

 

— Scusami, Dolly, ma adesso devo proprio andare, c’è qualcuno alla porta, probabilmente un altro dei creditori di papà.

Stasera mio padre sembra meno sbronzo del solito, infatti invece di svenire lungo disteso sul pavimento si è messo a russare sulla poltrona con il giornale sulle ginocchia come un qualsiasi bravo papà rispettabile, e quasi quasi mi dispiacerebbe lasciarlo in pasto a qualcuno a cui deve dei soldi da così tanto tempo che è persino disposto ad avventurarsi nelle strade buie di Sunnydale per venirlo a cercare a casa.

Do un’occhiata al bell’addormentato mentre passo davanti alla porta del salotto e noto con piacere che il mio vecchio deve aver dato una ripulita alla stanza — o magari convinto la nostra caritatevole vicina a farlo al posto suo per guadagnarsi un posto in Paradiso — e che riesce perfino ad alzare una palpebra di qualche millimetro, segno che il campanello l’ha sentito.

— Lascia stare, papà, vado io — gli dico magnanima intanto che mi viene in mente che magari, non si sa mai, la polizia ha trovato la macchina che mi hanno rubato a Pasqua, per quanto la nostra forza pubblica vada più famosa per le cose che riesce a non vedere che per quelle che è capace di trovare.

 

Sono così sorpresa di vedere attraverso il vetro Spike che aspetta sul gradino con quella tipica aria da martire che mette su ogni volta che è costretto a passare qualche nanosecondo in attesa che faccio istintivamente un balzo all’indietro ed emetto un imbarazzante gridolino di paura.

Sapete che cosa c’è di bello nei vampiri? Che diversamente da rapinatori, stupratori o maniaci omicidi, non importa che siano pazzi o non pazzi, col chip o senza, che siano appena strisciati fuori dalla tomba o che siano in circolazione da centinaia d’anni, i vampiri non possono entrare in casa a meno che non siano stati invitati. E nessuno è così stupido da invitare un vampiro in casa, non è vero? Io no di sicuro.

 

Perciò Spike può restare sul gradino di casa mia fino all’alba ed è inutile che mi guardi con quell’espressione di dignità offesa nei suoi occhioni blu, perché tanto io non mi commuovo e lì lo lascio.

— Dai, tesoro, tanto lo so che sei lì — mi dice col naso appoggiato al vetro.

— E allora? — rispondo io aprendo la porta così in fretta che non fosse per l’invisibile barriera mistica lui mi cadrebbe addosso — Tanto non ti invito certo ad entrare.

— Non voglio entrare. — mi risponde col suo sorriso, quello che se potesse brevettarlo diventerebbe il vampiro più ricco del mondo nel giro di qualche settimana — Ma ho bisogno di te. Professionalmente. — chiarisce come se potesse anche solo venirmi in mente il contrario.

— Ci puoi giurare che hai bisogno di me — rispondo io, impietosa ma obiettiva — Hai i capelli che sono conciati da fare schifo.

— Lo so, amore — ammette lui e non sembra per niente pazzo — È per quello che ho bisogno delle tue mani da fata.

— L’altro giorno volevi strappare il naso a Clem perché aveva avuto la stessa identica idea — gli ricordo, mentre la mia mente calcola in automatico l’esatta combinazione di tintura che servirebbe per farlo passare da quel castano sbiadito da intellettuale alternativo al biondo platino da divo rock.

— Lo sai come vanno le cose in questa città, Tarantula: succedono cose strane là sotto. C’era della gente morta che era entrata nella mia testa.

— Tu fai parte della gente morta.

— Quelli erano più morti di me — mi dice e non faccio fatica a credergli, perché era esattamente quello che secondo Dolores sosteneva quel cacciaballe di suo fratello Carlos, cioè che nei sotterranei della scuola c’era della gente morta che lo aveva aggredito. Solo che Dolores era incline a pensare che fosse un problema di droga più che di zombie. Come se una cosa escludesse l’altra.

— Senti, dobbiamo stare qui molto? I vicini si chiederanno chi sono e che cosa voglio — mi sussurra come se io fossi Doris Day in una qualche commedia anni ’60. Quando sussurra in questo modo il suo accento inglese è sexy in modo addirittura ridicolo, ma io non ci casco.

— Visto che quello che vuoi è taglio e tinta — dico brusca — hai intenzione di pagare almeno i materiali?

— Ma certo — replica in tono offeso, come se non mi avesse scroccato più di una birra con la scusa di avermi salvato la vita. — Ti pagherei anche per il tuo disturbo, tesoro, ma potresti farlo in nome dei vecchi tempi. E poi…

— … sei al verde.

— Già, come hai fatto a capirlo?

Come ho fatto a capirlo? Facile: perché tutti gli uomini che frequento o non hanno il becco di un quattrino o sono dei ladri o sono dei veri figli di puttana. Spesso tutte e tre queste cose insieme.

— Aspettami, prendo della roba e andiamo nel garage — gli intimo.

Non mi chiede ancora di entrare e un po’ persino mi dispiace, in questa casa perfino la visita di un vampiro servirebbe ad alzare la media, quanto meno la visita di un vampiro carino come questo. Nel garage, ora che a papà hanno ritirato la patente e a me hanno rubato la macchina, ho messo un paio di sedie e ho sistemato un lavatesta attaccato al tubo dell’acqua per annaffiare; per le altre clienti scaldo l’acqua usando un fornellino da campo, ma non credo che lo farò per Spike, tanto i vampiri non sentono il freddo. Ci sono anche una radio, una lampada d’officina e tutto quello che mi serve per lavorare comoda e tranquilla: certo non è il salone di Monsieur Alexandre con i suoi marmi rosa e i suoi cristalli fumé, ma è pulito e arieggiato e soprattutto mio padre non ci mette mai piede. Non ci potrei pagare un affitto ma almeno non resterò completamente al verde intanto che non ho un posto di lavoro vero e proprio.

— Arredo minimalista — osserva Spike dopo essersi guardato attorno — Mi siedo là?

— Su quella sedia. Questo è quello che passa il convento, tesoro — replico io facendogli il verso — perciò se non ti piace…

— No, no. Va benissimo — si affretta a replicare e mi fa persino un mezzo sorriso di scusa.

Giuro, mai visto un uomo così attaccato ai suoi capelli.

 

Mentre lavoro, chiude gli occhi e ascolta la musica alla radio, battendo il ritmo con la mano sul bracciolo della sedia; strano che non faccia storie per il tipo di musica che danno, non abbiamo esattamente gli stessi gusti in fatto di gruppi: i suoi sono così… antiquati, ma non è strano che lo siano, non è vero?

La sua testa è fredda ma non gelida come quella di un morto, la pelle del suo collo liscia e compatta come un pezzo di sapone, anche se immagino che il paragone corretto in questo caso sarebbe alabastro, e quando gli dico di stare fermo smette anche di respirare, cosa che non ho mai capito esattamente perché si ostini a fare comunque visto che non ne ha bisogno.

 

Non è la prima volta che gli faccio la tinta, l’ho già fatto l’anno scorso, ma è la prima volta che lo faccio senza avere nessuna aspettativa, se capite quello che intendo, e perciò mentre giro attorno al suo orecchio stando attenta a non sbavare, l'idea che qualche mese fa ho fatto delle cose con la mia lingua su questo stesso lobo mi fa sorridere.

— Dove sei stato?

— Quando?

— Quest'estate: non eri a Sunnydale.

— Nemmeno tu. Dove sei stata?

— Houston. E tu dov'eri?

— Africa. Perchè Houston?

— Lavoro. E tu perchè Africa?

— Perchè la gente viaggia? Per viaggiare.

— Uhm. Sabbia, sole, gente malnutrita: che ci facevi in Africa, Spike? E poi Africa dove, Egitto, Sudafrica o cosa, quella dei cavalieri, Malta?

— Per amor del cielo, Tarantula, l'isola di Malta è in Europa.

— Girati un po' verso destra, per favore, ecco, sì, così. Credo di aver letto un libro sui cavalieri di Malta. È un'isola piccola.

— Capitale La Valletta — completa lui come se ci tenesse a colmare le mie lacune in geografia o forse vuole solo sviare il discorso dallo scopo del suo viaggio. Non è che possa alzarsi ed andarsene con la tinta su mezza testa sì e su mezza testa no.

— Se lo dici tu. Li faccio del solito colore, naturalmente.

— No, li fai blu come quelli della Fata Turchina. Certo che li fai del solito colore, donna, che domande mi fai?

Ridacchio fra me e me spalmando la tinta ciocca per ciocca pensando come starebbe con i capelli blu, a parte che probabilmente starebbe benissimo perché farebbero pendant con gli occhi, però questa cosa del suo viaggio in Africa continua ad incuriosirmi. Tanto più perché evidentemente non ne vuole parlare e questo è veramente strano, perché se c'è una cosa che a Spike piace — a parte il sangue tagliato con l'whisky, le corse in moto e quella sua Cacciatrice formato mignon — è proprio quella di sentire il suono della sua bella voce mentre esprime le sue opinioni sui fatti degli altri in modo tanto colorito quanto scortese. E proprio mentre sto pensando che a lui invece non frega un accidente di che cosa ho fatto ad Houston — non che mi aspettassi il contrario, s'intende — sento una domanda che a tutta prima non riesco nemmeno a capire da dove provenga:

— Perchè sei tornata a Sunnydale, Tarantula?

D'istinto mi volto a cercare chi abbia parlato, primo perché il grande vampiro centenario se ne fa un baffo di quello che succede alle povere parrucchiere di Sunnydale, secondo perché non sembra esattamente la voce di Spike, cioè sembra la voce di Spike dopo che si è sgonfiato di un bel po', se capite quello che intendo, o magari era la voce che aveva prima di diventare una creatura della notte che si nutre di sangue. Ma lui si gira un po' a guardarmi — ce l'ho uno specchio ma ovviamente non mi serve a niente con questo tipo di clienti — e così facendo il colore gli cola lungo il collo e finisce sull'asciugamano che gli ho messo sulle spalle per proteggere la sua maglia nera da incidenti e mi ripete la domanda guardandomi in modo incerto:

— Allora? Perchè sei tornata in questo cazzo di posto? Che ti è successo a Houston?

E con questo siamo demoni due e umani zero, almeno per quanto riguarda l'interessarsi ai guai del prossimo ove questo prossimo si chiami Taylor Peters, che poi sarei io così come risulta dal mio numero di tessera sociale.

— Quello stronzo di mio cugino mi è saltato addosso mentre mia zia era andata in Chiesa. Ecco quello che è successo.

— E tua zia...

Scrollo le spalle.

— ... non ha creduto alla tua versione dei fatti. — completa lui stringendo un po' gli occhi e inclinando la testa da un lato in un gesto che gli è tipico. Sono sorpresa perché non lo facevo così intuitivo, no, non è esatto, intuito ce l'ha sempre avuto, è il fatto che sappia così bene da che parte si schierano le vecchie bigotte quando hanno per figlio un porco debosciato che mi lascia di stucco.

— Già. Come hai fatto ad indovinare? Sta fermo, ti è entrato il decolorante nell'orecchio, adesso lo tolgo con l'asciugamano.

— La classica storia della parente pov... — si ferma e mi fa segno di stare zitta. Adesso mi aspetterei che si sdraiasse per terra con l'orecchio incollato al pavimento, invece si alza dalla sedia e si sposta verso la saracinesca del garage, che ho lasciato mezza alzata per fare entrare un po' di aria fresca, non che a lui il caldo darebbe fastidio ma io sono già un bagno di sudore e oltretutto devo usare i guanti per maneggiare i prodotti. Si è armato della vanga che è ancora appesa al muro dai tempi remoti in cui papà si dedicava al giardinaggio e ora si è accovacciato nell'ombra e scruta verso l'oscurità del cortile rimanendo assolutamente immobile e non fosse per l'asciugamano rosa ricamato a fiorellini blu che porta avvolto attorno al collo e le ciocche di capelli intrise di decolorante che stanno in piedi come gli aculei di un istrice sembrerebbe proprio una letale minaccia. Mi lascio prendere da una passeggera preoccupazione per il mio vecchio addormentato in salotto mentre la porta di casa non è nemmeno chiusa a chiave prima di ricordare che almeno metà dei guai in cui attualmente mi trovo è colpa del vecchio ubriacone e che se proprio devo preoccuparmi per qualcuno posso sempre preoccuparmi per me stessa. Così mi sfilo i guanti e resto ferma dove sono nella convinzione che chiunque sia là fuori e qualunque cosa voglia non c'è proprio bisogno di rendergli il lavoro più facile emettendo stupidi e riconoscibili rumori umani. La prima cosa che sento è un rumore di legno che si spacca lentamente, come se una bestia troppo grossa fosse salita sul ramo dell'albero dei vicini, e subito dopo un paio di tonfi come se qualcosa fosse precipitato dal suddetto ramo sul soffice terreno. Ho appena il tempo di ricordare che i vicini hanno un cane — un grosso dobermann di tredici anni di cui avevo una paura dell'accidente quand'ero ragazzina — e di chiedermi perché diavolo non stia facendo il suo lavoro di cane da guardia prima di sentire una serie di cupi grugniti d'incerta origine intervallati da pietosi guaiti che potrebbero effettivamente provenire da un cane, anche se faccio fatica a credere che il vecchio feroce Siegfrid possa suonare così patetico. Prima che mi renda conto di che cosa stia succedendo, il mio cliente è già uscito dal mio estemporaneo salone armato di vanga e di asciugamano a fiorellini senza dire una parola, senza fare rumore e senza lasciare mance. Molto meno silenziosa ma in compenso molto più lenta, arranco in punta di piedi fino all'uscita del garage e sbircio alla fioca luce della vecchia lampada da giardino dei vicini. Si direbbe che il dobermann Siegfrid sia andato a seppellire l'ultimo osso nei giardini dell'eternità, perché ha smesso di guaire e ora giace con le zampe all'aria subito al di qua della recinzione con i vicini, mentre una pozza umida si sta allargando sull'erba rinsecchita dell'area incolta che io e papà chiamiamo il nostro prato più per abitudine che per convinzione. A prima vista il responsabile del canicidio potrebbe essere quella creatura grossa e pelosa che ha afferrato Spike per la gola con le sue zampacce e lo sta sbatacchiando di qui e di là come se fosse un cespo d'insalata da scolare; ma nel frattempo il mio vampiro non demorde e continua a tirare calci al suo avversario nelle parti molli o che potrebbero esserlo e a menargli sul testone oblungo colpi di vanga che risuonano tutt'attorno con un cupo clang clang. Anche se non credo che se Spike potesse parlare chiederebbe il mio aiuto quanto piuttosto imprecherebbe come un carrettiere perché non dev'essere piacevole venir sbattuto ripetutamente in quel modo contro i montanti di cemento della palizzata, mi pongo il problema di fare qualcosa per preservare il suo collo e il mio asciugamano: è vero infatti che se anche spezzi l'osso del collo a un vampiro quello non muore finché non riesci a separare la testa dal corpo, ma è anche vero che è assai probabile che svenga e io non ho la minima voglia di restare a tu per tu con questa cosa che se fosse un po' più piccolo potrebbe forse essere un lupo mannaro enorme.

 

Il nostro tubo da innaffiare è così impolverato per il poco uso che si fa fatica a capire dove comincia il tubo e dove finisce l'arrotolatore, ma io so che è ancora collegato al rubinetto perché la settimana scorsa mi ha gocciolato sulle scarpe mentre cercavo di sbloccare la saracinesca, così allungo una mano ad aprire il rubinetto fino in fondo e con l'altra afferro l'estremità del tubo e lo srotolo più in fretta che posso come se stesse andando a fuoco la casa e intanto che litigo con le annose spire di quel serpente di plastica lo sento gonfiarsi sotto le mie dita così che quando finalmente riesco a sollevarlo l'acqua sta già uscendo con un bel fiotto generoso e io sono anche abbastanza brava da centrare il mostro in faccia o quello che è al primo tentativo, sebbene mi tremino le mani per la paura di fare un pasticcio e di innaffiare invece i capelli in lavorazione di Spike perché non solo non servirebbe a niente ma rovinerebbe tutto il mio lavoro. È vero: non sto pensando chiaramente, perché se questo tipaccio tramortisce Spike io rischio di fare la stessa fine di Siegfrid e a quel punto il mio orgoglio professionale sarebbe al riparo da ogni offesa per sempre, ma che vi devo dire, avere nel mio giardino un vampiro e un enorme mostro peloso che cercano di ammazzarsi a vicenda mentre il cane dei miei vicini muore dissanguato sul mio prato ha evidentemente appannato le mie capacità di ragionamento.

 

In ogni caso l'effetto della mia estemporanea azione di disturbo va oltre ogni rosea aspettativa perché emettendo un lamento che sembra quello di King Kong quando gli sparano sull'Empire State Building il mostro molla la presa e lascia cadere Spike sull'erba, anzi a dire la verità sul corpo del povero Siegfrid che assorbe la caduta come un materassino di gomma facendo un orribile suono da palloncino sgonfiato.

— Brava — trova il tempo di dirmi Spike con voce arrochita dai maltrattamenti subiti dalla sua gola intanto che si rialza e si ributta alla carica con rinnovato ardore, e io mi sento molto orgogliosa di quello che ho fatto perché ho passato tutta la vita a Sunnydale ed è la prima volta che torco un capello a qualcuno. Almeno in senso figurato perché a rigor di termini ho passato un mucchio di tempo ad attorcigliare capelli a una grande varietà di soggetti.

Ora il mostro si sta arrampicando sulla palizzata nell'ovvio tentativo di andarsene per la stessa strada per la quale è presumibilmente arrivato e che il dobermann ha inutilmente difeso a prezzo della vita ma Spike lo tira giù e gli dà addosso vangate su vangate finché non si muove più.

— È morto? — chiedo senza avvicinarmi troppo.

— Certo — risponde Spike che si è inginocchiato di fianco a Siegfrid — Gli ha spezzato l'osso del collo buttandolo giù dalla palizzata. Era il tuo cane?

— No, era il cane dei vicini, aveva questa fissazione che niente e nessuno potesse passare sul suo terreno senza lasciargli un pezzetto di carne per ricordo.

— Non ti piacciono i cani — mi rimprovera Spike.

— Non ti facevo così amante degli animali: è solo perché sei inglese o è perché porti il nome di un cane anche tu? — ribatto — Dicevo se è morta quella... cosa là.

— Non ci scommetterei: questi demoni mannari rispuntano quando meno te lo aspetti.

— Un che? Un demone mannaro? Ma non è mica luna piena.

— Non è luna piena qui. Nel posto da cui viene lui non si sa — spiega Spike e si sposta verso il corpo del suo avversario, che giace scomposto a pancia all'aria, col pelo tutto arruffato e i quattro arti, tutti più o meno della stessa lunghezza e tutti muniti di strani zamponi che finiscono con cinque grossi artigli violacei, spalancati.

Mi accorgo di tenere ancora in mano il tubo dell'acqua e di stare allagando il giardino e mi affretto a chiudere il rubinetto prima di raggiungerlo.

— Se fosse morto non dovrebbe tornare nella sua forma umana, insomma, nella sua forma normale? — chiedo osservando il muso affollato di pelo fra cui si distinguono a malapena le palpebre, chiuse e prive di ciglia, un naso a palla dalle narici allungate e delle piccole orecchie frastagliate che sembrano attaccate nel posto sbagliato.

— Forse. Ma come cazzo è la sua forma normale? — dice Spike pensieroso e quando si accorge di come lo sto guardando aggiunge — Non lo so, va bene? Scusa tanto se non sono un trattato ambulante di demonologia.

— E allora come fai a sapere che è un demone mannaro?

— Che cosa succede, Taylor?

Mi volto e vedo mio padre, in ciabatte, pantaloni del pigiama e canottiera, inoltrarsi sul terreno fradicio

— E perché è tutto bagnato? — aggiunge guardandosi sconcertato le ciabatte infangate. Fa schifo, ma sembra sobrio.

— Niente, papà, torna in casa.

— Chi è quest'uomo? E che cosa sono quelle cose? — insiste mio padre indicando i corpi a terra. Resto un attimo spiazzata non tanto perché non so cosa rispondere quanto perché non riesco a ricordare quanto tempo è passato dall'ultima volta in cui mi ha rivolto tre, no, quattro domande di seguito. Spike ne approfitta per interloquire:

— Buona sera, signore, lei è il padre di Tar..., di Taylor, immagino. Mi stavo facendo tagliare i capelli da sua figlia quando c'è stato un po' di trambusto. Ora però è tutto a posto.

Visto? Lo sapevo che c'era del potenziale in lui: questa è stoffa da perfetto fidanzato, e non dico solo per le parole in sé e per sé, dovreste sentire come ha parlato, mi ha fatto venire in mente l'ex bibliotecario dell'ex liceo, quel signor Giles così carino e così misterioso.

Mio padre ci casca vestito e calzato, si fa per dire perché in realtà non è né l'uno né l'altro, e gli si rivolge come se fosse San Giorgio dopo che ha sconfitto il drago.

— Succedono certe cose in questa città... Un padre si preoccupa.

Ipocrita bugiardo, quando mai si è preoccupato il vecchio ubriacone?

— Ma certo — rincara la dose il nostro vampiro gentiluomo non meno ipocrita e non meno bugiardo di lui — È Sunnydale, dopotutto. — e intanto si sposta di lato per coprire la vista del demone mannaro.

— Quello è il cane dei vicini, Manfred — dice mio padre indicando il corpo del dobermann col dito e facendo una certa confusione tra nomi tedeschi — Che cosa gli è successo?

— È caduto sul campo — dico io — Era un bravo cane.

— Difendendoci da un grosso randagio rinselvatichito — rincara la dose Spike. Come pensi di far passare un demone peloso di due metri per un cane randagio va al di là della mia immaginazione.

— Era una bestia stupida e sanguinaria — obietta mio padre e quasi quasi potrei ricominciare a volergli bene — E tu l'hai sempre odiato a morte, Taylor. Come minimo i Bruebacker penseranno che sei stata tu.

— Non credo che i Bruebacker siano in casa, oppure sarebbero venuti a vedere che cosa sta succedendo.

— Non c'è bisogno che sappiano i particolari di questa... disgrazia, porterò la povera bestia sull'altro lato del giardino — si offre Spike con perfetta urbanità. Se li lascio fare mio padre lo inviterà in casa per offrirgli una tazza di tè o un bicchere di limonata ed è vero che io sono tanto tanto riconoscente a Spike; ma non così riconoscente da invitare un vampiro a casa mia.

— I tuoi capelli! — dico allora — Temo di aver lasciato il decolorante troppo a lungo. Accidenti, accidenti, accidenti. Dobbiamo proprio andare.

Ma naturalmente per il momento non possiamo proprio andare da nessuna parte perché se io e Spike ci spostassimo mio padre vedrebbe chiaramente questa grossa cosa pericolosa che giace sul nostro prato e dovrebbe ammettere di non esserne affatto sorpreso, cosa che non farebbe mai nemmeno da ubriaco figuriamoci in uno dei suoi rari momenti di sobrietà; così restiamo lì a guardarci l'un l'altro come tre tipici cittadini di Sunnydale alle prese con fatti che preferiscono far finta che non siano mai accaduti finché mio padre grazie forse alla percentuale insolitamente bassa di alcool nel suo sangue capisce l'antifona tutto da solo, borbotta:

— Allora ti lascio al tuo lavoro, Taylor. Buona sera — e rientra in casa trascinando le sue ciabatte infangate.

— Muoviti, vediamo che cosa si può fare per i tuoi capelli — sollecito Spike spingendolo verso il garage, mentre lui ragionevolmente obietta che non possiamo lasciare il demone lì dov'è, casomai non fosse morto, dimostrando con mia grande sorpresa di essere più interessato al rischio di morte prematura del vicinato che a quello di decolorazione eccessiva delle sue radici. Troviamo un rotolo di corda in garage e Spike vi trascina il corpo del demone mannaro, che è svenuto ma ancora vivo, procedendo poi a legarlo come un salame con un'abilità che non voglio nemmeno pensare quando e dove e perché abbia acquisito. A dir la verità io vorrei anche vedere se inchiodandolo al terreno con il rastrello il demone sopravviverebbe ancora ma il mio cliente si rifiuta di darmi man forte in questa bisogna, e siccome il cliente ha sempre ragione — in particolare quando è un vampiro di centoventi anni — non mi resta che inchinarmi alle sue preferenze.

Il resto della serata trascorre operoso e tranquillo, nel senso che io opero e gli altri due se ne stanno zitti e buoni ovvero uno buono e l'altro privo di conoscenza mentre tolgo il decolorante e stendo la tinta. È entre io e Spike aspettiamo che la tinta faccia effetto, subito dopo che gli ho spiegato che i suoi capelli potrebbero risultare un po' più gialli del dovuto e che per tutta risposta lui ha cercato senza risultato di scroccarmi una birra — quest'uomo è il più perseverante scroccatore di birre che io conosca e, credetemi, questo vuol dire qualcosa — che il nostro silenzioso e involontario ospite comincia a starnutire. La prima volta starnutisce così rumorosamente che per poco non mi viene un accidente e mi stringo istintivamente a Spike come un bimbo spaventato dal temporale alla sua mamma, mentre da parte sua lui si ritrae come una fanciulla a cui venissero fatte delle indesiderate avances; a questo punto siamo così imbarazzati dal nostro reciproco inopportuno comportamento che accogliamo con sollievo anche il diversivo di un demone colto da un violento accesso di starnuti. Il nostro involontario ospite starnutisce a più non posso per quasi cinque minuti mentre il naso a palla assume una colorazione violacea e uno spesso muco grigiastro gli cola dall'unica narice come fosse lava dalla bocca di un vulcano. E sì, fa schifo esattamente come sembra a sentirlo descrivere.

— Che schifo — borbotta infatti Spike mentre cerca allo stesso tempo di tenersi fuori tiro e di slegare il demone, che tra uno starnuto e l'altro ci guarda in modo discretamente implorante con occhi lacrimosi, verdi e dotati di una strana pupilla oblunga — Possibile che in questa città non ci si possa nemmeno fare i capelli in pace?

A chi lo dice.

— Perché lo sleghi?

— Così almeno si pulisce il naso. Strano che abbia preso freddo con questo look da yeti che si ritrova.

— Più facile che sia un'allergia — obietto io. Certe volte questi non—morti dimostrano proprio tutti gli anni che hanno: non credo infatti che al tempo in cui Spike era vivo ci fossero tante allergie. In compenso bastava trascurare un raffreddore e potevi persino beccarti una polmonite e finire col rimetterci le penne. Il nostro amico peloso qui però, mi spiace dirlo, ma sembra che non toglierà il disturbo così facilmente, perché non appena Spike ha finito di slegarlo alza una delle sue zampone a pulirsi vigorosamente il naso in modo efficace anche se molto poco elegante.

— Non ha più gli artigli — noto io — Prima aveva venti centimetri di artigli su tutte e quattro le zampe.

— Sarà calata la luna — dice Spike — O quello che è. Ha anche cambiato colore.

In effetti se prima aveva pelle e pelo di un uniforme bianco sporco adesso tra un pelo chiaro e l'altro si intravede un luccicante verde—blu di base: a dir la verità è anche peggio di prima, perché ora sembra un gigantesco pupazzo di plastica coperto di pelo sporco e col naso che cola.

— Credi che questo colorito bluastro sia... normale?

— Smettete.. etciù... di parlare di me... etciù... come se non avessi ancora... etciù... ripreso conoscenza! — ci dice il demone a questo punto senza smettere di starnutire. Ha una voce baritonale e ben impostata che sarebbe più adatta a un candidato in campagna elettorale che a un demone mannaro di due metri.

— Finito con la tua missione di distruzione e terrore? — gli chiede Spike con un tono più amichevole di quello che mi sarei aspettata dopo che si è preso tutti quei colpi in testa. È pur vero che anche se tutti i vampiri hanno la testa dura ce ne sono certi che l’hanno più dura degli altri. Nel frattempo io sono riuscita a trovare un pacchetto di fazzoletti di carta nella tasca del grembiule e li offro al mostro che li afferra e mi ringrazia educatamente prima di rispondere.

— Mi dispiace... etciù... non ricordo niente... etciù... di quello che faccio quando... etciù... mi trasformo. Non avrò mica... etciù... ammazzato qualcuno?

— Il cane dei miei vicini — lo informo io, ma come vedo la sua espressione mi affretto ad aggiungere:

— Era cattivo. Faceva paura ai bambini.

— È terribile — commenta il demone e si asciuga gli occhi con un fazzoletto di carta.

— Era anche vecchio, anzi sarebbe presto morto di vecchiaia — rincaro io.

— Dove sono?

— A Sunnydale.

Il demone starnutisce e ci guarda come se fossimo due deficienti.

— A casa mia — rettifico io — Anzi nel mio garage.

Altra raffica di starnuti e altro sguardo di compatimento.

— Lo vedo, grazie. Perché lui ha quella roba sui capelli?

— Glieli sto tingendo. Ed è fortunato che ha la testa dura, perché altrimenti a quest'ora tutto quello che potrei tingergli sarebbe il cervello.

— Mi spiace tanto, anche se credo proprio che tu sia un vampiro. Ma hai uno strano odore per essere un vampiro.

Io non sento niente, ma non c'è da meravigliarsi visto che probabilmente sono quella della comitiva che ha il naso peggiore.

— È la tinta — dice Spike in fretta — Perché starnutisci, Eolo?

— Non lo so, mi succede sempre quando smetto di essere... sì, insomma, mannaro, come dite voi. Adesso finisce.

Quindi c'è un voi — umana di un metro e sessantacinque scarsi e vampiro sul metro e settantacinque — e un noi, demoni alti due metri con la pelle blu e la pelliccia bianco sporco ai quali capita di diventare mannari e di sviluppare artigli violacei lunghi venti centimetri. Del resto la gran parte dei demoni tende a snobbare i vampiri vedendoli come un compromesso poco riuscito tra uomo e demone e non sembra trovare rilevante la circostanza che quando metti insieme umani e vampiri i primi tendano a fare una brutta fine. Graziosi vampiri mezzi matti resi inoffensivi da un dispositivo elettronico a parte. E che ora rischiano anche di restare con i capelli mezzo arancioni, se non ci spicciamo a togliere il decolorante.

— Sentite, gente, io mi chiamo Sassassa — dice il demone — siete stati proprio gentili a non uccidermi. Del resto — aggiunge guardando Spike in modo significativo — io sono terribilmente indigesto. Non vi dispiace se resto seduto qui ancora un po' prima di andare a casa e cercare di capire che cosa è successo? Ho bisogno di una mezz'oretta per riprendermi. È lontana la stazione da qui?

— Non tanto, ma non ci sono treni a quest'ora.

— Abito vicino alla stazione, in una bella caverna asciutta, pulita e molto ventilata — dice Sassassa guardandosi attorno come se il mio garage invece fosse umido, sporco e soffocante, cosa quest'ultima niente affatto lontana dalla verità — Dove dovrei trovarmi tuttora con un bel collare imbottito e una robusta catena fissata alla parete, casomai il sonnifero avesse finito di fare effetto.

— Molto prudente e molto rispettoso dell'incolumità del vicinato — dice Spike assentendo gravemente col capo — Però i tuoi guardiani devono essere usciti a farsi un goccio.

— No, no — nega il demone recisamente — Mio cugino sa quello che fa, e io dormivo già quando se ne è andato.

— Non puoi esserti liberato da solo? — ipotizzo io.

— Oppure qualcuno ha voluto sguinzagliare per Sunnydale una belva sanguinaria. — dice Spike e siccome Sassassa l'ha guardato un po' male aggiunge:

— Sia detto senza offesa, amico. Possiamo andare avanti con i miei capelli adesso, tesoro? L’alba mi rovina la pelle.

Mentre tolgo la tinta, faccio lo shampoo e taglio via tutta quell'adorabile abbondanza di riccioli che Spike aborre come l’acqua santa, Sassassa ci racconta con un certo imbarazzo come è diventato mannaro. È una storia che coinvolge una demonessa molto affascinante con una certa tendenza a mordicchiare durante i momenti di intimità e con una memoria così breve da impedirle di avvertire i suoi occasionali amanti del suo piccolo problema personale. Il risultato sembrerebbe un drappello di grossi demoni mannari bianchi nel mondo natale di Sassassa, che è emigrato qui da noi per non mettere in imbarazzo la sua famiglia.

 

Sunnydale, ricettacolo dei demoni reietti di questo e degli altri mondi.

Sarà perché ultimamente mi sento molto reietta anch'io, ma quasi mi viene da piangere quando il nostro demone ci racconta di come ha dovuto lasciare la sua casa natale di nascosto prima che gli anziani della tribù venissero a fare giustizia sommaria. Quando Sassassa arriva al punto in cui sua madre pronuncia strazianti parole di commiato porgendogli il cestino da viaggio ricolmo di nidi di scarafaggi amorevolmente preparati con le sue stesse mani persino Spike si agita a disagio sulla sedia, mettendo a grave repentaglio i perfetti lobi delle sue orecchie, dato che proprio in quel momento io sto lavorando di forbici di buzzo buono e non ci vedo nemmeno tanto bene perché sto ricacciando indietro le lacrime; ma potrebbe anche essere perché non gli piacciono gli scarafaggi, che poi in effetti non piacciono a nessuno in questo mondo tranne a quanto mi hanno riferito al defunto Sindaco Wilkins. E anche in quel caso non si può dire che il Sindaco appartenesse proprio a questo mondo, non è vero?

 

Il primo ad andarsene è Sassassa, non prima di essersi ripetutamente scusato per l'incomodo arrecato ed essersi congratulato con me per aver usato così tempestivamente l'unica arma efficace verso i demoni mannari, cioè l'acqua corrente. A dir la verità io credevo che servisse solo per tenere a bada i cani idrofobi ma non lo dico perché mi piace che il nostro visitatore sia convinto che sono una tipa tosta e ben informata sul mondo demoniaco. Ormai io ho quasi finito con Spike, che dopo aver chiacchierato a sprazzi di questo e di quello per tutta la sera in ultimo è diventato taciturno in modo così poco caratteristico da farmi temere un nuovo incontrollabile exploit alla Qualcuno volò sul nido del cuculo, tanto più quando mi dà i soldi che mi deve senza nemmeno che io abbia bisogno di chiederglieli. Nonostante tutto prima di andare via si carica i resti del povero Siegfrid in spalla, perché evidentemente intende mantenere la promessa che ha fatto a mio padre e portare il cane morto davanti alla porta di casa dei suoi padroni. Da parte mia sono sicura che i Bruebacker, da esemplari cittadini di Sunnydale, non metteranno in dubbio per un momento che Siegfrid sia morto di morte naturale.

 

Riordino e rientro in casa in punta di piedi, perché sono stanca e non ho voglia di rispondere alle domande di mio padre, si sa mai sia ancora sveglio e ancora sobrio e ancora desideroso di sapere chi viene a farsi tagliare i capelli da sua figlia. Ma potevo anche fare a meno di preoccuparmi, perché il vecchio è seduto al tavolo da cucina, con la testa sopra il tavolo e una bottiglia di vodka vuota sotto il tavolo, come se avesse voluto recuperare alla grande quei pochi momenti di sobrietà. E io sono così cretina che mi dispiace, e quando sono nel mio letto, nella mia cameretta da bambina, davanti alla fotografia di me e di Gladys a otto anni al luna park con i palloncini in mano che è sempre stata sul mio comodino, ecco che comincio a piangere senza nemmeno sapere io di preciso perché.

Quella notte, per la prima volta dopo molto tempo, sogno mia madre. Porta lo stesso vestito bianco a fiori che portava alla festa della mia scuola — l’ultima festa alla quale intervenne, portando anche una torta fatta da lei, che era buonissima anche se un po’ storta da una parte — e ha al collo la collana di granati che le aveva regalato papà per il primo anniversario di nozze, prima che io nascessi, e che si è portata a Detroit mentre la catenina e la fede sono rimaste nel primo cassetto del comò in camera di papà. Mi guarda dolcemente come se fossi ancora una bambina di nove anni e mi dice che presto verrà a trovarmi. Nel sogno io alzo le spalle e le rispondo che può anche risparmiarsi il viaggio, che poi è esattamente quello che le direi anche nella vita reale se mi proponesse la stessa cosa al telefono. Se solo non fossero tre mesi che non mi telefona.

2. La vendetta mangia piatti freddi

 

“You would seem so frail

In the cold of the night

When the armies of emotion

Go out to fight.

But while the earth sinks to its grave

You sail to the sky

On the crest of a wave.”

Cello Song di Nick Drake

 

Fra i molti misteri di Sunnydale, come si formi l’inesauribile riserva di gente imprudente o disinformata da cui proviene la sempre folta clientela del Bronze è forse il meglio custodito.

 

È vero che il nostro vampiro medio è così rognoso e insofferente che qui le gang di vampiri hanno vita breve, e che di solito i loro membri finiscono per farsi fuori tra loro prima ancora di aver ultimato la scorreria inaugurale; perciò l’eventualità che i clienti del Bronze vengano sequestrati da una mezza dozzina di soggetti desiderosi di ingozzarsi del loro sangue fino al mattino è in realtà abbastanza remota. È successo, non dico di no, ma così come per la strage sul treno della notte si è trattato di casi isolati e come tali non sufficienti a scoraggiare i frequentatori del locale.

 

Io ad ogni buon conto non metto piede al Bronze - e a dir la verità non metto piede fuori di casa dopo il calar del sole - se non ho con me la grossa croce d’oro che mi ha regalato papà quando ho compiuto dodici anni, l’unico regalo di qualche valore che il vecchio mi abbia mai fatto.

 

E di solito non vengo nemmeno al Bronze da sola come una disgraziata in cerca di una compagnia maschile qualsiasi purché con battito cardiaco, ma questa sera quella demonessa ammuffita della mia nuova padrona - e quando dico ammuffita non intendo nel senso di qualcuno se ne sta sempre chiuso a casa ma di qualcuno a cui cresce qua e là a chiazze sulla pelle della strana roba verdastra - aveva dei piani suoi per una seratina romantica col suo amico e ha chiuso bottega dopo la prima permanente. Non è un tipo tutto casa, negozio e pinnacolo come la cugina di Clem la mia nuova datrice di lavoro, ma del resto - come dice bonariamente Clem - questi sì che sono demoni che sanno divertirsi.

 

A questo punto l’alternativa era tra tornare a casa e vedere a che punto era arrivato mio padre con quella sbronza che sembrava già così ben avviata all’ora di cena o tirar tardi da qualche parte in città, che in una serata feriale, a meno di non volersi aggregare alla riunione settimanale del Circolo degli Scacchi, voleva dire fare una capatina al Bronze.

 

Così eccomi qui a ciondolare nel Bronze e a fare del mio meglio per dare l’impressione di avere appena perso di vista la numerosa, affiatata e del tutto inesistente comitiva con cui vorrei far credere di essere arrivata nel locale, dove c’è molta gente e fa molto caldo come al solito. Non conosco la band che suona stasera - dicono di chiamarsi Gli Zombie Felici - non so se siano felici e di sicuro non sono felice io di ascoltare queste loro canzoni lagnose però a vederli potrebbero benissimo essere davvero zombie: del resto non è questo il problema principale a Sunnydale, che non sai mai quando è giunto il momento di prendere le metafore alla lettera?

 

Naturalmente con questa musica non può essere che una serata romantica, di quella con le coppiette avvinghiate sulla pista da ballo e un viavai più intenso del solito con i bagni e la porta sul retro, vale a dire per me una romantica serata di solitudine e di rompimento di balle a meno che non mi riesca di rimorchiare qualcuno nella prossima mezz’ora. C’è uno al bar che mi sembra solo anche lui e non è neanche male - capelli rossicci, naso lievemente rincagnato, spalle squadrate - vedo che ha anche una bella abbronzatura da pelle chiarissima, cioè un arrossamento al limite della scottatura, che magari non sarà molto estetico ma almeno significa che è stato molto tempo al sole di recente e che perciò non riserva brutte sorprese di quelle con le fauci.

 

Non c’è infatti niente di peggio che perdere tempo con uno sconosciuto scambiando le solite frasi generiche e cercando di mostrarti nel tuo aspetto migliore, e proprio quando pensi che sì, potrebbe andare e accetti di ballare, come gli appoggi sul collo senza farti notare la tua vistosa crociona d’oro quello si mette a urlare come un maiale scannato, gli vengono gli occhi gialli e gli escono le zanne, gli astanti scappano da tutte le parti come conigli spaventati e tu sei sempre l’ultima a svignartela, dandoti dell’idiota per aver agganciato - di nuovo - l’uomo sbagliato.

 

O meglio, il non uomo sbagliato perché in quanto agli uomini, come dice la mia amica Dolores, sono tutti sbagliati, solo che ad alcuni hanno passato sopra la scolorina prima di ributtarli sul mercato.

 

Inoltre, a proposito di cose scolorite, devo ammettere che ho sempre avuto un debole per gli uomini con la carnagione chiara, meglio ancora se hanno una spolverata di lentiggini sul naso come George, che se lo guardi nelle fotografie di quand’era bambino sembra proprio uno di quei angiolotti paffuti che mettevano una volta sulla scatola dei biscotti.

 

Mi muovo quindi verso il bar in modo che vorrebbe essere al tempo stesso rapido e sexy, perché ho notato nella parte opposta del locale una biondona superdotata che potrebbe aver messo l’occhio sul mio stesso obiettivo; ma proprio mentre sto per posare il sedere sullo sgabello di fianco al giovanotto, una mano con le unghie laccate in una tonalità di carminio molto ma veramente molto fuori moda mi trattiene per il braccio e una piacevole morbida voce femminile dall’accento vagamente inglese mi dice con felice tono di sorpresa:

 

- Oh, mia cara… che combinazione. Posso offrirti da bere, sì?

Mai usare forbici poco affilate per fare un taglio; mai correre tenendo le suddette forbici in mano; mai uscire di casa dopo il tramonto senza una croce a portata di mano; mai contraddire un demone della vendetta.

- Oh, grazie, Halfrek: molto volentieri.

Perché al salone è la signora Halfrek e io sono la lavorante ma qui al Bronze siamo clienti tutte e due e se si aspetta che la tratti con deferenza si sbaglia di grosso.

 

Stranamente, perché le demoni della vendetta sono i più permalosi di tutti i demoni oltre ad essere i più avari, non batte ciglio ad essere apostrofata con tanta confidenza e mi mette invece in mano la Coca Cola che ha appena preso personalmente dalle dita del barista facendogli cenno di versarne un’altra. Nell’altra mano ha un piatto con due tramezzini abbondantemente farciti e mezzo annegati di salsa e così carica si dirige al suo posto portandosi via il secondo bicchiere di Coca Cola.

 

La seguo pensando che sembra una cosa da poco, ma é uno sforzo di modernizzazione veramente encomiabile in una donna che non era nemmeno abituata a pettinarsi da sola, figuriamoci poi a portarsi da sola le bibite al tavolo in un locale pubblico. Ha scelto un tavolo ideale dal suo punto di vista, comodo per non farsi sfuggire eventuali liti tra le coppie impegnate sulla pista da ballo da cui possano eventualmente sorgere motivi di vendetta, peccato però che sia così vicino al palco che i bassi mi fanno rimbombare le orecchie.

 

Mi sembra di ritornare ai bei vecchi tempi subito dopo che George se ne era andato, quando ciondolavo da un raduno all’altro, intanto che la vecchia Taylor se ne andava facendo spazio alla nuova Tarantula con il suo corredo di vestiti neri, borchie, catene e occhi bistrati.

 

Ci ho quasi rimesso l’udito da un orecchio in quel periodo ma ne è valso decisamente la pena, perché almeno ho imparato che se proprio devo farmi spezzare il cuore dal primo venuto, tanto vale che si tratti di un ragazzaccio con un po’ di spina dorsale e la voglia di vivere pericolosamente piuttosto che di un provincialotto con le toppe al sedere come il povero George.

 

Un’altra cosa che ho imparato in quel periodo: mai sedersi al tavolo più vicino al palco perché non c’è bassista sexy e malandrino che valga la rottura di un timpano quando il più delle volte basta presentarsi dopo lo spettacolo con un paio di birre ghiacciate “per i ragazzi” perché l’intero gruppo ti veda come una salvatrice della patria.

 

Non stiamo parlando dei Rolling Stones: il nome scritto sulla batteria dei gruppi di cui parlo è un nome che a malapena le loro madri ricorderanno ore dopo la loro esibizione. E non si tratta necessariamente di madri come la mia, che si ricorda di me solo il giorno del mio compleanno, quando mi arrivano i soldi in una busta da Detroit. Nemmeno lo sforzo di compilare un assegno o di comprare un biglietto d’auguri: due o tre banconote da cento con scritto “auguri - mamma” di traverso sulla faccia di Lincoln.

 

Halfrek mangia i suoi tramezzini strapieni di sottaceti con l’inimitabile grazia di una vera signora di altri tempi mentre io tracanno metà della mia Coca con la spensierata volgarità di una vera proletaria dell’era moderna; quando ha finito mi guarda al di sopra del bicchiere con interesse professionale come se indovinasse il corso dei miei pensieri - e magari sa abbastanza della mia vita per andarci abbastanza vicina perché è una di quelle fanatiche del lavoro che pensano sempre agli affari ventiquattro ore su ventiquattro ed è convinta che il momento buono per appioppare una vendetta prima o poi si presenterà per chiunque.

 

In compenso non è una cliente rognosa anche se non vuole proprio saperne di rinunciare a quei suoi ricciolini da capretta in favore di qualcosa di più originale; e quando le ho proposto una tinta mi ha guardato come se fossi un mostro con tre teste - a pensarci bene anzi sono sicura che un mostro con tre teste non avrebbe suscitato in lei lo stesso sguardo di oltraggiato orrore.

 

- Non mi piace per niente questa musica - mi confida guardando pensierosa il cantante del gruppo e io mi chiedo per un momento se l’espressione “il suo modo di cantare grida vendetta” si possa intendere alla lettera e se magari questo ragazzetto stridulo si risveglierà domani mattina con due orecchie d’asino intonate a questo suo tremulo ragliare. Ma non è questo che ha in mente Halfrek.

-Come stai, Tula? Tutto bene a casa?

Ahi, ahi, ci siamo. È il mio vecchio che ha in mente allora, il vecchio con le sue epiche sbronze, quella patetica sbiadita imitazione di padre che è tutta la mia famiglia da undici anni.

- Halfrek - ritorco io con un sorriso serafico prima che mi venga la tentazione di appioppare al vecchio un retino da pesca al posto del gozzo così che quando cerca di mandar giù qualsiasi tipo di liquido gli coli tutto sul petto in una cascatella - Io mi chiedo che cosa ti avrà mai fatto il tuo di padre. Il mio non è certo il migliore dei papà ma in fondo è solo un poveraccio di ubriacone che fa più danno a se stesso che a chiunque altro. E io non gli auguro alcun male - aggiungo strizzando l’occhio al demone della vendetta solo un pochino, non così tanto da farla arrabbiare però, e alzando il mio bicchiere di Coca dico ancora

- E anzi bevo alla sua salute - e mi scolo tutto quello che resta della bibita gelata in un colpo solo esattamente come farebbe il vecchio con la sua birra.

- Uhm - mi dice Halfrek senza prendersela e accompagnando anzi il mio gesto con un tentativo poco convinto di alzare anche il suo bicchiere - In fondo c’è una sorta di giustizia poetica nel bere alla salute di un ubriacone con una bibita analcolica.

- Hallie, sei sicura di stare bene? - chiede una voce argentina alle mie spalle in tono canzonatorio - Da quando in qua ti unisci ai brindisi invece che alle maledizioni?

 

Mi giro a guardare la nuova venuta che sta manovrando agilmente con un vassoio in mano per unirsi a noi: è una biondina magra magra e molto carina con un vestito a fiori e un bel paio di gambe. Non mi sembra di conoscere la ragazza e di certo non conosco quei suoi capelli piuttosto sfruttati ma se c’è una cosa che vi posso dire con assoluta sicurezza è che non si tratta di una bionda naturale. Frase che di solito dicono i dongiovanni da strapazzo per lasciare intendere di aver conosciuto intimamente una donna, ma che nel mio caso invece è da intendersi alla lettera, cioè come il giudizio di una professionista.

- Anya, vieni, siediti vicino a me - la accoglie Halfrek con calore e procede a fare le presentazioni come se ci trovassimo a un evento mondano

- Non conosci Tarantula, vero? Questa è Anyanka, ma noi la chiamiamo Anya, è una collega ed una carissima amica.

 

Magnifico, due demoni della vendetta al prezzo di uno: qui la cosa si fa alquanto delicata.

 

Le due signorine si lamentano vicendevolmente di non riuscire mai a consumare un pasto come si deve perché i loro doveri assorbono una parte eccessiva del loro tempo e mi chiedono che cosa ho mangiato per cena.

 

Io mento e rispondo pollo arrosto e patatine, mentre invece ho riscaldato nel forno a microonde la pizza avanzata da ieri; se fossi sincera dovrei aggiungere che però ho fatto fuori anche quella che in teoria sarebbe dovuta andare a mio padre, perché lui si era già fatto la sua dose di zuccheri sotto forma rigorosamente liquida.

 

Mentre l’amica di Halfrek s’imbarca in una spiegazione lunga e non richiesta sul come e sul perché abbia saltato la cena e stia cercando di rimediare con i panini che ha sul vassoio - spiegazione che comprende un rapido confronto sul rapporto prezzo/qualità dei vari piatti freddi offerti nel locale - io la osservo con più attenzione e non sono più tanto sicura di non averla incontrata prima. Succede sempre così a Sunnydale: la città è abbastanza piccola perché si finisca col conoscersi di vista praticamente tutti e al tempo stesso troppo grande perché all’impressione di aver già visto qualcuno si possa sempre riuscire ad associare un nome o una circostanza precisa.

- E così le ho detto che sono un demone della vendetta, non la sua fata madrina - conclude Anyanka alzando sospettosamente la foglia d’insalata del suo panino per scoprire che cosa ci sia sotto

- E che se voleva buttare il suo ex in mezzo alla strada non c’era bisogno che diventasse la proprietaria di uno stabile di quattro piani. Roba da matti. Uhm, che cos’è questo?

 

- Un cetriolino? - azzardo io.

- Zucchina cruda? - dice Hallie.

- Non si mettono le zucchine nei panini, tantomeno crude - protesta Anya

- Non è vero - dice Hallie - Le zucchine si possono mangiare crude in insalata, quand’ero in Grecia lo facevo sempre.

 

Il bello dei demoni della vendetta è che fanno pasti regolari come chiunque altro - anche se non ho mai capito se per sfizio o per reale necessità - perciò quando sono di buon umore ti possono raccontare un mucchio di cose interessanti su quello che si mangia in giro per il mondo.

I vampiri invece ad esempio sono noiosissimi da questo punto di vista ed è già tanto se sono capaci di distinguere il sakè dalla tequila. Magari ti raccontano che sono stati a Pechino e tu gli chiedi “E com’era?” e tutto quello che sono capace di dirti è che era buio e che hanno fatto un macello. Una volta ho passato tre ore a fare i capelli a una vampira che voleva i colpi di sole e per tutto il tempo questa ha chiacchierato ininterrottamente senza dirmi assolutamente niente. Niente, se non quello che sapevo già e cioè che i vampiri si nutrono di sangue e che il modo più spiccio per procurarselo è appostarsi in un vicolo buio e piombare addosso al primo malcapitato affondandogli i denti nel collo. Che questi vicoli si trovassero a New York o a Città del Messico o a Parigi non faceva la minima differenza nel dettagliato racconto delle sue scorrerie.

 

Tentare di fare conversazione con un vampiro è come chiedere a un giocatore di football di parlarti delle sue partite: quando è arrivato alla metà del campionato del 1999 tu stai già sperando che succeda qualcosa, qualunque cosa - una scossa di terremoto, un tornado, un’invasione di extra-terrestri - purché quello strazio abbia fine.

 

- Questa ragazza - dice Halfrek alla sua amica - ha un padre che è un vero disastro…

- Hallie, che noia con questa tua mania per i padri. Magari Tarantula ha un fidanzato che è un vero disastro. Uno che la tradisce con le sue amiche o che le ha fatto un occhio nero o che le ha fregato tutti i risparmi per giocarseli a Las Vegas - aggiunge Anya in tono vagamente speranzoso.

- No guarda che non ce l’ho proprio un fidanzato - mi affretto ad interromperla prima che si faccia delle illusioni, omettendo di dire che in passato ho avuto sia fidanzati che mi hanno tradito con le amiche sia fidanzati che mi hanno fatto occhi neri e anche fidanzati che si sono giocati i miei risparmi ai dadi. Mi piacerebbe anche venire vendicata, non dico di no, ma l’esperienza mi ha insegnato che i metodi di questi demoni della vendetta finiscono invariabilmente per coinvolgere vittime innocenti o, peggio ancora, ritorcersi su chi ha avuto l’idea.

- Sei fortunata - osserva Anya acidamente - I fidanzati tendono a piantarti nel momento meno opportuno.

- Il suo l’ha lasciata il giorno delle nozze - mi spiega Halfrek con quella mancanza di tatto che deve far parte del profilo attitudinale per la professione di demone della vendetta.

- Strana coincidenza: la scorsa primavera sono stata a un matrimonio che è finito proprio in questo modo. Qui a Sunnydale.

- Sarà stato il mio - dice Anya.

- Ma no, era il matrimonio di Xander Harris.

- Era proprio lui il mio fidanzato. C’eri anche tu? Non mi ricordo di averti vista tra i partecipanti alla rissa.

 

Mi profonderei in scuse chiunque fosse la persona con cui ho fatto questa gaffe: figuratevi se risparmio sforzi per convincere il demone della vendetta dell’involontarietà del mio errore. Servisse a qualcosa, striscerei sul pavimento. Anche se a dir la verità preferirei proprio di no perché a questo punto della serata il pavimento del Bronze fa veramente schifo.

 

- Non mi hai visto per niente semplicemente perché sono andata via prima. L’idiota con cui ero non aveva voglia di restare per il matrimonio.

- Ma certo - dice Halfrek - Tu eri con Wil.. con Spike. Perché avevi invitato Spike al tuo matrimonio, a proposito, Anya? Non l’ho mai capito.

 

- Era stata un’idea di Willow. E quando Willow parla, Xander esegue. Così eri tu la strana ragazza che Spike aveva portato al matrimonio? - dice Anya e dopo avermi scrutata attentamente aggiunge - Il tuo trucco non è così pesante come mi avevano detto. A me non sembri per niente una passeggiatrice.

- Grazie - rispondo un po’ seccata. Certo non mi aspettavo di piacere all’esclusivo circolo di bigotti che ruota attorno alla Cacciatrice ma non prevedevo nemmeno di essere scambiata per una donna di strada.

- Guardate che io Spike lo conosco solo perché gli faccio i capelli. E prima che me lo chiediate, no, quel colore non è stata proprio un’idea mia.

- Aveva i capelli color can che scappa. Quand’era vivo, intendo dire - dice Halfrek.

 

- Conoscevi Spike da prima? - chiedo io - Che strana coincidenza.

Stasera le coincidenze abbondano.

- Beh, sai: tutti che vengono a Sunnydale porta dell’Inferno e via dicendo. Non c’è un posto migliore in cui passare l’inverno nel nostro ambiente. Noblesse oblige.

- Perché sarei rimasta, se no? - dice Anya - Non è che imbattermi di continuo nel mio ex fidanzato mi faccia poi questo gran piacere.

- Non avrei mai pensato che Xander Harris si fidanzasse con un demone della vendetta. È sempre stato un tipo così provinciale!

- Non lo era - dice Halfrek.

- Certo che lo era: lo conosco fin da bambino ed è sempre stato di vedute ristrette.

- Non ero un demone della vendetta quando mi dovevo sposare - chiarisce Anya - Poi, sai, ho preferito riprendere la mia carriera lavorativa.

- Oh. Sì. Capisco - mi dichiaro frettolosamente d’accordo io anche se in realtà non capisco un accidente. Demoni della vendetta che smettono di esserlo per sposare giovanotti umani? Sembra una versione bieca e molto sunnydaliana della Sirenetta. Quella del libro che la mamma mi leggeva quand’ero piccola, non quella di Disney.

- Comunque lui adesso ha un’anima - mi dice Halfrek abbassando la voce come se mi stesse rivelando che un comune conoscente soffre di una malattia venerea - Lo sapevi?

- È per questo che dà fuori di matto - aggiunge Anya - L’hai vista quella ragazza là con il vestito viola? Non ti sembra che stia piangendo?

- Chi? - chiedo io che sto ancora pensando a Xander Harris e a come sia potuto passare da nullità insignificante a fidanzato di demone della vendetta. Forse sono i vantaggi collaterali che nascono dal far parte dell’entourage della Cacciatrice. Vantaggi si fa per dire.

- Quella vicino alla porta con i capelli arancione e le gambe storte.

- Non piange per niente - chiarisce l’altro demone dopo essersi contorta sulla sedia per dare un’occhiata - Ha solo un tremendo raffreddore. E non ha nemmeno le gambe storte: ha solo le ginocchia una diversa dall’altra.

- Quella cosa che dite dell’anima. Di chi state parlando?

- Di Spike, naturalmente. L’hai mica incontrato di recente?

 

- Sì. Gli ho tagliato i capelli il mese scorso.

- E come ti è sembrato? Niente scambi di vedute con persone invisibili? Non usava la terza persona per parlare di sé stesso?

 

Mi sembra un quadro abbastanza preciso dello stato in cui si trovava il vampiro quando mi ci ha portato Clem; ma dal momento che Spike mi ha salvato la vita dal demone mannaro mentre queste due qui vorrebbero solo trasformare mio padre in un dromedario o appioppare due braccia di troppo a qualcuno dei miei ex non è poi così difficile decidere a chi debba andare la mia lealtà.

 

- Non so, normale. Per quello che può essere normale uno come Spike. Ma come mai ha un’anima?

- E chi lo sa? - dice Anya scrollando le spalle - Se provi a parlargliene in un momento in cui ti sembra abbastanza lucido per rispondere cerca di romperti le ossa.

- Sicure di non entrarci niente? Affibbiare un’anima a un vampiro sembra una cosa veramente crudele da fare. Degna di voi, intendo dire.

 

Come diceva sempre Monsieur Alexandre, un po’ di adulazione non costa niente e non ha mai fatto male a nessuno. Ma Anya sembra più indignata che lusingata.

 

- Per chi ci hai preso? Siamo forse una tribù di zingare? Magari adesso vorrai che ti legga la mano.

- Certo che no - dico io - Non siete vestite per niente come zingare, anzi siete proprio molto eleganti.

 

Questa è veramente grossa perché io ho invece sempre avuto il sospetto che Halfrek abbia la stessa sarta di mia zia, quella bigotta che sta ad Houston; ma evidentemente Monsieur Alexandre sa il fatto suo perché dopo la mia smaccata esibizione di falsità mi sorridono tutte e due aggiustandosi meccanicamente i vestiti.

 

- La ragazza qui non sa niente dell’altro vampiro con l’anima - osserva amabilmente Halfrek - Non vedi che le confondi le idee? E tra l’altro non credo nemmeno che ci siano gli zingari dietro questa anima qui.

- L’altro vampiro con l’anima?

 

Anya conviene con la sua amica che l’anima di Spike non viene dagli zingari e che soltanto un idiota potrebbe andare a caccia di un’anima.

 

- Se è un’idiozia stai pure certa che William è la persona ideale per farla. Quantomeno era proprio un idiota quand’era vivo e diceva di amarmi - osserva Halfrek.

- Spike da vivo era innamorato di te? - chiedo io piuttosto sorpresa. Non ho idea di come fosse il vampiro prima di diventare un vampiro, ma questa signorina bene con la puzza sotto il naso non mi sembra proprio il suo tipo né da vivo né da morto.

- Magari hai ragione - conviene Anya dopo aver scrutato il fondo del suo bicchiere corrugando la fronte come se vi cercasse un’ispirazione

- Ci scommetterei la testa che Buffy sa come è andata, ma quando mai la Cacciatrice si degna di metterci a parte delle sue informazioni? Guarda, l’avrà fatto per dimostrarle che teneva veramente a lei.

Anya si interrompe e fa una risatina amara: - Era furiosa quando ci ha trovato insieme. Non furiosa come Xander ma insomma non era contenta per niente.

- Insieme? - chiedo io.

Mi sembra di essere in una di quelle sit-com in cui il nuovo venuto non sa niente di quello che sanno tutti gli altri e continua a fare la figura dell’idiota, con me nella parte dell’idiota.

- Umani! Ci scaricano e ci trattano come pezzi di cacca perché siamo demoni o lo siamo stati e quando ci trovano a letto insieme hanno anche la faccia tosta di offendersi - prosegue Anya infervorandosi senza rispondermi. Poi ci ripensa e aggiunge: - Anche se era un tavolo e non un letto. Ma che cambia?

- Niente. Mi stai dicendo che tu e Spike…

- Avevamo alzato un po’ il gomito - si giustifica Anya - Sai come succede. Siamo d’accordo che è un idiota, ma da quel punto di vista lì niente da ridire. Vampiri, lo sai come si dice: c’è un’unica cosa che sanno fare. A parte uccidere, intendo dire. Ma lo saprai già, immagino.

 

- Io non so un accidente di niente - protesto io un po’ risentita.

 

Ma come, devo essere io l’unica ad essere andata in bianco col vampiro? Non che non l’avessi capito che aveva un debole per la Cacciatrice - in quel poco tempo che siamo stati insieme al matrimonio la guardava con quella tipica espressione da cane bastonato che prendono gli uomini - e anche i vampiri - quando contemplano la donna dei propri sogni, senza contare che gli era bastato scambiare quattro parole con lei per decidere che ci eravamo fermati abbastanza, diventare freddo come un merluzzo con me e scaricarmi al primo angolo di strada senza quasi prendersi la briga di fermare la moto per farmi scendere. Ma che si sia fatto anche la mancata sposa francamente mi dà un po’ fastidio: e che, solo su di me il vampiro-che-non-può-mordere non si è degnato di mettere le sue bianche e gelide mani?

 

- Ti ha fatto qualcosa di male? - mi chiede Halfrek con inesauribile zelo professionale. Non mi meraviglia che non abbia il tempo di fare dei pasti regolari.

- No, non mi ha fatto proprio niente di niente. Non mi ha lasciato nemmeno assaggiare il rinfresco.

- Potremmo vendicarti per la sua mancanza di interesse… - mi dice Anya poco convinta - Anche se a dir la verità il rinfresco non l’ha mangiato nessuno: quello che l’impresa di catering non è riuscito a mettere in salvo è finito spalmato sulla faccia degli invitati.

- Qualcuno è riuscito a mangiarlo anche così - obietta Halfrek - Però l’hanno fatto solo quelli che avevano una lingua molto lunga e particolarmente mobile.

 

L’amica le rivolge un’occhiataccia e allora lei si affretta ad aggiungere: - Ma è stato molto scortese da parte loro. In ogni caso, se vuoi esprimere un desiderio, io posso far succedere qualcosa di tremendo a William.

- Qualcosa di più tremendo di quello che gli è già successo? - chiede Anya con aria scettica.

- E poi non era un amico tuo da vivo? - chiedo io.

- Il lavoro è lavoro - protesta Halfrek agitando le sue manine paffute con le unghie color carminio come una maestra che protestasse di non aver favorito in nessun modo il nipotino preferito agli esami

- Noi abbiamo un’etica professionale, cosa credi?

- Ecco, a proposito: quella ragazza con i capelli arancioni sta proprio piangendo - interviene Anya.

- Anch’io piangerei se fossi uscita con un vestito come quello. Ma li avete visti i volants?

- Per non parlare di quella cosa che spunta da sotto: cos’è, una sottoveste? Una volta avevo una cameriera che aveva sempre la sottogonna più lunga della gonna. Orribile.

- No, è una specie di pizzo attaccato al vestito - decreta Anya dopo averla osservata socchiudendo gli occhi per inquadrarla meglio.

- Quando è stata l’ultima volta che si sono messi i pizzi e i volant insieme? Durante la Guerra di Secessione?

- Non so: non c’ero - rispondiamo io e Halfrek in coro, poi ci scambiamo uno sguardo risentito. Forse dovremmo fare cric e croc.

 

Anya si alza dal tavolo con un sospiro e dice: - Ecco il tuo problema, Hallie: sei giovane. Se tu fossi in circolazione da più di mille anni come me non confonderesti lacrime di dolore da vendicare con lacrime da eccessiva produzione di muco. Penso proprio che adesso andrò fuori a fumare.

- Auguri con la ragazza ma stai attenta a non strozzarti col fumo: non hai mai imparato a fumare - dice Halfrek

- Non è vero: una volta ho fumato oppio in un bordello di Chicago. Un bordello che è anche una fumeria d’oppio è un ottimo posto in cui trovare donne bisognose di vendetta. Non guardatemi così: io ero solo la lavandaia là dentro.

-Che schifo - mi lascio sfuggire. No, davvero: il mestiere di demone della vendetta non è tutto rose e fiori se significa anche lavare le lenzuola di un bordello. Anya e Halfrek fanno una smorfia da martiri.

- Lavatrice: la più grande invenzione nella storia dell’umanità - mi dice Anya con un sorriso di intesa prima di allontanarsi puntando sulla ragazza col vestito viola e i capelli arancioni con la stessa foga di un barbone che avesse intravisto un cappotto quasi nuovo dimenticato su una panchina.

- Sai - mi confida Halfrek - Anya ha bisogno di migliorare un po’ il suo punteggio: è andata maluccio ultimamente.

- Avete i punteggi? - chiedo io più per gentilezza che per altro sbirciando verso il bar per vedere se il rosso con l’eritema solare è ancora là e ancora libero. Mi sembra per il momento di aver passato tempo più che a sufficienza in compagnia di altre femmine per di più demoni e vorrei tornare al mio piano originale di trovare compagnia maschile per la serata. Ma ovviamente nel frattempo la bionda che avevo già individuato come rappresentante della concorrenza è riuscita a piazzarsi con il suo voluminoso davanzale e tutto il resto di fianco all’ignaro oggetto del nostro silenzioso contendere e ora se ne sta appollaiata sullo sgabello con un metro e mezzo di gambe in mostra chiocciando e ridendo instancabilmente alle sue battute di spirito come si fa in questi casi.

 

Lui invece continua a bere, che potrebbe essere un segno buono o un segno cattivo perché o beve per farsi coraggio e diventare intraprendente oppure beve per darsi un contegno e prendere tempo. Oppure ancora beve semplicemente perché è un ubriacone come papà e in questo caso sono stata fortunata ad incontrare Halfrek sulla mia strada perché se voglio vedere un uomo che vomita sul pavimento non c’è nessun bisogno che venga al Bronze, basta che me ne resti a casa mia.

 

A un certo punto però estrae il telefonino dalla tasca e dopo aver parlato brevemente fa dei gesti di scusa alla bionda e se ne va lasciandola lì con il suo bel faccino tutto imbronciato. Io seguo con la coda dell’occhio il percorso del giovanotto, che si fa strada tra gli avventori mettendo in mostra ahimè un caracollare assai poco elegante per poi sparire da quella stessa uscita laterale in cui si sono infilate, una dopo l’altra, la ragazza con i capelli arancione e il demone della vendetta numero due.

 

Nel frattempo Halfrek ha cominciato una noiosa spiegazione sui punteggi delle vendette a cui presto orecchio con un sorriso di circostanza ma poiché tutte e due continuiamo ad allungare il collo per vedere che cosa sta succedendo in giro - io per guardare se il rosso ricompare, lei per cogliere al volo improvvisi desideri di vendetta - quando si sente il primo urlo siamo pronte a balzare in piedi come molle scambiandoci uno sguardo d’intesa, sempre che ci possa essere intesa tra un normale essere umano che quando sente gridare pensa che qualcuno ha bisogno di aiuto e un demone della vendetta che quando sente gridare pensa che finalmente è cominciato il carnaio.

 

Le urla continuano e si intensificano, sovrastando sia il brusio dei clienti che la lagna sul suo perduto amore in cui si sta producendo il cantante del gruppo, e mi consentono di distinguere almeno due sorgenti distinte: una donna con una voce da soprano che sta urlando con tutto il fiato che ha nei polmoni e una creatura rauca che più che urlare ringhia e bramisce. Hallie fila verso la porta come un treno riuscendo a conservare non so come un portamento incredibilmente distinto nonostante la fretta e i tacchi alti e io la seguo ondeggiando con molta meno grazia sui miei stivaletti col tacco a spillo con cui non manco di colpire casualmente qua e là malleoli e metacarpi dei malcapitati che ostacolano la mia marcia e che reagiscono a loro volta con indignate e rumorose proteste. Credo che Halfrek sia preoccupata per Anya - anche se non ne capisco il motivo perché di solito non sono i demoni della vendetta ad urlare quanto piuttosto a provocare le urla di terrore degli altri - io invece mi chiedo che ne sia stato della ragazza con i capelli arancione e il vestito viola: andare in giro con un look del genere mi sembra un fardello già abbastanza pesante da portare senza doverci aggiungere spiacevoli incontri con mostruose creature della notte.

 

Mi domando anche dove sia andato a finire il giovanotto del bar, che cosa gli abbiano detto al telefono per farlo uscire così di gran carriera e come mai il bordello sia cominciato non appena è uscito lui. Fossi sola me ne starei al sicuro e al calduccio al mio posto ma la compagnia di un paio di demoni della vendetta contribuisce indubbiamente ad aumentare il mio coraggio; così eccoci qui a varcare la porta del Bronze come dei veri duri sotto gli occhi di una piccola folla di curiosi che scrutano nell’oscurità stando bene attenti a non mettere piede fuori. Francamente, non li biasimo. Un ragazzo con gli occhiali e le lentiggini che non può avere più di sedici anni è persino abbastanza cavaliere da cercare di impedirmi di uscire mentre gli altri maschi si limitano a guardarmi con quella tipica espressione vacua che il cittadino medio di Sunnydale di solito assume mentre ripassa mentalmente le statistiche locali di mortalità.

 

Fuori è così buio che non potrei riconoscere la strada; così buio da andare ben oltre le esigenze di risparmio energetico del municipio; così buio che qualcuno o qualcosa deve aver rotto la lampada del palo che sta ed è sempre stato esattamente all’angolo. Fossimo altrove, penserei che la lampadina è bruciata o che qualche teppistello ha centrato la plafoniera con un tiro di fionda ben assestato; ma siccome siamo a Sunnydale tendo a credere che qualcuno alto quattro metri o capace di arrampicarsi su un lampione alto quattro metri o ansioso di sottrarsi alle luci stradali abbia volontariamente spento la luce. Peggio ancora, praticamente nello stesso momento in cui ho messo fuori dal Bronze il mio piedino calzato di uno stivaletto nero vezzoso ancorché scalcagnato e la pesante porta si è richiusa alle mie spalle, le urla di poco fa sono state sostituite da un profondo, improvviso silenzio, nel quale il battito accelerato del mio cuore sembra essere diventato l’unico suono.

 

È così buio che non riesco a vedere Halfrek ma se trattengo il respiro la sento respirare al mio fianco - grazie al Cielo i demoni della vendetta se non ossigenano regolarmente i polmoni diventano tutti blu come chiunque altro - e dopo un momento di assoluto silenzio che mi sembra durare un’eternità, la sento anche dire a bassa voce:

 

- Accipicchia, non si vede un bel niente.

 

È quello che penso anch’io, sebbene non condivida la sua terminologia da signorina di buona famiglia, ma penso anche che nella mia borsa vaga ancora l’accendino un tempo appartenuto al caro George - non che me l’avesse lasciato per ricordo, lo trovai io sotto il letto quasi un mese dopo che se ne era andato da Sunnydale. E prima che me lo diciate: sì, è vero, non sono molto assidua nei lavori di casa; e nemmeno riordino spesso il contenuto della mia borsa.

 

È un bell’accendino d’argento che George non si sarebbe mai sognato di comprare, quindi sta a voi decidere se l’avesse sgraffignato da qualche parte o se fosse il regalo di un’ammiratrice. In entrambi i casi, può tornare utile in una sera buia. Halfrek sobbalza come se si fosse punta con uno spillo nel momento in cui faccio scattare l’accendino e una fievole luce ci permette se non altro di guardarci in faccia; più in là a tutta prima non sembra che ci sia niente da vedere oltre i bidoni della spazzatura e le solite cose del vicolo e questo è strano, perché non posso fare a meno di chiedermi dove diavolo siano finite la creatura che emetteva quei ringhi terrificanti e la donna che strillava in quel modo. E il rosso con l’abbronzatura. Questa porta laterale del Bronze è come il baule di un prestigiatore: tutto quello che passa di lì sparisce nel nulla. Poi mi viene in mente Anya, il demone della vendetta. Dov’è Anya?

 

- Anya? - sussurra Halfrek con voce esitante - Anya, dove sei?

- Amanda? - chiede una voce maschile nel buio - Sei tu?

 

Non so se ci siano Amande qui e non riconosco di chi sia quella voce, ma non faccio in tempo a chiedermi se potrebbe essere stato il giovanotto del bar a parlare che sento un rumore di passi che si allontanano. Nessuna Amanda ha risposto. Forse Capelli Arancione si chiama Amanda?

 

Di nuovo, un silenzio denso come quello di cui sono fatti gli incubi. Poi una serie di fiochi lamenti e un pianto di donna.

 

È notte, è Sunnydale, mi trovo sul retro del Bronze, ho appena sentito una serie di suoni a dir poco inquietanti: dovrei aspettarmelo. E invece no: il colpo sull’orecchio destro mi raggiunge completamente di sorpresa, perdo l’equilibrio e mi abbatto sulle ginocchia a mani avanti lasciando cadere l’accendino a terra mentre gli occhi mi si riempiono di lacrime per il dolore.

 

A parte le stelline che mi appaiono davanti agli occhi adesso è di nuovo buio fitto; ma ora la voce di Halfrek giunge profonda, forte e minacciosa al mio orecchio sinistro, quello non direttamente interessato dall’aggressione.

 

Penso che abbia indossato il suo vero volto da demone - quello per capirci con le eruzioni cutanee squamose sul colorito violaceo di fondo e la cresta centrale tra fronte e naso - e anche mentre sono lì per terra, con tutta la parte destra della testa che sembra sul punto di scoppiare intanto che il mio misterioso aggressore è completamente libero di scegliere se finirmi o meno, mi morderei le mani dalla rabbia per non essere riuscita a vedere nemmeno questa volta il momento esatto della trasformazione, cioè l’istante in cui il liscio volto lievemente paffuto di Hallie ha assunto l’aspetto terrificante della vendetta impersonata.

 

I vampiri non sono altrettanto riluttanti a trasformarsi in pubblico: ad esempio l’anno scorso una cliente particolarmente di buonumore passò più volte da una forma all’altra mentre la pettinavo per farmi vedere come i suoi capelli perdevano la piega intanto che le zanne uscivano dalle labbra, la fronte si arcuava e gli occhi diventavano gialli. E credetemi: non c’è lavoro di phon o di lacca che basti a scongiurare la completa rovina dell’acconciatura in una simile evenienza. Va un po’ meglio se metti un sacco di gel, ma poi i capelli restano duri come setole e alla maggior parte della gente - viva o non morta che sia - questo non piace molto.

 

- Anyanka, palesati - dice Halfrek con voce profonda e spaventosa.

- Aiuto, chi mi ha colpito? - domando invece io con voce stridula e spaventata e mi rimetto in piedi a fatica brancolando nel buio finché non riesco ad afferrare quello che spero sia un lembo del vestito del demone della vendetta.

- Non mi toccare, mortale, mentre mi rivelo nel mio vero aspetto - mi avverte Halfrek con lo stesso tono arcano e vagamente ridicolo e poi più prosaicamente aggiunge - Non tirare la manica che la strappi. Chi ti ha colpito?

 

Nel frattempo però mi ha afferrato per un braccio e mi sta trascinando verso una zona più in luce del vicolo, laddove riesce ad arrivare la fioca illuminazione proveniente dalla strada principale

 

- Non lo so - le rispondo cercando ubbidientemente di non toccarla ma di restarle al tempo stesso il più vicino possibile - C’era qualcuno qui alle mie spalle. Dov’è la tua amica?

- Dove sono tutti? - replica Halfrek e ora c’è abbastanza luce perché io possa intravedere le squame sul suo naso.

 

Mai avrei creduto di trovare il volto di un demone della vendetta una vista rassicurante ma - ehi - i criteri di valutazione possono cambiare in fretta.

 

- Halfrek - chiama dalla strada una voce che sembra una versione altrettanto minacciosa ma meno nasale di quella della medesima Hallie.

 

Ora che ci penso è buffo come demone o no, con le zanne o senza, da vivo o da morto chiunque si tenga stretto il suo accento di provenienza: - Vieni qui, unisciti a me. Chi è l’umana che ti accompagna?

 

Hallie cammina maestosamente fino in fondo al vicolo e gira l’angolo con quella beata spensieratezza che nasce dall’essere un demone immortale mentre io la seguo da presso con una corsettina sbilenca mentre mi cola il naso e il dolore all’orecchio pulsa al ritmo del mio stesso cuore.

 

Ma chi me lo ha fatto fare di venire qui fuori? Non fosse che stiamo andando dalla parte opposta a quella da cui è arrivato il colpo sul mio orecchio me ne tornerei indietro verso la relativa sicurezza del Bronze, ma la probabilità di un secondo trauma cranico fa sembrare preferibile la scelta di esplorare invece l’ignoto. La compagnia di un paio di demoni plurisecolari non guasta.

 

Sono tutti o quasi tutti dietro l’angolo.

Anya o per meglio dire Anyanka, in una versione un po’ più colorata dello stesso volto di battaglia di Halfrek; la ragazza con i capelli arancione e il vestito viola, inginocchiata a terra ma apparentemente viva e in buone condizioni; un giovanotto steso per terra non saprei se vivo ma certamente non in buone condizioni che non è il rosso scottato su cui avevo messo gli occhi; e infine il mio amico Sassassa in tutto lo splendore biancastro dei suoi due metri senza elemento alcuno di mannarità. Mannarismo? Quello che è.

 

- Sono scappati - dice Sassassa ad Anyanka - Perché non li hai fermati?

- Sassassa? - dico io.

- Tarantula? - chiede Sassassa.

- Vi conoscete? - Anyanka con aria sospettosa.

- Che cosa sta succedendo qui? - Halfrek con un sospiro di esasperazione.

 

E mi spiace dovermi dichiarare d’accordo con la signorina So-Tutto-Io ma francamente quest’ultima mi sembra proprio la domanda più azzeccata.

 

- Ci siamo incontrati qualche settimana fa - risponde Sassassa contorcendo stranamente il pelo intorno a uno degli occhi. Mi ci vuole qualche momento prima di rendermi conto che il demone sta cercando di mandarmi un segnale d’intesa strizzandomi l’occhio: immagino che non desideri che si sappia in giro delle sue abitudini mannare e non posso dargli torto. In ogni caso, sempre meglio l’occhiolino che un calcio negli stinchi: mi fa già male abbastanza l’orecchio perché mi debba preoccupare anche di una gamba acciaccata.

- E perché? - chiede Anya.

- E perché cosa?

- Per quale ragione una ragazza come te avrebbe incontrato un demone Sfrayano come il signore qui presente? Che di solito non dovrebbe nemmeno aggirarsi per il nostro mondo, tra l’altro.

- Ecco… - dico io chiedendomi se posso addossare a Spike la responsabilità di avermi fatto conoscere Sassassa. Un guaio in più, un guaio in meno non dovrebbe fare grossa differenza per il vampiro; certo che una ci pensa due volte prima di calunniare un vampiro.

- I peli delle orecchie - dice Sassassa frettolosamente - Lei mi taglia i peli che ho nelle orecchie. Ci vuole un’estetista per questo tipo di lavori. E poi la ragazza qui ha la mano leggera.

- Tu hai peli dappertutto - obietta Halfrek ma sembra più incuriosita che insospettita - perché dovresti eliminare proprio quelli delle orecchie?

- Non dovrei averne nelle orecchie. E poi prudono. Comunque preferirei che smettessimo di parlare dei miei peli: è molto imbarazzante.

- Perché state lì a fare conversazione invece di aiutarlo? - chiede la ragazza dai capelli arancione alzando la faccia verso di noi.

 

Le lacrime le hanno rovinato tutto il trucco e le sue guance sono un disastro di mascara diluito, macchie di fondotinta e tracce di acne giovanile: uno spettacolo penoso che non è certo migliorato da un grosso livido violaceo che si sta rapidamente allargando sul suo zigomo destro. Qualcosa mi dice che ha incontrato lo stesso misterioso personaggio che ha preso di mira il mio orecchio; e se avessi seguito più attentamente uno o l’altro dei vari CSI ora forse saprei se i colpi sul lato destro significano che il nostro assalitore è mancino oppure che ha colpito entrambe da dietro oppure solo che stanotte dovremo dormire tutte e due sul fianco sinistro. Sempre che io e Capelli Arancione riusciamo ad arrivare salve se non del tutto sane nei nostri rispettivi lettini.

 

Tra la ragazza che mi ostruisce la visuale e l’illuminazione scarsa, non saprei dire esattamente che cos’abbia il giovanotto di cui si sta preoccupando, ma visto che non ha ancora partecipato alla conversazione suppongo che abbia perso i sensi; da quello che riesco a vedere mi sembra che ci sia qualcosa di strano sulla sua camicia all’altezza del fianco, ma non so decidermi se si tratta del manico di un’arma da taglio o di una piega bitorzoluta del tessuto e non sono nemmeno tanto sicura di volerlo sapere con certezza. Superfluo a dirsi, si tratta del fianco destro. Dove, se la memoria non mi inganna, è situato il fegato, che come tutto quello che si trova nel nostro corpo in esemplare unico si sa che è molto meglio se rimane dov’è e non perde pezzi in giro.

 

- Non sta così male - risponde Anya in tono irritato, e mi basta sentirla per capire che ha di nuovo il gradevole aspetto di una finta bionda dai lineamenti delicati e che mi sono persa ancora una volta l’occasione di vedere la trasformazione di un demone della vendetta - se lo porti all’ospedale in tempo è probabile che riescano a ricucirlo. E poi non eri tu a volerlo morto?

 

Capelli Arancione si alza in piedi asciugandosi le mani insanguinate sul suo brutto vestito viola. Le macchie di sangue sono difficilissime da togliere dalla viscosa perciò francamente dubito che riuscirà a portarlo ancora: se vogliamo, questo potrebbe anche essere il lato positivo della serata.

 

- Io non parlavo sul serio - dice con voce tremante - e tu, qualsiasi cosa tu sia, tu lo sapevi benissimo!

- Sei stata tu a dire che avresti voluto che incontrasse un mostro peloso alto due metri, carina.

- Ehi - dice Sassassa - Anche se sono peloso io non sono un mostro. Ma avete visto che capelli ha lei?

- A me sembra una cosa strana da dire per scherzo - osserva Halfrek - Incontrare un lupo mannaro, potrebbe essere uno scherzo. Ma un mostro peloso di due…

- Non mi aiutare, Hallie, grazie - dice Anya.

 

Decido di tenere gli occhi incollati su Halfrek, che ha ancora la cresta sulla fronte e tutto il resto, sperando proprio che questa volta riuscirò a cogliere il momento in cui riemergerà il suo volto umano.

 

- E comunque il mio mostro peloso non gli ha fatto niente. - dice Anya soffiando dal suo grazioso nasino come un gatto arrabbiato - Quelli che gli hanno dato una coltellata sono stati degli altri.

- Era una spada, non un coltello - obietta Capelli Arancione.

 

Come se facesse differenza, penso io in un primo momento, e poi mi rendo conto che invece ne fa un sacco di differenza: una coltellata te la puoi prendere da un drogato in crisi di astinenza che vuole i tuoi soldi, ma neanche il più sballato dei delinquenti andrebbe in giro armato di spada. Almeno da trecento anni a questa parte, o da duecento, o insomma da quando i briganti e i tagliaborse hanno cominciato ad usare armi da fuoco.

 

- Io non sono tuo - protesta di nuovo Sassassa - Io stavo solo facendo la mia passeggiata serale. Ora che ci penso non mi piace nemmeno questa parte della città: non ci vengo mai.

- Anzi, il mio mostro peloso è quello che vi ha salvato la pelle a tutti e due - prosegue Anya come se Sassassa non avesse aperto bocca - Dovresti ringraziarmi per essertela cavata con un livido sulla guancia. A proposito: si può sapere che cosa volevano quelli da voi?

- Ma non lo so - protesta Capelli Arancione - So solo che stavo parlando con te di quegli scherzi idioti che fa il mio ragazzo, poi tu sei andata non so dove…

- Volevo buttare la gomma da masticare nel cestino dei rifiuti - spiega Anya indicando il bidone all’angolo della strada - I coperchi dei cassonetti sono così luridi che non li volevo toccare.

- Da quando sei diventata così schizzinosa? - chiede Hallie e siccome mi sembra che si sia piuttosto smontata trattengo il fiato in attesa dell’imminente trasformazione.

- È diventato tutto buio, ho sentito che c’era qualcuno, mi sono girata e in quel momento mi hanno colpito. Allora ho cominciato a gridare, ho gridato e ho gridato e ho corso e a un certo punto mi sono scontrata con questo essere qui…

- Mi chiamo Sassassa, signorina.

- … questo essere qui che ringhiava come un cane arrabbiato.

- Mi ha camminato sui piedi con i tacchi! Prima quel ragazzo lì sbuca dal nulla e mi fa venire un mezzo accidente perché mi si accascia praticamente fra le braccia. Poi dei pazzi con delle spade mi buttano per terra come se non mi avessero nemmeno visto, la signorina comincia a gridare come se la stessero scannando, io mi rialzo e lei mi cammina sui piedi con quei tacchi lì! - si giustifica il demone Sfrayano con una punta di imbarazzo. Tutti d’istinto portiamo lo sguardo sui piedi della ragazza, che effettivamente porta un paio di scarpe color argento a punta con tacchi affilati come lame.

- Ma come fai a camminare su quelle cose? - si informa Hallie con sincero interesse e io impreco dentro di me perché mi rendo conto che per guardare le calzature di Capelli Arancione ho mancato per l’ennesima volta l’attimo fuggente - quello in cui la carnagione di Halfrek è tornata rosea e vellutata come una pesca, la cresta si è appiattita, i suoi occhi hanno ripreso la forma tondeggiante, le sue iridi sono ridiventate castane e i suoi stupidi ricciolini si sono abbassati di dieci centimetri. Maledizione, non ci riuscirò proprio mai?

- Qualcuno di voi ha la macchina, per favore?- chiede la ragazza - Siamo venuti con degli amici, ma non so dove siano adesso.

- Io non so guidare l’automobile - dice Hallie, lasciando intendere che sa guidare qualcos’altro. Aerei, carrozze, calessi, tram… chi può dirlo.

- Non ho mai avuto un’automobile - dice Sassassa.

- A me l’ha rubata qualche bastardo - dico io anche se dovrei forse aggiungere: qualche bastardo che non sa distinguere un’automobile da un triciclo.

- Hai qualche idea su cosa ti piacerebbe succedesse al ladro? - mi chiede subito Hallie.

Tutti concordemente facciamo finta di non aver sentito.

- Io so guidare - afferma Anya orgogliosamente mentre Halfrek gesticola per farci capire che non è vero - però al momento non ho una macchina.

 

Non fosse per quel povero disgraziato che rischia di morire dissanguato sull’asfalto mi verrebbe da ridere: eccoci qui, in California, lo stato più motorizzato del paese più motorizzato del mondo, tre esseri umani e tre demoni e non abbiamo un’automobile in sei. Green Peace dovrebbe farci un monumento.

 

Con perfetto tempismo il poveraccio sull’asfalto sceglie questo momento per emettere un lamento. Lo guardo meglio per capire come sta, e francamente non mi sembra molto in forma: però non ci sono coltelli che spuntano dal costato, soltanto una brutta camicia scozzese inzuppata di sangue. Probabilmente non si riuscirà a salvare nemmeno quella. Forse si potrebbe tentare con acqua fredda e ammoniaca, ma poi resterebbe il buco. O il taglio.

 

Il giovanotto, che non sarebbe pallido in condizioni normali perché è un ispanico con la pelle olivastra e folte sopracciglia nere, in questo momento ha un colorito verdastro che fa una certa impressione. Non so molto di pronto soccorso - solo quelle quattro nozioni di base che ho imparato con gli scout - ma anche quel poco è abbastanza per dire che starcene qui a cincischiare intanto che il sangue di questo povero disgraziato gocciola sul marciapiede non è una grande idea. Del resto non abbiamo nemmeno qualche vampiro qui - con anima o senza - che se ne possa avvantaggiare. Non so agli altri, ma a me viene anche un po’ da vomitare.

 

- Bisognerebbe chiamare un’ambulanza - azzardo alla fine.

 

Spero solo che l’amico di Capelli Arancione, qui, abbia un’assicurazione sanitaria migliore della mia. Ripensandoci, non ci vuole molto, dal momento che io un’assicurazione sanitaria non ce l’ho proprio.

 

- Il mio cellulare è scarico - si dispera Capelli Arancione.

 

Cristo, che brutta serata che ha passato questa qui. Non so se i demoni della vendetta utilizzino i telefoni cellulari, quello che so è che io non ho più credito sul mio.

 

- Che cos’è un cellulare? - si informa Sassassa.

 

Fortunatamente prima che cominciamo col secondo atto dello show sui sei personaggi che non avevano ancora scoperto le comodità dell’epoca moderna, un telefonino compare come per miracolo dalle ombre della notte. Faccio un balzo perché qualcuno me lo ha messo proprio sotto il naso e tra orecchi doloranti, giovanotti che si dissanguano ai miei piedi e demoni della vendetta con la cresta e senza, stasera mi sento particolarmente nervosa.

 

- Volete chiamare un’ambulanza? Che cosa è successo? - chiede una voce col timbro da basso e l’inconfondibile accento texano.

 

Nonostante il mio infelice soggiorno a Houston non ho niente contro i texani - basta che non siano imparentati con me.

 

Monsieur Alexandre non era texano nemmeno lui; e nemmeno francese, se è per questo, ma dove avesse imparato a parlare in quel modo non sono mai stata capace di scoprirlo.

 

Una mano bianca, lentigginosa e alquanto callosa mi tende un modello dozzinale di telefono cellulare, io lo prendo e compongo il 911, poi alzo lo sguardo ad incrociare quello del giovanotto del bar. Alcuni uomini ci guadagnano ad essere visti da vicino. Altri no. Di solito quelli che hanno la pelle arrossata dal sole e dal lavoro all’aria aperta, gli occhi d’un azzurro slavato e le ciglia quasi bianche rientrano nella seconda categoria e questo esemplare non fa eccezione. Però ha una bella voce ed è ricomparso al momento giusto, che è molto più di quanto si possa dire del mio appuntamento medio, e anche se non sembra per niente il mio tipo, quanto piuttosto il tipo che potrebbe cantare una vecchia canzone country accompagnandosi con la chitarra intanto che una bella bisteccona di manzo si cuoce sulle braci, non mi sta guardando come una bestia rara solo perché ho una minuscola lametta appesa alla catenina, porto i jeans aderenti e i miei occhi sono completamente contornati con l’eye-liner.

 

Sempre che il trucco abbia tenuto come spero perché non vorrei proprio avere l’aspetto che ha in questo momento Capelli Arancione.

 

Quando comincio a balbettare in risposta alle domande che l’operatore del 911 mi fa con voce al tempo stesso sollecita e distaccata, Anyanka sbuffa e mi strappa di mano il telefono senza molti riguardi procedendo a richiedere l’intervento del Pronto Soccorso in modo spedito e preciso, fermandosi solo per chiedere a Capelli Arancione come si chiama lei e come si chiama il ferito - nell’ordine Susan Finnegar e Gregorio Morales o qualcosa del genere. Non sono nemmeno di Sunnydale, infatti ero sicura di non averli mai visti prima.

 

Io guardo il texano che guarda Anya che parla al telefono e cerco senza successo di formulare nella mia testa una frase per chiedergli in modo educato dove diavolo era andato a finire senza che mi risponda di farmi i fatti miei. Certo che uno che scompare nella notte di Sunnydale e ricompare dopo un po’ senza un graffio suscita qualche sospetto; soprattutto quando tutti gli altri umani in circolazione sono stati o picchiati o feriti. D’altra parte non solo non è un vampiro ma ha anche i calli sulle mani - e se c’è una cosa che solitamente manca ai malvagi, che siano demoni o meno, è proprio l’abitudine a un sano lavoro manuale.

 

Halfrek chiede a Sassassa se per caso conosce certi demoni Sfrayani che ha incontrato una volta a una partita di caccia in campagna. Anche se lo dice esattamente come se si trattasse di una di quelle stupide cacce alla volpe che fanno gli inglesi quando si mettono le giacchette rosse e quei buffi cappelli in testa chissà perché sono sicura che la preda non fosse una volpe. E non credo nemmeno di voler sapere che cosa cacciassero di preciso, tantomeno se quel cosa non fosse invece da intendersi come un chi. Il mio amico texano fissa il povero Sassassa come se fosse un fenomeno da baraccone e ho paura che da un momento all’altro cercherà di strappargli il naso a palla con l’unica narice e tutto per cercare di scoprire che cosa c’è sotto; non fosse per Sassassa saremmo quattro graziose ragazze - insomma, Anya è sicuramente molto graziosa, io e Hallie passabili mentre questa Susan bisognerebbe almeno vederla con meno lacrime e meno trucco spampanato per la faccia prima di poterlo dire - e due giovanotti, ma anche se io fossi dotata della fervida fantasia degli amministratori di Sunnydale in questo campo - e non lo sono - troverei difficile sostenere che il demone sia qualcosa di diverso da quello che sembra, cioè una grossa creatura soprannaturale con la pelle blu, il pelo bianco e una narice sola.

 

Nel frattempo Anya chiude la comunicazione, restituisce il telefono al nostro amico texano e chiede chi resta qui ad aspettare l’ambulanza. È una di quelle domande che sottintendono un finale alla “io no di certo”.

 

- Scusa - dice il texano a Sassassa - ma tu…

- Vorrei restare - equivoca Sassassa - ma sono già molto in ritardo.

 

Non dice in ritardo per che cosa, lungi da me volerlo trattenere qui finché nel suo mondo non sorge la luna o qualsiasi altra cosa determini la sua trasformazione in una bestia feroce e sanguinaria; anche se con ogni probabilità le due ragazze del ramo vendette sono ossi molto duri da masticare anche per un demone mannaro, il quartetto di fragili umani qui riunito potrebbe invece farsi del male. E non so gli altri, ma il grosso ematoma che preme sopra il mio orecchio mi basta e mi avanza.

 

Poiché nessuno degli astanti sembra ansioso di trattenere il demone Sfrayano dal riprendere la sua passeggiata serale, egli si congeda cortesemente, augura al ferito una pronta guarigione e mi strizza di nuovo l’occhio prima di sparire nella notte come una grossa macchia bianca in dissolvenza. Mi sa che mi sono fatta un altro amico dalla parte sbagliata del confine tra demoni e umani.

 

- Non possiamo mica lasciarla qui da sola - dico io indicando Susan o come si chiama - Chissà quanto tempo ci metterà l’ambulanza ad arrivare.

 

Il suo amico non ha perso di nuovo conoscenza ma soffre molto e lei gli tiene la mano sussurrando la solita litania di confortanti falsità che si dicono in questi casi, tipo “vedrai, non ti faranno male” “ti rimetterai presto” “ma no, che non stai per morire”.

 

- Io sono un demone della vendetta, non un’assistente sociale - dichiara Hallie dando mostra della solita comprensione per i problemi degli altri.

- E io devo ancora andare a vendicare qualcuno, stasera, perché questo lavoro qui non è andato tanto bene - spiega Anya con una punta di rammarico.

- Si è preso una coltellata, non ti basta? - azzardo io cercando di farmi bella davanti agli occhi del texano, così magari si fa l’idea che sono una tipa tosta e anche caritatevole.

- Beh, sì… - ammette Anya.

Se non sapessi come ragionano i demoni della vendetta, potrei quasi credere che non le dispiacerebbe potermi dare ragione.

- Sì, ma non l’ha presa per merito tuo - precisa Halfrek severamente - Però non ti devi demoralizzare: adesso torniamo dentro e cerchiamo di raddrizzare la serata.

 

Più la conosco e più mi ricorda una maestra. Anya sembra sul punto di protestare ma poi cambia idea e segue docilmente l’amica; però le sento discutere mentre si allontanano.

 

Restiamo io e il giovanotto rosso. Finalmente soli, per così dire.

 

- Mi fermerei volentieri, ma la mia cuginetta ha bisogno di me. Ha solo sedici anni e mi ha telefonato perché si è spaventata quando dei malintenzionati hanno cercato di entrare in casa dal terrazzo. Credevo anzi che fosse venuta qui a cercarmi, ma invece si è rifugiata in casa di una compagna di scuola. Mi guarda imbarazzato, da bravo cavaliere che non sa tra quale damigella in pericolo scegliere: si vede proprio che non è un mio concittadino. In quanto a me, posso forse competere in bisogno di protezione con una ragazzina di sedici anni? Di Buffy Summers, che alla stessa età aveva già fatto fuori un leggendario vampiro capostipite di una dinastia di vampiri con la quale persino Spike deve avere qualcosa a che fare, ce n’è una per generazione, o almeno così mi dicono.

- Saggia ragazza - commento perciò - le strade di Sunnydale sono pericolose durante la notte.

- Già, vedo. Io di solito lavoro in campagna perché faccio impianti di irrigazione, quindi non so bene come vanno le cose in città, ma avrei creduto che una cittadina come questa fosse un posto tranquillo.

 

- A volte lo è.

- Mi spiace lasciarti qui da sola con questi due. È così strano che ci siano in giro contemporaneamente bande di ladri che entrano nelle case e gente armata che ferisce i passanti…

 

- Strano e anche preoccupante - concordo - Ma un po’ ci siamo abituati.

- Amanda mi sta aspettando. Se almeno mia zia fosse ancora viva… Quella famiglia che l’ha in affidamento francamente non mi sembra un granché. Se fossi sposato, la farei venire a vivere con me.

 

Vorrei chiedergli se è per questo che si fa abbordare dalle ragazze nei bar, per trovare una moglie disponibile a prendersi in casa la cuginetta sedicenne senza famiglia. Francamente, non so proprio se il Bronze sia il posto ideale in cui incontrare la donna giusta.

- Beh, non ti preoccupare. Probabilmente quelli del Pronto Soccorso saranno qui a momenti.

- Sicuramente. Allora vado. Resterò ancora in città per qualche giorno, magari ci incontreremo ancora. Uhm, mi chiamo Thomas. Non Tom o Tommy o…

- Thomas. Ho capito.

 

Io gli dico di chiamarmi Taylor e ci stringiamo la mano come due scemi sotto il lampione. Un livido sopra l’orecchio, una Coca Cola gratis e una nuova conoscenza: tutto sommato, mi sono capitate serate peggiori.

 

E la mia fortuna non è ancora finita perché probabilmente Thomas non è ancora arrivato in fondo alla strada che comincio già a sentire la sirena dell’ambulanza.

 

3. Dannati Doni

 

“E che fatica andare avanti e non sapersi arrendere,

fingendo d’essere fra i tanti che fanno vuoto a perdere,

poi sostenere un’altra volta che l’uomo può anche vivere,

trovare il tempo per giocarmi la vita che ho da spendere.”

Ottantasette di P.A. Bertoli

 

È cosa risaputa che a Sunnydale il periodo natalizio, con le sue lunghe ore di buio e la sua ressa di umani distratti dallo shopping e resi imprudenti dai loro propositi di buona volontà, coincide con l’epoca di massima attività demoniaca.

 

I vampiri in particolare a dicembre amano uscire presto la sera e rientrare tardi la mattina, dopo una lunga e operosa notte di massacri; ma persino le creature a cui la luce del sole non dà nessun fastidio preferiscono nascondersi nelle ombre della sera e approfittano volentieri delle maggiori occasioni di vita all’aperto che la stagione offre.

 

 

Così per un motivo o per l’altro tutti i demoni di Sunnydale hanno poco tempo da perdere in tinture e permanenti e di conseguenza gli affari al salone languono.

 

E questo è anche l’unico motivo per cui la mia padrona mi ha permesso di iniziare il lavoro più tardi dal giovedì al sabato consentendomi così accettare un impiego part-time in centro da Stevens & Stevens.

 

Così per quattro pomeriggi alla settimana mi si può trovare dietro il banco della profumeria, intenta a vendere creme e belletti a una clientela almeno in apparenza completamente umana armata del mio migliore sorriso e di un grazioso cappellino rosso con un campanellino in cima che tintinna ad ogni mio movimento.

 

Sembro proprio un piccolo felice folletto di Babbo Natale, ma non importa: se questo servirà come spero a farmi trovare l’acconto per prendere in affitto un piccolo appartamento tutto per me sarei disposta anche a cantare Jingle Bells sgambettando sul bancone. E sarò eternamente grata a Clem, la mia privata agenzia di collocamento, che mi ha trovato anche questo lavoro.

 

Almeno non sono allergica al tessuto del cappello come la mia collega, poverina, che ha starnutito tutto il giorno peggio di Sassassa post attacco mannaro e a quest’ora ha ormai gli occhi più rossi del cappello.

 

- Hai provato a lavarlo con acqua e aceto? Magari sei allergica all’amido con cui lo fanno stare tutto ritto così…

 

- Mia madre le ha provate tutte, tranne la benzina naturalmente perché sono allergica alla benzina. Dev’essere proprio il tessuto.

 

- A me sembra nylon o qualcosa del genere; e tu non sei allergica ai collant o alla biancheria intima o…

 

- Beh, alle calze no. Ma avevo un reggiseno blu che mi faceva venire l’orticaria. – Sophie si ferma per starnutire ed asciugarsi gli occhi.

 

- C’è una cliente. Etciù. La sai una cosa? Quei ragazzini là davanti al profumo in offerta non mi pagano l’occhio, Tula. Non vorrei che sgraffignassero qualcosa.

 

- Allora corri a spaventarli con una raffica di starnuti, Sophie: qui ci penso io. Buona sera, signorina, posso aiutarla?

 

La cliente è giovanissima, poco più di una bambina, ed è così assorta a contemplare le confezioni regalo di Max Factor nella vetrina sotto il banco che sussulta nel sentire la mia voce.

 

Mi guarda con grandi occhi azzurri che nel giro di un paio d’anni faranno girare la testa a più di un uomo e mi sorride con un dolce sorriso che farà venire ai medesimi di cui sopra una gran voglia di proteggerla contro le insidie del mondo.

 

Ha un viso graziosissimo, spiritoso e delicato, con labbra morbide e ancora un po’ infantili e una carnagione perfetta che renderebbe possibile qualsiasi trucco; e come al solito mi sembra di averla già incontrata da qualche parte.

 

- Io… stavo cercando un regalo per mia sorella.

 

Nemmeno questo tono vagamente lamentoso mi suona nuovo.

 

- Avevi in mente qualcosa di preciso?

 

- No, ma credo che una di queste cose qui faccia sempre piacere a una ragazza, no?

 

Cerca di non darlo a vedere ma anche lei mi scruta di sottecchi come se stesse tentando di far combaciare la mia faccia con un nome. Non le sarà facile vedendomi con questo cappello e il vestito di compromesso – come lo chiama il direttore – cioè i jeans classici e la camicetta verde bottiglia che ho accettato di indossare al posto del mio solito completo in nero totale: lui avrebbe voluto che mettessi una gonna verde, un gilet rosso e una camicia bianca o qualcosa di altrettanto vistosamente natalizio. Ma poiché avrei dovuto vestirmi a spese mie, non ha insistito più di tanto e alla fine si è accontentato che rinunciassi al nero integrale. Mi sento nuda, anche se la vicina vedendomi uscire oggi mi ha guardato con aria quasi di approvazione e ha persino risposto al mio saluto con quello che poteva passare per l’inizio di un sorriso.

 

- E non sono solo molto belli, sono anche prodotti molto buoni – la incoraggio io.

 

- Ma ha già tante cose del genere…

 

Esitante.

 

- Allora devi prendere una novità per essere sicura. Guarda, ad esempio quella confezione lì a 45 dollari è nuovissima, l’hanno fatta apposta per questo Natale. Crema colorata e fard coordinati. Tua sorella ha la tua stessa carnagione?

 

- Lei è meno chiara di me. I suoi capelli sono più biondi, però.

 

- Ci sono anche quegli astucci di ombretti e matite, quello ad esempio è proprio carino, secondo me.

 

Ragazzina molto graziosa, alta e sottile, con occhi a mandorla e lunghi capelli chiari, lisci e lucenti come seta. Con una sorella maggiore più bionda e probabilmente tinta. Dove ci saremo già incontrate?

 

Apro la vetrina, dispongo gli articoli sul ripiano mettendo in evidenza quelli più costosi, come mi hanno insegnato, e procedo ad illustrarle le caratteristiche di ciascun prodotto. Non sarò un granché in quanto a tecniche di vendita ma qui sono nel mio elemento e non temo confronti – del resto è proprio per questo che ho avuto il posto. Quando mi sono presentata per il colloquio il direttore aveva già cominciato a guardarmi storto ma come ho preso a snocciolargli nomi, marche e prestazioni gli è gradatamente comparsa in viso un’espressione di meraviglia mista a un certo rammarico, come se riconoscesse anche se di malavoglia la necessità di dare questo lavoro proprio a me.

 

- È che non vorrei prenderle niente di troppo pretenzioso, capisci? Non stiamo facendo molti preparativi natalizi, quest’anno.

 

Questo per quanto mi riguarda fa guadagnare punti alla mia cliente: non per sputare nel piatto in cui spero di mangiare, ma tutta questa frenesia natalizia non mi ha mai convinto.

 

- Beh – dico – un regalino così fa sempre piacere. Non è come se le regalassi una fiammante macchina sportiva.

 

- Dio mio, no. Del resto, lei va quasi sempre a piedi. Per fortuna.

 

- Anch’io, da quando mi hanno rubato la macchina. Dicono che sia un’abitudine molto sana. Guarda questa confezione: ha un piccolo grazioso Babbo Natale sul coperchio. È festoso senza essere eccessivo.

 

Brava, Tula, bella scelta di aggettivi: festoso senza essere eccessiva. Bisogna proprio che questa me la tenga a mente.

 

- È così preoccupata, non so nemmeno se sia accorta che è quasi Natale.

 

- L’associazione commercianti ha fatto le cose in grande, quest’anno: bisognerebbe essere ciechi per non… - mi mordo le labbra perché mi è venuto in mente all’improvviso che questa misteriosa preoccupata sorella che va a piedi potrebbe proprio essere cieca.

 

La cliente si accorge della mia esitazione e sorride

 

- No, è solo che c’è una persona che vorrebbe aiutare e non sa come fare e così… In questo astuccio qui c’è anche il mascara?

 

- Sì, eccolo. Ed è anche molto buono, cosa che non sempre può dirsi dei prodotti delle confezioni regalo.

 

- Questi ombretti mi sembrano un po’ troppo sul verde… Non so se starebbero bene a mia sorella.

 

- Il verde è un colore un po’ difficile, soprattutto per le bionde.

 

Guardo la ragazza, chiedendomi se userei un po’ di verde scuro sulla palpebra per mettere in risalto quegli occhi azzurri: sono incerta, non so, magari se avesse un vestito verde acceso… Ma poi perché mai qualcuno dovrebbe vestirsi di verde acceso, per amor del Cielo?

 

Ed ecco che mi torna in mente: la sorellina della Cacciatrice, la ragazzina a cui Spike mi ha presentato non appena siamo entrati nel salone in cui si sarebbe dovuto tenere il ricevimento di nozze di Xander Harris.

 

- Tu sei…, aspetta, Dawn Summers, giusto? Ci siamo incontrate l’anno scorso al matrimonio di Harris. Tu eri una delle damigelle. Cioè, lo saresti stata se…

 

- Ma certo, tu sei la ragazza che Spike ha portato al matrimonio. Siamo anche state presentate, mi sembra. Scusa se non ti avevo riconosciuto.

 

- Non ti avevo riconosciuto nemmeno io: senza il vestito da damigella sembri diversa.

 

- Vuoi dire che non sembro un cespo di insalata – ride lei, poi piega la testa da un lato per guardarmi bene – così tu sei l’appuntamento di Spike.

 

- Veramente di solito è lui ad essere il mio appuntamento – ribatto io e davanti alla sua espressione interrogativa chiarisco – Nel senso che sarei la sua parrucchiera: sono io che gli faccio i capelli.

 

- Un mistero che si svela, finalmente – dice Dawn Summers – Pensa che quand’ero più giovane e ingenua, lui sosteneva che i suoi capelli crescessero in quel modo da soli. Come sono in realtà?

 

- Mi dispiace, segreto professionale. Ma ormai dovresti poterlo vedere da sola: è parecchio che non viene da me.

 

Ora Dawn mi sembra a disagio: stringe le labbra e non mi guarda negli occhi, come se stesse cercando di decidere se mettermi o meno a parte di qualcosa che lei sa ed io evidentemente no.

 

- Lo hai visto di recente, immagino – insisto.

 

- Non tanto di recente, veramente.

 

- Ma non ha lasciato Sunnydale. Lo avrei saputo se avesse lasciato Sunnydale.

 

- No.

 

- Senti, io e Spike… potremmo dire che siamo amici, in un certo senso. Mi ha salvato la vita un paio di volte e io gli sono grata. Se sta male di nuovo o se… insomma, mi sentirei in dovere di dargli una mano.

 

Dawn sospira e guarda la trousse che stava valutando, quella con il piccolo Babbo Natale sul coperchio.

 

- Se è per quello, ha salvato la vita un paio di volte anche a me. Ma poi sono successe delle cose e adesso non siamo più amici.

ù

Solleva lo sguardo e mi dice con improvvisa franchezza:

 

- È nei guai, se lo vuoi sapere. E per una volta, non è nemmeno colpa sua.

 

- Che cosa gli è successo?

 

- Dei… dei delinquenti hanno fatto una razzia in casa nostra, qualche settimana fa. Hanno distrutto tutto e beh, hanno portato via Spike.

 

Dei delinquenti? Sarà stata una grossa banda di demoni o magari saranno stati quei sinistri figuri senza occhi che andavano in giro ad affettare la gente con le spade la sera che incontrai Thomas. Ma se la piccola Summers che è nata e cresciuta nella stessa casa della Cacciatrice preferisce parlare di delinquenti, chi sono io per obiettare?

 

- Aspetta: è Spike la persona che tua sorella sta cercando di aiutare ma non ci riesce, vero?

 

All’improvviso mi si rivela in tutta la sua chiarezza la gravità della situazione: la Cacciatrice non riesce a salvare Spike dal guaio in cui si trova. Non è che non voglia, è che proprio non ci riesce. Buffy Summers non riesce ad avere la meglio sugli spadaccini accecati o su un qualche altro cattivone che le ha devastato la casa e le ha portato sotto il naso il suo vampiro addomesticato.

 

Queste non sono buone notizie sotto nessun punto di vista.

 

Stiamo a fissarci imbarazzate senza avere nient’altro da dire finché lei abbassa la testa in una muta risposta affermativa e dice:

 

- Credo che dopotutto seguirò il tuo consiglio e prenderò questa trousse col piccolo Babbo Natale.

 

So già che non mi dirà nient’altro, anzi probabilmente si sta rimproverando per avermi lasciato capire più di quanto volesse: George diceva sempre che rispetto agli amici della Cacciatrice, i picciotti della mafia non sono che degli instancabili chiacchieroni. Del resto che cosa potrebbe dirmi? Che potrei non rivedere mai più Spike vivo o per la precisione non-morto? Che a Sunnydale la gente scompare facilmente e difficilmente fa ritorno? Tutte cose che sappiamo già molto bene entrambe.

 

- Le piacerà. Vuoi un pacchetto regalo? Te lo posso fare intanto che vai a pagare alla cassa.

 

Il direttore, che sta passando di qui proprio in questo momento, mi dice di aver mandato Sophie a casa prima e scorta personalmente la piccola Summers verso la cassa. Sarà che a Natale siamo tutti più buoni, ma credo proprio di aver visto balenare l’ombra di un sorriso tra i quarantaquattro denti da squalo del signor Wilkins.

 

 

Sono al salone e sto cercando di convincere una cliente ad accorciare la lunghissima frangia color stoppa che le cala sugli occhi: non so proprio come dirglielo gentilmente, ma il fatto è che quando si ha una faccia come la sua secondo me non si dovrebbe fare proprio niente per dare un ulteriore aiuto alla natura che ci ha voluto rendere tali e quali a un pechinese.

 

La cliente è molto giovane in tutti i sensi, cioè vampirizzata da poco tempo quando era poco più di una ragazzina; mi dicono che il vampirismo curi molti mali – come ad esempio la tubercolosi, l’asma e le carie – ma di sicuro non rende le persone più intelligenti o più furbe di quello che erano da vive, perciò la ragazza sembrerebbe tuttora discretamente stupida e relativamente ingenua.

 

Anzi mi meraviglia che non si sia ancora imbattuta nel paletto della Cacciatrice o non abbia avuto la peggio in qualche scontro con i suoi simili: la fortuna dei principianti, probabilmente. Mi chiedo anche chi sia il deficiente che non si è accontentato di prosciugarla a morte ma ne ha voluto fare una piccola vampira con la faccia e l’intelligenza di un cagnolino da salotto. A sentire le leggende il sire – come dicono loro pomposamente – dovrebbe rivendicare la proprietà del nuovo rinato, ma da quello che ho visto io invece il più delle volte se ne frega come un libertino che vada in giro a seminare la sua progenie a casaccio.

 

Chissà dove sarà ormai la mente geniale che ha aggiunto questo bell’elemento alla nostra popolazione di vampiri e alla specialissima clientela del salone in cui lavoro.

 

- Senti – le dico pazientemente – io se vuoi la frangia te la lascio, ma pensaci un attimo: ti copre gli occhi e a te invece serve vedere bene. Al buio. Con la tua supervista potenziata.

 

Mi guarda mettendo il broncio in un modo che porta l’effetto cane pechinese a livelli quasi inquietanti, poi riesce con evidente sforzo a mettere in piedi il solito ambaradan: le zanne, nuove e candide come nella pubblicità di un dentifricio, l’increspatura sulla fronte e gli occhi gialli. Sui quali cala come una tendina la sua stupida frangia color can che scappa.

 

Nello specchio alle sue spalle lei naturalmente non c’è – ci sono io, con il mio grazioso camice color prugna e il mio sorriso professionale inchiodato alle labbra e c’è la mia padrona, con un camice identico al mio anche se di una dozzina di taglie più grande, che sta osservando dall’altra parte della stanza la scena con una smorfia amichevole di approvazione sul suo cordiale faccione ammuffito.

 

- Visto? – dico io.

 

- Taglia – sospira rassegnata la vampiretta con voce impastata dalla presenza di quelle zanne a cui evidentemente non si è ancora abituata.

 

- Ecco… dovresti, scusa, se non ti dispiace…

 

- Cosa? Oh, certo.

 

Con altrettanta fatica di prima la ragazza riesce laboriosamente a rientrare nella sua faccia umana e io sto prendendo le forbici pronta a tagliare prima che cambi idea di nuovo quando vedo Sassassa sulla porta.

 

Potrebbe benissimo essere qui per farsi tagliare i peli che gli crescono nelle orecchie; per farsi smaltare di blu le unghie degli zamponi così sarebbero in tinta con la pelle; per tingersi il pelo della testa a righe nei colori della sua squadra del cuore. E allora perché devo pensare subito che voglia parlare con me?

 

Perché ho un sesto senso, ecco perché.

 

- Questo signore dice di essere amico tuo, Tula mia cara – mi dice infatti la padrona dopo aver parlottato con lui per un po’.

 

- Beh, in un certo senso – rispondo io senza sollevare gli occhi dal mio lavoro.

 

I vampiri reagiscono particolarmente male se li tagli. Non ho mai capito perché, visto che non rischiano certo di morire dissanguati: comunque sia, se li ferisci per sbaglio, quella che rischia di morire dissanguata sei tu.

 

Mi allontano di un passo per controllare se sono andata dritta: sì, ho fatto un buon lavoro. Un pochino ancora sulla sinistra, forse.

 

- Ciao, Tarantula.

 

- Sassassa. Come va?

 

- Posso parlarti un minuto?

 

- Non appena ho finito di ta…. Scusa, ma se fai così viene storto – redarguisco severamente la cliente che si è girata per vedere chi mi stava parlando.

 

Chi girerebbe la testa di scatto mentre gli stai accorciando la frangia con una forbice? Solo qualcuno che non ci tiene alle pupille dei suoi occhi o che è così stupida da non aver capito che anche se lei non viene più riflessa nello specchio le leggi dell’ottica vanno avanti come al solito per il resto del mondo.

 

Credo proprio che la poverina non abbia mai visto un demone Sfrayano in tutta la sua vita e in tutta la sua non-morte perché trovandosi davanti quella specie di grosso pupazzo animato ricoperto di pelo bianco sobbalza sulla poltrona e spalanca gli occhi.

 

 

Ma non è niente rispetto alla mia reazione quando sento quello che Sassassa è venuto a chiedermi. Ha chiesto molto rispettosamente alla padrona il permesso di rubare dieci minuti del mio tempo e mi ha portato da Willy, dove siamo gli unici a non bere né alcool né sangue ma solo caffè.

 

Nonostante sia così vicino al lavoro, non posso certo dire che sia il mio locale preferito ed anzi faccio sempre del mio meglio per girare al largo; ma devo ammettere che tra i molti e spesso discutibili talenti di Willy c’è anche quello certamente sotto utilizzato di saper fare un eccellente caffè. Inoltre gli sono simpatica e mi fa la corte: non che io voglia avere niente a che fare con questo viscido informatore doppiogiochista ma le attenzioni di un uomo vero – vero non nel senso che non si rade i peli del petto, quanto nel senso del DNA – danno sempre un certo senso di conforto.

 

Qualche eone fa suo padre era amico del mio e giocavano insieme a bowling; a quei tempi Willy era un ragazzetto ancora quasi imberbe ma già trafficone, precocemente corrotto dall’aria di Sunnydale e felice di sguazzare nel pantano morale della nostra bella cittadina.

 

Mi guarda con i suoi occhietti furbi mentre parlo con Sassassa e so che sta aguzzando le sue umane orecchie per ascoltare la nostra conversazione, ma con questi quattro vampiri messicani mezzi ubriachi al tavolo vicino che cantano Paloma non c’è verso che riesca a capire qualcosa.

 

- Ma neanche per idea – protesto io vivacemente per la terza volta di fila.

 

Sono così agitata che mi scotto la lingua col caffè troppo caldo. Sassassa mi guarda con occhi purpurei ed imploranti e fa del suo meglio per assomigliare a un grosso inoffensivo pupazzo di peluche.

 

- Lo prometto: non ti darò nessunissimo fastidio.

 

- Perché proprio nel mio garage? Non avevi una bella casa asciutta e non so che cos’altro dalle parti della stazione?

 

- Demolita.

 

- Demolita?

 

- L’altro ieri ho fatto una gita a Los Angeles e quando sono tornato, ci crederesti?, ho trovato solo un mucchio di macerie. Per fortuna che avevo un arredo minimalista.

 

- Strano: mettono dei cartelli sugli edifici prima di demolirli.

 

- Davvero? Ecco che cos’erano quei manifestini che continuavo a trovare appiccicati dappertutto.

 

- Senti, Sassassa, mi dispiace che tu sia sotto i ponti…

 

- Non c’è un maledetto ponte in questa città. Ho dormito su un camion che puzzava terribilmente di frutta marcia. Perché qualcuno dovrebbe darsi la pena di trasportare frutta marcia da una parte all’altra, secondo te?

 

- Non ne ho idea. E tuo cugino, quello che ti incatena?

 

Il demone scuote il testone: è così abbattuto che le orecchie mi sembrano attaccate più in basso del solito; spero proprio che sia solo un’impressione.

- È a casa per un matrimonio.

 

- Ottimo: così non solo vuoi venire ad abitare nel mio garage ma non hai nemmeno un guardiano che ti impedisca di entrare in casa ed ammazzarmi nel sonno quando ti trasformi, scusa la franchezza, in una belva sanguinaria.

 

- No, no, no. Non metterei mai la tua vita in pericolo. Guarda: ho finalmente trovato una cura.

 

Mette sul tavolo una scatolina e la apre: dentro ci sono quattro fialette di vetro piene di un liquido arancione.

 

- Niente droghe nel mio locale, bellezza! – grida subito dal suo posto Willy, che non ci ha ancora staccato gli occhi di dosso.

 

- È una medicina, idiota – grido io di rimando.

 

- Lo conosco da molti anni – spiego a Sassassa che sembra scandalizzato dai miei modi – Dove hai trovato quella roba?

 

- Me l’ha preparata una strega di qui.

 

- La Rosenberg ? Avevo sentito dire anni fa che stesse cercando una cura contro il mannarismo.

 

- No, si chiama Amy Madison. Si dà un mucchio di arie ma secondo me ha trovato la formula per caso. E comunque questa roba mi è costata un occhio della testa.

 

- Cribbio, se ha trovato un modo per impedire alla gente di trasformarsi in lupo mannaro farà una fortuna. Funziona?

 

- Non sugli esseri umani. Funziona solo sui demoni Sfrayani e solo in questo mondo. Praticamente questa roba funziona solo su di me e quindi quella ragazza è una vera approfittatrice, ma non importa perché mi ha tolto dai guai. A proposito, posso pagarti l’affitto di quel garage.

 

Lascio cadere l’allusione non troppo velata al fatto che se gli facessi pagare un affitto mi comporterei come un’approfittatrice, anche se non vedo proprio perché dovrei lasciare vivere un demone nel mio garage e per di più gratis; ma sono altre le cose che mi preoccupano al momento.

 

- E chi mi garantisce che la berrai?

 

- Ti sembro il tipo che è contento di andare in giro ad aggredire le persone e ad ammazzare i cani?

 

- Se non te lo ricordi nemmeno.

 

- Ma le implicazioni morali mi preoccupano ugual… - si interrompe osservando il mio sguardo scettico – E dove le metti quelle terribili crisi di starnuti? Mi si stava consumando il naso.

 

Sospiro e finisco il caffè: devo tornare al lavoro e non ho tempo di continuare a discutere.

 

- D’accordo, mi hai convinto; ma è una cosa provvisoria. Solo perché è Natale e siamo tutti più buoni. Ma per l’anno nuovo devi essere fuori.

 

- D’accordo. Grazie, Tarantula, sei un tesoro.

 

- Non ho finito: c’è una condizione.

 

- Tutto quello che vuoi. Non devo farmi sentire da tuo padre, vero? Non ti devi preoccupare perché…

 

- No. Gli dirò che il pastore Bliss mi ha chiesto un favore. Tanto, non c’è pericolo che si incontrino. Gli dirò che un vagabondo dormirà per un po’ nel nostro garage e che in cambio dell’ospitalità ci farà qualche piccolo lavoretto. Perciò mi aspetto che tu tagli l’erba del prato e dia una mano di vernice allo steccato.

 

E che adesso mi dia pure dell’approfittatrice, se ne ha il coraggio.

 

 

Il giorno dopo vengono in coppia gli altri due: la strega e il bibliotecario, che detto così sembra il titolo di un filmetto giallo-rosa. Lei è la signorina Willow Rosenberg, ex-studentessa modello dell’ex-liceo di Sunnydale ed ex molte altre cose, almeno a quanto ho inteso da frammenti di conversazioni pronunciate sottovoce; lui è il maturo ma ancora affascinante signor Rupert Giles, ex-bibliotecario e anche ex-proprietario del Magic Box, una delle numerose attività commerciali di Sunnydale che nel corso degli anni sono state chiuse dopo aver subito misteriose devastazione vandaliche. Si sarebbe quasi portati a pensare che in questa città ci sia il racket peggio che nella Chicago anni 20.

 

Io e Sophie stiamo approfittando di un momento di calma per riordinare le vetrinette e togliere i segni di ditate che i clienti continuano a lasciarci sopra; nel frattempo lei mi elenca tutti i fiori a cui è allergica e che pertanto non potranno essere usati al suo matrimonio, la prossima primavera. Niente rose, niente garofani e niente gladioli, restano le fresie, i tulipani e le orchidee; oppure restano i fiori di plastica, come le ha suggerito un esasperato fiorista; o magari il “niente fiori ma opere di bene” che di solito si usa ai funerali ma nulla vieta dopotutto di estendere anche ai matrimoni.

 

I nuovi clienti tossicchiano educatamente per attirare la nostra attenzione e Sophie dice:

 

- Vado io.

 

Mentre finisco di richiudere la vetrinetta dei profumi francesi, sento dei tipici squittii femminili di riconoscimento e quando mi giro vedo che Sophie e la nuova venuta si stanno scambiando convenevoli e si stanno mettendo reciprocamente al corrente di quanto è accaduto di rilevante nelle rispettive vite a partire dal loro ultimo – e presumibilmente anche primo e unico – incontro. Sophie dice che questo lavoro è molto meglio di quello che aveva al fast-food ed annuncia trionfante che lei e Richard si sposeranno in aprile; Willow Rosenberg parla un po’ meno trionfalmente di un’estate in Inghilterra. So che Sophie sta glissando su alcuni eventi meno piacevoli ma forse altrettanto rilevanti, come le improvvise nozze di suo padre con una spogliarellista o lo shock anafilattico che ha rischiato di ucciderla solo il mese scorso e suppongo che la nostra strega sia stata anche più reticente, dal momento che non ha accennato per niente al suo recente tentativo di distruggere il mondo. Si dichiara invece deliziata di sapere che Sophie e Richard si sono fidanzati – borbottando qualcosa su “non tutto il male vien per nuocere” – e infine le presenta il signor Giles, che Sophie non può conoscere perché non ha mai frequentato il liceo di Sunnydale. Intanto che va avanti tutta questa manfrina arriva una signora grassa con due bambinetti ancora più grassi al seguito che vuole comprare delle perle di olio da bagno da regalare alla suocera mentre quello che voglio io sarebbe solo impedire ai due pargoletti di mettere le loro ditine appiccicose dappertutto.

 

- Non so se siano una buona idea le perle, signora, soprattutto se sono per una persona non più tanto giovane: a volte le perle rendono un po’ scivolosa la vasca.

 

In altre parole: se la vecchia carampana si romperà l’osso del collo non dire che non ti avevo avvertita.

 

Nonostante uno sguardo sognante abbia attraversato per un attimo i suoi occhi affondati nel grasso, la mia cliente finisce con il comprare una confezione regalo di bagnoschiuma e acqua di colonia; la mando alla cassa, ripulisco con lo spray e senza farmi troppo notare le quattro manine unte che ora adornano il vetro del banco e procedo a impacchettare la merce. Sto dando il tocco finale arricciando i nastrini di carta con la lama delle forbici quando la voce di Willow Rosenberg si alza di un’ottava rispetto al sommesso chiacchiericcio intanto che Sophie le stava mostrando le confezioni regalo natalizie:

 

- Che carino questo piccolo presepe sul coperchio! Chi non vorrebbe averne uno?

 

- Tu perché sei ebrea - osserva puntigliosamente il signor Giles con la sua piacevole voce ben impostata e il suo perfetto accento oxfordiano - Buffy perché, se non ricordo male le sue esatte parole, ha detto che non vuole vedere in giro orpelli natalizi. E io perché non mi sembra affatto appropriato mettere un presepio in miniatura su una scatola di cipria.

 

Il signor Wilkins si avvicina al banco e mi sibila:

 

- Credevo che fossimo rimasti d’accordo che non ti saresti vestita di nero per venire a lavorare.

 

- Non è nero: è grigio scuro – protesto io sottovoce aggiungendo un festoso “Auguri” a beneficio della signora grassa che è venuta a ritirare il suo pacchetto.

 

Oggi indosso un paio di jeans di un grigio così scuro da rendere assolutamente comprensibile l’errore del signor Wilkins e una canotta che più nera non si può ma che nelle mie intenzioni la camicia grigia avrebbe dovuto nascondere quasi completamente.

 

Il direttore mi guarda accigliato – devo dire che se è inquietante quando sorride, da accigliato non è tanto meglio.

 

- E poi ci sono dei ghirigori d’argento sui polsini della camicia – insisto io – dei ghirigori molto natalizi. Davvero.

 

E srotolo una delle maniche per farglieli vedere: si tratta in realtà di un girotondo di piccolissimi teschietti molto graziosi ma potrebbe benissimo passare per una ghirlanda di agrifoglio e io confido proprio sul fatto che il signor Wilkins sia leggermente presbite.

 

E non sbaglio.

 

- Così può andare – ammette infatti rabbonito – Ma non tenere le maniche arrotolate: sembri così… luttuosa.

 

- Ma fa un caldo infernale.

 

Il signor Wilkins fa una risatina che dire diabolica è usare un eufemismo e prima di andare a tormentare qualcun altro mi lascia di sasso rispondendomi:

 

- Siamo a Sunnydale. Che cosa ti aspettavi per Natale, la neve?

 

Forse tutto sommato il nostro direttore non è tanto presbite quanto malvagio.

 

Il magazziniere – un giovanotto misterioso e taciturno che secondo me o sta scrivendo un romanzo nel suo tempo libero o sta meditando di farci tutti quanti a pezzi con un’accetta e di nascondere i nostri resti negli scatoloni vuoti – sbatte poco cerimoniosamente una pila di scatole sul banco davanti a me e resta immobile a guardarmi in silenzio tenendo in mano un documento di trasporto lungo come un lenzuolo che si trascina sul pavimento. Non so esattamente che cosa voglia e poiché non sono la commessa titolare del reparto ma solo un aiuto stagionale non è nemmeno previsto che lo sappia. Inoltre questo ragazzo mi innervosisce e meno tempo passo a fissarlo negli occhi da pazzo e a chiedermi che cosa gli stia frullando in testa meglio è, pertanto mi limito a chiamare Sophie e a passarle la patata bollente.

 

- Scusate tanto ma con queste consegne dell’ultimo momento non ci si capisce più niente. Tula, lascia stare che ci penso io. Sostituiscimi tu con questi signori. Eccomi, Paul, un minuto e sono da te – cinguetta subito Sophie, che esattamente come Clem è sempre pronta a pensare il meglio di chiunque ed è infatti l’unica di tutto il personale a ritenere che il magazziniere sia solo un po’ timido.

 

- Paul – la sento dire – Lo sai che non devi venire a portarmi la merce quando ci sono dei clienti.

 

Ahia, l’ha rimproverato: scommetto che quando sarà il momento Paul farà il suo corpo a pezzetti più piccoli di quelli di chiunque altro di noi.

 

E così sfuggo a un potenziale maniaco omicida per ritrovarmi invece davanti alla graziosa rossa con l’aria da brava ragazza che mi dicono sia stata sul punto di farci sprofondare tutti quanti nel nulla meno di un anno fa.

 

- Avete visto qualcosa che vi piace? – chiedo professionalmente affabile.

 

Ovviamente hanno messo gli occhi sulla identica confezione regalo che ha preso ieri Dawn Summers, quella festosa ma non eccessiva col piccolo Babbo Natale. Qui mi si pone un problema di deontologia professionale, perché se nulla mi autorizza a farmi i fatti loro, resta pur vero che non è bello vendere due regali identici che finiranno con tutta probabilità sotto il medesimo albero.

 

D’altra parte Willow Rosenberg è una di quelle clienti perennemente indecise che prima ti fanno tirar fuori articoli a dozzine e poi se ne vanno senza aver comprato assolutamente niente lasciandoti col banco carico di roba da metter via. Nel giro di dieci minuti ha già cambiato idea dieci volte e poi è di nuovo tornata a prendere in considerazione la stessa scatola di cipria con il presepe sul coperchio, quella che non piace al signor Giles.

 

La presenza di un uomo al fianco di una cliente indecisa può a seconda dei casi essere considerata una fortuna, perché il disgraziato accompagnatore potrebbe convincerla a scegliere una cosa qualsiasi solo per andarsene; o un’aggravante della situazione perché il disagio del suddetto accompagnatore può arrivare a un punto tale da portare il pover’uomo – di solito adducendo pretesti come la scadenza del parcheggio o inesistenti appuntamenti d’affari – a trascinarla fuori dal negozio praticamente di peso proponendo alternative classiche quali un mazzo di fiori o una scatola di cioccolatini; e nel peggiore dei casi può anche sfociare in una lite furibonda davanti all’imbarazzatissima commessa, come è successo proprio a Sophie settimana scorsa.

 

All’inizio il signor Giles si limita a osservare il comportamento della giovane strega con quello che si potrebbe definire paterna indulgenza, lasciando cadere qua e là frasi come “Se ti sembra una buona idea, Willow, allora prendilo pure” ma in seguito una certa impazienza comincia ad affiorare nel suo contegno tipicamente flemmatico.

 

- Credo che dovremmo arrivare ad una decisione; e non vorrei sembrare scortese ricordandoti che siamo attesi.

 

- Ha proprio ragione, signor Giles – sospira Willow e poi si volta e sorride a me in modo che se avessi i suoi stessi gusti troverei adorabile.

 

Anzi, a dir la verità lo trovo adorabile anche se non condivido le sue preferenze sessuali.

 

– Senza contare che stiamo tormentando questa povera ragazza.

 

– È il mio lavoro. E qualche volta scegliere il regalo giusto è difficile.

 

– Ed è esattamente il motivo per cui io le avrei comprato un libro – dice il signor Giles.

 

- Un libro? – ride Willow – A Buffy? Oh, no. No e poi no. Sarebbe come regalare un paio di scarpe a me.

 

- Sarebbe forse, uhm, un regalo un po’ troppo personale quello di un paio di scarpe, non ti pare?

 

- Un libro – ripete Willow scuotendo la testa – Un libro per tirare Buffy su di morale. Solo a lei poteva venire in mente un’idea del genere.

 

- È un’idea da bibliotecario – osservo io mentre cerco di fare un po’ di ordine nella confusione di merce che c’è sul banco. Penso che la Rosenberg potrebbe almeno prendere una decisione su quello che sicuramente non va bene; e penso anche di sapere che cosa piacerebbe a Buffy Summers. Qualcosa mi dice infatti che in qualità di cittadina di Sunnydale mi convenga tenermi buone tutte e due – la strega e la Cacciatrice.

 

- Non faccio più il bibliotecario da quattro anni. Come mai…

 

- Mi ricordo di lei: ho fatto i primi due anni di liceo alla vecchia scuola. Prima che venisse distrutta.

 

- Oh, ecco…

 

- Non si ricorda di me, vero? Non mi meraviglia: non era molto facile prendere a prestito un libro in quella biblioteca. Del resto, avevate altre cose a cui pensare – replico io tranquillamente.

 

Mi guardano tutti e due come se mi fosse cresciuta una seconda testa. Non ho mai esattamente capito questa loro passione per la segretezza – senza contare che dopo la battaglia della cerimonia del diploma era un po’ difficile pensare che gli studenti che vi avevano partecipato non si lasciassero sfuggire qualcosa.

 

- Avremmo dovuto essere tutti sordi e ciechi per non capire che costa stava succedendo. In fondo le hanno anche regalato un ombrello alla… a Buffy Summers, voglio dire. La nostra protettrice e via dicendo. E a proposito, visto che il regalo è per lei, vorrei farvi vedere questa trousse per il trucco degli occhi perché i suoi se non ricordo male sono di un nocciola dorato. Sono tutti i nuovi colori di moda quest’anno, c’è questo giallo acido ad esempio…

 

Mi interrompo notando che non mi seguono più: diversamente da Buffy Summers, questi due non distinguerebbero una rivista di moda da un catalogo di giardinaggio. Inoltre il signor Giles mi guarda con un certo sospetto, quasi che adesso dovesse accadere chissà che cosa solo perché ho ammesso apertamente di essere sempre stata al corrente della sua vera attività come principale collaboratore della Cacciatrice: come se la copertura della biblioteca avesse potuto ingannare qualcuno per più di dieci minuti. Tutti sapevamo: il preside di allora, gli insegnanti dal primo all’ultimo, e quasi tutti gli studenti. Ovviamente facevamo anche tutti finta di non sapere niente in uno sforzo collettivo di recitazione che definire superbo è forse riduttivo.

 

La signorina Rosenberg invece passa in rassegna la merce per l’ennesima volta e intanto mi guarda con la coda dell’occhio con un’espressione che non so decifrare, come se la sua mente superiore stesse valutando contemporaneamente quale regalo sia il più adatto e anche se sono inoffensiva o meno; riguardo a questo secondo punto spero ardentemente che il responso sia positivo, perché non ho idea di quello che potrebbe accadermi se mi considerasse un pericolo.

 

Si dice tra l’altro che quando le prendono i dieci minuti sia capace di incollarti al soffitto come un pannello termoisolante: e se devo essere sincera la sua espressione adesso mi sembra tutt’altro che adorabile.

 

Ma anche se non provassi verso la magia quel timore reverenziale che altrove di solito i bravi cittadini provano nei confronti della legge, prenderei queste due persone molto sul serio perché so perfettamente che questa ragazza che sembra persino più giovane di quello che è e questo beneducato signore di mezz’età che pare più inglese della regina e quasi altrettanto folkloristico costituiscono per così dire il reparto informativo dello stato maggiore della Cacciatrice: pianificazione, informazione ed elaborazione tattico-strategica hanno sempre fatto capo principalmente a questi due. Ed è parere generale che la graziosa e misticamente imbevuta di potere Buffy Summers stia a sentire quello che costoro le dicono – beh, almeno quando non si tratta del suo abbigliamento, o della sua pettinatura; o dei suoi amori.

 

- Sono sicuro che questa… come si chiama? trousse per gli occhi piacerebbe a Buffy – osserva il signor Giles – E credo che dovremmo comprarle anche qualcosa per quando fa il bagno. Quelle nuove ragazze possono essere alquanto invadenti quando si tratta dei prodotti da toilette degli altri: parlo per esperienza personale.

 

- Quelle nuove ragazze possono essere molto invadenti davvero – conferma Willow enfaticamente, poi mi sorride e mi dice – Sai, abbiamo in casa delle studentesse per uno scambio internazionale.

 

Non solo non ci credo per un attimo, ma nemmeno credo che Willow creda che io ci abbia creduto: eppure eccomi rimessa al mio posto, quello del civile inconsapevole che si bea nella sua serena ignoranza degli avvenimenti.

 

Scambio internazionale dei miei stivali, ma chi sono io per discutere con una strega? Per il momento mi accontento di sapere che non ritiene la mia esistenza un pericolo per la sua cricca di segreti benefattori.

 

Alla fine li mando via con tre graziosi pacchetti: la famosa confezione di ombretti, una piccola scorta di finissimo sapone profumato e un vaso di vetro molto carino di impalpabile talco coordinato col sapone. Il talco è il mio preferito e spero proprio che le piaccia, visto che se potessi permettermi di acquistarlo credo proprio che farei il bagno tre volte al giorno solo per avere il piacere di usarlo; e dopo averlo avvolto in carta rossa come il sangue ho anche fatto con le mie manine un fiore di carta velina nera come la notte e l’ho appuntato con un nastrino argentato. E se questa non è una confezione regalo adatta alla Cacciatrice, non so proprio che cosa si potrebbe pretendere di meglio.

 

 

Il tutto comincia come una normale rapina in una normale serata di scalogna, solo che quelli che cercano di rapinarmi sono tre piccoli demoni, alti poco più di un metro e mezzo, con le orecchie appuntite e la carnagione rosea: sembrerebbero elfi un po’ bruttini, non fosse per quella strana protuberanza che sporge dal centro della loro fronte – una via di mezzo tra un corno floscio e una corta proboscide – e dalle pieghe di pelle che si trovano proprio dove ci si aspetterebbe invece un naso.

 

Per il resto sono molto simili a degli esseri umani: arti come i nostri sia per numero che per posizione, mani con cinque dita e unghie alquanto sporche, occhi scuri e a mandorla come li hanno gli Asiatici, lunghi capelli castani legati in treccia con l’aiuto di uno di quegli elastici rivestiti di spugna colorata che si comprano al supermercato in confezioni assortite. Particolare quest’ultimo del tutto ininfluente ma che il mio occhio professionale non ha potuto fare a meno di cogliere e passare al cervello.

 

E come degli esseri umani questi demoni rapinatori sembrano principalmente interessati ai miei soldi e solo in subordine a danneggiare più o meno irreparabilmente qualche pezzo della mia anatomia.

 

L’idea viene loro dopo che hanno constatato che il portafoglio che hanno preso dalla mia borsetta contiene moneta per circa dieci dollari, uno scontrino della lavanderia e null’altro; mentre uno dei tre controlla il portafoglio, gli altri due mi tengono ferma per le braccia e mi minacciano con dei coltellini dalla lama arrugginita che sembrano temibili più per il rischio d’infezione tetanica che per quello derivanti da gravi ferite.

 

In un primo momento sono più seccata che spaventata, forse perché trovo difficile avere paura di tre creature che mi arrivano si e no al mento, per quanto brutte siano e per quanto turpiloquio mostrino di conoscere.

 

- Il portafogli di questa puttana di merda è più vuoto della figa di una monaca - si lamenta il demone ad ispezione avvenuta.

 

Non è colpa sua, probabilmente, ma ha la voce sgraziata di un adolescente che la sta cambiando e a me sembra proprio che mi stiano rapinando tre ragazzini delle medie in costume da Halloween.

 

- Tagliuzziamole la faccia con un coltello a questa puttana. Tanto questa stupida troia i soldi per i nostri dannati doni di Natale non ce l’ha – propone quello che mi tiene il braccio sinistro agitandomi il coltello sotto il naso.

 

Non c’è niente che mi dia più fastidio che venir insultata con gli insulti sbagliati: voglio dire, se io fossi veramente una puttana, cioè se vendessi le mie prestazioni sessuali un tanto a botta, dovrei avere più di dieci dollari nel portafogli, giusto? E allora che mi date della puttana a fare, idioti? Datemi piuttosto, che ne so, della barbona, che almeno sarebbe pertinente.

 

E a proposito di soldi: ho quasi centocinquanta dollari arrotolati e infilati nella tasca dei pantaloni – un’abitudine nata non tanto dal timore di rapine quanto dal desiderio di tenere i miei soldi dove le mani di mio padre non possano raggiungerli nell’ipotesi non troppo peregrina lo cogliesse un insopprimibile impulso all’acquisto di alcool che non si potesse realizzare senza derubare la sua unica figlia – ma non vedo perché dovrei dirlo a questi tre delinquenti da operetta.

 

Il primo dei tre, quello che ha vuotato la mia borsa e che mi sembra il capo, allunga una mano e mi strappa all’improvviso la catenina dal collo facendomi un male cane, poi morde ostentatamente il ciondolo a forma di mezzaluna e fa una faccia disgustata accorgendosi che non è oro. Cribbio, quel ciondolo è viola: se non ha capito da solo che non è oro glielo potevo dire io che cosa è. Acciaio smaltato, che un rigattiere potrebbe valutare più o meno come un pezzo di casseruola rotto. E se il demone rapinatore si è scheggiato un dente, ben gli sta.

 

A questo punto l’ultimo dei tre, quello che non ha ancora parlato, dimostra di essere più propenso all’azione che alle chiacchiere e alza il coltello verso la mia guancia, io mi sposto istintivamente da un lato per schivare il colpo, lui mi tira dalla parte opposta e non so come ci ritroviamo tutti e due in ginocchio e io sento caldo sulla fronte e mi rendo conto che quel suo coltellino lurido mi ha scalfito la pelle.

 

A questo punto mi spavento e mi metto a urlare. I tre si mettono a urlare oscenità – sempre ribattendo sul chiodo fisso del mio supposto meretricio – mentre mi saltano addosso tutti e tre assieme intralciandosi l’un altro per il troppo entusiasmo.

 

Io scalcio e mi dibatto cercando di liberarmi e mi becco un pugno sulla bocca abbastanza forte da farmi vedere le stelline per il male più una serie di colpi meno sensazionali ma non esattamente piacevoli in varie parti della faccia e del corpo.

 

I tre demonietti sono così scarsi nel corpo a corpo che riesco in qualche modo a scrollarmeli da dosso e col coraggio della disperazione do uno strattone alla treccia di uno, un calcio alle parti basse di un altro e mi allontano carponi lasciando un pezzo della mia bella camicia grigia con i teschietti d’argento nelle mani del terzo.

 

Mi tiro in piedi e comincio a correre urlando con tutti e tre che mi arrancano dietro lanciandomi improperi poco fantasiosi; dopo un po’ smetto di urlare pensando che mi conviene tenere il fiato per la corsa, e visto che non sono mai stata una grande praticante del mezzofondo sono piuttosto sorpresa di constatare che riesco a distanziarli con una certa facilità. Immagino che avere le gambe più lunghe sia di un qualche aiuto, ma può anche essere che questa razza di piccoli demoni sia lenta di natura. Dopo un paio di isolati sto già rallentando e tirando il fiato, facendo conto di arrivare presto alla relativa salvezza di casa mia, quando me li vedo improvvisamente davanti al primo angolo.

 

La sorpresa è tale che a momenti ci resto secca: mentre filo nella direzione opposta come se avessi il diavolo alle calcagna – che poi è più o meno esattamente quello che sta succedendo – cerco inutilmente di capire come hanno fatto ma poiché mi riesce particolarmente difficile ragionare mentre corro a perdifiato rinuncio e ricomincio invece ad urlare perché ormai sono a due passi da casa e spero che mio padre mi senta e venga ad aiutarmi.

 

Riesco già a scorgere il camino della casa dei Bruebacker quando il mio naso sbatte all’improvviso contro un pugno e io ruzzolo a terra trascinata dal contraccolpo e sbatto la testa sul selciato: questa volta sono meno sorpresa di prima perché una parte di me in fondo se lo aspettava, in compenso sono molto più preoccupata perché comincio a pensare che se andiamo avanti di questo passo non riuscirò mai a seminarli.

 

- Corri, corri, brutta baldracca – mi prendono in giro con la loro voce prepubere – che quando ti sarai stancata di scappare ti facciamo la festa.

 

Non faccio in tempo a cedere al terrore perché non hanno ancora finito di parlare che vedo cambiare l’espressione delle loro brutte facce e una grande zampona bianca entra nel mio campo visivo.

 

- Ma che cosa succede, Tula cara, cosa fai lì sdraiata per terra? Forse che questi… – Sassassa fa una pausa ad effetto mentre mi rimette in piedi – signori ti hanno dato fastidio?

 

- Mi hanno rubato la borsa – piagnucolo io mentre mi tasto la nuca in cerca del bernoccolo – e adesso mi corrono dietro con le loro gambette corte e tutte le volte in cui credo di averli seminati me li ritrovo davanti.

 

Probabilmente i miei inseguitori non hanno più tanta voglia di scherzare davanti al grosso demone Sfreyano ma l’aver io parlato esplicitamente della brevità dei loro arti inferiori – imprudenza dovuta principalmente allo stato confusionale in cui verso al momento – pare abbia rinfocolato il loro spirito combattivo, così si buttano addosso tutti insieme al povero Sassassa menando pugni e calci là dove possono, cioè nella metà inferiore del suo corpaccione, con un particolare accanimento verso le zone universalmente più sensibili in tutte le razze di tutti i mondi.

 

Il mio grosso amico, che al di fuori delle particolari circostanze in cui l’ho conosciuto ha sempre dimostrato un’indole gentile e pacifica, sembra indignato e sorpreso dalla loro reazione e tenta più che altro di scrollarseli da dosso come un orso che cercasse di liberarsi da tre cagnetti che si fossero afferrati al suo folto pelo con i loro dentini aguzzi. Mi facesse meno male la testa e non avessi il fiatone per tutto quel correre, potrei persino trovare lo spettacolo divertente.

 

Sto ancora radunando come posso le mie capacità intellettive, che a quanto pare quando ho battuto la testa hanno deciso di andarsene a spasso, per trovare un modo per aiutare il mio povero Sassassa quando il demone Sfreyano riesce ad afferrare saldamente sotto le braccia uno dei suoi tre assalitori e lo scaglia ad almeno tre metri di distanza, dove questi s’impiglia con la treccia in un tombino mezzo sollevato e resta lì ad agitare le sue braccine e le sue gambette come una tartaruga che si fosse disgraziatamente rovesciata sul dorso.

 

Reso baldanzoso da questo successo, Sassassa comincia a picchiare sul serio gli altri due e riesce anche a far volare via il coltello dalle mani di uno dei demonietti; io sto guardando con un certo sentimento di rivalsa il mio paladino che sta pestando energicamente una delle sue zampone sulla testa dell’ultimo dei tre quando improvvisamente comincia a girarmi la testa come un mulinello e crollo in ginocchio sul selciato in preda a un attacco di nausea.

 

Contemporaneamente un nuovo suono si aggiunge ai gridolini striduli dei miei assalitori: si tratta di un cupo ringhiare che sembra provenire dalle profondità della terra ma è invece il modo in cui si annuncia la repentina trasformazione del mio amico in un grosso demone mannaro sanguinario e quasi completamente privo di raziocinio.

 

La sorpresa dei demonietti rapinatori a questa imprevista evoluzione della situazione è più che comprensibile; ed anche se non lo dicono immagino si stiano pentendo di aver pasticciato di nuovo con la linea temporale, evocando anzitempo la solita crisi serotina di mannarismo di Sassassa ed impedendogli di assumere la sua dose di antidoto: perché adesso si trovano di fronte a una belva enorme col pelo color bianco sporco che si butta su di loro a quattro zampe e con la bava alla bocca.

 

In quanto a me, sapendo che finché dura la crisi Sassassa non farà distinzioni tra amici e nemici, non mi trattengo a vedere come butta ma mi tiro invece in piedi come posso e corro verso casa con tutte le energie che mi sono rimaste sperando di mettere al più presto una robusta porta di legno tra me e il demone mannaro scatenato.

 

Mentre corro sbandando di qua e di là mi viene in mente che forse avrei dovuto suggerire ai tre di investire Sassassa con il getto del primo idrante che trovano per strada, ma a giudicare da come stanno urlando dubito che avrebbero la possibilità materiale di seguire il mio consiglio.

 

Nel rientrare in casa zoppicando sono così stremata che non penso ad altro che a liberare i piedi doloranti dalle scarpe e mi dirigo ciabattando in bagno per riempire la vasca di acqua calda borbottando tra me e me “Dio, ti prego, fai che mi sia ricordata di accendere il boiler stamattina”.

 

- Taylor, che cosa ti è successo? –

 

Accidenti, mi ero scordata del periodo di sobrietà natalizio. Mio padre mi sta guardando con occhi allarmati dal corridoio attraverso la porta aperta del bagno, con gli occhiali da lettura sul naso e un vecchio poliziesco in mano, circostanza che da sola dovrebbe bastare a provarmi che ha di nuovo smesso di bere perché significa che sta di nuovo attingendo alla libreria del salotto – dove sono rimasti i vecchi libri gialli della mamma – invece che alla credenza della cucina dov’è abitualmente stivata la scorta di alcolici.

 

Quand’ero più giovane e più ingenua commisi l’errore di nascondere le bottiglie ma le conseguenze nefaste di iniziative del genere mi hanno persuasa da tempo a lasciarle dove stanno; così come è passata l’epoca in cui credevo ancora che i propositi natalizi di sobrietà di mio padre potessero durare oltre la prima settimana di gennaio.

 

Ma per il momento siamo ancora alla metà di dicembre, le luminarie natalizie sfavillano per le strade di Sunnydale e la buona volontà di mio padre non ha ancora cominciato a vacillare: sobrio, anzi soberrimo, esamina con occhio fermo le tracce evidenti dello scontro di stasera sulla mia persona e sul mio abbigliamento.

 

- Niente di grave, vorrei solo farmi un bel bagno – minimizzo e faccio per chiudergli la porta sul naso.

 

Ma dovrei sapere che quando mio padre non ha bevuto non si lascia sviare così facilmente.

 

- Camicia strappata, labbro gonfio, lividi assortiti. E zoppichi. Hai avuto uno scambio di idee col tuo ragazzo?

 

- Non ho un ragazzo e anche se ce l’avessi non gli permetterei di mettermi le mani addosso.

 

Mio padre, che da sobrio è dotato di un’eccellente memoria, alza un sopracciglio in modo significativo: va bene, è vero, ci sono stati dei precedenti, anche se non mi sembra il momento per ricordarmelo.

 

- Eric era un caso clinico e ti ricordo che l’ho anche denunciato. Adesso scusa ma vorrei proprio…

 

- E allora chi è stato? –

 

Sono troppo stanca per inventare una storia qualsiasi.

 

- Demoni.

 

Non solo mio padre non sembra particolarmente sorpreso ma non fa nemmeno finta di esserlo; per di più non insinua che io abbia cominciato a fare uso di droghe pesanti, non minaccia di mandarmi dallo psichiatra e non mi chiede nemmeno se ho preso una botta in testa, domanda quest’ultima a cui tra l’altro non potrei che dare una risposta affermativa; ma si limita ad entrare in bagno, e si siede sul bordo della vasca come se si aspettasse un prolungamento di questa conversazione.

 

- Demoni come? – mi chiede.

 

Lo aggiro per aprire il rubinetto dell’acqua e mettere il tappo, tanto per chiarire che presto dovrà andarsene e lasciarmi sola in ogni caso, che le mie risposte gli siano piaciute o meno.

 

- Demoni con le orecchie appuntite e il naso al posto della fronte e viceversa. Brutti, piccoli, con un brutto carattere. Ma soprattutto capaci di manipolare il tempo.

 

- Manipolare il tempo come in Ritorno al futuro? – mi chiede mio padre tutto serio dopo averci pensato un po’.

 

- Più manipolare il tempo come in Un attimo prima ero là adesso sono qui e ti do un pugno in faccia. Io continuavo a scappare ma loro riuscivano sempre a starmi davanti.

 

- Quanti erano?

 

- Tre. Grandi più o meno come un ragazzino di dodici anni.

 

- Come hai fatto a cavartela?

 

- Un altro demone. Li avrà fatti a pezzi, credo: non sono rimasta lì a guardare.

 

- Quell’uomo che dorme in garage non si è accorto di niente?

 

- Non credo proprio: la luce era spenta.

 

Non so se sia il momento di spiegare a mio padre chi è Sassassa, che cosa gli succeda di tanto in tanto e soprattutto perché sia venuto ad abitare nel nostro garage.

 

- Dormirà della grossa: deve aver sgobbato tutto il giorno per essere riuscito a fare un così bel lavoro con lo steccato. Volevo proprio andare a ringraziarlo ma poi ho ricordato quello che mi hai detto…

 

Peccato che io invece non ricordi esattamente quello che gli ho detto per tenerlo alla larga dal nostro misterioso ospite, forse qualcosa sul fatto che avrebbe una dannata paura degli estranei.

 

- Hai fatto bene a non dirgli niente: il reverendo Bliss si è tanto raccomandato.

 

Spero che tirare in ballo un uomo di Chiesa nelle mie menzogne non mi abbia procurato per così dire le aggravanti davanti al Grande Giudice. In quanto al reverendo Bliss, non verrà qui a contraddirmi, almeno non finché mio padre non crolla sbronzo fradicio davanti al suo portone e lui se lo carica in spalla – è un omone grande e grosso, il reverendo Bliss – e me lo porta a casa come è già successo. Ma la fine del periodo di sobrietà natalizia è ancora lontana, per fortuna.

 

Ma mio padre non pensa già più al pittore di steccati.

 

- Non si può andare avanti così, Taylor – dice gravemente – Questa volta ti è andata bene, ma la prossima?

 

- Hai mica visto il mio bagnoschiuma, per caso? È un flacone rosa con il tappo blu…

 

- Guarda nell’armadietto: lo avrò messo lì.

 

Di primo acchito tutto quello che mi viene da pensare è che mio padre abbia preso ad usare il mio bagnoschiuma; poi mi chiedo chi sia la donna misteriosa che viene a fare il bagno in casa nostra mentre io non ci sono; solo quando apro l’armadietto e vi trovo il flacone rosa allineato con i suoi compagni flaconi di shampoo e di balsamo mi rendo conto improvvisamente che quest’anno il periodo di sobrietà sembra comprendere anche la pulizia straordinaria della stanza da bagno.

 

- Hai messo in ordine.

 

- Ti dispiace? Dopotutto tu hai due lavori e non è giusto che debba occuparti anche della casa.

 

Mi dispiace? Se mio padre non bevesse come una spugna, si potrebbe andare avanti così bene noi due: lui non perderebbe di continuo il lavoro, io farei persino la spesa e il sabato potrei mettere su l’arrosto prima di andare a lavorare e trovarlo freddo e affettato e pronto da mangiare per quando torno tardi con lo stomaco che brontola. Collaboreremmo a tenere la casa in ordine, poi lui riparerebbe i rubinetti che perdono e io comprerei al centro commerciale fodere nuove per i cuscini del divano.

 

Se mio padre smettesse veramente di bere potrebbe persino trovarsi una fidanzata – una donna perbene e gentile che mi tratterebbe con riguardo sperando di diventare la mia matrigna – e avere degli appuntamenti, in occasione dei quali io potrei arrivare al punto di stirargli una camicia e di aiutarlo a scegliere la cravatta. Quand’ero ragazzina non ero certo l’unica nella mia classe i cui genitori avessero divorziato, ma probabilmente ero l’unica ad augurarmi che mio padre mi portasse in casa una matrigna: era un sogno modesto, ma fu quello che mi consentì di tirare avanti dopo che mi resi conto che mia madre non sarebbe mai tornata con papà e cominciai ad avere paura che i servizi sociali gli togliessero la patria potestà e mi dessero in affidamento chissà dove facendomi perdere quel poco che mi era rimasto, cioè i miei amici e la mia casa.

 

- Non si può andare avanti così – insiste mio padre.

 

Così come? Lui che smette di bere ma ricomincia sempre e io che pettino vampiri e ospito demoni nel garage? Forse no, ma siamo andati avanti così per anni ormai – a parte Sassassa nel garage – e non ce ne siamo mai preoccupati più di tanto.

 

- Ormai non si può più vivere in questa città. Bisognerebbe proprio fare qualcosa – chiarisce invece mio padre.

Io apro il flacone e verso una dose abbondante di bagnoschiuma nella vasca e intanto penso che quello che dice mio padre merita seria considerazione da parte mia. Magari non in questo momento, in cui tutto quello che voglio è spogliarmi ed immergermi tra quelle belle bolle colorate. E smettere di tremare, perché mi accorgo solo adesso che sto tremando.

- Ma tu stai tremando – dice infatti mio padre alzandosi dal bordo della vasca prima che la schiuma gli bagni i vestiti – Hai freddo? O stai male…

 

- No, no, sto bene, almeno credo. Dev’essere la reazione, quella cosa che dicono di quando l’adrenalina cala e uno ripensa a quello che gli è successo...

 

- Lo shock – traduce mio padre – è lo shock. Adesso ti lascio in pace: un bagno caldo ti farà bene. Non stare a riordinare, dopo, lascia tutto come sta che ci penserò io domani mattina.

 

Prende lo sgabello, lo avvicina alla vasca e vi appoggia sopra un telo da bagno pulito.

 

- Non chiudere la porta a chiave, casomai ti sentissi male. Io aspetto che tu abbia finito prima di andare a dormire.

 

- Grazie – mi sento una tremenda stanchezza addosso e se mio padre non fosse qui a guardarmi probabilmente me ne andrei a letto senza nemmeno togliermi questi vestiti sporchi – forse è meglio così. Non mi sento molto sicura.

 

- Intanto ti preparo una bella tazza di tè e te la metto sul comodino.

 

- Abbiamo del tè in casa? Non ricordo.

 

Ma lui sta già uscendo tutto compreso nel ruolo insolito di genitore amorevole; prima di richiudere la porta mette di nuovo dentro la testa.

 

- Scusa per prima: non intendevo dire che… sì, insomma, lo so che non sei il tipo di ragazza che si lascia maltrattare dal suo fidanzato. E poi quel giovanotto biondo tutto abbronzato con cui uscivi mi sembrava una brava persona.

 

E dopo avermi dispensato quest’ultima perla di sollecitudine paterna, chiude la porta e se ne va con il suo giallo e i suoi occhiali, presumibilmente in cerca di quel tè che alligna nella nostra dispensa da tempi immemorabili. Strano, non mi sembrava che lui e Thomas si fossero incontrati, anche perché è mia abitudine tenere uomini potenzialmente interessanti alla larga dal mio papà ubriacone, ma evidentemente deve averlo visto attraverso la finestra in qualcuna delle occasioni in cui il bravo ragazzo texano paladino delle cugine smarrite mi ha accompagnato a casa.

 

 

Il panorama di cui si gode dalla mia finestra non è niente di speciale: il giardino dei Bruebacker dove scorrazza il loro nuovo cane, un barboncino giocherellone che se mai incontrasse un demone mannaro andrebbe a rintanarsi sotto il portico; la strada secondaria che prendevo per andare a scuola e di cui conosco a memoria ogni sasso, ogni lampione e ogni singola recinzione scrostata; la casa con le finestre sprangate e il prato invaso dalle erbacce in cui viveva un tempo la vecchia signora Smithers con i suoi quattro vecchissimi gatti.

 

Non so perciò che cosa sia a spingermi a scostare la tenda e a guardare fuori dalla finestra mentre sorseggio la indefinibile bevanda che mi ha portato papà, forse semplicemente l’istinto di buttare di sotto quel disgustoso intruglio dolciastro in cui galleggiano in modo sospetto frammenti di tè d’epoca: ed ecco che la vedo.

 

Buffy Summers, la Cacciatrice.

 

Proprio la Prescelta in carne ed ossa - più ossa che carne per la verità - che cammina lungo la strada con la sua andatura da reginetta di bellezza, i capelli biondi raccolti in coda che ondeggiano al ritmo dei suoi passi, intenta alla sua duemillesima notte di ronda o giù di lì. Non capita spesso da queste parti, la Prescelta: non ci sono cimiteri nel nostro quartiere, cosa a cui tra l’altro si potrebbe attribuire il tasso di sopravvivenza insolitamente elevato tra i miei vicini di casa, né luoghi di divertimento notturno che attirino una numerosa clientela e di conseguenza le attenzioni di vampiri affamati.

 

Quando Buffy passa sotto il lampione al confine della proprietà dei Bruebaker e il loro nuovo cane, fedele alla consegna di far la guardia e ingrato verso chi invece la sta facendo all’intera città, le abbaia contro col muso infilato tra la siepe, lei si sposta istintivamente verso il centro della strada: in quel momento la luce del lampione le cade in pieno sul volto e mi rendo conto che non sono l’unica ad avere fatto dei brutti incontri oggi. Occhio nero, labbro gonfio, graffi sulla fronte: per una volta tanto, la Cacciatrice deve aver trovato qualcuno che gliene ha date almeno quante ne ha prese e se le cose non migliorano, quello che le sarà più utile tra tutti regali di Natale che le hanno comprato ultimamente sarà sicuramente la crema colorata. Anche se avrei fatto bene a suggerire pure uno stick per coprire le occhiaie, perché non c’è niente di meglio per nascondere i lividi.

 

E anche se ho sempre saputo che la Cacciatrice è piccola di statura – ho incontrato bambini di dodici anni più alti di lei – questa sera è la prima volta in vita mia che riesco anche a vederla piccola.

 

Dicono che possa sentire la presenza di un vampiro a cinquanta passi, ma dal momento che io non sono un vampiro non può accorgersi di me se non guarda verso la mia finestra; e credendo infatti di essere sola, si concede un momento di pausa, si massaggia il collo con le mani e sospira prima di riprendere il cammino zoppicando leggermente.

 

Ma quello che ho visto è stato abbastanza: le sue labbra sono serrate, i lineamenti tirati dalla stanchezza, il suo abbigliamento pratico ai limiti della sciatteria.

 

In poche parole tutto fa supporre che Buffy Summers sia terribilmente preoccupata.

 

Non so se sia per via di Spike – non ho mai capito che cosa ci sia esattamente tra di loro; o se sia invece per gli stessi motivi che hanno spinto mio padre poco fa a parlare in modo insolitamente chiaro.

 

No, non so esattamente che cosa stia succedendo e l’esperienza mi dice che o non lo saprò mai o lo saprò quando sarà troppo tardi o quando sarà tutto risolto. Ma c’è una cosa che purtroppo so con assoluta certezza: che se Buffy Summers è preoccupata, allora tutti noi ci troviamo in guai molto grossi.

 

4. Il fantasma della libertà

 

“La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione”.

La libertà di Giorgio Gaber

 

– Mi chiedo come tu abbia potuto sopportarlo tanto a lungo.

 

Gladys è seduta in fondo al mio letto, le mani paffute appoggiate sulle ginocchia fasciate nei pantaloni troppo stretti, il medaglione appeso al collo che ciondola sulla camicetta aperta e richiama l’attenzione sul suo decolleté florido e lentigginoso.

 

Io sono contenta che non abbia la giacca addosso, quella piena di sangue in cui la trovarono dopo il cosiddetto incidente con la mietitrebbia.

 

Mi tiro su e mi metto seduta, appoggiando la schiena alla testiera del letto. Ho un mal di testa che la metà basterebbe e la bocca impastata: per essere un brutto sogno, sembra terribilmente reale.

 

– Credo proprio di aver bevuto troppo ieri sera, Gladys – bofonchio raccogliendo il cuscino e sistemandomelo dietro la schiena.

 

Gladys scuote la sua magnifica capigliatura ondulata rosso tiziano – la cosa più bella che ha – e osserva tristemente:

 

– Buon sangue non mente, vero, Taylor?

 

– Ma se non bevo quasi mai – protesto debolmente – Mi chiedo piuttosto che cosa ci metta Willy nella sua birra fatta in casa.

 

– Willy è un porco – dichiara Gladys.

 

Io non replico perché questa volta ha ragione. Ed è una fortuna che ieri notte avessi Sassassa a farmi da scorta e a proteggere il mio onore, altrimenti dopo avermi ubriacato con la sua robaccia Willy ci avrebbe sicuramente provato; e anche se è vero che io non vorrei il viscido Willy nemmeno morta – cosa tra l’altro che a Sunnydale è sempre un’ipotesi da prendersi seriamente in considerazione – non so onestamente se nelle condizioni in cui mi trovavo sarei stata fisicamente in grado di sfuggirgli.

 

Ci sono dei lati positivi ad accompagnarsi a demoni Sfrayani alti due metri; e per di più pagava lui. In cambio ho dovuto soltanto ascoltare la triste storia dei suoi amori, una complicata vicenda resa ancora più intricata e deprimente da complessi e variegati rapporti di parentela che avevano la tendenza a rivelarsi sempre nei momenti meno opportuni, proprio come accade in quelle telenovele che piacciono tanto alla mia amica Dolores.

 

Spero solo che svelarmi le sue pene d’amore abbia fatto sentire Sassassa meglio, perché di sicuro ascoltare la storia della mia vita a partire da George il balordo per finire con Thomas il bravo ragazzo non deve essere stato il pezzo forte della sua serata. Il guaio è che non so nemmeno come stiano le cose tra me e Thomas: anche se nessuno dei due si era buttato per così dire a corpo morto nella relazione sembravamo andare avanti abbastanza bene; ma adesso io sono bloccata qui, lui è sempre in giro a fare impianti di irrigazione di qua e di là per tutti gli stati del Sud e anche solo tenerci in contatto sta diventando una fatica improba. Complicazioni, sempre complicazioni.

 

– Dopotutto non è nemmeno colpa tua se ti riduci in questo stato – insiste Gladys arricciando il naso come faceva sempre per esprimere disapprovazione.

 

– Infatti: è colpa di Willy.

 

Gladys arriccia così tanto il naso che gli occhiali rimbalzano.

 

– Ma non vedi che è tutta colpa sua, di tuo padre? Come fai ad essere così stupida, Taylor?

 

– Senti chi parla: quella che usciva con Bobby Tate per parlare. Come se Bobby, sia pace all’anima sua, sapesse dire qualcosa di più che “passami il ketchup”.

 

In confronto al Bobby di Gladys, si può ben dire che il mio George fosse un intellettuale; e io d’altra parte ho detto così tante volte a Gladys che era una cretina ad uscire con Bobby che non deve sorprendere mi venga naturale ripeterglielo anche adesso che me la vedo davanti in sogno quattro anni dopo la sua morte.

 

– Bobby era un vero idiota – ammette Gladys con maggiore saggezza di quanta ne avesse da viva – ma non è di Bobby che sono venuta a parlarti.

 

– No? Meno male perché quello è un argomento che finisce subito. E allora di che cosa mi vuoi parlare? Di mio padre?

 

Gladys annuisce solennemente:

 

– Non ti accorgi che ti sta rovinando la vita? Te la rovinava quando beveva e adesso che ha smesso di bere te la rovina ancora di più.

 

Forse perché mi sento attaccata, tiro su istintivamente il lenzuolo fin sotto il mento: così facendo mi accorgo che le mie coperte scivolano sotto di lei come se non fosse seduta sul mio letto bensì qualche millimetro al di sopra di esso e il suo sedere poggiasse su un invisibile cuscinetto d’aria. Si tratta di un fenomeno così sorprendente e insolito che mi fa passare tutto d’un colpo dall’ipotesi sogno all’ipotesi fantasma senza che mi soffermi sull’ipotesi allucinazione; e mi fa anche perdere il filo del discorso. Così distolgo a fatica lo sguardo dai suoi fianchi rotondi inguainati in quei jeans elasticizzati che le piacevano tanto e dico scioccamente:

 

– Eh?

 

– Solo perché non beve e va a lavorare tutti i giorni…

 

– Scusa se ti sembra poco – la interrompo io.

 

Fantasma o non fantasma, non mi piace che si parli male del mio vecchio; soprattutto adesso che non beve da quasi quattro mesi, ha un lavoro fisso e lava i piatti dopo aver mangiato, così quando torno dal salone a notte fonda trovo la cucina in ordine e gli avanzi della cena nel frigorifero pronti da scaldare nel microonde se nel frattempo mi è venuta fame.

 

Gladys scuote la testa:

 

– Tu lo sai che ho ragione. E invece… solo perché non si ubriaca tutte le sere, allora non sei nemmeno andata a vivere per conto tuo. Ma ti rendi conto? Sei ancora qui nella stessa casa in cui sei nata, Taylor.

 

– E allora? – protesto – C’è gente che vive nella stessa casa per generazioni e generazioni.

 

– In case come questa? – mi chiede Gladys facendo con la mano un gesto che comprende non solo la mia stanza.

 

D’accordo, non sarà una reggia; ci sono muri da ridipingere, porte che cigolano come nei film horror e mobili che erano già scadenti il giorno lontano in cui sono stati comprati; per non parlare del giardino col quale continuiamo ad offrire ai vicini un esclusivo panorama di urbano squallore. Ma almeno adesso è ragionevolmente pulita, ho un copriletto nuovo e il vecchio tappeto del salotto è sparito, sostituito da un brillante tappeto rosso e blu con un disegno tipico di quei Navajo dai quali mio padre sostiene di discendere.

 

Ogni mattina da Natale mi sveglio chiedendomi se sarà questo il giorno in cui mio padre si attaccherà di nuovo alla bottiglia; ogni notte torno a casa dopo il lavoro col cuore in gola, cercando già come metto piede in ingresso i segni della colossale sbronza con cui mi aspetto che prima o poi si chiuda questo periodo di sobrietà insolitamente lungo. E invece non trovo né bottiglie vuote sparpagliate in giro né chiazze di vomito sul pavimento; e in quanto a mio padre o è già in camera sua a dormire il sonno del giusto che si deve alzare presto la mattina dopo oppure è lì in salotto stravaccato sul divano che tira tardi guardando la TV e aspettando che io rincasi. Sabato scorso si è persino offerto di venire a prendermi al lavoro – offerta che ho declinato solo perché avevo già appuntamento con Clem per decidere quale regalo faremo a Sophie e a Richard per il loro matrimonio. Sta addirittura parlando di cominciare tutta la trafila per farsi ridare la patente che gli hanno ritirato due anni fa, dal momento che è stanco di doversi recare in officina in bicicletta come un ragazzino che si fosse trovato un lavoretto dopo la scuola.

 

– Parlavamo sempre di essere libere, te lo ricordi? E guardati adesso invece.

 

– La sai una cosa, Gladys? – osservo buttando alle ortiche ogni riguardo per la cara estinta – Se io fossi morta non andrei certamente in giro a criticare le scelte di vita dell’altra gente.

 

Gladys alza le spalle e dice:

 

– Sono o non sono la tua migliore amica? Tra parentesi non mi sembra che tu ti sia fatta molte nuove amicizie da quando me ne sono andata. Amicizie umane, voglio dire. Ah, scusa, dimenticavo Sophie: anche se probabilmente a forza di starnutire ormai le sarà uscito dal naso pure il cervello.

 

Vorrei proprio sapere dove lo teneva nascosto tutto questo sarcasmo quand’era viva.

 

– E siccome sei la mia migliore amica saresti venuta per dirmi… cosa, esattamente?

 

– Non mi sembri convinta: ma ti sbagli sul mio conto, Taylor. O Tarantula, come ti fai chiamare adesso. Del resto non sarebbe la prima volta che ti sbagli nel giudicare qualcuno, non è vero?

 

Ho già sentito di fantasmi che tornano in questo mondo per inchiodare i loro assassini e di fantasmi che vengono ad impedire la vendita della loro casa ad estranei. Ma fantasmi che vengono apposta per dare buoni consigli ai loro vecchi amici? Mai.

 

E se non glielo dico è solo perché Gladys mi sta guardando con quel suo tipico fiero cipiglio che annuncia che si sta arrabbiando sul serio: e nonostante il viso paffuto e la carnagione lentigginosa rovinino un po’ l’effetto complessivo, so per esperienza che non è il caso di scherzare quando le prendono i cinque minuti. Una volta quando eravamo ancora alle medie un grosso idiota credendo di fare uno scherzo divertente le rubò gli occhiali e allora la mia piccola Gladys – che a perdere il lume degli occhi perdeva evidentemente anche quello della ragione – lo stese con un fortunato uppercut sotto il mento nonostante quel gradasso fosse il doppio di lei.

 

Mi ricordo ancora la faccia della professoressa di matematica quando venne a vedere che cosa diavolo stesse succedendo e trovò quel poveraccio che cercava di rialzarsi gemendo e Gladys ancora tremante di rabbia che troneggiava sopra di lui come Davide dopo aver abbattuto Golia.

 

Vorrei poter dire: bei tempi. Ma francamente non era per niente un bel periodo, con mio padre che aveva cominciato a bere sul serio, i compagni di scuola che mi trattavano come spazzatura per colpa dei miei vestiti dimessi e i professori che nella maggior parte dei casi mi distinguevano a malapena da un pezzo dell’arredamento scolastico. Cosa quest’ultima che succede agli studenti taciturni che vivacchiano sull’orlo della sufficienza senza mai distinguersi in niente, se non forse per essere gli unici i cui genitori non si presentano mai ai colloqui. Del resto non si poteva certo pretendere che mio padre venisse a parlare con i miei professori, dal momento che per timore che si presentasse ubriaco io distruggevo sistematicamente tutti gli avvisi che arrivavano da scuola; e poiché in realtà non avevano niente di speciale da dirgli sul mio conto la mia linea d’azione non incontrò mai intoppi significativi.

 

Ma anche se non ritengo mio padre responsabile della mia incolore carriera scolastica, questo non significa che non abbia passato dei brutti momenti per colpa sua, soprattutto quando ero ancora molto giovane e mi dovevo coprire le orecchie per non ascoltare la sua sfilza d’oscenità da ubriacone o peggio ancora quando si riduceva al punto che non sapevo nemmeno più se fosse vivo o morto.

 

Però non mi ha mai picchiato, nemmeno quando era così pieno di alcool da non ricordarsi esattamente chi fossi e che cosa facessi in casa sua: anche se una volta a dir la verità ha cercato di farmi fuori con un mestolo di legno convinto di trovarsi davanti a un vampiro. Per fortuna la sua mano era tutt’altro che ferma, altrimenti invece che con un livido sullo sterno mi sarei potuta ritrovare in guai molto più seri: infatti anche se i paletti di legno conficcati nel cuore inceneriscono solo i vampiri, tendono facilmente ad avere conseguenze letali sui viventi ordinari.

 

Ed era veramente buono con me quando ero ancora molto piccola, i primi tempi dopo che mia madre se ne era andata e lui non aveva ancora cominciato a bere: mi preparava da mangiare, mi aiutava a fare i compiti e qualche volta andavamo persino al mare o allo zoo come tutte le famiglie normali.

 

– Non dirmi che non ci hai mai pensato, Taylor.

 

– A che cosa?

 

– A vendere questa vecchia baracca e andartene da qui.

 

La vecchia baracca, come la chiama Gladys, è tutto quello che mio padre possiede: interamente pagata, perché quando lui e la mamma erano giovani si ammazzarono di straordinari per togliersi il peso del mutuo dal collo.

 

A dir la verità una volta c’era anche la fattoria del nonno, ma dopo averla venduta, aver pagato i debiti e diviso quello che era rimasto con zia Janice, mio padre diede praticamente tutto quello che ne aveva ricavato alla mamma, che in cambio rinunciò alla sua parte di proprietà della casa in cui viviamo: a quanto mi fu detto in seguito, le servivano soldi per stabilirsi a Detroit.

 

Anche se le rendite immobiliari a Sunnydale sono cadute in picchiata – la qual cosa francamente non sorprende – vendere questa casa significherebbe avere un piccolo gruzzolo per ricominciare da qualche altra parte.

 

Ma mio padre non ha mai voluto andarsene da Sunnydale: questa è la città in cui è nato e cresciuto e dove sono sepolti i suoi genitori e sarà forse colpa delle sue radici Navajo o dei suoi antenati svedesi o dell’alcool che gli ha annebbiato il cervello, ma mio padre non è certo l’americano tipico che si sposta continuamente da un posto all’altro in cerca di miglior fortuna. Sembrerebbe piuttosto fare parte di quella minoranza eccentrica ed ostinata che preferisce coltivarsi la sua sfortuna lì dove si trova.

 

Guardo Gladys e lei guarda me attraverso le lenti non troppo pulite dei suoi occhiali.

 

– Adesso non potresti andartene, Gladys? Dovrei proprio cercare di dormire ancora un po’.

 

– Lui non venderebbe mai, vero, Taylor? E tu questo lo sai.

 

– E allora? Anche se vendessimo la casa dove andremmo? Dove lo trova un altro lavoro un uomo della sua età, ammesso e non concesso che resti sobrio abbastanza a lungo per cercarlo?

 

– Ma se tuo padre fosse fuori dall’equazione, Taylor? – mi dice Gladys con una scelta di linguaggio veramente sorprendente: non mi risulta infatti che sia mai riuscita a risolvere un’equazione al primo tentativo nella sua vita breve, sfortunata e accanitamente ostile alla matematica.

 

Non so se sia il caso di ammetterlo davanti al fantasma di Gladys, ma non posso dire di non averci pensato. Prima di andare a Houston, l’anno scorso, quando lo trovai in casa ubriaco fradicio con il fornello ancora acceso: ricordo benissimo che ero lì con la mano sulla manopola del gas e mi chiedevo che cosa sarebbe accaduto se avessi girato sui tacchi e me ne fossi andata. Lui non si sarebbe nemmeno accorto di niente. Nessuno si sarebbe meravigliato. Ero lì fissando la fiamma che andava spegnendosi mentre il gas continuava ad uscire e mi sembrava già di sentire l’agente di polizia mentre mi diceva con aria comprensiva “È stata una fortuna che non abbia acceso la luce entrando in casa, signorina, altrimenti sarebbe saltato tutto per aria.”

 

– Non dire assurdità, Gladys.

 

Spensi il gas. Gridai a mio padre che era un vecchio ubriacone incosciente fino a perdere la voce. Fu parte della ragione per cui decisi di andare a Houston, per le cose che avevo pensato davanti a quel fornello acceso: e a parte tutto fu un bene, perché zia Janice e mio cugino Ronnie mi dimostrarono che nella nostra famiglia c’è di peggio di un pover’uomo alcolizzato che ha dovuto tirar su da solo una figlia.

 

– E invece io lo so che ci hai già pensato – insiste Gladys – Potresti essere libera, finalmente.

 

– Piantala e lasciami dormire.

 

Gladys sorride con aria saputa e all’improvviso non c’è più.

 

Se ne è appena andata che sento bussare alla porta:

 

– Taylor? Sei sveglia?

 

– Sì, papà, entra pure.

 

Eccolo qui, l’uomo di cui a sentire la mia vecchia amica dovrei disfarmi: già rasato e vestito e pronto per andare al lavoro.

 

– Lo so che è presto per te ma se ti va, giù c’è il caffè ancora caldo.

 

– Ti prego, non mi parlare di roba da mangiare.

 

Mio padre mi considera con occhio critico e scuote la testa:

 

– Hai bevuto troppo, Taylor. Non te l’ho detto ieri sera, ma era evidente che avevi esagerato. E non dovresti esagerare.

 

Questa poi: mio padre che mi mette in guardia contro i rischi dell’alcool. Mi facesse meno male la testa sarebbe da ridere.

 

– Ho solo bevuto della robaccia che mi ha fatto male – ripeto stancamente anche a lui – Volevi dirmi qualcosa?

 

– Volevo solo ricordarti di stasera.

 

– Me lo ricordo, papà.

 

– Taylor?

 

– Sì?

 

– Ho bussato perché mi sembrava che stessi parlando con qualcuno.

 

– Non c’è nessuno qui.

 

– Lo vedo – mio padre sembra a disagio, poi si illumina colpito da un’idea – Che stupido che sono. Era il telefono cellulare, vero?

 

– No. Sì. Era solo un idiota che ha sbagliato numero e mi ha svegliato.

 

– Volevo dirti…

 

– Sì?

 

– In fondo ormai sei una persona adulta. Lavori e contribuisci alle spese di questa casa come me. A volte anche più di me.

 

– Mi fa piacere che tu l’abbia notato.

 

– Perciò, se volessi, sì, insomma, se tu volessi ricevere qualcuno nella tua camera… insomma, non devi pensare di dover per forza andare via di casa per poter dormire col tuo ragazzo.

 

– Grazie. Lo terrò presente per quando avrò un ragazzo sottomano. Papà?

 

– Sì?

 

– Lo stesso vale per te. Donne, è chiaro, non ragazzi. Sempre che i tuoi gusti non siano drasticamente cambiati.

 

Rido davanti al suo sguardo oltraggiato e continuo rapidamente prima che mi manchi il coraggio di fargli un discorso del genere:

 

– Non hai mai portato una donna in questa casa ed è stata una cosa che ho apprezzato, perché mi sarebbe sembrato, beh, lo sai anche tu. Ma ormai sono grande e anche tu, insomma, non dico che ti devi risposare per forza, ma se hai qualche amica e passa la notte qui, non ci sarebbe niente di male.

 

Mio padre cerca di non darlo a vedere ma posso accorgermi che c’è un luccichio divertito nel suo sguardo:

 

– Lo terrò presente anch’io. Per quando avrò una donna sottomano.

 

 

 

La sala presso il liceo dove si tiene l’assemblea ha ancora quell’odore di colla, di vernice e di cemento che è tipico degli edifici nuovi di zecca. E infatti Richard, che per arrivare in tempo non si è cambiato e indossa ancora gli abiti da lavoro e le scarpe antinfortunistiche, sta facendo fare a Sophie un giro del locale che ha contribuito a costruire con le sue mani sottolineandone i particolari più interessanti.

 

– Vedi le stuccature tra le campate? – sento che dice mentre la povera Sophie si torce il collo per scrutare l’alto soffitto – Sono stato io a dire al direttore che si potevano anche fare in quel modo lì, così si risparmiava un sacco di lavoro e anche di soldi. Figurati che lui invece…

 

Ma non saprò mai come il direttore dei lavori avrebbe voluto fare invece le stuccature perché mio padre, che mi ha visto dal tavolo della presidenza a cui è seduto, piomba qui e mi tira su di peso dalla seggiola.

 

– Ah, sei riuscita a venire. Sono contento. Ma cosa fai seduta qui in fondo?

 

– Lo sai che non mi piace stare davanti, papà – mi schermisco io afferrandomi allo schienale della sedia come se fossi uno squatter niente affatto intenzionato a lasciarsi sgombrare.

 

Mio padre scuote la testa con quel fare indulgente che mi ricorda tanto quando io e la mamma prendevamo il tè insieme alle mie bambole e lui rideva e diceva che non sapeva quale delle due fosse la bambina. Si è messo il vestito buono, che poi sarebbe anche l’unico vestito che possiede, con la camicia che gli ho lasciato pronta e stirata sul suo letto stamattina; però non ha messo la cravatta che gli avevo preparato e dal momento che si trattava di una sorta di cimelio storico che probabilmente risaliva al ballo del diploma non posso nemmeno dargli torto.

 

Anche senza cravatta ha comunque un’aria molto rispettabile – un aspetto onesto e rassicurante da colletto blu della domenica – che spero lo aiuterà a far valere le sue ragioni.

 

In quanto a questo, lui è ottimista; io no.

 

Ed è il motivo per cui preferisco restare nelle retrovie, per così dire, non tanto perché non ambisca assistere da vicino all’eventuale fallimento di mio padre, che pure sarebbe di per sé una ragione sufficiente, ma perché ho la sensazione che se le cose andassero male lui stesso si sentirebbe meglio se non mi avesse a portata di occhi.

 

– Ma non è che te la squagli prima della fine, vero?

 

– Ma no, papà, figurati. Andiamo a casa insieme.

– Come fai col lavoro?

 

– Non ti preoccupare: ho preso un giorno di ferie.

 

In effetti non è per il lavoro che ho perso oggi che dovrei preoccuparmi, quanto piuttosto per quello che potrei perdere domani e in via definitiva: gli affari languono e la padrona mi sembra irrequieta e desiderosa di tentare la fortuna altrove. Ieri l’ho sentita mentre al telefono con il suo amico parlava di trasferirsi a Cleveland. Del resto non posso darle torto perché si direbbe che a Sunnydale lo stesso preoccupante aumento di attività demoniaca straordinaria che è alla base di questa pubblica assemblea abbia portato a una corrispondente diminuzione di attività demoniaca ordinaria. Delle due l’una: o tutti i nostri demoni abituali hanno improvvisamente perso ogni interesse per la loro capigliatura in favore di attività più sanguinarie o sono stati sostituiti da nuovi demoni più versati nel massacro puro e semplice che nel seguire la moda.

 

Prospettive occupazionali della sottoscritta a parte, nessuna delle due ipotesi sembra per la verità particolarmente confortante. Ed è esattamente il motivo per cui siamo qui riuniti nell’aula magna del nuovo liceo gentilmente messa a nostra disposizione dal nuovo preside signor Wood: cioè per prendere provvedimenti nella migliore tradizione della democrazia diretta americana contro l’intollerabile escalation di attività demoniaca violenta nella nostra bella città.

 

Come dice mio padre, promotore della neonata Associazione Civica Sunnydaliana contro le Attività Antiumane, facciamo quello che avrebbero fatto i nostri padri fondatori se si fossero trovati davanti a una minaccia di qualsiasi sorta: ci organizziamo per difendere le nostre case e le nostre proprietà dai continui attacchi che le autorità competenti o non vedono o non contrastano a sufficienza.

 

Dimenticandosi completamente della sua parte Navajo, mio padre di solito a questo punto ricorda come i primi coloni americani prendessero le armi per difendersi dalle incursioni dei nativi; e forse perché non ci sono nativi americani a Sunnydale – credo infatti che quelli che disgraziatamente per loro abitavano da queste parti siano stati sterminati tutti a suo tempo – la sua retorica semplice e tradizionale fa sempre effetto sugli ascoltatori.

 

Ma per quanto mio padre negli ultimi quattro mesi abbia fatto sfoggio delle sue insospettabili arti oratorie in numerose occasioni, si trattava pur sempre di riunioni in cui un piccolo numero di conoscenti si ritrovava in un bar o in una casa per parlare alla buona delle stranezze di Sunnydale tirando finalmente fuori dai denti ciò che in città si è sempre saputo ma di cui non si è mai pubblicamente parlato.

 

Questa sera invece mio padre si presenta per la prima volta a un vero e proprio pubblico in una sorta di riunione politica semi–ufficiale: a questo si devono il vestito intero, la camicia nuova e la mia presenza.

 

Come dicevo, i miei sentimenti verso questa iniziativa sono ambivalenti: da una parte, provo una naturale lealtà verso l’Associazione Civica contro le Attività Anti–umane, che di fatto ha tenuto lontano mio padre dalla bottiglia; ma dall’altra il mio istinto sunnydaliano mi dice che tutto questo potrebbe finire nei soliti sgozzamenti di massa, nel corso dei quali questa volta la gola di mio padre sarebbe probabilmente una delle prime a venire squarciate. So che non suona per niente incoraggiante detto così, ma ehi, è stato proprio lui ad insistere perché noi cittadini di Sunnydale ci togliessimo finalmente la benda dagli occhi. Che sarebbe una bellissima cosa purché non vada a finire che le bende che ci togliamo dagli occhi dobbiamo poi usarle per tamponare il sangue dalle ferite.

 

Mio padre torna al tavolo della presidenza e si siede di fianco alla signora Tate, la madre di Bobby, e al signor Keller, proprietario di quell’Impresa di Costruzioni Keller in cui lavorano sia Richard che Xander Harris, nonché zio di Harmony Keller, una delle studentesse vittime della disgrazia alla consegna dei diplomi del 1999. Per la sua solida posizione finanziaria, la sua reputazione d’uomo d’affari e i suoi legami familiari con tutta la Sunnydale che conta, il signor Keller è stato il miglior acquisto nella campagna a sostegno dell’Associazione Civica contro le Attività Anti–umane che mio padre ha portato pazientemente avanti negli ultimi tempi.

 

Le altre tre sedie al tavolo della presidenza sono ancora vuote e il mio istinto mi dice che così resteranno: mancano il vice–sindaco e il capo della polizia, che pur essendo stati invitati non avevano mai detto che sarebbero venuti; e manca anche il preside Wood, che invece aveva promesso di venire. Francamente, non ho idea di che cosa abbia potuto trovare di più urgente o di più interessante da fare proprio stasera il primo preside che sembrava ben deciso a non fare lo struzzo tra tutti quelli che il liceo di Sunnydale abbia mai avuto.

 

 

 

All’inizio le prospettive dell’Associazione Civica contro le Attività Anti–umane si mantengono se non rosee almeno accettabili: saggiamente mio padre e il signor Keller prendono la cosa molto alla lontana e dopo una mezz’ora buona la parola “vampiri” non è stata ancora pronunciata, ma allo stesso tempo hanno già messo il dito su molte delle stranezze di Sunnydale, dalla mortalità estremamente alta al proliferare di locali apparentemente destinati a perenni feste in costume.

 

Mi accorgo che il pubblico, non così numeroso come mio padre si augurava ma nemmeno così scarso come temevo io, segue le loro argomentazioni con interesse e a parte pochi individui – fra cui si distingue in particolare il signor Wilkins, il direttore di Sophie – nessuno li ha ancora tacciati di essere pazzi o anti–americani.

 

– Ad esempio se il capo della polizia fosse presente – sta dicendo proprio adesso il signor Keller – potrebbe forse spiegare come mai quest’anno due ragazze giovanissime sono venute a Sunnydale dall’Europa solo per incontrare una morte violenta.

 

– Mafia russa? – ipotizza qualcuno.

 

– Veramente mi risulta che fossero cittadine britanniche.

 

– Ci sono troppi inglesi in questa città – sussurra Sophie – Non è una cosa normale.

 

– Tutto questo è solo una perdita di tempo – sbuffa il signor Wilkins alzandosi in piedi e intervenendo senza aspettare il suo turno – Se la nostra città fosse così violenta come voi sostenete, ce ne saremmo sicuramente accorti. E invece il negozio di cui sono direttore non ha nemmeno mai subito una rapina: credete forse che siano molti gli esercizi commerciali a Los Angeles o a New York di cui si possa dire una cosa del genere? Io non me ne andrò mai da Sunnydale. Noi Wilkins siamo qui da quando è stata fondata e io vi dico una cosa: ci sarà sempre un Wilkins a Sunnydale.

 

– Speriamo almeno che non sia sempre lo stesso – si augura Sophie a bassa voce.

 

– Non stiamo parlando di rapine – dice la signora Tate – Stiamo parlando di cose di cui i telegiornali non parlano.

 

– Sunnydale non è una città come tutte le altre – dice pacatamente il signor Keller – È ora che tutti ce ne rendiamo conto.

 

– E chi lo dice, scusi? – interviene una vecchietta che non conosco e che ha la mano alzata da almeno dieci minuti – Io ci ho passato tutta la vita e mi sembra una città normalissima.

 

– Forse dovremmo chiederlo alla signorina Buffy Summers – dice mio padre.

 

Il nome della Cacciatrice piomba sull’assemblea come un petardo: metà dell’assemblea non sa nemmeno chi sia o finge di non saperlo e chiede rumorosamente spiegazioni; ma dall’altra metà provengono asserzioni assai diverse.

 

– Giusto: ha salvato la vita a mia figlia – grida una donna seduta dalla parte opposta della sala.

 

– Una volta la Summers ha tolto anche me dai guai – ricorda un giovanotto.

 

– L’abbiamo persino eletta nostra protettrice quando eravamo al liceo – gli dà man forte una ragazza con lunghi capelli scuri che ricordo vagamente di avere già incontrato.

 

– Con me ha fatto tutto lei – brontola Richard – Prima ha messo in pericolo la mia vita e poi ha impedito che mi ammazzassero.

 

– Dà delle feste veramente orribili. E sembra che non finiscano mai – concorda Sophie mettendogli affettuosamente una mano sul ginocchio.

 

– Un momento, un momento! Forse non tutti sanno che la signorina Summers ha trovato la collocazione più idonea per le sue capacità come consulente scolastico – dice pomposamente il signor Wilkins – Nonostante la sua giovane età questa nostra concittadina è sempre stata d’esempio agli altri ragazzi e io sono certo che in questo ruolo abbia modo di esprimere al meglio la sua particolare, ehm, sensibilità verso le tematiche giovanili.

 

– Chi, Buffy? – chiede Richard in tono oltremodo scettico.

 

Se parlare in pubblico non fosse assolutamente al di là delle mie possibilità, a questo punto potrei alzarmi e precisare che ormai non abbiamo nemmeno più la Cacciatrice tutta per noi, dal momento che adesso deve proteggere anche quella scolaresca di pre–prescelte che si tiene in casa.

 

Forse ho sbagliato: forse avrei dovuto dire a Spike di chiedere a Buffy di venire qui stasera. In teoria, l’Associazione Civica contro le Attività Anti–umane persegue i suoi stessi scopi e non dovrebbe dispiacerle poter contare sull’appoggio di almeno una parte della cittadinanza.

 

Ma pubbliche assemblee e investiture ufficiali mi sembrano completamente estranee al suo stile e non sono nemmeno sicura che non si sarebbe arrabbiata come una furia alla prospettiva di perdere la sua copertura: e chiamatemi pure vigliacca ma io non voglio avere una Cacciatrice arrabbiata con me.

 

 

 

– Bobby! – il grido della signora Tate è improvviso e straziante e raggela l’intera assemblea.

 

Peccato, perché le cose hanno preso una bella piega, con il signor Wilkins costretto al silenzio dopo che qualcuno gli ha finalmente intimato di smettere di blaterare a vuoto: i promotori dell’Associazione stanno finalmente esponendo il loro programma e la parola “demoni” è stata già pronunciata almeno tre volte senza che nessuno abbia dato in escandescenze.

 

Il signor Keller e mio padre, ammutoliti dallo stupore, la guardano ad occhi sbarrati alzarsi in piedi, girare attorno al tavolo come in trance e avviarsi barcollando lungo il corridoio centrale tra le fila di sedie, ripetendo più e più volte il nome del figlio morto mentre le sue mani afferrano l’aria e il suo sguardo rimane fisso su un punto verso il fondo alla sala. Un punto in cui a parte due portaombrelli non c’è assolutamente niente – e tantomeno qualcosa o qualcuno che assomigli anche vagamente a quel ragazzone alto quasi un metro e novanta che era il povero Bobby da vivo – come chiunque di noi potrebbe testimoniare perché tutti dal primo all’ultimo ci siamo istintivamente girati a guardare.

 

– No, no, non te ne andare – dice la signora Tate in tono implorante, mentre le gambe le tremano al punto che fatica a tenersi in piedi.

 

Penso che in questo momento vorrei tanto essere al salone con addosso il mio grazioso camice color prugna a fissare bigodini sulla testa di qualche vampira nostalgica degli anni “60.

 

– Perdonami, ragazzo mio, ti prego, non ti arrabbiare.

 

– Parla con il figlio morto – mi sussurra Sophie, che ama sottolineare l’ovvio.

 

La signora Tate abbassa la voce e sono troppo lontana per distinguere tutte le parole; però vedo le lacrime che le scendono lungo le guance avvizzite. Infine, mentre in sala cresce un mormorio di sconcerto, chiama ancora Bobby un paio di volte allargando le braccia come se volesse abbracciare qualcuno, si gira visibilmente affranta e ritorna come una furia verso il tavolo della presidenza, dove mio padre e il signor Keller sono rimasti in piedi come impietriti, non avendo la più pallida idea di cosa fare.

 

 

La signora Tate sembra invece molto decisa, perché senza nemmeno guardarli afferra il microfono, si rivolge all’assemblea e dice:

 

– Abbiamo sbagliato, abbiamo sbagliato tutti. Andate via.

 

– Ma, mia cara signora… – obietta Keller cercando gentilmente di toglierle il microfono di mano e beccandosi in cambio un calcio negli stinchi.

 

– Mi avete capito? Andatevene: i nostri morti vogliono solo riposare.

 

– Ha ragione – grida una voce dalla prima fila.

 

Non ne sono sicura, ma potrebbe essere il signor Wilkins. Altre voci si levano a protestare contro questa strana interruzione dell’assemblea, ma altre, più numerose e più irate, rincarano la dose. Qualcuno parla addirittura di sacrilegio.

 

Io, Sophie e Richard ci scambiamo sguardi preoccupati: c’è qualcosa di pericoloso nell’aria, e io ho paura.

 

– Ma, Agatha – comincia a dire mio padre cercando di dar man forte al signor Keller – Nessuno di noi ha visto niente. Non è vero che nessuno ha visto niente? – chiede all’assemblea, sperando forse così di riportare in carreggiata l’assemblea.

 

Non è una buona idea.

 

– Che ne sai tu di quello che io vedo? – lo rimbecca aspramente la signora Tate – Fino all’anno scorso eri tu quello che ci vedeva doppio, se non ricordo male.

 

– Vero! Da che pulpito viene la predica!

 

Questa volta sono assolutamente sicura che sia il signor Wilkins.

 

– Perché non ti vai a fare un cicchetto, Peters? – grida una voce femminile.

 

– Hai bevuto tanto che l’alcool ti ha mangiato il cervello – questa volta è un uomo.

 

È solo l’inizio: all’improvviso l’assemblea si rivolta contro mio padre come un cane rabbioso, gridandogli insulti e chiedendogli di andarsene; i più gli danno del vecchio ubriacone ma qualcuno ricorre anche ad insulti più fantasiosi e meno mirati.

 

La mia vicina di posto gli chiede chi si crede di essere per venire a dire agli altri quello che devono fare.

 

– Ma chi ti ha obbligato a venire, vecchia strega – le dico io.

 

Per tutta risposta quella comincia a darmi ombrellate sul ginocchio e sono costretta a disarmarla come posso, impresa che si rivela tutt’altro che semplice, e perciò mi perdo una parte dello svolgimento degli eventi, ma quando mi alzo vittoriosa con un pezzo di ombrello in mano è evidente che la situazione è ormai molto compromessa.

 

Ad onore del signor Keller, va detto che non butta subito mio padre a mare, ma anzi per un po’ tenta di difenderlo e di calmare le acque; il suo problema principale però non è mio padre, bensì la signora Tate, la quale, determinata a chiudere immediatamente questa pubblica assemblea anche a costo di passare sopra il suo cadavere, è passata ormai completamente alle vie di fatto, dando prova di una forza di cui francamente la ritenevo incapace.

 

Mio padre d’altra parte è terreo in volto e non riesce più a parlare, ma non so cosa fare per aiutarlo, perché temo che se intervenissi non servirebbe ad altro che a rinfocolare ancora di più gli animi già così accesi: non capisco come sia potuto succedere ma si è formata in questa assemblea una corrente di odio così forte nei suoi confronti che mi sembra quasi di poterla toccare.

 

All’improvviso da dietro le mie spalle vola un giornale strettamente ripiegato e lo manca per un pelo: mi giro e vedo l’allenatore di football del liceo – un marcantonio che peserà quasi centotrenta chili – con il braccio ancora alzato e un sorriso ebete sul volto.

 

È una fortuna che gli astanti non abbiano molto a disposizione da lanciare e che le sedie siano inchiodate al pavimento; ma dopo questo primo lancio cominciano a fioccare oggetti disparati – un berretto, un libro tascabile, qualche accendino – come se i miei concittadini si stessero frugando nelle tasche per vedere se riescono a trovare i mezzi con cui poter lapidare mio padre sul posto.

 

Per fortuna nel momento in cui viene colpito da un accendino sulla guancia mio padre si riscuote, impreca e corre verso l’uscita.

 

Sophie e Richard si stanno già alzando per farmi passare.

 

– Vengo con te – mi dice lui prendendo il suo giubbotto dallo schienale della sedia.

 

– Adesso lo ammazza – grida Sophie indicando il tavolo della presidenza, dove di sta rapidamente formando un capannello di persone urlanti attorno alla signora Tate che ha messo le mani al collo del signor Keller.

 

Mi basta un’occhiata per accorgermi che qualcuno ha in mano armi improprie di vario tipo: intravedo persino la lama di un bel coltellaccio.

 

– No – dico a Richard – è meglio che tu resti qui e cerchi di salvare la pelle al tuo capo.

 

Ho quasi raggiunto la porta della sala facendo lo slalom tra cittadini infuriati e prendendomi anche in faccia una gomitata che non era diretta a me quando mi sento tirare violentemente per la maglia. Poiché dando uno scrollone non riesco a liberarmi mi giro col cuore in gola aspettandomi di dover affrontare una vera e propria aggressione, ma è solo la signora Bruebacker, la mia vicina di casa, che mi tende un mazzo di chiavi dicendomi qualcosa.

 

Gli intervenuti all’assemblea, che finché se ne stavano seduti buoni e tranquilli ai loro posti sembravano così pochi, adesso che si stanno alzando in massa inciampando nelle sedie e gridando insulti sembrano una moltitudine. E fanno anche il chiasso di una moltitudine, rendendomi impossibile capire quello che mi sta dicendo la signora Bruebacker.

 

– Padre… perso… chiavi – riesco a capire leggendo il labiale e mi rendo conto che la mia caritatevole vicina ha raccolto le chiavi di casa, che devono essere cadute di tasca a mio padre mentre passava come una furia davanti a lei, e che ora sta cercando di restituirle a me.

 

Date le circostante, è stata veramente gentile, ed è anche un’ottima cosa che le chiavi di casa mia non restino qui a disposizione di qualcuno di questi scalmanati: perciò le urlo un ringraziamento afferrando il portachiavi prima di ripartire all’inseguimento del mio vecchio.

 

Ma anche se ho trovato le chiavi, ho ormai perso mio padre: quando arrivo finalmente in strada non lo vedo più e dal momento che potrebbe essere andato in tre direzioni diverse – non credo infatti che avrebbe preso per la campagna – non ho davvero idea di che strada prendere.

 

Dal liceo di Sunnydale si può arrivare a casa nostra facendo due percorsi diversi ma quasi esattamente della medesima lunghezza; oppure si può anche prendere direttamente per il centro, dove si trova la più alta percentuale di bar. E poiché a casa nostra la scorta di alcolici è attualmente ridotta alle sei bottiglie di birra che ho comprato io stessa – mio padre ha rovesciato nel lavandino le bottiglie di superalcolici davanti ai miei occhi due mesi fa – quest’ultimo aspetto non è da sottovalutare.

 

Penso infatti che se avesse avuto intenzione di fare qualcosa di diverso che fiondarsi da qualche parte a bere fino a ridursi all’incoscienza, il vecchio non si sarebbe dimenticato di me.

 

Perciò il centro tutto sommato è ancora la scelta più probabile ed è verso quella parte che alla fine mi avvio sospirando. Non che mi illuda di poter veramente fare qualcosa per impedire a mio padre di attaccarsi alla bottiglia, ma posso almeno impedire che qualcuno con un bel paio di zanne lo trovi dopo che si è addormentato per strada e non si lasci scoraggiare dalla possibilità tutt’altro che remota di prendersi una colossale sbronza per interposta persona.

 

Anzi, poiché i vampiri fanno molto fatica ad ubriacarsi – Spike lo ripete sempre, anche se a me veramente sembra che lui non si lasci spaventare poi troppo da questo tipo di fatica – e poiché d’altra parte non occorre possedere un battito cardiaco per sentire la necessità di annegare i propri dispiaceri nell’alcool, dissanguare un ubriaco può addirittura risultare una comoda scorciatoia per raggiungere l’effetto desiderato.

 

Con questo tipo di foschi pensieri che mi girano per la testa, trascorro così peregrinando da un locale all’altro circa sessanta orribili minuti che si aggiungono alle diverse migliaia di minuti orribili che ho già passato in circostanze analoghe, e anche se presto a conferma della mia intuizione trovo tracce del passaggio del vecchio in cerca di libagioni sempre più pesanti, non riesco mai a mettergli per così dire il sale sulla coda.

 

Il quinto bar che visito non è un locale in cui mio padre da sobrio sarebbe mai entrato, ma il barista che si è rifiutato di servirlo nel quarto locale perché a suo parere aveva già bevuto abbastanza mi ha detto di averlo visto dirigersi – barcollando – in questa direzione.

 

Nemmeno io ci entrerei se solo potessi fare a meno, ma dal momento che ci sono già stata perché è il locale preferito di Clem, la demonessa che sta asciugando i bicchieri dietro al banco mi riconosce e mi lascia passare senza fare commenti.

 

Non è molto frequentato a quest’ora – per gli umani in cerca di emozioni che sono ancora rimasti a Sunnydale in effetti è un po’ tardi mentre d’altra parte per i vampiri è ancora presto – perciò mi basta una rapida occhiata per essere quasi certa che mio padre non è seduto a nessuno dei tavoli; ma dal momento che potrebbe essere sotto uno dei tavoli devo fare il giro del locale, anche se questo significa espormi ai commenti malevoli e alle battute salaci dei clienti presenti, quasi tutti demoni.

 

– Ehi, carina, vieni qui e appoggia il tuo bel culetto umano su questa sedia vicino a me.

 

Il demone che ha parlato ha un aspetto quasi completamente umano, a parte le orecchie a punta, e questo lo rende più pericoloso, almeno dal mio punto di vista, perché diversamente dalla maggior parte dei demoni potrebbe anche non essere un fautore dell’apartheid sessuale rispetto alla razza umana. E il fatto che mi abbia afferrato il lembo della giacca con una delle sue manacce solo un po’ più pelose di quelle della maggior parte dei maschi della mia specie non mi sembra un buon segno.

 

– Lasciami andare, scusa tanto – reagisco io in un tentativo malriuscito e probabilmente inutile di sembrare gentile e decisa allo stesso tempo.

 

Il demone ride, mettendo in mostra una dentatura decisamente eccessiva per potersi definire umana anche alla lontana, ma non molla la presa.

 

– Non hai sentito la signora? Non ti conviene darle fastidio se ci tieni alla tua testa.

 

A giudicare dalla rapidità con cui il demone mi lascia andare si direbbe che la mia giacca abbia preso fuoco.

 

– Che ci fai qui tutta sola, Tarantula?

 

– Spike, accidenti, non ti avevo nemmeno visto.

 

Immagino che quando uno come Spike parla di rischi che riguarderebbero la testa di qualcun altro, a quest’ultimo non venga proprio in mente che potrebbe anche intendere il rischio di ritrovarsi con i capelli color verde marcio o con la frangia a scaletta.

 

 

– Creatura della notte. O forse illuminazione insufficiente – commenta il vampiro spostandosi verso di me ed emergendo così dalla fitta ombra in cui è avvolto l’angolo più lontano del tavolo – Del resto la padrona è un’avaraccia – aggiunge alzando la voce in modo che la barista senta – che taglia l’whisky con l’acqua e il sangue con il succo di fragola.

 

La demonessa alza lo sguardo dai suoi bicchieri senza scomporsi.

 

– Se il posto non ti piace, Spike – risponde placidamente con il suo tipico accento che sembra russo ma che in realtà con la Russia non ha niente a che fare – puoi sempre andare da un’altra parte. Dopo aver pagato i tuoi debiti, s’intende.

 

– Dannata sparagnina – ripete il vampiro ma a voce più bassa – E ha pure dannatamente ragione. Allora, tesoro, a cosa devo il piacere di questo incontro?

 

– Mio padre. Non so dove si sia cacciato.

 

– Ahi – dice Spike mostrando di aver afferrato al volo.

 

– Sì. Le cose gli sono andate male e io faccio il giro dei bar. Di nuovo. I bei vecchi tempi sono tornati. Non voglio romperti le scatole, Spike, ma…

 

– Ehi, volevo solo stare qui un po’ per conto mio. Ma adesso finisco la birra e ti accompagno. Siediti, hai una faccia tremenda.

 

– Beh, grazie – dico io che solo adesso che metto il mio bel culetto sulla sedia mi rendo conto di quanto sono stanca e di quanto ho veramente bisogno di qualcuno che mi accompagni e tenga lontano i cattivi – Non te lo chiederei se non fossi veramente preoccupata.

 

– Alla lunga la faccenda di stare da soli diventa noiosa. Ti va un caffè?

 

Mentre sorseggio, stando attenta a non scottarmi la lingua, l’inqualificabile brodaglia nerastra che la padrona ha messo sul già lungo conto di Spike senza protestare – probabilmente perché almeno uno di noi, se non tutti e due, le facciamo pena – mi accorgo che non sono l’unica ad avere un aspetto tremendo.

 

– Che ti è successo alla faccia?

 

Spike si tocca il naso e il labbro, dove deve aver ricevuto di recente dei colpi piuttosto forti perché abbiano lasciato dei segni così evidenti sulla sua resistente pelle da vampiro.

 

– Questo? Qualcuno voleva tirare fuori il demone che è in me.

 

– Qualcuno che era stanco di vivere?

 

– Stanco di lasciare vivere me – precisa puntando l’indice sul suo petto.

 

Noto che si è deciso a portare di nuovo la sua eterna giacca di pelle nera, di cui, a sentire Clem, non poteva nemmeno sopportare la vista nei primi tempi in cui era tornato a Sunnydale con l’anima in dotazione. Anche se non sono la persona più adatta a criticare le interazioni fra le anime e gli indumenti di pelle nera, dal momento che la scorsa settimana al centro commerciale ho lasciato il cuore su un paio di pantaloni dello stesso colore e dello stesso materiale, immagino che ci sia qualcosa di più che una questione di stile dietro questa famosa giacca di Spike: ma so già che non lo scoprirò mai, perché questa nuova versione del vampiro è molto meno ciarliera della vecchia.

 

Verrebbe quasi da pensare che tenga la bocca chiusa nel timore che l’anima scappi via da lì.

 

– E questo qualcuno che voleva ucciderti aveva bisogno di farti diventare più forte prima di provarci? – chiedo.

 

Poco ma sicuro, se mai vorrò far fuori un vampiro io lo farò alla chetichella e possibilmente prima di vedere spuntare zanne di sorta.

 

– La gente è strana, tesoro – sospira Spike ma prima che abbia tempo di ritornare alla sua birra la sua attenzione è richiamata da qualcuno che è appena entrato nel locale.

 

– Guarda chi c’è – aggiunge e anche se sta parlando a se stesso e non a me, mi giro ugualmente seguendo il suo sguardo.

 

I nuovi venuti sono un terzetto tre volte strano. In primo luogo sono tutti e tre umani e già questo è un fatto insolito qui e a quest’ora. Poi si tratta di un giovanotto accompagnato da due ragazze molto giovani che non hanno per niente l’aria di essergli parenti. Infine hanno tutti e tre l’atteggiamento circospetto e consapevole che i cittadini di Sunnydale non hanno quasi mai, tantomeno quando più sarebbe il momento di averlo.

 

Anche se Xander Harris si è alquanto appesantito rispetto all’anno in cui si è diplomato e ha ormai passato quell’impercettibile soglia che divide il ragazzo dall’uomo, lo riconosco immediatamente: sebbene non abbiamo mai frequentato veramente le stesse persone né siamo mai stati amici ci legano infatti i molti fili lenti e tenaci al tempo stesso che formano il tessuto di conoscenze in una cittadina come questa.

 

Ad esempio io e Harris abbiamo frequentato lo stesso asilo, la stessa scuola media e lo stesso liceo, anche se ovviamente sempre in classi diverse perché ho due anni meno di lui; la madre della mia amica Gladys era stata damigella alle nozze dei suoi genitori; Harris poi lavora nei cantieri Keller come Richard, anche se per qualche ragione ha fatto molto più carriera; ed era pure amico di Oz il chitarrista, che a sua volta era stato compagno di banco di George per tutti gli anni delle elementari.

 

Insomma in tutti questi anni non ci sono mancate le occasioni di imparare uno il nome dell’altro, anche se per quanto lo riguarda non credo che si ricordi che mi chiamo Taylor perché mi saluta usando solo il mio cognome, Peters – e probabilmente non sa nemmeno che avrei dovuto assistere al suo matrimonio, a meno che qualcuno non glielo abbia raccontato, perché io e Spike ce ne andammo prima che lui arrivasse e cominciasse il casino.

 

– Taylor.

 

Non sono molte le persone che mi chiamano ancora così in città. E io riconoscerei quella faccia lunga un chilometro tra mille.

 

– Amanda.

 

Sapevo che la cuginetta di Thomas era diventata amica di Dawn Summers ma francamente non mi aspettavo di trovarla a girare di notte per i bar di Sunnydale in compagnia di Xander Harris e di un’altra ragazzina, una cinese che tra parentesi ci sta guardando tutti e quattro come se non capisse una parola di quello che diciamo.

 

– Vi conoscete? – chiedono Harris e Spike all’unisono prima di guardarsi in cagnesco.

 

Spike ha salutato le ragazze e Harris ha salutato me ma non si sono ancora scambiati una parola.

 

– Ma certo, usciva con mio cugino Thomas – risponde Amanda stringendomi in un abbraccio pieno di entusiasmo.

 

È una ragazza affettuosa e mi aveva anche preso in simpatia, credo perché non avevo dato in escandescenze quando Thomas si era presentato a un appuntamento con la cuginetta a traino: del resto non è certo colpa sua se suo padre è scappato, sua madre è morta e la sua famiglia affidataria è composta da una manica di idioti.

 

In quanto a quei lunghi insignificanti capelli a spaghetto che accentuano l’insolita lunghezza del suo mento, forse ostinarsi a portarli così sarà anche colpa sua, ma alzi la mano chi non ha sbagliato look a sedici anni. Ricordo ancora con raccapriccio come andavo in giro vestita io a quell’età, praticamente una via di mezzo tra Olivia Newton John all'inizio e alla fine del secondo tempo di Grease, però tutto contemporaneamente.

 

– Hai sentito Thomas ultimamente? – mi chiede Amanda.

 

– Veramente no – rispondo – Però so che il mese scorso era a Tucson.

 

– Ti ha mandato lei? – chiede nel frattempo Spike a Xander Harris con voce che sembra esser passata sopra carta vetrata, come se chiedere gli facesse male e al tempo stesso non potesse farne a meno.

 

– Questo è quello che piacerebbe credere a te – ritorce Harris con prontezza ma senza vera malignità.

 

Spike incassa con maggior buona grazia di quanto lo avrei creduto capace e un guizzo di allegria gli compare sul viso mentre alza gli occhi in faccia all’altro e gli chiede maliziosamente:

 

– Un’idea tua, allora, Harris?

 

Xander annaspa prima di chiamare in causa Willow, ma è evidente che Spike non gli crede anche se lascia perdere e lo invita anzi con un gesto a sedersi insieme a noi.

 

Da come la vedo io, che la Cacciatrice abbia mandato il più antico e fidato dei suoi paladini a vedere cosa ne sia stato del suo vampiro o che Xander Harris ultimamente stia passando sopra a un sacco di cose in nome della causa comune, Spike ha comunque segnato un punto a suo vantaggio.

 

Harris ordina una birra per sé e un’aranciata per Amanda e lascia a quest’ultima l’incarico di scoprire che cosa potrebbe voler bere nel cuore della notte una ragazza cinese a Sunnydale.

 

Tè, forse, ma sarei alquanto sorpresa se servissero del tè in questo locale – o per meglio dire se servissero del tè fatto con le foglie dell’omonima pianta e senza aggiunta di parti più o meno indispensabili tolte a creature più o meno consenzienti. Alla fine la straniera accetta l’aranciata, anche se almeno a giudicare dalle smorfie che fa non si direbbe che le piaccia molto.

 

Spike si guarda intorno: adesso al tavolo siamo seduti in cinque. Una piccola folla per qualcuno che ha appena dichiarato di essere venuto qui per restare da solo: e se aiutarmi a cercare mio padre, beccarsi con Harris e stare a guardare due ragazzine che bevono aranciata invece di mandarci tutti quanti al diavolo non è un segno eloquente del suo ravvedimento non saprei proprio che cos’altro potrebbe essere.

 

Harris lo scruta senza tanti riguardi e dopo aver finito con comodo il suo esame senza curarsi affatto dello sguardo risentito del vampiro che ne è l’oggetto dice:

 

– Beh, credevo peggio. Speravo che il preside Wood ti avesse dato almeno una bella ripassata.

 

Interessante: ecco quello che stava facendo il preside invece di presenziare all’assemblea dell’Associazione Civica Sunnydaliana come avrebbe dovuto. Perché il preside Wood dovesse impegnarsi in un regolamento di conti interno alle file per così dire dei buoni, con tutti i cattivi veri e propri che girano per la città, questa invece è una cosa che francamente non riesco a spiegarmi.

 

Certo che se spero che Spike mi illumini a proposito, campa cavallo che l’erba cresce: se devo giudicare da ciò che vedo, la riservatezza è una cosa che si accompagna direttamente al possesso dell’anima.

 

– Guarigione rapida. Tipica di noi vampiri.

 

– Uh, uh – replica l’altro puntando un dito verso i segni violacei che Spike ha in faccia e che effettivamente stanno scolorendo a vista d’occhio – Era un tirapugni?

 

Non riesco ad immaginarmi il preside Wood fare uso di un tirapugni: spero almeno che prima si sia levato la giacca, altrimenti sarebbe sembrato un film di gangster. – Sì. Ma l’ho fatto smettere.

 

– L’hai morso?

 

Spike guarda la sua birra intensamente.

 

– Se lo avessi morso davvero, sarebbe morto.

 

– Già, già, grande vampiro gradasso ammazzo–tutti–io. Non sembravi così in forma quando ti abbiamo riportato a casa a gennaio.

 

– Vorrei vedere te a stare appeso legato mentre ti infilano un coltello… e ora che ci penso, ti ho visto – Spike sorride al ricordo – E anche di recente.

 

Xander annuisce, improvvisamente ammansito, e alza la bottiglia per fare un brindisi.

 

– Agli antidolorifici – dice – e a quelli che ne fanno uso in quantità industriale soprattutto in relazione a ferite da taglio.

 

Spike si unisce al brindisi in silenzio.

 

Io questi due non li capisco: a tratti sembra che il testosterone stia scorrendo a fiumi e che siano lì lì per ammazzarsi; poi è come trovarsi a una di quelle orribili cene di famiglia dove tutti si odiano in silenzio e non si sa più nemmeno bene perché; e dopo tutta questa esibizione di aggressività e di risentimento eccoli bere assieme in confortevole silenzio come se non ci fosse mai stato il minimo dissidio.

 

Deve essere una di quelle misteriose faccende tra uomini che noi povere donne non riusciremmo mai a capire nemmeno nell’improbabile ipotesi che ce ne importasse qualcosa.

 

– Non credi che le ragazze dovrebbero andare a dormire? – chiede Spike.

 

Le ragazze in questione, che nel frattempo stanno ingannnando il tempo mostrandosi vicendevolmente tutto il ciarpame in bigiotteria e oreficeria da poco prezzo che adorna le orecchie, i polsi e le dita di entrambe, sollevano lo sguardo verso di lui e mentre Amanda cerca di spiegare a Chao che Spike le vuole mandare a letto, mi rendo conto che sono al tempo stesso risentite e tranquillizzate per essere trattate come due bambine.

 

Il fatto che l’unico a preoccuparsi che non perdano le loro ore di sonno sia un vampiro la dice lunga sul clima che si respira a casa della Cacciatrice, e anche forse sull’effettiva capacità da parte di Buffy Summers di occuparsi di queste giovani candidate al suo stesso ruolo.

 

– Sì, è vero – risponde Xander sbadigliando – E anche a me non farebbe male rivedere finalmente il mio letto. Tu non torni a casa?

 

– Più tardi: questa signora ha smarrito il suo vecchio. Meglio trovarlo prima che lo trovi qualcuno di veramente cattivo.

 

– È proprio vero che a questo mondo è tutto relativo – commenta Harris – Forza, Amanda, andiamo. E anche tu, Chao: allez, schnell o come diavolo si dice. Per caso tu capisci qualcosa di quello che dice questa ragazza, Spike?

 

– Spiacente, mai saputo il cinese.

 

– Non è cinese, è cantonese. O almeno così dice Giles.

 

– Ah, se lo dice Giles…

 

– Non ce l’avrai mica con lui?

 

– Perché mai? Mi diverto sempre quando cercano di ammazzarmi a tradimento.

 

Adesso anche le due ragazzine si sono alzate e Harris si sta infilando la giacca, ormai pronto per andarsene; ma dopo aver esitato un po’ dice ancora qualcosa:

 

– Buffy è furiosa con Giles.

 

– Accidenti – dice Spike – allora sì che il vecchio Rupert è nei guai.

 

Ma si vede benissimo che è una cosa che gli fa piacere sentire.

 

– Giles cercava solo…

 

– … di fare quello che credeva giusto. Lo so. Però, Harris…

 

– Però?

 

– Non ha chiesto a te di aiutarlo.

 

– Probabilmente pensava che io non sarei capace di farti fuori. Ma si sbaglia.

 

– Non lo so, Harris.

 

– Credi forse che non troverei il modo di ammazzarti se fosse necessario? – si inalbera Xander.

 

– Quello che credo è che tu non mi ammazzeresti a tradimento.

 

Il silenzio che segue è pesante come il piombo e solo Chao, che poverina non ha capito un accidente, non ha per niente l’aria imbarazzata. Xander Harris in particolare ha l’espressione di qualcuno che vorrebbe che si aprisse una botola sotto i suoi piedi – beh, forse non proprio, perché siamo a Sunnydale e una cosa del genere potrebbe benissimo succedere da un momento all’altro.

 

Io mi sento come se qualcuno che porta sempre il parrucchino se lo fosse improvvisamente tolto e si stesse grattando la testa davanti a me.

 

– Io non ci conterei, se fossi in te – dice alla fine Xander Harris puntando un indice verso Spike – Peters. Forza, ragazze, andiamo.

 

– Non ci conterò, Harris – gli grida dietro Spike mentre io guardo il terzetto allontanarsi con la mia manina alzata in un cenno di saluto – E non contarci nemmeno tu.

 

– Gradasso – rincaro io vigliaccamente solo perché questa sembra proprio la serata giusta per insultarlo senza rischio – Scommetto che ti faresti ammazzare per difenderlo.

 

– Sì, ma solo perché se quell’idiota morisse, Buffy metterebbe giù uno stufato più finito – ammette il vampiro.

 

– C’è qualcosa che non quadra in questo ragionamento – dico io, che ad ora tarda tendo a diventare un po’ tarda anch’io – Perché se morissi tu, quello che direbbe la Cacciatrice non ti potrebbe dare nessun fastidio; mentre se al contrario tu sopravvivessi e Harris morisse, allora sì…

 

– Ecco, vedi? – mi interrompe Spike con logica ferrea – L’unico che può permettersi di morire sono io. Hai finito quella schifezza?

 

– Sì, possiamo andare. E tu me lo potevi anche dire che qui il caffè faceva schifo – protesto mentre gli tengo dietro a fatica lungo il locale: per essere uno che non ha le gambe poi così lunghe, cammina molto veloce.

 

E bisogna anche dire che è sempre un bello spettacolo vederlo camminare, con quei jeans così aderenti e il soprabito che gli sbatte sulle gambe in quel modo: lo so benissimo che non è pane per i miei denti, ma non sono ancora diventata cieca.

 

Però a pensarci bene è bello anche che io non sia pane per i suoi, di denti, e che invece di volermi mordere mi voglia aiutare.

 

– Anche se non è stata la Cacciatrice a mandare Harris a cercarti, sono sicura che lei ci tiene a te – gli dico mentre mi tiene la porta aperta per farmi passare.

 

Suppongo che cedere il passo alle signore sia un’abitudine inculcategli quando era ragazzo nella quale tende a ricadere se non esercita un ferreo autocontrollo, e in questo momento è evidente che sta pensando ad altro.

 

– Sì, sì, sono commosso – mi risponde un po’ sorpreso per la mia uscita, poi gli viene in mente una cosa – Ehi, te l’ho detto che mi ha parlato di te?

 

– Chi, la Cacciatrice? – non so se essere lusingata o spaventata.

 

Spaventata però forse è meglio.

 

– Buffy. Mi ha detto perché non uscivo di nuovo con te.

 

Oh. Sapere che questi due – il vampiro e la Cacciatrice – fanno il mio nome anche di sfuggita nelle loro conversazioni potrebbe bastare a farmi venire un attacco di orticaria.

 

– Come se quella fosse mai stata una buona idea – bofonchio vagamente risentita.

 

– Le buone idee sono rare, tesoro – commenta mostrandomi le chiavi della sua Yamaha, quella con cui sta andando in giro da quasi due anni – E aver preso la moto stasera dev’essere una di quelle.

 

 

 

Due ore più tardi, siamo ancora in giro, abbiamo passato al setaccio quasi tutta Sunnydale e non abbiamo ancora trovato mio padre, sebbene siano emerse ulteriori tracce del suo passaggio in tre diversi locali; i bar che hanno una clientela solo o prevalentemente umana sono chiusi da un pezzo; e per fortuna questa notte Spike si è rivelato oltre che la mia guardia del corpo anche il mio fornitore di trasporto, altrimenti avrei le gambe a pezzi.

 

Se ci fosse qualcuno in giro potrei persino pavoneggiarmi mentre mi faccio scarrozzare sulla moto del vampiro più sexy di Sunnydale tenendogli un braccio intorno alla vita. Ovviamente, se la sua spensierata noncuranza nei confronti del codice della strada – tipica di chi è già morto – non mi facesse sudare freddo tutto il tempo mentre il braccio di cui sopra mi diventa praticamente insensibile a forza di afferrarmi disperatamente.

 

A dir la verità, sono ormai così preoccupata per mio padre che mi accorgo che il mio braccio si è irrigidito solo quando smonto dalla moto davanti a casa: è stata un’idea di Spike venire a vedere se per caso il cavallo dopo aver sgroppato è tornato alla stalla.

 

– Ma non ha nemmeno le chiavi di casa – ho obiettato io battendo le mani sulla tasca dei miei pantaloni, dove tra le chiavi mie di casa e del salone e quelle di mio padre, ormai c’è così tanta ferraglia che il peso potrebbe facilmente trascinarmi a terra.

 

– Che importanza ha avere o non avere le chiavi quando non riesci a infilarle nella serratura? – obietta saggiamente Spike.

 

Ed essere in giro da centocinquant’anni deve pur servire a qualcosa se la sua si rivela un’intuizione fortunata. Già dalla strada posso intravedere un lembo della giacca buona di mio padre tra i gradini davanti alla porta di casa e il grosso vaso di cemento sul marciapiede in cui stanno crescendo gli stentati tulipani con i quali ho invano cercato di ricreare i fasti dei tempi di mia madre, quando ricordo che i fiori traboccavano dal contenitore in una cascata multicolore.

 

Gli ultimi passi di questa ricerca sarebbero i più difficili da fare se non avessi un vampiro con me.

 

– Sento il battito – mi rassicura infatti Spike mentre sta ancora parcheggiando la moto.

 

Poi giro intorno al vaso e posso vedere io stessa che il petto di mio padre si alza e si abbassa ritmicamente; la giacca del vestito buono è sporca e spiegazzata, ha la camicia fuori dai pantaloni e ha addirittura perso una scarpa; ma è vivo e non è nemmeno svenuto, bensì soltanto addormentato del sonno pesante e rumoroso degli ubriachi.

 

Quando mi avvicino di più mi accorgo che ha un bigliettino appuntato sul petto come i trovatelli che si lasciavano un tempo davanti alle chiese affidati al buon cuore dei passanti e nel bigliettino il reverendo Bliss mi informa indirettamente di averlo raccolto chissà dove e scaricato qui. Sul retro del volantino di una vecchia pubblicità di un gommista il reverendo ha infatti scribacchiato con una matita spuntata il seguente messaggio “mi spiace non ha addosso le chiavi lo lascio qui. Bliss” e l’ha infilato per un angolo in uno degli occhielli della camicia.

 

Spike, che si è inginocchiato per vedere come sta il bell’addormentato, si ritrae istintivamente quando il suo fine olfatto da vampiro viene colpito in pieno dalle zaffate di alcool e di vomito che emanano dal corpo inerte del vecchio ubriacone.

 

– Sbronzo fradicio. Chissà il mal di testa domani. Spero avrai delle aspirine in casa.

 

– Gli sta bene se starà male da cani; addormentarsi per strada di notte: è proprio fortunato che sia stato il reverendo Bliss a trovarlo e non qualcos’altro.

 

Mi accorgo di tremare per il sollievo e so anche che se Spike non fosse qui a guardarmi probabilmente adesso starei prendendo mio padre a calci nei fianchi per avermi fatto spaventare in questo modo.

 

Spike gira attorno a mio padre, si china e gli mette le mani sotto le ascelle.

 

– Cosa fai?

 

– Ti aiuto a portarlo in casa. Credi di essere Hulk, tesoro?

 

– No.

 

Solleva la testa a guardarmi e nei suoi occhi azzurri vedo passare qualcosa che non saprei definire: sembrerebbe quasi che io l’avessi offeso ma che avessi anche il diritto di farlo. Io. Offendere di proposito il vampiro della Cacciatrice. Non capisco.

 

– Giusto – si corregge Spike in fretta – Tu entri, io lo sollevo e lo butto dentro.

 

Allora capisco.

 

– No – ripeto cercando di districare il mazzo giusto dal groviglio di chiavi che staziona nella mia tasca – Volevo dire che lui resta qui fuori a smaltire la sbronza senza vomitare sui pavimenti. Tu invece entri a bere qualcosa con me. Se ti va, naturalmente.

 

Spike non dice niente mentre io trovo le chiavi, gli volto le spalle e armeggio con la serratura ed è ancora lì in piedi in fondo ai tre gradini davanti alla porta, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, quando mi giro nuovamente dopo aver aperto ed invito con un gesto scenografico il mio amico vampiro a varcare la soglia della mia casa.

 

E in questo momento invece che un vampiro pluricentenario capace di ammazzare mostri di ogni sorta a mani nude senza che nemmeno un ricciolo sfugga alla presa del gel mi sembra un bambino al quale gli altri bambini abbiano appena permesso di giocare con loro ai giardinetti.

 

Poi si schiarisce la voce e io posso vedere la posa da duro ricomporsi per così dire in diretta sotto i miei occhi, a partire dal modo in cui tiene la testa ben ritta per compensare la statura tutt’altro che eccelsa fino a quel lieve bilanciarsi sulle ginocchia che fa a volte, proprio come un atleta prima del salto.

 

Solo quando si è completamente calato nel suo personaggio ed è diventato di nuovo un tutt’uno con il suo eterno soprabito di pelle nera, piega la testa da un lato e si decide a rispondere con il solito tono noncurante. E forse perché risponde alla mia domanda in ritardo mi dedica per compensarmi dell’attesa uno di quei sorrisi affascinanti che lasciava sempre come mancia quando veniva a farsi fare i capelli.

 

– Mi hai mai sentito rifiutare una birra?

 

Dal momento che quando è uscito di casa mio padre era perfettamente sobrio, suppongo che la mia birra sia ancora nel frigorifero: non è un granché, anzi era in offerta al supermercato, ma Spike non è mai stato un tipo difficile. Se lo fosse, rovinerebbe tutta la sua messinscena alla Full Monty.

 

– Ad essere sincera, no. Allora vieni, Spike, entra.

 

– Ma, Tula, tuo padre… lo vuoi davvero lasciare qui?

 

È esattamente a questo punto che mi viene il dubbio che la sua anima sia migliore della mia. Perché no? Potrebbe essere: dopotutto, lui non è cresciuto a Sunnydale.

 

 

 

5. Pomeriggio di Maggio

 

“Ninetta mia, crepare di Maggio

ci vuole tanto, troppo coraggio.

Ninetta bella diritto all'Inferno

avrei preferito andarci in Inverno”.

La guerra di Piero di Fabrizio De Andrè

 

– Non è un problema per me, Taylor – conclude il reverendo Bliss guardandomi con aria comprensiva.

Dio solo sa – e avrebbe anche fatto bene a dirlo al pastore Bliss, se è vero che questi è un Suo emissario come dice – che non mi è mai piaciuto venire commiserata; ma negli ultimi due mesi mio padre ci si è messo d’impegno a riguadagnare il tempo perduto e dopo aver perso il lavoro e aver pagato il conto dell’ospedale gli è rimasto così poco che non so se sarebbe bastato a comprare il biglietto dell’autobus per Houston.

 

Per fortuna la zia Janice si è detta disposta ad ospitarlo nonostante tutto – cioè nonostante io abbia calunniato il suo povero figliolo sostenendo falsamente che mi avrebbe messo le mani addosso. E pertanto che io vada a Houston insieme a lui e al reverendo Bliss è fuori questione, non importa quello che mio padre dice o non dice.

 

Avrei potuto pagare io stessa il biglietto dell’autobus di mio padre, sempre se i miei risparmi – faticosamente sottratti alla custodia della banca dopo aver fatto una coda di due ore insieme a una moltitudine di miei concittadini, intenzionati come me a svuotare i loro conti prima di battersela – non fossero attualmente nelle zampone di Sassassa.

 

Eccomi perciò incastrata in una Sunnydale da cui tutti stanno scappando come topi da una nave che affonda, almeno finché non trovo il mio grosso amico Sfreyano e lo prego di restituire il maltolto: cosa che sono sicurissima farà profondendosi in scuse non appena gli ricorderò le circostanze in cui il suo alter–ego mannaro mi ha praticamente rapinato.

 

Perciò non posso che accettare con gratitudine l’offerta del pastore Bliss di dare un passaggio a mio padre fino a Houston intanto che lascia Sunnydale per raggiungere la sua nuova congregazione a Austin.

 

– Potresti venire anche tu, Taylor – insiste ancora il reverendo – staremo un po’ strettini, ma d’altra parte la signora Bliss occupa così poco spazio.

 

Dal momento che sua moglie, un donnino esile ed arcigno con la comunicativa di un istrice, è veramente meno della sua metà in peso e circa i tre quarti di lui in altezza, io e mio padre ci sforziamo di sorridere mentre il reverendo ride fragorosamente; e io non per la prima volta mi chiedo con morbosa inevitabile curiosità quali possano essere i dettagli della loro intimità. Non hanno figli – cosa di cui secondo me la signora Bliss dovrebbe essere grata al Cielo perché portare un gigante simile al genitore in quel suo corpicino rinsecchito sarebbe stata un’impresa non da poco.

 

Anche se la prospettiva di un viaggio da Sunnydale a Houston nel vecchio fuoristrada dei Bliss stretta tra le loro masserizie e l’ossuta signora Bliss non mi entusiasma, non posso fare a meno di prendere in considerazione l’ipotesi: potrei non trovare Sassassa in tempo o se anche lo trovassi a quel punto potrebbe non essere più disponibile un mezzo di trasporto alternativo.

 

Inoltre Los Angeles, che oltre che ad essere infinitamente più vicino di Houston, sembra molto meno definitivo è al momento la mia prima opzione.

 

Dolores infatti ha impacchettato e rispedito in Messico suo fratello Carlos e si è già rifugiata a Los Angeles in casa del cognato; e dopo aver ricevuto un paio di gomitate nel fianco da Dolores, domenica scorsa suo marito mi ha persino rivolto tra i denti un mezzo invito ad aggiungermi alla già numerosa brigata s’intende per un paio di giorni al massimo.

 

– Partite alle sette, vero?

 

– Sì, subito dopo la funzione. Non so se verrà qualcuno, ma…

 

– Va bene. Se per allora non avrò trovato un altro mezzo di trasporto, ci vediamo davanti alla Chiesa prima delle sette.

 

– Certo. Puoi venire con tuo padre.

 

– Sì. E… reverendo Bliss?

 

Il pastore sta già per andarsene ma si ferma e mi rivolge uno sguardo interrogativo.

 

– Grazie – dico io – di tutto.

 

Tutto significa per me aver riportato mio padre a casa infinite volte, essere l’unica persona in questa città ad offrirci un passaggio per andarcene ed anche essere rimasto a Sunnydale fino ad oggi; non so quanto il pastore Bliss abbia capito, ma mi prende una mano fra le sue manone e me la scuote in silenzio ma con così tanta energia che io comincio a tremare come se avessi afferrato un martello pneumatico in funzione. Poi mi lascia e se ne va senza parlare quasi fosse sopraffatto dall’emozione.

 

– Credo che non riceva spesso dei ringraziamenti – mi spiega mio padre tirandomi gentilmente dentro casa e richiudendo la porta alle mie spalle – E non mi sorprende affatto in questa città d’ingrati.

 

– Hai già fatto la valigia – dico io cambiando discorso perché l’ingratitudine degli abitanti di Sunnydale è esattamente una delle ragioni che l’hanno spinto a bere fino quasi ad ammazzarsi – Sei sicuro di aver preso tutto?

 

– Non lo so – risponde mio padre osservando pensosamente la vecchia valigia di pelle scura che staziona in ingresso – Non è che abbia poi questa gran roba.

 

So che ha dovuto scartare diverse paia di pantaloni perché non ha ancora ripreso tutto il peso che ha perso quando è stato male; ora non tocca alcool da due settimane, ma non so se può durare.

 

Una parte di me – quella più meschina – spera ancora che si ubriachi grandiosamente quando sarà a casa di zia Janice; soprattutto se farà pipì dalla finestra proprio come quella sera in cui la signora Bruebacker mi telefonò sul lavoro per chiedermi di tornare a casa. Due giorni dopo fui costretta a ricoverare mio padre per quello che il personale ospedaliero definiva eufemisticamente “intossicazione acuta”, volendo intendere che aveva così tanto alcool in corpo che fegato, stomaco e reni avevano inscenato uno sciopero a singhiozzo per protesta.

 

– Non staremo via per tanto tempo – lo rassicuro mentendo spudoratamente – nemmeno io ho preso molta roba.

 

In realtà se ho preparato solo una borsa da viaggio non è certo perché mi aspetti di ritornare presto, ma solo perché non so ancora dove andrò.

 

– Taylor, perché non vuoi venire a Houston con me?

 

– Io e la zia non andiamo d’accordo, papà, lo sai.

 

– Ma se non si accetta l’aiuto dei parenti nemmeno in momenti come questo…

 

– Stai tranquillo, papà: è probabile che sia fuori da Sunnydale ancora prima di te – taglio corto io mettendomi la borsa a tracolla e riaprendo la porta – Se non ci vediamo prima di stasera, chiudi tutto per bene e ricordati di spegnere il gas.

 

– L’hanno tolto.

 

– Che cosa?

 

– Il gas. E stamattina mentre tu eri fuori tutto il quartiere è rimasto senza corrente elettrica per quasi un’ora.

 

Mio padre mi viene incontro e stringe me e la mia borsa in un abbraccio che mi fa male non perché sia troppo forte ma perché al contrario è troppo debole, come quello di un bambino. O come quello di un uomo vecchio e malato.

 

– Su, su, papà. Mi puoi chiamare sul cellulare; ti telefonerò anch’io a casa della zia: la prima cosa che faccio non appena lascio questo postaccio, compro una ricarica, te lo prometto. Lasciami andare adesso.

 

– Ma dove andrai, Taylor? – mi chiede ancora mio padre quando sono già uscita.

 

– Ho solo l’imbarazzo della scelta – rispondo io scendendo baldanzosamente i gradini – Tutti mi vogliono, lo sai com’è.

 

Thomas non risponde più da almeno due settimane al numero di cellulare che mi aveva dato; d’altra parte, sapete come si dice: lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

 

Nonostante tutto sono sicura però che se solo sapesse quello che sta succedendo qui, verrebbe a prendere me ed Amanda e a portarci via di qua. Ma se c’è una cosa di cui sono certa, è che il resto della nazione e del mondo non abbia la più pallida idea di quello che stia succedendo qui.

 

E anche se ad evacuazione già iniziata le autorità locali hanno cominciato a parlare di un tornado in avvicinamento, siamo ancora in attesa di una comunicazione ufficiale sulla ragione per cui gli abitanti di Sunnydale avrebbero dovuto lasciare la città in massa.

 

Non so se è la quarta o la quinta volta in tre giorni che mi trascino fino alla remota periferia in cui Sassassa dopo aver passato tre mesi nel mio garage ha trovato finalmente dimora in un grande e decrepito magazzino, nato credo per il deposito di granaglie, utilizzato in seguito da una ditta di trasporti e abbandonato infine all’incuria del tempo e all’occasionale interesse di senzatetto di varia natura e provenienza.

 

Quella che fino a poco tempo fa sarebbe stata solo una piacevole passeggiata tra quartieri residenziali seguita da un noioso scarpinare tra officine, depositi e rivenditori industriali è oggi un viaggio irreale in una città fantasma, svuotata dai suoi abitanti, tra villette con le tavole alle finestre e attività commerciali con le serrande abbassate. Qui e là si notano i segni di una precipitosa partenza, con masserizie giudicate inutili abbandonate sui marciapiedi e vecchie automobili non più funzionanti parcheggiate di traverso col cofano ancora alzato.

 

Dal momento che adesso mi sono dovuta portare fin qui questo pesante borsone in spalla, è la prima volta però che ci arrivo con il fiatone; e sono costretta a sedermi a riposare all’ombra sui primi gradini della scaletta di ferro che porta all’ex–appartamento del custode in cui il mio amico Sfreyano si è sistemato. Appena mi passa l’affanno, mollo la borsa e scatto su per i gradini chiamando Sassassa a gran voce; ma potrei risparmiarmi la fatica, perché non appena comincio a salire la seconda rampa riesco già a vedere appiccicato sulla porta l’ultimo dei biglietti che io stessa ci ho lasciato. Dal momento che non c’è un’anima in giro che mi possa vedere – e fortunatamente per me nemmeno altri soggetti a cui non converrebbe l’appellativo di anima – posso benissimo piangere; cosa che faccio senza vergognarmi dopo aver tentato per l’ennesima volta la robustissima porta di ferro di questo dannato alloggio.

 

Dietro questa porta a soli dieci passi di distanza in cima a un pesante armadio di noce ci sono tutti i miei risparmi: ma io non li posso prendere, accidenti ai vecchi robustissimi chiavistelli che facevano una volta e sulla cui efficienza posso giurare perché io stessa – accidenti anche a me – ho accuratamente ripulito e lubrificato quello montato qui quando ho aiutato Sassassa a traslocare.

 

Sul biglietto ho scritto con il mio rossetto a zampe di gallina la data e l’ora di ieri sera e poi “Telefonami o cercami: è urgentissimo. Tarantula”; sfiduciata come sono, non mi do nemmeno pena di scrivere un nuovo biglietto ma mi limito ad aggiornare la data e l’ora su quello vecchio.

 

Non per la prima volta, mi viene il terribile dubbio che il grosso corpo peloso di Sassassa si stia decomponendo dietro questa porta; e accosto il mio nasino alla toppa della serratura in cerca del primo sentore di putrefazione – come se avessi la più pallida idea di quello che succede al corpo di un demone Sfreyano rimasto orbo del suo occupante.

 

L’unica finestra che non sia a sei metri d’altezza – cioè subito sotto la copertura del capannone – ha i vetri chiusi, le tende tirate e una robusta inferriata a protezione: se mi mettessi in piedi sulla balaustra e fossi alta mezzo metro più di quello che sono forse potrei raggiungerne il davanzale con la punta delle dita prima di fracassarmi la testa precipitando di sotto.

 

C’è una cosa da dire sull’ultimo occupante umano di questo appartamento, il custode che lo abitava all’epoca dell’azienda di trasporti: che non era uno che prendesse alla leggera i problemi di sicurezza. Scommetterei che sia riuscito a morire di vecchiaia nel suo letto.

 

Mentre me ne ritorno tristemente verso il centro con la mia pesante borsa in spalla – tenendo gli occhi bene aperti perché ormai le strade non sono più sicure nemmeno in pieno giorno – sono costretta per calmarmi a riepilogare tutte le ragioni che mi spingono a ritenere lo scomparso Sassassa ancora in vita.

 

Willy dice di avergli servito da bere l’altra sera, cioè dopo e non prima della sua improvvisa e inaspettata trasformazione e della mia conseguente e precipitosa fuga. Ma Willy non è sicurissimo della data; ed è inutile tentare di rinfrescargli la memoria con la corruzione o le minacce perché a quest’ora è ormai chissà dove con il suo camper stipato di bottiglie. A dir la verità, aver visto Willy lasciare Sunnydale è stato esattamente quello che mi ha fatto tornare a casa di corsa a fare la valigia: è stato un po’ come vedere la Croce Rossa chiudere la sua delegazione e imbarcare il personale sul primo aereo in partenza.

 

E Clem – dopo avermi offerto con il suo solito buon cuore un passaggio sulla sua decappottabile rossa – mi ha riferito che qualcuno avrebbe visto Sassassa alla stazione degli autobus la mattina successiva l’episodio in cui ho perso i miei risparmi in modo al tempo stesso comico e sventurato.

 

Il cugino di Sassassa, quello stesso che lo incatenava perché non facesse danni quando diventava mannaro, non vive neppure più stabilmente a Sunnydale; ma ricordo benissimo che una volta un demone di Frisco venne a cercarlo per una storia di scarafaggi d’importazione avariati e mi disse che la sua amica abitava alla Fortitudo, la vecchia palestra di Sunnydale che conosco benissimo perché andavamo proprio lì ad allenarci per ginnastica artistica, quando la palestra della scuola non era disponibile.

 

Ed è proprio verso la Fortitudo che arranco sui tacchi ormai consunti delle mie scarpe più comode – o meglio sarebbe dire meno scomode – mentre la cinghia del borsone mi fa un solco nella spalla e una ridda di ipotesi alternative, una meno piacevole dell’altra, mi gira in testa come un mulinello.

 

La porta principale della palestra è chiusa e sbarrata come quella di tutti gli altri esercizi commerciali della strada ma io so che c’è una porta sul retro che dà su una strada secondaria – proprio di fronte alla lunga staccionata bianca su cui Bobby Tate si sedeva sempre ad aspettare Gladys l’anno in cui eravamo tutte e due nella squadra di ginnastica ritmica.

 

Sarà forse colpa della stanchezza o della dieta squilibrata – ormai in città stiamo vedendo il fondo delle riserve di derrate alimentari e per pranzo io e papà abbiamo mangiato sardine in scatola, crauti sotto aceto e due minuscole mele raggrinzite dell’albero di uno dei nostri vicini – fatto sta che mentre mi avvicino alla porta della palestra mi sembra di vedere Bobby appollaiato là sulla staccionata che inganna l’attesa fumando e facendo dondolare i libri appesi alla cinghia proprio come una volta.

 

È solo un attimo ma un attimo in cui mi chiedo se quello che sto vedendo sia la stessa cosa che ha visto la signora Tate all’assemblea: perciò come provo la porta e mi accorgo che non è chiusa a chiave scivolo dentro trascinando il mio borsone e me la richiudo alle spalle senza perdere tempo a prendere precauzioni di sorta.

 

Per una volta, la fortuna mi assiste: la piccola anticamera su cui si apre la porta degli spogliatoi e quella del magazzino è deserta e tranquilla, e non c’è traccia di occupanti umani o di qualsiasi altra sorta. Per prima cosa vado nel magazzino, dove aveva messo le tende la fidanzata – se così si può dire – del cugino di Sassassa tra un episodio e l’altro di una complicata love story i cui dettagli vi risparmierò: nonostante l’apparenza compassata, i demoni Sfreyani sono in realtà molto passionali. E anche discretamente pettegoli. Il magazzino non solo è quasi completamente vuoto ma è anche troppo polveroso perché un demone Sfreyano vi abbia abitato di recente; ci sono solo delle scaffalature vuote ad eccezione di alcune scatole ordinatamente impilate, una branda accuratamente ripiegata e in un angolo un fornello da campeggio, completo di un’essenziale batteria da cucina, il tutto scrupolosamente pulito.

 

C’è anche una busta appoggiata sulla branda, su cui ovviamente mi butto come un naufrago su un messaggio in bottiglia: ma il foglio che contiene non mi è di maggior aiuto di quanto sarebbe a un naufrago apprendere l’esistenza di un altro naufrago su un’isola a trenta o a quaranta miglia di distanza dal momento che i caratteri di cui è fittamente ricoperto appartengono a un alfabeto che mi è completamente sconosciuto.

 

Pensando che sarebbe bello se tutti i miei concittadini avessero dimostrato altrettanta precisione e altrettanta discrezione nel lasciare Sunnydale, infilo nuovamente il foglio nella busta e la rimetto al suo posto: è evidente che il messaggio non è diretto a me.

 

Ritorno nella piccola anticamera ed entro negli spogliatoi a fare un giro, più che altro per rimandare il momento in cui dovrò decidere che cosa posso fare adesso; sono molto sfiduciata e sono anche piuttosto stanca dopo tutto quel camminare, e l’idea di farmi un riposino in un posto tranquillo come questo non mi dispiacerebbe.

 

Ma non ho fatto due passi che qualcuno sbuca dal corridoio e come mi vede fa un balzo all’indietro per lo spavento che è esattamente speculare a quello che faccio io. Ci guardiamo come in uno specchio, muti e spaventati, finché il contemporaneo reciproco riconoscimento non suscita un identico sospiro di sollievo in entrambi.

 

Andrew Wells. Era a scuola con me fino alla terza elementare. Era un bambino biondo, timido e pasticcione, pateticamente devoto al fratello maggiore, quello stesso Tucker che avrebbe a suo tempo combinato quel famoso casino con i mastini infernali. Gli Wells traslocarono in un altro quartiere dopo la terza elementare e io non lo rividi più fino al liceo, quando ci ritrovammo assieme in qualche corso, dove entrambi tiravamo avanti senza infamia né lode passando praticamente inosservati agli insegnanti e alla maggior parte dei compagni di classe. A partire dal secondo anno io cominciai ad uscire con George e i suoi amici mentre Andrew Wells a quanto ne so restò confinato nel suo limbo di studente né brillante né sportivo né popolare né antipatico né niente fino al giorno in cui il fratello si mise nei guai con i suoi mastini e con la Cacciatrice e tutta la famiglia Wells preferì cambiare aria e lasciare Sunnydale. Non ho più visto Tucker Wells da allora ma credo che Andrew sia tornato a Sunnydale alla fine dell’estate per finire il liceo andando a vivere con sua zia.

 

Di quei due ultimi anni all’unica scuola superiore rimasta a Sunnydale dopo l’esplosione, in cui morirono tra gli altri sia il preside che il sindaco, ricordo le classi sovraffollate e le continue discussioni tra studenti e all’interno del corpo docente sui turni per utilizzare le palestre, le aule e praticamente qualsiasi cosa; peggio ancora, dal momento che quelli che venivano dalla vecchia scuola come me erano visti con sospetto o con compatimento e non legavano affatto con gli altri ragazzi il preside decise di dividerci il più possibile in un esperimento d’integrazione che fra tutti i gli analoghi esperimenti dai tempi di Luther King in poi avrebbe buone probabilità di condurre la classifica dei peggio riusciti.

 

Personalmente, affrontai la situazione andando a scuola il meno possibile compatibilmente col riuscire a superare l’anno; cosa fece Andrew Wells non ho idea, fatto sta che lo intravidi solo qualche volta nei corridoi ma non ebbi più occasione di pensare a lui fino al giorno del diploma quando a causa della confusione e della mancanza di organizzazione il mio nome – Peters – venne chiamato tra la V e la W invece che al momento giusto secondo l’ordine alfabetico. Andrew era là che aspettava il suo turno, con il suo cappello da diplomando di traverso sulla testa e anche se credo proprio che mi riconoscesse nonostante il mio look fosse alquanto cambiato, fece finta di niente; del resto né mio padre né sua zia né tantomeno i suoi genitori erano riusciti a trovare la strada per la scuola.

 

Nel caso di mio padre, l’espressione è da intendersi alla lettera perché pur essendo effettivamente partito, già alquanto alticcio, alla volta della scuola per assistere alla cerimonia di conferimento dei diplomi non riuscì mai ad arrivarci e dopo aver fatto tappa in un paio di locali finì invece per perdersi definitivamente dalle parti della pista di pattinaggio, dove c’era uno dei suoi bar preferiti.

 

– Taylor… Peters? – dice Andrew mentre si allaccia febbrilmente i bottoni della camicia; come se quel po’ di pelle bianca che ho intravisto potesse turbarmi o che so io. E ha anche la barba lunga, mentre al liceo sembrava proprio che la barba non si sarebbe mai decisa a crescergli.

 

– Andrew Wells – gli dico io – che ci fai qui?

 

– Mi lavavo – mi risponde cercando di pettinarsi i capelli umidi con le mani – C’è un magnifico bagno con una doccia e un grande asciugamano bianco, lo sapevi?

 

– Beh, c’è sempre stato – osservo – non ce l’hai un bagno a casa tua?

 

– Mai abitato insieme a due dozzine di ragazze? Non fai in tempo a chiuderti in bagno che qualcuno sta già bussando alla porta strillando che si sta facendo la pipì addosso.

 

– Due dozzine di che cosa, Andy? – gli chiedo utilizzando il nomignolo che gli davamo a scuola quand’era piccolo – Ragazze? Tu e due dozzine di ragazze?

 

Andrew mi aggira per andare a frugare negli armadietti alle mie spalle e la sua risposta mi giunge intervallata dal rumore degli sportelli che si aprono e si chiudono

 

– Sì, le Potenziali. – sbam – Cioè piccole Cacciatrici – sbam – Carine ma toste. – sbam – Possibile che nessuno abbia dimenticato un rasoio qui dentro? – sbadabam – Toh, cinquanta centesimi. – sbam – Ma niente rasoi.

 

– Cacciatrici? Ma non ce ne dovrebbe essere una sola, la Prescelta bla bla bla? –

 

Andrew interrompe la sua ricerca per occhieggiarmi sospettosamente.

 

– Sei tu o sei lui? – mi chiede all’improvviso con una punta di panico nella voce – Sei mica morta, Peters, per caso?

 

– Che cazzo dici? Sei diventato scemo? Cioè, sei diventato più scemo?

 

Improvvisamente mi balza davanti e mi punta un dito sotto la spalla, proprio all’incrocio fra quei muscoli che non ricordo come si chiamano: mi fa un male incredibile.

 

– Ahi – grido spingendolo indietro – Sei completamente pazzo?

 

Arretra sotto la mia spinta, sbatte rumorosamente un gomito contro uno degli armadietti e cade sul sedere, ma stranamente la cosa sembra tranquillizzarlo tant’è vero che si rialza e mi sorride tutto contento come se invece che una sederata sul pavimento gli avessi appena offerto una fetta di torta.

 

– Non sei il Primo! Mi hai spinto. E poi ti ho toccato, vero che ti ho toccato?

 

– Mi hai toccato? Mi hai fatto un buco. Cristo, Wells, possibile che siate tutti fuori di testa in famiglia? E poi, chi è il Primo e soprattutto: come potrei essere qualcun altro? – grido massaggiandomi la spalla.

 

– Ssh, stai attenta, non vogliamo attirare la sua attenzione, non è vero? – mi dice Andrew a voce bassa con un dito sulle labbra venendomi così vicino che posso sentire l’odore di sapone della sua pelle e dei suoi capelli.

 

Questa poi. Non puzza di alcool perciò non può essere ubriaco. Lo guardo più attentamente in cerca di segni evidenti di squilibrio mentale, ma mi sembra quello di sempre: occhi azzurri, lineamenti anonimi, sguardo gentile ma un po’ stralunato, orecchie alquanto a sventola. Mi accorgo adesso che con il passare degli anni sta emergendo una certa somiglianza con il Robin Williams di Mork e Mindy, ma non saprei dire se sia dovuta alla fisionomia o al personaggio.

 

– Di chi non dobbiamo attirare l’attenzione? – gli chiedo abbassando la voce. Forse è droga oppure delirio paranoico pure e semplice; in ogni caso dicono di assecondarli ed è quello che io faccio: assecondo.

 

– Del Primo – mi bisbiglia lui di rimando – Lui può essere dovunque!

 

Mi guardo attorno: lo spogliatoio della palestra appare del tutto deserto e nonostante le luci al neon che si riflettono sugli armadietti verdi gli diano un’area vagamente spettrale, non c’è nessun posto in cui qualcuno potrebbe nascondersi, a meno che un nanetto non avesse trovato rifugio proprio dentro uno degli armadietti in cui Andrew stava frugando fino a un momento fa.

 

– Adesso di solito viene da me come Jonathan – mi confida – ma una volta prendeva il corpo di Warren.

 

Non fossimo a Sunnydale, Bocca dell’Inferno, adesso sarebbe proprio arrivato il momento di fare una telefonata all’ospedale e chiedere l’urgente intervento di un paio di infermieri muniti di una camicia di forza e/o di un potente tranquillante; ma siccome siamo a Sunnydale comincio al contrario a vedere una logica nell’apparente delirio del mio ex–compagno di scuola.

 

– C’è forse in giro qualcuno che prende in prestito il corpo della gente? – chiedo sospettosa.

 

– Solo di quella morta – mi dice Andrew – il guaio è che io ne conosco un sacco di gente morta.

 

– Io ho visto Gladys – mi esce detto prima che riesca a evitarlo – sai, te la ricordi Gladys Tomason?

 

– Era il Primo – sentenzia Andrew – Gladys Tomason è morta in quell’incidente quattro anni fa. Non l’hai toccata, vero?

 

– Non ci ho proprio pensato: credevo che fosse un fantasma.

 

– Che ti ha detto? Voleva spingerti a fare qualcosa di malvagio?

 

– Gladys? Poveretta, a parte quel cretino in seconda media, non aveva mai fatto male a nessuno in vita sua.

 

– Il Primo fingendo di essere Gladys – mi chiarisce Andrew – Il Signore degli Inganni, il Compagno Infido…

 

Non so ho idea di chi siano questi personaggi e, conoscendo Andrew, non credo nemmeno che saperlo mi servirebbe a qualcosa, ma certo la vera Gladys non avrebbe avuto nessun motivo per parlarmi male di papà. Lei era rimasta affezionata al bravo papà che ci accompagnava al luna park e comprava a tutte e due palloncini e zucchero filato – il suo di padre era morto di cancro quando aveva tredici anni e se io le dicevo che era meglio non averlo affatto un padre che un ubriacone buono a nulla come il mio, le si riempivano gli occhi di lacrime e mi pregava di non parlare così.

 

– Sai, Peters – mi dice Andrew smettendo bruscamente di blaterare – anche se questo look dark ti dona non dovresti nascondere sotto di esso la tua vera natura.

 

Resto a bocca aperta guardandolo allontanarsi verso la palestra, poi faccio una corsetta e lo seguo. Prima di oggi Andrew Wells non mi aveva mai detto più di cinque parole di fila, forse un centinaio in totale se contiamo anche un litigio in seconda elementare per una gomma da cancellare a forma di fungo. Non che io abbia mai desiderato maggiore attenzione da parte sua, ma le cose sembrano molto diverse ora che facciamo parte entrambi della scarsa popolazione residua di Sunnydale.

 

Nella palestra vera e propria, diversamente che negli altri locali, sembra che sia passato un tornado: le cyclette e le altre macchine sono rovesciate, mentre i tappetini e gli altri aggeggi sono sparpagliati dovunque, tanto che nell’entrare metto il piede su una clavetta e rischio di fare un volo. Andrew sta radunando i tappeti in un mucchio sollevando nugoli di polvere che diventa d’oro brunito sotto i raggi del sole pomeridiano e mi fa venire prurito al naso. Questo naturalmente mi fa tornare in mente Sassassa.

 

– Senti, hai mica visto in giro per caso un demone mannaro con il pelo bianco e la pelle blu alto circa due metri?

 

– Nah. Supervampiri con la pelle spessa come quella degli elefanti. Portatori ciechi ma con una buona mira. Demoni amichevoli e inoffensivi con più pelle del necessario. Niente lupi mannari quest’anno. Tantomeno demoni mannari. Io sono capace di evocare i demoni, tu lo sapevi?

 

– Sei capace di evocare i demoni nel senso che li evochi o nel senso che vengono e cercano di mangiarti la testa? Scusa, Wells, ma io mi ricordo ancora di quando hai fatto saltare per aria il laboratorio di chimica.

 

– Non ero stato io. Lo sai benissimo, Peters, che i tre quarti degli incidenti che succedevano al liceo non erano incidenti. Ti sei mai chiesta com’è possibile che nessuno faccia mai caso al fatto che quando c’è in giro Superman, Clark Kent non è mai in circolazione. No?

 

– E questo che c’entra?

 

– Le persone vedono solo quello che vogliono vedere. Te lo ricordi quando gli insegnanti del liceo trovavano gli studenti dissanguati in mezzo al corridoio e dicevano “Oh, che orribile incidente, si è certamente sgozzato con il vetro del lucernario.”

 

– Non è più così. – No, non è più così. – ammette Andrew e si siede sul mucchio dei tappeti a gambe incrociate, così da sembrare un bizzarro genio pronto a volare via – Resta il fatto che noi siamo cresciuti tra gente che ci raccontava un mucchio di balle.

 

– Non ci credevamo. Non mi dire che tu ci credevi.

 

– Non lo so più.

 

Mi arrampico goffamente accanto a lui e dopo un po’ lui mi guarda e mi dice:

 

– Non credi che tutto sarebbe stato diverso se non fossimo nati qui?

 

– Come no. Saremmo ricchi e felici e in questo momento saremmo al college. Credo che a me sarebbe piaciuto andare all’UCLA, tu che cosa avresti scelto?

 

– Conosci la Payton?

 

– No.

 

– Non la conosce nessuno. È una piccola università con un ottimo corso di scienza delle comunicazioni.

 

– Va beh, tu alla cosa lì, allora, alla Playton. Facciamo che è venerdì pomeriggio, che cosa fai stasera? Torni a casa per il fine settimana o ti fermi al campus? Credo ci sia una festa, con molto da bere, e ragazze.

 

– Oh, ragazze. Maggiorenni e che non ti picchiano? Perché se sono maggiorenni e non minacciano di spezzarmi le gambe, è meglio.

 

– Lo sai, Wells? Tu devi aver frequentato uno strano genere di ragazze, ultimamente.

 

– Non ne hai idea. Comunque mi avevano preso.

 

– Chi?

 

– Alla Payton. Ma poi invece è andato tutto in malora.

 

– Cosa ti è successo?

 

– Io… io ho avuto sfortuna. Ma non parliamo di me, parliamo di te. Perché non te ne sei ancora andata?

 

– Ci ho provato l’anno scorso. Ma ho avuto sfortuna anch’io.

 

– Devi andare via di nuovo. – dice Andrew, poi come se si ricordasse all’improvviso che è un cretino, fa un sorriso storto e aggiunge: – Subito, prima che il ghiaccio invada Gotham City.

 

È sempre stato lo stesso con lui: proprio quando stai per pensare che tutto sommato è una persona normale, ti tira fuori una delle sue stupidate su Star Trek o su Batman.

 

– Un po’ di ghiaccio in questo momento non sarebbe una cattiva idea. E se ci fosse assieme un dito di bourbon sarebbe anche meglio.

 

– E in ogni caso qui sotto dovrebbe esserci fuoco, non ghiaccio – aggiungo dopo averci pensato su un momento indicando il pavimento col dito.

 

A dir la verità non sono sicura che l’Inferno si estenda fino a questa parte della città: dicono che la Bocca dell’Inferno si apra proprio dove hanno ricostruito il liceo ma io non ci ho mai creduto. A scuola ci hanno insegnato che Bocca dell’Inferno è solo la traduzione del vecchio nome spagnolo di questo posto, che si chiamava così perché si trovava molto vicino al deserto. Non fossi sulle tracce di un demone mannaro alto due metri che ha rubato tutti i miei risparmi sarei più disponibile a prendere per buona questa spiegazione. E anche il fatto che il signor Malone – l’insegnante di storia locale a cui la devo – sia misteriosamente sparito durante una gita d’istruzione alla missione spagnola è una circostanza che fa riflettere. Ritrovammo solo la sua torcia elettrica sulla rampa di scale che portava alla cripta sotterranea – la torcia elettrica e uno strano chiodo di metallo. A sentire George il chiodo era quello che il signor Malone aveva nel ginocchio fin dal 1976 dopo un intervento chirurgico per un infortunio che gli era occorso durante un incidente di pesca. George giurava che questa cosa glielo aveva detto sua nonna, la quale negli anni ’70 era infermiera proprio nel reparto di ortopedia. Certo, George giurava e spergiurava anche di amarmi e di essermi sempre stato fedele proprio la sera prima che Lois Grey scoprisse che aveva messo incinta sua sorella Selma, perciò non dovete prendere necessariamente le sue dichiarazioni sul signor Malone come oro colato.

 

– Secondo alcuni la parte più profonda dell’Inferno sarebbe fatta di ghiaccio – sta dicendo intanto Andrew in tono saccente – Ad esempio Dante Alighieri nella Divina Commedia…

 

– Dante che cosa?

 

– Alighieri, il poeta italiano medievale. Quello con il nasone, hai presente?

 

– Quello della pena del contrappasso? – dico io guadagnandomi uno sguardo compiaciuto da parte sua, come se fossimo a scuola e io avessi appena dato prova di essere la sua alunna più brillante. A dir la verità una delle clienti di Monsieur Alexandre una volta mi attaccò un tremendo bottone a proposito di questa storia di orribili delitti a imitazione delle pene infernali, quelle stesse descritte proprio nel poema antico, ma al momento non riesco a ricordare se si trattava di fatti reali o di un’invenzione. So solo di aver pensato che con la sua fantasia per i supplizi il signor Dante Alighieri si sarebbe proprio trovato a casa sua a Sunnydale, anche se i suoi demoni avrebbero forse un aspetto un po’ troppo ordinario in confronto a quello a cui siamo abituati qui.

 

– Senti, Wells, mi piacerebbe stare qui a parlare con te di letteratura antica…

 

– Medievale – mi corregge Andrew.

 

– Antica, medievale, quello che è. Ma io devo trovare il mio demone mannaro prima che faccia buio e vedo che anche tu hai da fare con questi materassi, a che cosa ti servono, a proposito? perciò…

 

– Magari più tardi torno a prenderli con il furgone. C’è gente che dorme sul pavimento a casa della Cacciatrice… – mi spiega Andrew in modo vago – Ma dimmi di questo tuo demone mannaro. Io potrei aiutarti a trovarlo. Credo. Sono uno dei buoni, adesso.

 

Lo guardo attentamente chiedendomi se posso fidarmi di lui; quello che mi fa decidere non sono tanto le sue dichiarazioni quanto il fatto che mi è difficile credere che Andrew Wells costituisca una minaccia per qualcuno. Succede con le persone che hai conosciuto quando avevano sei anni.

 

E anche che non ho la più pallida idea di come fare a trovare Sassassa. Male che vada, Andrew può portarmi da qualcun altro che sia più pratico di demoni di me. Quando ho finito di raccontargli di come è fatto Sassassa, Andrew sospira con ostentazione, dice qualcosa che non capisco su dei pennarelli colorati e conclude che possiamo provare ad evocare il demone.

 

A me all’inizio non sembra una bella cosa evocare il mio amico Sassassa come un demone qualsiasi e mi sento come se mi proponessero di far consegnare un mandato di comparizione a un vecchio amico. Ma sono tre giorni che batto Sunnydale a tappeto nonostante i rischi ricavandone solo un paio di storte e una serie di spaventi e non mi posso permettere proprio in questo momento di dire addio ai miei soldi insieme al mio amico Sfreyano. Perciò alla fine acconsento.

 

Io i demoni non li evoco, io li pettino: non saprei evocarne uno più di quanto un callista saprebbe estrarvi un dente. Ma sono nata e cresciuta a Sunnydale e anche se ho passato la maggior parte dei vent’anni della mia vita a fare finta di non sapere niente, una qualche idea su come funzionano queste cose me la sono fatta e sono praticamente sicura che servano candele di cera vergine e formule magiche in lingue arcane.

 

Perciò resto piuttosto sorpresa quando Andrew dispone per terra un circolo fatto di dodici clavette da ginnastica ritmica e usa la mia matita per le labbra per tracciare sul linoleum sintetico del pavimento dei segni magici che assomigliano in modo sospetto a quelli che comparivano in un episodio di Relic Hunter.

 

– Ci vorrebbe del fuoco… hai un accendino?

 

– Ho perso il mio quando sono stata aggredita dietro al Bronze.

 

– Uff, speravo di non dover usare il sangue. Mi sento male quando c’è di mezzo del sangue.

 

– Se vuoi usare il mio sangue, mi sento male anch’io.

 

– Speravo che… Pazienza: una goccia per uno – dice Andrew – Vedi di farti sanguinare qualcosa, Taylor. Non è che per caso, sì, insomma…

 

– No. – taglio corto io, poi mi viene un’idea – Va bene se mi tolgo una crosta dalla gamba?

 

Ieri mentre vagavo all’inutile ricerca di Sassassa ho messo il piede in uno dei molti buchi dei marciapiedi in pessime condizioni che abbiamo qui a Sunnydale e sono caduta procurandomi un ematoma al ginocchio e una scalfittura alla caviglia. Stamattina c’era una piccola tenera crosta, di quelle che quando le stacchi per sbaglio ti fanno un male dell’accidente e sanguinano un po’.

 

– Sì, sì: deve solo essere fresco, non importa che sia tanto. E nostro. Almeno, credo che non funzionerebbe con il sangue di qualcun altro. O forse…

 

– Non importa: tanto non vedo nessun altro qui pronto ad offrirci il suo sangue.

 

Mentre ci sediamo per terra davanti al circolo di clavette e ci impegniamo a tirar fuori qualche goccia di sangue più che due adulti coinvolti in pratiche magiche illegali sembriamo due ragazzini intenti a uno di quegli stupidi giochi che coinvolgono patti di amicizia eterna e case abbandonate e che di solito finiscono con cani ringhiosi e fughe in bicicletta.

 

Quando stacco delicatamente la crosta con la punta dell’unghia una piccola striscia di sangue cola calda e appiccicosa lungo l’interno della mia caviglia e macchia l’orlo del calzino; Andrew si dimostra più furbo di quanto immaginassi e si mordicchia l’orlo dell’unghia del pollice finché non riesce ad asportare una pipita.

 

– Ahi. Ecco fatto.

 

Ricordo che dicevo sempre a George di non essere disgustoso quando faceva cose del genere.

 

Andrew tira fuori dalla tasca un vecchio biglietto – mi sembra un biglietto dello zoo – e a turno lo usiamo come se fosse una paletta strofinandolo sulle nostre piccole ferite finché non è tutto macchiato di rosso sui bordi. Non mi sembra per niente una procedura igienicamente raccomandabile ma del resto evocare demoni di rado lo è. Mentre il sangue di Andrew è di un bel rosso rubino il mio è piuttosto sbiadito e tira sul rosa.

 

– Sei un po’ anem… – commenta lui e non so perché si interrompa come se non volesse dirlo: non è che ci sia da vergognarsi ad essere anemici.

 

Anzi. A Sunnydale è una caratteristica premiata dalla selezione naturale un po’ come certe malattie del sangue che proteggono dalla malaria o che so io e che perciò si sono diffuse in alcune popolazioni africane. Sempre che sia vero ciò di cui ho spesso sentito i vampiri vantarsi, cioè di saper distinguere a naso chi ha un sangue buono e nutriente dalle prede insoddisfacenti come la sottoscritta.

 

 

Sono così incredula che la cosa possa funzionare, che quando all’interno del circolo di clavette compare improvvisamente una grossa forma biancastra con un cono rosa shocking in cima la prima cosa che mi viene in mente è che il rivestimento di polistirolo del soffitto abbia ceduto trascinando il lampadario con sé e faccio un balzo indietro temendo istintivamente la scossa.

 

Poi mi vedo improvvisamente davanti il naso a palla e gli occhietti di Sassassa e capisco che Andrew – per quanto la cosa mi meravigli – deve esser riuscito nel suo intento.

 

– Tarantula – mi dice Sassassa in tono di rimprovero – Che cosa ti viene in mente di trascinarmi via in questo modo?

 

– Scusa tanto, ma tu non tornavi e io non sapevo più cosa fare.

 

– Beh, mi spiace – dice un po’ lusingato dal mio interesse – Chi è questo ragazzo?

 

– Mi chiamo Andrew Wells e sono un evoc… – si presenta Andrew tendendo una mano che però sbatte contro un’invisibile barriera – Cacchio, ormai la forza mistica si taglia con il coltello.

 

– Sei stato tu a farmi questo? – chiede Sassassa severamente – Credevo che questi giochetti fossero proibiti.

 

– Anche costringere gli abitanti di una città a lasciarla in massa dovrebbe essere proibito – obietto io acidamente.

 

– Ecco, a proposito: dove siamo? – chiede Sassassa girando la testa per osservare la palestra – Uhm, sono già stato qui con mio cugino quando gli serviva un portatore d’anello… Perché sei ancora a Sunnydale, Tarantula? Se proprio non volevi unirti alla colonia sunnydaliana di Frisco, potevi sempre andare a Cleveland. Anche se a questo punto persino Los Angeles sarebbe meglio di Sunnydale.

 

– Sei a San Francisco?

 

– Veramente sono a una festa di compleanno qui appena dopo il confine messicano – mi dice il mio amico Sfreyano svelando così la ragione per cui ha infilato sul suo grosso testone un cappellino rosa a cono con un ciuffo di stelle filanti in cima – ma stasera parto con questi amici. È stata una vera fortuna incontrarli: lo sapevi che gli autobus messicani hanno pochissimo spazio tra un sedile e l’altro?

 

– È vero – interviene Andrew – e non sono nemmeno tanto puntuali.

 

– Messico?

 

– Quell’imbrogliona di una strega era in spiaggia, ci crederesti? – si rabbuia Sassassa – Del resto, con i soldi che le ho dato in questi mesi, non mi meraviglia che si possa permettere un albergo a quattro stelle. Ma questa volta l’ho fatta aspettare insieme a me finché non ho provato l’antidoto, così almeno sono sicuro che non mi abbia rifilato un po’ d’acqua fresca come l’ultima volta. A proposito, Tula: spero di non averti fatto del male.

 

– È proprio questo il punto.

 

– Oh, no – si dispera il demone e si dà in testa in segno di rammarico una zampata che spappola il cappellino – Che cosa ho fatto questa volta?

 

– Praticamente mi hai rapinato, Sassassa.

 

– Non sono mai stato un ladro – replica un po’ adombrato.

 

Io lo rassicuro: – Credo che volessi solo uccidermi. Ti ricordi quando ho cercato di innaffiarti col tubo della doccia?

 

– Vagamente: devi capire che da un certo punto in poi vedo solo una specie di nebbia rossa, poi diventa tutto nero e quando mi sveglio starnutendo non ricordo quasi niente. Comunque era una buona idea quella di innaffiarmi quando ho cominciato a… ehm… trasformarmi.

 

– Lo sarebbe stata se il servizio dell’acquedotto non avesse subito un’altra interruzione – dico io scuotendo la testa.

 

Non è una circostanza a cui ripensi con piacere.

 

– Ce ne sono state tre anche ieri – conferma Andrew – la seconda proprio mentre lavavo i piatti. Che tra parentesi è una cosa molto scomoda da fare quando non c’è acqua.

 

– Non così scomoda come tentare di innaffiare un demone Sfreyano alto due metri che si sta trasformando in un demone mannaro sanguinario sotto i tuoi occhi con una rapidità mai vista…

 

– … lo so, lo so: sono gli effetti di quei fumi che escono dalla Bocca dell’Inferno – ci spiega Andrew.

 

– Sei scappata?

 

– Certo che sono scappata, se no non sarei qui a raccontarlo: mi sono anche rotta un tacco su quelle tue maledette scale di ferro. Ma prima che io riuscissi a uscire tu mi sei venuto addosso con tutti quei denti e quegli occhi spaventosi e il pelo tutto arruffato e…

 

– E? – mi chiedono Andrew e Sassassa col fiato sospeso.

 

– … e mi hai buttato per terra e hai addentato il mio borsellino rosso che avevo ancora in mano!

 

– I demoni mannari sono come i tori: quando vedono rosso non capiscono più niente – annuisce Andrew – E nemmeno prima, veramente. Sia detto senza offesa.

 

– Hai fatto un gran salto, Sassassa, sembravi un cane di quelli che si esibiscono al circo. Solo molto più grande e spaventoso. Non pensavo che potessi saltare così in alto.

 

– Ero un atleta da ragazzo – si compiace Sassassa – Ho saltato con il tuo borsellino rosso, quello in cui tenevi i soldi che avevi ritirato in banca?

 

– Sì, sei salito sull’armadio e stavi per… per…

 

– Ammazzarla? Stava per ammazzarla, signor Sassassa, vero?

 

– E io che ne so? Non mi ricordo niente.

 

– Me la sono vista così brutta che a momenti ci rimanevo secca per la paura, Sassassa, dannazione. Ma il peggio è stato che mentre ti dondolavi ringhiando su quell’armadio hai aperto la bocca e hai lasciato cadere il borsellino là in cima. Poi hai saltato mentre io strisciavo sul pavimento: solo che hai saltato troppo alto. Si vede che eri un atleta troppo bravo – non posso fare a meno di aggiungere un po’ malignamente.

 

– In che senso troppo bravo?

 

– Hai dato una capocciata sul soffitto e sei piombato giù come un masso.

 

– Ecco come mi sono procurato quel bernoccolo in testa – dice Sassassa – E così il tuo borsellino è ancora…

 

– … sul tuo armadio. In casa tua. E io ho solo dieci miserabili dollari in tasca. Anzi, nove dollari e venti centesimi.

 

– Tu non hai pensato a prendere le chiavi prima di uscire?

 

Non rispondo ma il mio sguardo deve essere eloquente perché Sassassa dice: – Certo, capisco, date le circostanze. Devo tornare a Sunnydale, vero?

 

– A meno che tu non mi dica come fare a entrare in casa tua. Oppure se hai ottocentocinquanta dollari da darmi. E me lo trovi tu un modo per lasciare Sunnydale con nove dollari e venti in tasca?

 

– Ottocentocin… Caspita, se ne fanno di soldi a pettinare la gente – osserva Andrew

 

– Wells, fammi il piacere: sono anni che lavoro. Tu hai mai lavorato un giorno in vita tua?

 

– Lavorato lavorato, non direi. Anche se tutto sommato sarebbe stato forse meno faticoso oltre che più onesto – ammette Andrew senza offendersi – Lo sa, signor Sassassa, credo proprio che lei dovrebbe tornare qui per ridare a Taylor i suoi soldi.

 

– Non ho bisogno che me lo dica tu, ragazzo – sospira il mio amico demone – Ci vediamo stasera davanti a casa mia, Tula. No, facciamo a casa tua: è più sicuro per te.

 

– E poi?

 

– Hai la patente?

 

– Certo.

 

– Ottimo, perché io avrò la macchina – mi annuncia Sassassa trionfante – Come faccio ad andarmene, ragazzo?

 

– Oh, sì, giusto. Alzi il braccio, non quello: l’altro. Adesso chiuda gli occhi. Tutti e due. Al mio tre, pensi intensamente a qualcosa di messicano. Frijoles, tortillas , asini: quello che vuole.

 

– Sto pensando a un sombrero, va bene? – ci comunica Sassassa a occhi chiusi e un attimo dopo non c’è più.

 

– Beh – dico io ad Andrew – immagino che dovrei ringraziarti.

 

– Certo che dovr… no, non importa. Noi buoni non andiamo a caccia di ringraziamenti, giusto?

 

– Mi hai fatto un grande favore, davvero. Non voglio certo restare a Sunnydale. E non capisco perché non te ne vada anche tu. Ma certo, perché non ci ho pensato prima? Vieni via stasera con me e Sassassa: abbiamo una macchina, l’hai sentito anche tu.

 

Andrew Wells mi guarda in silenzio mordendosi le labbra come se la mia proposta lo tentasse. Poi scuote la testa: – No. No. Non posso farlo.

 

– Si può sapere perché? Chi ti obbliga? Non mi sembra che tu sia incatenato a Sunnydale.

 

– Ora non più – risponde lui stranamente guardandosi le braccia come se si aspettasse di vederci attaccate delle robuste corde – però devo restare lo stesso con Buffy fino alla fine.

 

Oddio, un altro con la fissa della Cacciatrice?

 

– Devo restare. E molto probabilmente – fa una lunga pausa prima di dire piano – morire.

 

No, non sembrano le parole di un uomo innamorato; più quelle di qualcuno che è stato condannato a una pena eccessiva e crudele, come in quelle storie di braccialetti esplosivi e di esecuzioni capitali a casaccio.

 

– Ma…

 

– Senti, non ne parliamo. Davvero, Peters, per favore. Non è tanto brutto come sembra, lo sai? A volte penso persino che all’ultimo momento riuscirò a cavarmela.

 

Il modo in cui dice questa frase come sorridendo della sua ingenuità mi stringe il cuore: in questo momento non sta recitando nessuna parte, è il vero Andrew Wells quello che ho di fronte, come credo non l’abbia visto nessuno in quattro anni di liceo e raramente qualcuno in tutta la sua vita.

 

– E vuoi ridere? – mi dice con lo stesso tono di sincerità – Quello che mi dà più fastidio è morire senza Nemmeno prima, come dire?, esser stato con una ragazza. Perché io la ragazza non ce l’ho.

 

Forse quest’ultima dichiarazione di Andrew dovrebbe sorprendermi, ma onestamente non riesco a trovare niente di strano nel fatto che un ragazzo di vent’anni in ottima salute convinto d’incontrare a breve una fine violenta e prematura rimpianga di non essersi potuto fare almeno una bella scopata prima che sia troppo tardi.

 

– Se è solo per questo – rispondo senza pensarci affatto – se è solo per questo posso essere io quella ragazza per il tempo che basta.

 

Dal momento che di solito non vado in giro adescando ex–compagni di scuola non so proprio come mi sia venuta un’idea del genere: magari sono i fumi di cui parlava Andrew prima.

 

In quanto a lui, poco manca che faccia un balzo indietro per lo spavento: vedo distintamente passare nei suoi occhi la sorpresa e l’incredulità. Immagino proprio che Andrew Wells non sia abituato a ricevere avances .

 

Poi mi guarda. E io lo guardo. E succede. Quel momento in cui guardi un uomo negli occhi e ti rendi conto che vi state rendendo conto entrambi che lo potreste fare – e che se non sarete interrotti da un tornado o da qualche altro evento imprevisto e sconvolgente come un tornado quasi certamente lo farete. Quel miracoloso magico momento che vale tutte le seccature e i dispiaceri che ci si procura a frequentare i ragazzi, tutto il tempo perso a ridere alle loro battute scadenti e la sofferenza dovuta alle scarpe troppo strette e ai tacchi troppo alti.

 

– Forse non ho capito bene – dice Andrew anche se io so che in verità ne è già sicuro come ne sono sicura io – Io e te? Qui e adesso?

 

– Hai capito benissimo.

 

– Oh. Non te l’ho mai detto, Taylor, ma la sai una cosa? Quando avevo otto anni mi sono picchiato con Vincent Spencer per te.

 

– Vincent Spencer? Il figlio del droghiere? Ma se mi ha sempre odiato.

 

– Infatti lui diceva che eri brutta e antipatica e io non ero d’accordo. Non che tu fossi molto simpatica, ma io pensavo proprio che tu fossi la bambina più bella della classe.

 

– E com’è andata?

 

– Mi ha fatto un occhio nero. È lì che imparai che non ci si deve mai picchiare per le ragazze.

 

– Perché non l’ho mai saputo?

 

– Perché tu probabilmente mi avresti fatto nero l’altro occhio?

 

– Forse hai ragione – ammetto io e poi stiamo zitti tutti e due, un po’ incerti su come procedere.

 

“Sto per andare a letto con Andrew Wells” mi dico incredula. E mi sembra di sentire la risata argentina della mia amica Dolores “Andrew Wells? Ma sei diventata matta?” Beh, no. Chi se ne frega se Andrew è strano e ha passato gran parte dei suoi vent’anni a vivere in un mondo immaginario, se lo prendevamo in giro quando eravamo bambini e se fino a dieci minuti fa l’ipotesi mi sarebbe sembrata semplicemente assurda. A dir la verità, non sono nemmeno sicura che sia proprio eterosessuale – adesso come adesso mi interessa solo che sia tecnicamente maschio e che in questo momento mi stia guardando fino in fondo all’anima con i suoi begli occhi azzurri.

 

E che anche lui sia rimasto a Sunnydale ha creato fra di noi un legame che non ho mai sentito con nessun altro – non è un flirt e di certo non è un colpo di fulmine, non so bene quello che è. Disperazione. O il contrario della disperazione: ostinata speranza. Non lo so. Quello che so è che gli metto le mani sulle spalle e mi avvicino lentamente con il viso al suo collo fino a sentire il profumo di sapone e di cotone pulito che viene dalla sua pelle e dalla sua camicia mentre il suo mento mi sfiora i capelli – e poiché non lo ricordavo così alto mi viene da pensare che deve essere cresciuto ancora di un centimetro o due dopo la fine del liceo.

 

Ride nervosamente e mi sfiora la schiena con il palmo della mano; c’è un filo di luce tra i nostri corpi che entrano in contatto solo nelle zone sporgenti. Come ad esempio all’altezza dei miei seni.

 

– Senti, Taylor…

 

– Non lo vuoi più fare? – gli chiedo a bassa voce approfittando del fatto di avere il suo orecchio sinistro a portata.

 

– No, no. Sì che lo voglio fare – si affretta a replicare mentre mi conferma involontariamente la sua buona volontà con l’improvviso aumento della superficie di contatto all’altezza della sua cintura – Solo che io…

 

– Non l’hai mai fatto prima? Non c’è niente di male se non l’hai mai fatto prima. – dico io rassicurante come suppongo che si debba essere in casi del genere anche se in realtà sono un po’ spaventata.

 

La mia prima volta è stata con George e non è che lui fosse vergine: è persino difficile credere che per i tipi come George ci sia mai stata una prima volta.

 

Non mi è mai capitato di essere la prima donna di qualcuno e non so bene se dovrei considerarla una buona cosa o meno.

 

– No, ecco – Andrew sospira – a dir la verità, l’ho fatto ma ero così pieno di tequila che non mi ricordo molto.

 

– Tequila? – ridacchio pregustando una storia divertente.

 

Per essere sincera sono terribilmente incline a trovare divertente qualsiasi storia mi racconterà. Gli circondo il collo con le braccia allacciando le mani sulla sua nuca e accarezzando con le dita i capelli; adesso non c’è più spazio tra di noi e va molto meglio, ma devo alzarmi in punta di piedi per arrivare con le mie labbra all’altezza delle sue perché lui non sta collaborando e non piega il collo.

 

– Messico – mi spiega velocemente – C’era questa ragazza. Donna. Almeno ottanta chili. Rischio di soffocamento.

 

Che io ricordi, questa è la prima volta che sento Andrew esprimersi in modo conciso, anzi telegrafico.

 

– Allora ti farà piacere sapere che peso cinquanta chili scarsi. – ridacchio io – Nessun pericolo di soffocamento con me.

 

– Questo è un bene, credo – ammette lui, poi inspira come se dovesse tuffarsi e finalmente china la testa per baciarmi.

 

Non è la prima volta che io e Andrew ci baciamo. Triste a dirsi, l’abbiamo già dovuto fare davanti a venticinque ragazzi che ci incitavano in coro – per la precisione in prima liceo quando siamo arrivati ultimo e penultima alla gara di popolarità; però è sicuramente la prima volta che ci diamo dentro in questo modo, abbrancandoci l’uno all’altra come se fosse la fine del mondo. Ripensandoci, potrebbe anche essere perché è veramente la fine del mondo.

 

Se mi doveste chiedere di dare un giudizio su Andrew Wells come baciatore, non saprei proprio cosa dire tranne che almeno non è di quelli che sembrano volerti fare una tonsillectomia con la lingua, se capite quello che intendo. Ma il modo ad esempio in cui mi accarezza lungo i fianchi con molta lentezza come se volesse imparare a memoria il contorno delle mie costole è interessante e ancora più interessante è forse che riesca a non farmi solletico.

 

È proprio vero che a volte trovi il talento dove meno te lo aspetti.

 

Può darsi che compensi la scarsa conoscenza dello spartito con una discreta capacità di andare ad orecchio; o può essere che la probabilità di morte imminente gli abbia messo il fuoco nelle vene: ho sentito dire che succede. Mentre mi stringe fra le braccia passando le mani sul mio corpo io gli infilo una mano tra un bottone e l’altro della camicia all’altezza dello stomaco, e la sensazione della sua pelle calda e liscia sotto il mio palmo mi procura un piacevole brivido di anticipazione.

 

Senza smettere di baciarci con metodo ma senza eccessivo scambio di saliva e continuando a lasciare che le nostre mani facciano conoscenza con il corpo dell’altro, riusciamo anche a spostarci in diagonale attraverso la stanza in un modo che credo visto dal di fuori debba sembrare piuttosto buffo ma che al momento pare perfettamente adeguato alle circostanze.

 

Approdiamo così all’enorme materasso da palestra alto due palmi che sta sotto la finestra e dal quale si sprigiona una nuvola di polvere dorata non appena vi cadiamo sopra in un miracolo di coordinazione, fianco contro fianco, mancando per un pelo io il suo occhio con il mio gomito, lui il mio ventre con il suo ginocchio. Un po’ troppo soffice, ma sempre meglio del nudo pavimento.

 

Il momento in cui prendiamo fiato, ci guardiamo negli occhi e sorridiamo compiaciuti di noi stessi per essere stati così bravi è uno di quei momenti di assoluta intimità che valgono da soli una vita d’incontri occasionali, di storie finite male e di compagni di letto deludenti. Siamo io e lui, due perdenti nati, la piccola Taylor Peters che tutti hanno sempre trattato come uno zerbino e l’imbranato Andrew Wells che riesce invariabilmente a rendersi ridicolo; ma allo stesso tempo siamo anche le persone sagge, rispettate e valide che in fondo ai nostri cuori speriamo ancora di poter diventare.

 

Forse è proprio la saggezza a cui un giorno potrei aspirare a ricordarmi di chiedergli se ha un preservativo; e non so se sia più strano che Andrew Wells abbia effettivamente dei preservativi nel portafoglio o che io non ne sia niente affatto sorpresa.

 

– Ah, sì – dice alzandosi su un gomito per raggiungere la tasca posteriore dei jeans – sempre che Xander non li abbia presi tutti… no, eccoli qui. Ci crederesti? Il primo articolo a finire in città sono stati proprio i preservativi.

 

– Non mi meraviglia – ridacchio io – se tutto questo ha fatto anche agli altri l’effetto che sta facendo a noi.

 

– Potrei raccontartene di cotte e di crude a questo proposito – dice Andrew togliendosi le scarpe – ad esempio… ma non è il momento. Giusto?

 

– Giusto – concordo mentre armeggio con l’ultimo bottone della sua camicia e gliela sfilo da dosso.

 

Che cosa ci posso fare se ho sempre avuto un debole per i biondi dalla pelle chiara? Sembrano sempre così delicati, come se dovessero passare tutta la vita a dimostrare di non essere dei cherubini, e fare certe cose con loro mi ha sempre dato la piacevole sensazione di partecipare a una corruzione di qualche sorta. Una sensazione raramente giustificata dai fatti, perché George ad esempio era tutto tranne che un innocentino da corrompere, ma ognuno a questo mondo ha le sue debolezze.

 

Sta filando tutto liscio in modo sorprendente e devo proprio credere che gli stia tornando la memoria sulle sue avventure messicane perché sta mettendo le mani in tutti i posti giusti dando addirittura l’impressione di sapere quello che sta facendo; ma certo che quando mi slaccia il reggiseno usando una mano sola e senza nemmeno graffiarmi la schiena col gancetto non posso fare a meno di pensare che ha proprio ragione: se quello stesso Andrew Wells che era a scuola con me può riuscire a fare una cosa del genere al primo colpo, la fine del mondo dev’essere ormai questione di ore.

 

 

– La sai una cosa strana? Che quando sei cattivo non ti accorgi di esserlo.

 

– Io non credo che tu sia molto cattivo.

 

Andrew mi accarezza la spalla con un dito ma non mi guarda mentre parla.

 

– E ti sbagli, perché io non riesco nemmeno a dirti quello che ho fatto.

 

– Siamo a Sunnydale, giusto? Vai a letto con qualcuno e quasi sempre salta fuori qualche scheletro dall’armadio. E a volte lo scheletro non è nemmeno nell’armadio.

 

– Per me è diverso. – mi guarda con occhi molto più vecchi dei suoi vent’anni, poi ride fra sé e sé e aggiunge – Soltanto l’anno scorso avrei pagato oro per poter dire “per me è diverso”, come se fossi, non lo so… E invece adesso vorrei solo poter tornare indietro. Così non dovrei morire.

 

– Andy…

 

– Ma tu devi andare via da qui finché sei in tempo. Tu non hai ammazzato nessuno.

Non risponde.

 

Ladruncoli. Imbroglioni. Violenti. Un assassino finora mi mancava. Non so perché non mi tiro indietro e resto invece qui a lasciare che mi tocchi e mi sfiori la pelle con i suoi capelli; non so nemmeno che cosa stia facendo di preciso mentre tiene la fronte appoggiata sul mio seno finché una sensazione di umido sulla pelle mi fa sospettare che si sia messo a piangere. Onestamente non credo che siamo abbastanza intimi perché io possa chiedergli particolari o promettergli che non morirà: ci vuole ben altro che tre anni di scuola elementare e un po’ di sesso con in mezzo un buco di dodici anni per dire di conoscere veramente qualcuno o anche solo di volerlo conoscere. Ma c’è una cosa che posso fare per lui oltre che farmi sgocciolare le sue lacrime addosso, perciò faccio leva con le mani sulle sue spalle e scivolo verso il basso incuneandomi tra il materasso e il suo corpo finché non mi trovo più o meno sotto di lui, e tirandolo per i capelli gli sollevo la testa per guardarlo negli occhi.

 

L’ho già detto che mi piace il colore dei suoi occhi? Colore a parte, non sembrano gli occhi di qualcuno capace di ammazzare a sangue freddo e forse nemmeno quelli di uno che potrebbe uccidere per difendere la sua vita; ma naturalmente è solo un’impressione, altrimenti non si spiegherebbero tutte quelle storie truci che si vedono al telegiornale di bravi ragazzi che fanno a pezzi qualche parente con l’accetta tra la meraviglia dei vicini e lo stupore degli insegnanti.

 

Andrew cerca di girare la testa per non farmi vedere che sta piangendo ma io gli asciugo gentilmente le lacrime con un dito e poi lo abbraccio facendogli appoggiare il mento sulla mia spalla: sento i nostri cuori che battono più o meno all’unisono e un po’ mi sembra di sentire un orologio che scandisca solennemente gli ultimi istanti di questa città che ha visto nascere e crescere entrambi. Un po’ invece mi sembra di capire che non gli dispiacerebbe ricominciare daccapo e siccome non ho niente in contrario sto per chiedergli se vuole provare in un altro modo questa volta, visto che io non peso ottanta chili come la sua amante messicana e che lui mi sembra esattamente il tipo che non disdegna affatto essere quello dei due che guarda il soffitto. La prima volta mi è sembrato più prudente andare sul classico e devo dire che non se l’è cavata per niente male, molto meglio di certa gente che si crede chissà chi e poi alla prova dei fatti sembra un trapano umano più di ogni altra cosa. Certo, può darsi sia stato aiutato dal fatto che non gli ci voleva niente per distrarsi e pensare a qualcosa di poco piacevole, dal momento che si sente come se fosse un condannato nel braccio della morte; ma comunque sia non ho avuto niente di cui lamentarmi e sentendomi particolarmente generosa alla fine l’ho ricoperto di complimenti, facendolo arrossire in un modo che francamente mi è molto piaciuto.

 

Ma prima che io abbia il tempo di mettere in pratica i miei propositi, lui ricomincia a strisciare verso il basso facendo nel frattempo delle cose con le mani e con altre parti del corpo che risultano piuttosto piacevoli dal mio punto di vista e all’improvviso alza la testa e mi dice: – C’è una cosa che ho sempre desiderato fare…

 

Non so se sia imprudenza da parte mia, ma non penso affatto che sia venuto il momento in cui tirerà fuori l’accetta e comincerà a farmi a pezzi; e ad essere sincera mi riesce proprio difficile scontentare un amante così carino e volonteroso, soprattutto quando questo potrebbe essere il suo ultimo desiderio.

 

– Fai quello che vuoi, Andy.

 

E allora a riprova del fatto che qualche volta persino a Sunnydale fidarsi è bene, e anzi è anche meglio che non fidarsi, lui si tuffa fra le mie gambe facendomi solletico con la barba sulle cosce e comincia a dimostrarmi di essere in grado di fare con la lingua qualcosa di meglio che dire sciocchezze.

 

 

– Mi meraviglio di te, Taylor.

 

La voce, quella voce, interrompe il beato sonnecchiare in cui mi sto crogiolando. Mi alzo a sedere di scatto e la vedo: mia madre, con lo stesso vestito bianco a fiori del mio sogno, nel vano della porta.

 

– Dio mio, che cosa ci fai qui, mamma? – le chiedo mentre afferro i primi vestiti che ho sottomano per coprirmi; caso vuole che si tratti della camicia di Andrew e così mi alzo in piedi apparendo nella migliore tradizione della donna–che–ha–appena–fatto–sesso della televisione: con i piedi scalzi, le gambe nude e solo la camicia del partner addosso.

 

Il partner in questione, che fino a un momento fa sonnecchiava con la testa appoggiata sul mio stomaco e ora si ritrova improvvisamente senza cuscino, bofonchia, alza un braccio per guardare l’orologio e protesta – Che cosa succede? Accidenti, è tardi.

 

Stranamente la presenza di mia madre nella stanza non sembra preoccuparlo mentre recupera mutande e pantaloni dal pavimento, perciò gli do di gomito caso mai fosse un po’ miope e non avesse notato mia madre nella luce fioca del tardo pomeriggio. Ma lui invece mi rivolge uno sguardo addolorato e rassegnato al tempo stesso, come se fosse dispiaciuto ma non particolarmente sorpreso che io lo prenda a gomitate nello stomaco dopo aver fatto l’amore con lui: a essere sincera con quegli occhi azzurri e i capelli biondi tutti per aria è proprio carino e anche se la magia di poco fa è completamente svanita non sono per niente pentita di aver fatto quello che ho fatto.

 

– Andy Wells – deplora mia madre facendo un paio di passi nella nostra direzione – Lo sapevo che non avevi buon gusto con gli uomini, Taylor, ma credevo che anche tu avessi dei limiti.

 

– Il ruolo di genitore moralista non ti si addice molto, mamma.

 

– Cosa stai dicendo, Taylor? – mi chiede Andrew finendo di allacciarsi i pantaloni – Vorrei che mi restituissi la mia camicia. Anche se penso che questo sia il momento in cui dico che sta meglio a te che a me. Sebbene faccia un effetto stranissimo dirlo davvero. Cioè, quando lo senti dire al cinema non suona proprio nello stesso modo.

 

Non so se perché Andrew abbia ripreso a straparlare o per qualche altro motivo, ma mia madre ride. Io la guardo poi guardo Andrew.

 

– Tu non la vedi, vero?

 

– Chi? – mi chiede lui guardandosi attorno e strofinandosi gli occhi, ancora un po’ intontito dal brusco risveglio.

 

Forse sono diventata matta? Alzo debolmente un braccio a indicargli mia madre, che continua a ridere con le mani sui fianchi.

 

– Mia madre. È lì davanti alla porta. Sta ridendo.

 

Anche se sembrerebbe impossibile con la carnagione che ha, Andrew sbianca e mi afferra un polso – È lui. Non lo stare a sentire. È il Primo.

 

– È mia madre – protesto io debolmente cercando di liberarmi mentre lei scuote la testa con quella stessa aria indulgente e divertita che aveva davanti alle mie marachelle da bambina – Ha persino lo stesso vestito che…

 

– Dov’è quel vestito? Te lo ricordi? – mi dice Andrew senza lasciare ma anzi aumentando la presa sul mio polso.

 

So che non posso liberarmi senza prenderlo a calci e fargli veramente male: dopotutto è un ragazzo di vent’anni alto circa un metro e settantacinque con una muscolatura non appariscente ma adeguata, perciò mi concentro sulla sua domanda.

 

– L’ho dato io stessa alla Croce Rossa due, no, tre anni fa – ammetto mentre per qualche motivo mi si riempiono gli occhi di lacrime.

 

Forse perché mi piacerebbe che mia madre fosse venuta a Sunnydale per portarmi via, che mi dicesse che non mi devo preoccupare perché non so dove andare e che c’è e sempre ci sarà posto per me a casa sua a Detroit.

 

– Non dar retta a questo perdente, cara – dice mia madre – Sono proprio io, la tua mamma.

Ma non è la mia mamma perché la mia mamma non avrebbe mai usato la parola perdente, se non altro per l’ottimo motivo che siamo tutti dei perdenti in famiglia. Una lunga catena di perdenti che arriva a Coney Island e prosegue al di là dell’oceano fino ai miei perdenti antenati irlandesi, svedesi e turchi e non so cos’altro. Anche se credo che si potrebbe definire la nonna di mia nonna –un’autentica indiana Navajo – una perdente autoctona di questo continente.

 

Così questo è il Primo e deve proprio avercela con me perché ha già preso più volte per visitarmi le sembianze della mia amica Gladys.

 

Andrew mi fissa e mi accorgo che sta cercando di comunicarmi qualcosa senza parlare e senza farsi sentire da questa presenza che non può vedere ma che evidentemente lo spaventa a morte. Non so se sia questo pomeriggio di sesso che abbiamo condiviso oggi o piuttosto il fatto che siamo cresciuti tutti e due in questa città di merda e di menzogne, conducendo due vite parallele eppure legate dai fili sottili dell’inganno e della malafede degli adulti che ci hanno insegnato a nascondere la testa sotto la sabbia e a fare finta di niente invece che ad essere forti e coraggiosi; fatto sta che capisco perfettamente che mi sta suggerendo di mettere alla prova la finzione del Primo. Se non ricordo male, mi ha detto che è incorporeo e che non mi può fare altro male se non quello che deriva dalle parole. Mi infilo le scarpe sui piedi nudi e così come sono con addosso solo la camicia di Andrew mi dirigo decisa verso mia madre, anche se mi sento come quella volta che George mi convinse a portar via i mozziconi di candela dalla chiesa cattolica. Addirittura mi sembra di sentire nelle narici l’odore dell’incenso che ristagnava nella vecchia chiesa e non mi meraviglierei se da un momento all’altro saltasse fuori la decrepita e minuscola signora Gonzales invocando oscure maledizioni in spagnolo sulla mia testa sacrilega.

 

Prima che io riesca a giungere a portata di braccio, però, la mia sedicente madre si sposta dalla porta ridendo.

 

– La mia piccola Tommasa… – mi prende in giro – hai sempre voluto metterci il tuo nasino, non è vero? Ricordo ancora quando non volevi credere che ti saresti bruciata le tue piccole dita sul fornello…

 

Mi giro di scatto verso Andrew, che sta allacciandosi le scarpe con mani che tremano visibilmente e gli chiedo disperata: – Mi dice cose di quando ero piccola, Andy, cosa devo fare?

 

Non posso evitare che si senta il pianto nella mia voce: Andrew sembra imbarazzato e guarda da un’altra parte, ma mi dice lo stesso quello che ho bisogno di sentire.

 

– Lui sa tutto quello che sai tu…

 

– Tu non sei mia madre, tu sai solo quello che so io su di lei. – ripeto allora io a pappagallo.

 

Allora l’entità malvagia che sembra mia madre sbuffa e alza gli occhi al cielo esattamente come fa mia madre quando sente dire un’enormità e mi dice: – Se preferisci la strada più difficile, figlia mia… Fossi in te, io farei una lunga chiacchierata con quell’ubriacone buono a nulla di tuo padre.

 

Poi si gira verso Andrew, punta l’indice contro di lui e gli dice con un tono così carico di malvagità che non sapevo nemmeno che le corde vocali di mia madre fossero in grado di esprimere:– E tu, piccolo inutile idiota, aspettami: tu sarai presto tutto mio.

 

E mentre io e Andrew restiamo a guardarla a bocca aperta svanisce così rapidamente che entrambi ci strofiniamo gli occhi come quando non si riesce a credere a quello che si è visto.

 

Andrew stringe i pugni e impreca – un’imprecazione veramente oscena che mi meraviglia persino un po’ sentirgli usare – ed è così spaventato che non ho bisogno di essere un vampiro per sentire il suo cuore battere anche a questa distanza; ma poi mi guarda negli occhi con infinita pena e alza una mano verso di me come se volesse toccarmi ma gliene mancasse il coraggio.

 

E solo in quel momento mi rendo conto.

 

Il Primo può impersonare chiunque: purché si tratti di qualcuno che è morto.

 

Cerco di calcolare senza riuscirci l’ultima volta in cui ho parlato al telefono con la mamma. Tento di ricordare la data stampigliata sul francobollo della busta con cui mi ha mandato cento dollari per il mio compleanno. Ma non lo so, non lo so proprio. Io compio gli anni a febbraio e la busta mi è arrivata in ritardo, ma in ritardo di quanto non saprei dire. Forse era già marzo: due mesi fa.

 

Le lacrime mi riempiono gli occhi così in fretta che cominciano a cadere sul pavimento come se piovesse, tanto che per un attimo alzo gli occhi al soffitto perché non riesco a capire come possa piovere al chiuso; fra le lacrime vedo confusamente davanti a me la faccia addolorata di Andrew che muove le labbra senza parlare come in un film da cui abbiano improvvisamente tolto il sonoro.

 

– La mia mamma – sussurro mentre mi asciugo brutalmente gli occhi con la mano uno alla volta.

 

– Non… non lo sapevi? – mi chiede Andrew riuscendo finalmente a far uscire la voce.

 

Stranamente, è la simpatia che prova davanti alla mia sofferenza a darmi la forza di prendere delle decisioni: chiedere a mio padre se la mamma è morta, andare a casa, vestirsi. No, meglio in ordine inverso: restituire la camicia ad Andrew, recuperare i miei vestiti e indossarli, correre a casa prima che mio padre parta insieme al pastore Bliss come deciso.

 

– Io… devo andare. Subito.

 

– Certo, naturalmente. Anch’io devo tornare in quella casa, altrimenti manderanno una squadra a cercarmi.

 

Non so se sia ciò che voleva, ma questo riesce a farmi sorridere.

 

– Già: sei veramente indispensabile.

 

– Così mi dicono sempre – dice Andrew in un falso tono di falsa modestia che non è per niente inteso a risultare credibile.

 

Poi mi prende un polso e accarezzandomi gentilmente il palmo della mano aggiunge: – Veramente, sai… non vorrei che pensassero che sono scappato.

 

– Tu non sei di quelli che scappano, Andrew – dico con una sicurezza che mi accorgo con stupore di non aver bisogno di fingere.

 

– No, infatti: io sono troppo stupido per farlo – mi risponde lasciandomi andare il braccio con un profondo sospiro – Dimmi che lascerai questa maledetta città prima che puoi, Peters.

 

 

– Certo. E tu… ecco, tu stai attento, Wells. Non mi dispiacerebbe poterti rivedere un giorno o l’altro. Vivo.

6. Se qualcosa può andar male

 

“California is a garden of Eden,

A paradise to live in or see.

But believe it or not, you won’t find it so hot,

If you ain’t got the do re mi.”

Do re mi di Woody Guthrie

 

– È vero, Taylor, tua madre è morta.

 

Io mi siedo sulla sedia e mi afferro al bordo del tavolo, che a dire la verità è piuttosto unto, mentre tutta la saliva sembra abbandonare la mia bocca in un colpo solo.

 

Mio padre mi guarda allarmato – probabilmente anche il colore sulla mia faccia è andato nello stesso posto della saliva – e mi appoggia una mano tremante sulla spalla in un gesto di conforto che mi fa venire una voglia pazzesca di alzarmi e di correre via gridando a voce alta. Gridando che cosa e andando dove non so.

 

– No, no. Voglio dire che tua madre è morta undici anni fa.

 

La prima cosa che penso è che l’alcool gli abbia definitivamente bruciato il cervello. La seconda cosa che penso è che mio padre si sia messo a parlare per metafore, che conoscendo mio padre potrebbe essere solo una variante della prima. Insomma, che stia parlando per metafore perché è diventato matto come un cavallo.

 

– Ma che cosa cazzo dici? – rispondo di getto prima di ricordare che non bisogna mai contraddire i matti – Due anni fa era viva e vegeta: non ti ricordi che è venuta a trovarci?

 

Oddio, a trovarci trovarci magari no. Diciamo che ha bussato alla nostra porta e mi ha portato a fare un giro in macchina, ma non sono nemmeno sicura che mio padre l’abbia vista di sfuggita: era tardi e quasi certamente era già completamente immerso nel suo stupore alcolico. Non avrebbe notato l’Arcangelo Michele se si fosse presentato davanti a casa nostra con quattro metri quadri di ali e una spada fiammeggiante.

 

Con la puntigliosità che un tempo gli era abituale e che il più delle volte s’infrange ormai contro la difficoltà di esprimere la propria opinione quando si ha la bocca impastata e non ci si ricorda dal naso alla bocca, mio padre replica con calma: – Vegeta può darsi ma di certo non viva.

 

La mia mente registra con una certa sorpresa che la mia veemente reazione non ha innescato una tragedia familiare prima di soffermarsi sul significato della frase: che cosa significa, non viva?

 

– Non viva e nemmeno morta, Taylor – aggiunge mio padre prendendo una delle mie mani inanellate in una delle sue manone ruvide, calde e tremanti e all’improvviso sembra più sobrio di quanto sia mai stato negli ultimi undici anni.

 

Io guardo i miei anelli – uno dei quali sembra una bandiera dei pirati in miniatura – e mi chiedo perché mi metto addosso certa roba che solo a vederla mi fa venire da vomitare.

 

Quando morì il canarino Stella avevo credo sei anni. Fui io a trovarlo rigido e stecchito nella sua gabbietta, corsi piangendo dalla mamma e lei mi prese in braccio e mi spiegò dolcemente che purtroppo Stella era morto. E quando ebbe finito di spiegarmi che gli animali che teniamo nelle nostre case per farci compagnia a volte muoiono e noi non ci possiamo fare niente, io mi asciugai le lacrime e le chiesi: “Sì, va bene, ho capito che è morto: ma perché non canta?”

 

Ripensandoci col senno di poi quell’episodio – che i miei genitori avevano l’abitudine di raccontare ad amici e a parenti per farli sorridere della mia supposta ingenuità infantile – dimostra invece secondo me che quando sei nato e cresciuto a Sunnydale impari presto che il confine tra questo mondo e l’altro non è così ben difeso e invalicabile come si sarebbe portati a credere.

 

– Taylor? – mi dice mio padre dopo un po’ che sto zitta.

 

– Credo di aver capito, papà – rispondo io togliendo la mano dalla sua e ascoltando la mia voce con sorpresa come se appartenesse a qualcun altro.

 

E adesso che ci penso, lo è davvero la voce di qualcun altro, è la voce di mia madre, uguale e identica alla sua al punto che quando cinque anni fa la nonna morì d’infarto, credeva fosse proprio mia madre, e non io, a parlarle e a tenerle la mano fino all’ultimo. Mia madre non fece neppure in tempo a vederla viva. Adesso so anche perché: mia madre doveva aspettare che calassero le tenebre per poter fare la strada dall’aeroporto all’ospedale senza incenerirsi.

 

Come ho fatto a non capirlo? L’improvviso cambiamento del suo carattere, l’orario serale delle visite, l’abbigliamento inadeguato alla stagione, il pervicace rifiuto a mangiare qualsiasi cosa. Come ho fatto a essere così stupida, come hanno osato farmi fare per undici anni una tale figura da stupida?

 

– Perché cazzo non me lo avete detto? Non lei, non tu, mai, mai? Ci tenevate così tanto a convincermi che la mia mamma avesse preferito andare via piuttosto che restare con me? – le lacrime mi scorrono sulle guance e sento in bocca il sapore amaro di un rivolo di rimmel.

 

E poi mi accorgo di quello che ho detto. E penso che sono un’orfana da undici anni ma lo so soltanto adesso. In questi undici anni la donna di cui sono orfana ha continuato a venirmi a trovare e a offrirmi gelati, a mettere dollari in una busta e a spedirmeli per il mio compleanno, a telefonarmi per conoscere i miei voti a scuola e per sapere come è andata la gara di ginnastica ritmica. Una madre del cavolo, lontana e distante e che non mi ha mai chiesto di andare a vivere con lei a Detroit – e adesso si spiega perfettamente anche perché non me lo abbia mai chiesto – ma pur sempre una madre.

 

– Lei non voleva che tu lo sapessi – mi risponde mio padre.

 

– E allora perché me lo stai dicendo?

 

– Tu sei una donna ormai e a me non importa più quello che vuole e quello che non vuole lei – farfuglia mio padre tra le lacrime e io sono meravigliata perché non l’ho mai visto piangere da sobrio.

 

Ci asciughiamo gli occhi col dorso delle mani tutti e due, e non so la sua ma la mia trema così forte che rischio di infilarmi un dito in un occhio.

 

– Forse dovrei bere qualcosa – azzardo io e mio padre si alza barcollando, si sente un rumore di vetri che si scontrano e di sportelli che si aprono e si chiudono e poi eccolo che torna con una bottiglia di whisky piena a metà e un bicchiere pulito.

 

Tenendo la bottiglia con due mani mio padre versa il liquore mentre io a mia volta tengo il bicchiere con due mani; poi mi guarda mentre bevo a piccoli sorsi e sento l’alcool diffondere il suo calore nel mio corpo e riportare un minimo di chiarezza nella mia testa. Mio padre guarda la bottiglia ma invece di portarsela alle labbra come mi sarei aspettata la richiude accuratamente e la allontana da sé.

 

– Ti senti meglio?

 

– Sì, credo di sì. Temo di essere un po’ sconvolta.

 

Per forza che sono sconvolta: chi non lo sarebbe nel venire a sapere che sua madre è un vampiro ormai da undici anni? Ci sono molte domande che vorrei porre a mio padre e la prima che mi viene in mente è “È per questo che hai passato gli ultimi anni a bere fino a ridurti all’incoscienza?” ma non sono abituata a parlare con quest’uomo dei fatti veramente intimi e personali della mia vita o tantomeno della sua perciò alla fine gli chiedo invece di raccontarmi che cosa successe esattamente undici anni fa.

 

È una storia breve ma mio padre la rende ancora più breve e quando ha finito di esporre i fatti mi accorgo che non mi ha detto di preciso quando o dove accadde o se qualcun altro oltre a lui venne mai a sapere che la mamma era stata sorpresa da un vampiro sulla strada tra il lavoro alla tavola calda e casa. Mi dice solo che era inverno, che si faceva buio presto e che quello stronzo del padrone aveva minacciato di licenziarla se non si fosse fermata per un’ora ancora. Non so perché la mamma non avesse telefonato a papà sul lavoro per farsi venire a prendere in macchina o non cercasse di farsi dare un passaggio da qualcuno dei clienti. Forse aveva bisticciato con papà prima di andare al lavoro ed era arrabbiata con lui e il ricordo di quella stupida lite è diventato per undici anni l’unica compagnia di mio padre oltre alla bottiglia.

 

Magari aveva così paura di tornare a casa da sola con il buio da accettare un passaggio dalla persona sbagliata o addirittura di chiederlo lei stessa alla persona sbagliata.

 

A me sembra di ricordare che la mamma mancava di casa da due giorni prima che papà smettesse di cercarla negli ospedali e mi dicesse che era andata via, ma evidentemente papà riuscì a farmi credere per qualche tempo che lei era uscita prima che io mi svegliassi o che non era ancora rientrata all’ora in cui andavo a letto perché adesso mi dice invece che passarono diversi giorni prima che egli finalmente incontrasse di nuovo la mamma, o meglio quello che la mamma era diventata. A quanto pare era scappata dalla stretta sorveglianza del suo nuovo padrone – il vampiro che l’aveva resa una di loro – perché voleva vedere lui e voleva vedere me. La mamma non voleva il sangue di papà e tanto meno il mio: voleva solo continuare la sua vita di prima, quella che le avevano strappato, e così aveva già progettato di trasferirsi con noi in un’altra città, trovarsi un lavoro notturno e comprare il sangue dal macellaio. La mamma all’inizio non capiva che se papà avesse acconsentito né io né lui le saremmo sopravvissuti a lungo.

 

Quando mio padre arriva a questo punto del racconto piango così tanto che le palpebre mi pungono e mi fanno male, ma so anche dentro di me che la mamma aveva torto. Il giorno che fossi tornata a casa piangendo perché gli altri bambini facevano i prepotenti perché erano più forti di me, il giorno in cui papà al lavoro avesse preso uno strappo alla schiena che non voleva saperne di guarire, il giorno in cui lei stessa si fosse stancata di nascondere la sua vera natura al vicinato… prima o poi si sarebbe presentata l’occasione di renderci uguali a lei. E lei non avrebbe potuto fare a meno di coglierla.

 

Non so se mio padre sarebbe stato abbastanza veloce o abbastanza fortunato da riuscire a distruggere il demone che si era impossessato di sua moglie e consegnare così alla pace eterna la donna che amava.

 

Non so se non la uccise perché aveva paura di morire nel tentativo e di lasciarmi orfana anche di padre; o perché temeva che lei avrebbe colto l’occasione per andare avanti col suo piano primitivo; o semplicemente perché non se la sentiva di infilare un paletto nel cuore della donna che aveva sposato.

 

So solo – perché mio padre me lo dice adesso – che mia madre mentì al suo sire fin dal primo momento, dicendogli di essere divorziata e di non avere figli: i vampiri non sono meno sciatti o trascurati di noi esseri umani e dal momento che le loro facoltà soprannaturali non comprendono la lettura del pensiero è relativamente facile ingannarli.

 

Dovrei forse meravigliarmi che il primo istinto della mamma fosse stato proteggerci da quelli della sua specie, ma ho tagliato i capelli a troppi vampiri per illudermi che la loro malvagità non ammetta cedimenti; e so benissimo che Spike era ferocemente leale alla sua Cacciatrice molto prima di avere quest’anima che tutti tengono in così grande considerazione.

 

In ogni caso, i miei arrivarono ad un accordo che evitava al tempo stesso ceneri svolazzanti e gole squarciate: come tutti dicono che dovrebbero fare i genitori quando decidono di separarsi, pensarono innanzitutto al bene dei figli, vale a dire della sottoscritta, e si sistemarono come meglio potevano in una vita di bugie e di mezze verità.

 

Per questo alla fine la mamma si stabilì a Detroit, dove l’inverno è rigido, le notti lunghe e da dove è difficile tornare a Sunnydale senza che il viaggio tutto intero duri di più del breve spazio tra un tramonto e un’alba.

 

Un tempo mi veniva a trovare spesso anche se mio padre non la faceva quasi mai entrare; e quando a dodici anni presi la varicella dalla povera Gladys e stetti veramente molto male la mamma restò accanto al mio letto una notte intera tenendomi la mano calda di febbre con la sua mano fresca.

 

In quanto a papà, non ci lasciò un attimo da sole e solo adesso ne conosco il vero motivo: me lo posso immaginare con la paura che gli tiene compagnia per tutta quella lunga notte – la paura che la sua moglie vampira uccidesse la sua bambina e ne facesse un vampiro eternamente dodicenne – la paura e molto probabilmente anche un paletto di legno e una bottiglia di acqua santa nascosti sotto la sedia.

 

– Adesso che cosa farai? – mi chiede mio padre – Tra poco sarà qui il reverendo Bliss.

 

– Ho trovato un passaggio per Los Angeles, papà: non ti preoccupare. Quello che mi hai detto non cambia niente.

 

– Già, è vero. Che cosa dovrebbe cambiare? – dice mio padre guardandosi attorno per vedere se ha dimenticato qualcosa.

 

Mio padre ha già messo le assi alle finestre del pianterreno e ora sta controllando che siano ben assicurate così quando se ne sarà andato mi chiuderò dentro ad aspettare Sassassa come in un fortino. È strano che non mi venga neppure il mente il sospetto che il mio amico Sfreyano potrebbe non arrivare mai; tanto più strano perché se si trattasse di un altro essere umano invece che di un grosso demone coperto di pelo bianco sarei già qui a mordermi le mani per l’ansia e a chiedermi se ho fatto bene a fidarmi.

 

– Papà?

 

– Che c’è?

 

– Tu lo sai dove abita esattamente la mamma a Detroit?

 

Mio padre fa una breve e aspra risata e scuote la testa in un diniego: – I vampiri non abitano, Taylor. Credevo che lo sapessi. Comunque, no, non so il suo indirizzo e non so nemmeno se ne abbia uno. È sempre lei a telefonare o a scrivere.

 

 

– Questa sarebbe la macchina?

 

– Beh, che cosa ti aspettavi, una limousine?

 

– No, però non mi aspettavo una macchina della polizia.

 

– È un problema?

 

Il parco macchine della polizia di Sunnydale non è mai stato un granché e questa che ho davanti – una Chevrolet vecchia di quasi dieci anni bisognosa di una buona riverniciatura – non costituisce certo uno dei suoi esemplari migliori. Il profondo segno circolare sulla portiera del guidatore potrebbe essere dovuto o all’estremità di grosso tubo di cemento o al pugno di una creatura gigantesca, anche se è difficile dire quale sia l’ipotesi più ragionevole visto che ci troviamo dove ci troviamo.

 

– Dove sono le chiavi? Perché se ti aspetti che io riesca a fare quel giochino con i cavi…

 

Con un sorriso che va da una parte all’altra del suo faccione peloso Sassassa esibisce orgogliosamente un mazzo di chiavi che tira fuori dal borsello con cui si è presentato alla mia porta di casa venti minuti fa.

 

Ammetto che nonostante la situazione non proprio comica, l’ora tarda e un’aria da imminente tragedia così fitta che si poteva tagliare con il coltello, vedermelo davanti con il borsello a tracolla sulla spalla destra, un innaffiatoio verde da venti litri nella mano sinistra e uno zaino arancio fosforescente sulla schiena – tale e quale il personaggio di un cartone animato per bambini deficienti – mi ha provocato un irrefrenabile attacco di ilarità. Sassassa si è offeso al punto che mi sono dovuta trascinare da sola la mia borsa da viaggio per quasi un intero isolato prima che me la portasse via dalle mani brontolando che se avessimo continuato a camminare così piano non saremmo arrivati mai.

 

– Oh. Dove hai preso quelle chiavi? No, aspetta, non lo voglio sapere.

 

– Non penserai che le abbia rubate? – mi chiede indignato.

 

In effetti non penso certo che un demone bianco alto due metri vada in giro borseggiando poliziotti né che si introduca furtivamente nell’autorimessa della Polizia di Sunnydale, tantomeno con quell’enorme zaino sulle spalle che brilla nella notte come un giubbotto ad alta visibilità; d’altra parte non sarei eccessivamente meravigliata se scoprissi invece che queste chiavi sono un’altra delle molte cose che il mio amico si è ritrovato misteriosamente addosso dopo un episodio di mannarismo.

 

– Ma certo che no, Sassassa – rispondo girando attorno alla macchina per vedere se ci sono altri danni – Sai perché l’abbiano lasciata qui? Sei sicuro che vada?

 

– Ti dico che funziona perfettamente – risponde Sassassa che nel frattempo ha aperto il bagagliaio e ci sta buttando frettolosamente dentro i nostri bagagli – Li ho visti quando l’hanno portata qui.

 

Le chiavi non servono per aprire la portiera dal momento che la serratura non funziona, probabilmente in seguito al medesimo colpo che ha lasciato quelle vistose tracce sulla carrozzeria, e ce ne vuole del bello e del buono per sbloccare il meccanismo di avanzamento del sedile e spingere quest’ultimo in avanti finché non riesco a raggiungere i pedali con i piedi: l’ultima persona che ha guidato questa macchina doveva essere molto alta. Aveva anche rovesciato qualcosa di appiccicaticcio sul volante e con questo buio posso solo sperare senza esserne certa che di tratti di aranciata uscita da una lattina piuttosto di qualcosa di più sinistro e magari collegato al medesimo incidente che ha provocato quei segni sulla portiera.

 

Dopo essermi sistemata infilo la chiave d’accensione e sono così abituata agli imprevisti negativi che il dolce ronzio con cui il motore si mette immediatamente in moto mi lascia genuinamente sorpresa.

 

– Visto? – mi dice trionfante Sassassa piegandosi praticamente in due per potermi parlare attraverso il finestrino – Cosa faccio della benzina?

 

La spia sul cruscotto indica che il serbatoio è pieno per un quarto e quindi non c’è urgenza di riempirlo; d’altra parte non vedo nemmeno motivo di partire portandoci dietro del liquido altamente infiammabile in un contenitore di fortuna, perciò spengo il motore e scendo dalla macchina per fare il pieno.

 

Per il momento non ho ancora fatto niente di illecito, sto solo rifornendo un’auto della polizia che non è neanche chiusa a chiave: in pratica, si potrebbe quasi dire che sto beneficando le autorità di Sunnydale.

 

Tra quello che ha portato Sassassa nell’innaffiatoio e l’avanzo della latta che c’era in fondo al mio garage, testimone di un’epoca in cui la famiglia era ancora motorizzata, ce n’è abbastanza per arrivare a più della metà della capacità; ora mi resta solo da sperare che il puzzolente liquido che Sassassa ha trovato nel capanno degli attrezzi oltre ad avere l’aspetto e l’odore della benzina ne abbia anche le note proprietà combustibili e non sia invece qualcosa che ci farà restare a piedi o peggio ancora ci farà saltare per aria sul più bello.

 

– Erano due, sono arrivati e sono scesi. Io ero su quella panchina là, ma loro non mi hanno notato – mi confida il demone Sfreyano indicando il giardino pubblico di fronte.

 

– OK, ecco fatto – dico girando il tappo del serbatoio nella sua sede – Erano poliziotti?

 

– Non erano in divisa, a dir la verità – riflette Sassassa girando intorno alla macchina per sedersi al posto del passeggero – Ma che cos’altro avrebbero dovuto essere? Scendevano da una macchina della polizia e uno aveva le chiavi in mano.

 

Apre la portiera e guarda dentro: – Io non credo di starci, Tula.

 

– Ma sì, basta tirare indietro il sedile – dichiaro io ottimisticamente – E poi che cosa hanno fatto?

 

– Sono andati via parlando tra di loro. E passando di fianco al cestino della spazzatura quello che aveva le chiavi ha fatto un movimento come se stesse buttando via qualcosa.

 

– Le chiavi? Io tengo la leva tirata, tu spingi il sedile indietro.

 

– Sì, non so proprio che cosa mi abbia spinto ad andare a controllare nel cestino dei rifiuti. Ahia, Tarantula, stai attenta: mi è rimasto il pelo incastrato nel meccanismo.

 

Secondo me non sono i due metri di statura totale il problema, quanto l’enorme sproporzionato torso e il testone che si incastra sotto il tettuccio della macchina, per non parlare dei due zamponi anteriori – non mi sentirei di chiamarli braccia – e in particolare di quell’ammasso di carne e di muscoli che si trova proprio nel punto in cui la spalla si articola sul busto.

 

– Sai una cosa Sassassa? Sono sicura che ti avrebbero dato le chiavi se solo tu gliele avessi chieste.

 

– Davvero? – mi dice il mio amico Sfreyano dando allo schienale del sedile una manata.

 

Questo si abbassa sì completamente ma produce anche un sinistro scricchiolio.

 

Sembra proprio che Sassassa abbia riflettuto molto seriamente sull’opportunità di questo prestito forzoso ai danni della polizia di Sunnydale.

 

– Sai – mi confida infatti cercando di entrare nella macchina di traverso – veramente lo penso anch’io che non avrebbero niente in contrario se prendessimo la macchina in prestito. E sai perché? Perché avevano l’aria di essere persone di buon cuore, ecco perché.

 

 

I sobborghi di Sunnydale sono una cosa strana: proprio quando pensi di esserti lasciato alle spalle l’ultima villetta e di essere a un passo dalla superstrada che scende a Sud verso Los Angeles, ecco che ti ritrovi in un altro quartierino di casette a basso costo con davanti i loro portici bianchi e i loro giardinetti ben curati. Se devo giudicare dalla completa assenza di luci alle finestre o gli abitanti sono tutte persone fortunate che si stanno facendo una bella notte di sonno senza essere interrotti da neonati piangenti o da denti doloranti o da coniugi scansafatiche e nottambuli oppure se ne sono andati in massa lasciando di guardia soltanto i nanetti di gesso nei giardini.

 

– Cribbio, siamo ancora a Sunnydale! – esclamo seccata vedendo i contorni delle case alla luce dei lampioni – Questa città sembra non finire mai.

 

– Come vorrei non vederla più – sospira Sassassa alzando il testone per occhieggiare dal finestrino.

 

Quasi che la sua Fata Madrina stesse solo aspettando il momento di esaudire i suoi desideri, non ha ancora finito di parlare che la luce dei lampioni si spegne e l’intero quartiere piomba in un buio fitto e sinistro nel quale restano solo i fari della nostra macchina ad aprire uno squarcio a forma di cono.

 

– Cribbio – ripeto io in tono significativo.

 

– Non sono stato io – si difende Sassassa come se io potessi pensare che lui tenga nascosto nel suo borsello un congegno con cui può accendere e spegnere le luci di Sunnydale a suo piacimento.

 

– Certo che no. Adesso finalmente stai comodo? – gli chiedo girandomi a dargli un’occhiata.

 

– Abbastanza – dichiara il demone Sfreyano – Ma questo sedile qua dietro è veramente lurido.

 

– Puoi sempre toglierlo e buttarlo via proprio come hai fatto con quello davanti.

 

– Spiritosa – brontola Sassassa. – Ehi, Tula – aggiunge come colpito da un’idea improvvisa – Ce l’abbiamo la sirena?

 

– Pensavo che l’idea fosse quella di non farci notare – osservo temendo che cominci a schiacciare pulsanti a caso con le sue zampone come ha fatto prima con la radio.

 

Menomale che dalla centrale non ci ha risposto nessuno, sempre naturalmente che la completa latitanza delle forze dell’ordine in tutta Sunnydale si possa considerare un buon segno.

 

– OK, adesso dovremmo esserci – dico rallentando per non rischiare di perdere lo svincolo per l’autostrada e finire invece in mezzo al deserto.

 

– Menomale – osserva Sassassa rigirandosi sul sedile per guardare attraverso il lunotto posteriore gli ultimi segni della città che ci stiamo lasciando alle spalle e io istintivamente serro le mani sul volante perché la macchina ha ondeggiato sotto il suo peso come se fossimo su una barca in mezzo all’acqua invece che su un veicolo in mezzo alla strada.

 

Se non ricordo male, da questo punto in poi non ci sono più case in vista fino al prossimo paese e l’unica cosa che incontreremo è una stazione di servizio che sarà certamente chiusa, poiché mi risulta che non sia stata rifornita da almeno una settimana.

 

 

– Vai più forte, Tula.

 

– Scherzi? Con questo buio non vedo un accidente e rischiamo di…

 

– Mi spiace dovertelo dire ma abbiamo una macchina dietro – mi interrompe il demone.

 

– Eh? – esclamo incredula, perché fino a questo momento il nostro viaggio si è svolto attraverso strade completamente deserte.

 

Cerco di sbirciare nello specchietto retrovisore ma Sassassa è troppo grosso e mi impedisce la visuale.

 

“Beh” penso ottimisticamente cercando di non perdere di vista la strada nonostante mi sia quasi venuto un colpo “Forse non sono stata proprio l’ultima a lasciare Sunnydale, forse…”

 

– E una davanti – aggiunge il demone inferendo un colpo pressoché mortale al mio ottimismo.

 

Veramente quella davanti non è una macchina ma è un furgone; ma non mi sembra il momento di discutere l’accuratezza della definizione con un demone Sfreyano che nel suo mondo si sposta solo per via d’acqua.

 

È un mondo molto umido, o almeno così mi dicono.

 

E non è neanche esatto dire che abbiamo un furgone davanti a noi, perché questo farebbe pensare che stia procedendo nella nostra stessa direzione di marcia: invece no, il furgone si sta muovendo attraverso la strada come se ci fosse un incrocio o come se stesse compiendo un’improvvisa inversione a U. Solo che qui non c’è mai stato un incrocio e nel momento stesso in cui sono costretta a una brusca frenata per evitare lo scontro mi rendo conto che anche l’ipotesi dell’inversione di marcia è infondata e che questo è esattamente ciò che temevo, cioè un agguato.

 

– Cribbio – dice Sassassa.

 

Il mio primo istinto è quello di chiudermi dentro la macchina e di conseguenza passo qualche prezioso istante a combattere inutilmente con la sicura dello sportello prima di ricordarmi che la serratura è rotta.

 

Subito dopo l’automobile che ci stava seguendo – un grosso fuoristrada scuro – ci viene addosso con un boato come se avesse rotto i freni o non ci avesse visto o meglio ancora come se fosse proprio quello che il guidatore aveva in mente: io vengo sbattuta bruscamente in avanti mentre la cintura di sicurezza mi impedisce di sbattere contro il parabrezza ma mi toglie il fiato e Sassassa, che non è agganciato perché la sua corporatura non rientra certo nei parametri d’impiego delle cinture di sicurezza, viene catapultato dal sedile posteriore direttamente contro il vetro, lo sfonda e finisce sdraiato a pancia in giù con le gambe dentro la macchina e la parte superiore del corpo allungata sul cofano anteriore.

 

La prima sensazione che registro è il contatto del ginocchio destro con il fusto del volante; poiché credo di aver preso anche una discreta botta al gomito sinistro ho il tempo di meravigliarmi di non avvertire il lancinante dolore che di solito segue infortuni del genere prima di capire che evidentemente il mio cervello è così bloccato dalla paura che le sensazioni provenienti dalla periferia del mio corpo non riescono ad arrivargli.

 

Sassassa, che invece non sembra afflitto dallo stesso tipo di problema, sta alternando lamenti inarticolati a parole che non capisco, con ogni probabilità imprecazioni nel suo linguaggio nativo, che almeno a giudicare da ciò che sento deve offrire un ampio ventaglio di opportunità in merito.

 

– Sassassa, ti sei fatto male? – gli chiedo a bassa voce mentre cerco di liberarmi dalla cintura di sicurezza.

 

– Secondo te? – ritorce lui agitando tutte e quattro le zampe nel tentativo di rientrare in macchina – Non capisco che cosa vo…

 

– Ma guarda un po’ chi si vede – viene da fuori una vocetta stridula e maligna.

 

La mia portiera viene aperta bruscamente e mi ritrovo con la luce di una torcia sparata in faccia.

 

– Vieni fuori, brutta strega.

 

“Oh mio Dio, di nuovo i piccoletti” è il mio primo pensiero.

 

Il secondo è che evidentemente sono salita nella loro considerazione se sono passata da troia a strega.

 

Anche se non penso che questo strega sia da intendersi alla Willow Rosenberg quanto in un senso molto più popolare e prosaico.

 

Il terzo non faccio in tempo a formularlo – il che se vogliamo è anche un bene – perché mi tirano fuori dalla macchina strappandomi letteralmente dal mio posto mentre la cintura di sicurezza cede finalmente con un plop dimostrando che in fondo ci voleva solo un po’ di buona volontà.

 

Sono tre anche questa volta, così somiglianti al terzetto dell’altra volta che penserei che siano gli stessi se non sapessi quello che è successo dopo il nostro ultimo incontro; quando abbassano la torcia per sbattermi con il mento contro la cornice superiore della portiera mentre mi tengono le mani dietro la schiena riesco a vedere abbastanza per capire che un altro dei loro è rimasto sul furgone, seduto al posto di guida; posso anche sentire che ha acceso l’autoradio e che sta sparando musica country a tutto volume.

 

Anche se non è la prima volta che penso di stare per morire, potrebbe essere la prima volta che la colonna sonora è perfettamente adatta alla circostanza, e mi vergogno a dire che questa constatazione è sufficiente a farmi inumidire gli occhi di lacrime di autocommiserazione. Pensandoci meglio dover sentire questa roba sarebbe già di per sé un buon motivo per piangere. Un altro potrebbe essere il modo in cui questi disgraziati mi stanno torcendo i polsi.

 

Visto che sono appoggiata alla carrozzeria della nostra macchina – anche se preferirei non doverlo fare col mento appoggiato sul bordo affilato della cornice sopra la portiera – posso sentire distintamente l’ampio assortimento di scricchiolii e di gemiti che accompagnano l’impresa con cui il mio amico Sfreyano si rialza; penso anche che sia una mossa intelligente da parte sua mettersi in piedi sul cofano anteriore così da troneggiare su questi piccoletti, o per meglio dire lo penso finché la lamiera non comincia a cedere sotto il suo peso, lui perde l’equilibrio e rotola giù dalla parte opposta della macchina come uno di quei grossi pupazzi pubblicitari che si montavano una volta alle fiere agricole. Solo facendo cento volte più baccano.

 

– Te la facciamo pagare, schifosa bestiaccia – grida un demonietto punzecchiandomi la spalla con uno di quei loro coltellini da Barbie che conosco così bene.

 

Sebbene sappia per esperienza che la loro capacità di insultare lascia molto a desiderare sia per varietà che per precisione, immagino proprio che dicendo bestiaccia si riferiscano a Sassassa.

 

– Prendilo, prendilo – incita un altro.

 

La voce proviene da dietro la nostra macchina, quindi deduco che ne siano scesi degli altri dal fuoristrada che ci ha tamponato; giro cautamente il collo e cerco di capire quanti sono in tutto: tre qui con me, almeno uno sul furgone e altri quattro alle prese con Sassassa. È facile per loro prendere un furgone o un fuoristrada e ammucchiarsi dentro, bassetti come sono e con quelle gambette corte che non portano via spazio: avrei voluto vederli se ci avessero dovuto sistemare uno o due demoni Sfreyani.

 

Sassassa ringhia ma è inutile sperare che si stia trasformando: evidentemente questa volta la signorina Madison non gli ha rifilato una patacca ma buon antidoto antidemoni mannari Sfreyani testato e certificato e anche se non ho mai capito un acca del complicato sistema Sfreyano per misurare il tempo credo che manchino come minimo delle ore alla prossima coincidenza astrale in cui potrebbe scatenarsi un attacco di mannarismo. E per quanto i nostri assalitori non brillino per sagacia, dovrebbero essere veramente più stupidi di ogni ottimistica previsione per pasticciare con la linea temporale anche questa volta.

 

Anche se non posso vedere che cosa stanno facendo al mio amico che è rotolato sulla strada dalla parte opposta, i miei guardiani, oltre che a punzecchiarmi qua e là con la punta dei loro coltellini come una torta di cui si voglia saggiare il grado di cottura, sono così gentili da tenermi aggiornata sull’andamento dell’operazione scambiando incoraggiamenti e consigli con i compari che stanno riducendo Sassassa all’impotenza. All’inizio il mio amico demone non sembra molto d’accordo a lasciarsi immobilizzare e cerca di sfruttare a proprio vantaggio l’enorme superiorità fisica; né si dimostra pronto a ridursi a più miti consigli quando uno dei suoi assalitori si arrampica sul tetto della macchina e comincia a picchiarlo sul testone con il cric – del resto so per esperienza che Sassassa ha la testa straordinariamente dura tant’è vero che c’é voluta tutta la forza di un vampiro armato di vanga per metterlo KO durante il nostro primo incontro.

 

E dal momento che anche ora, nonostante sia molto meno forte così che nella sua versione mannara, Sassassa si sta difendendo validamente e sembra quasi poter prevalere, gli incitamenti dei demonietti si moltiplicano sovrastando quasi la musica country, per non parlare del flusso ininterrotto di insulti con i quali continuano a questionare sulla mia moralità e a promettere che mi dovrò pentire, anche se non ho ben capito di che cosa esattamente, dal momento che non sono certo stata io a programmare questi nostri spiacevoli incontri e mi sembra un po’ ingeneroso che se la prendano con me solo perché ho cercato di salvarmi la pelle.

 

Poi mi trascinano via dalla macchina e mi fanno inginocchiare per terra in modo che Sassassa veda mentre mi puntano un coltello alla gola e allora mi rendo conto che così come sospettavo il gioco leale non é una delle loro priorità.

 

– L’hai capito che sgozziamo questa baldracca se non stai buono? – grida a Sassassa quello che forse è il capo della spedizione o forse solo quello che ha la treccia più lunga.

 

So di parlare contro il mio interesse e soprattutto contro quello della mia gola, ma a questo punto se fosse furbo Sassassa direbbe che per quanto lo riguarda possono anche affettarmi come un salame o punzecchiarmi come un puntaspilli – cosa più probabile visto le armi che hanno a disposizione – perché a lui la mia sorte è del tutto indifferente; invece la sua tipica cavalleria Sfreyana lo frega e non riesce a pensare a niente di meglio che ad afferrare per il collo quello che ha appena parlato e a tenerlo sospeso a un metro da terra mentre squittisce e diventa cianotico.

 

– Ah sì? E se voi non la lasciate andare io gli spezzo il collo – replica Sassassa e tra il pelo tutto arruffato della sua faccia si può ora distinguere un fiero cipiglio guerresco – Che mi dite adesso?

 

Certo, se anche in questa versione eroica non continuasse a sembrare un pupazzo per bambini giganteschi l’effetto sarebbe migliore; ma il tizio che pende dalla sua manona, e che si sta afflosciando a vista d’occhio a partire da quella specie di proboscide che ha sulla fronte, non mi sembra molto attento a certi dettagli e agita le sue braccine corte per far capire ai compagni che vedrebbe di buon occhio una trattativa.

 

– Che cosa proponi? – chiede rialzandosi da terra uno che finora non ha ancora parlato forse perché era troppo occupato a rotolare sull’asfalto mentre Sassassa lo prendeva a calci.

 

Io vorrei suggerire a Sassassa di chiedere che ci lascino andare via tutti e due offrendo in cambio del denaro – sto pensando ai miei ottocento dollari che mi ha restituito poco fa e che sono nascosti in un calzino dentro alla mia borsa da viaggio – ma ho appena cominciato a dire “Sass…” che un manrovescio mi chiude la bocca.

 

– Lasciala stare – protesta subito Sassassa tutto preso dal suo ruolo di paladino e per meglio sottolineare le sue parole scrolla il suo ostaggio da una parte all’altra come un barman che stesse preparando un cocktail. Sbaglierò, ma mi sembra che vada persino a ritmo con la musica.

 

Poiché sembra che il mio intervento nella trattativa non sia gradito sto zitta; ma non credo proprio che tutto questo finirà molto bene per nessuna delle parti implicate.

 

Forse i demonietti sono stanchi di farsi picchiare da Sassassa o forse hanno solo fretta di andarsene e di portarlo Dio solo sa dove. Può anche essere che non abbiano dei progetti precisi sul mio conto o che la noia di insultarmi sempre allo stesso modo cominci a farsi sentire: fatto sta che così rapidamente come tutto questo è cominciato altrettanto rapidamente finisce. L’ostaggio viene rimesso a terra, Sassassa costretto a salire sul fuoristrada che ci ha tamponato e che ha riportato nello scontro solo danni modesti; i demonietti cercano di aprire il baule della nostra macchina ma è così accartocciato che riescono a sollevarlo solo in parte e devono accontentarsi di estrarre solo lo zaino arancione fosforescente, che riscuote imprevedibilmente il loro entusiasmo.

 

Io resto lì come un’idiota in mezzo alla strada e guardo allontanarsi sia i rapitori che il rapito in direzione opposta, di nuovo verso Sunnydale, mentre la musica country li segue implacabile come il destino.

 

Povero Sassassa, non mi hanno dato nemmeno il tempo di ringraziarlo o di scusarmi per essere stata l’involontaria causa delle sue disgrazie.

 

L’ultima immagine che ho del mio amico è di lui dentro il fuoristrada, l’enorme testone che riempie il lunotto posteriore lasciando ai suoi rapitori, che lo affiancano uno per parte, uno spazio così risicato che si prenderanno certamente un tremendo torcicollo; mentre il furgone sta facendo manovra i suoi fanali illuminano per un attimo la sua sagoma e vedo che si è girato a guardarmi. Forse sono pazza ma giurerei che mi stia strizzando l’occhio.

 

Non credo che l’automobile della polizia camminerà ancora, certo non prima che siano stati raddrizzati i parafanghi penzoloni, sostituiti i due copertoni posteriori e riallineati i mozzi delle ruote; a quel punto rimarrebbe solo da rimettere tre vetri su sei e rifare completamente la carrozzeria posteriore, scocca compresa. In altre parole, ormai non ha davanti a sé che lo sfasciacarrozze ed è questo il motivo per cui forzare quello che resta del cofano con il cric non mi fa né caldo né freddo. Anzi, quando riesco a riprendere la mia borsa da viaggio e a rimettermela in spalla provo quasi una fuggevole sensazione di sollievo, nonostante adesso il mio cervello mi stia regolarmente notificando che mi fanno male il ginocchio destro, il gomito sinistro, il labbro e anche un punto sopra il fegato in cui sono stata contusa dalla cintura di sicurezza.

 

Nonostante tutto posso ancora camminare. Il problema è decidere che direzione prendere.

 

Se fossi più lontana dalla superstrada, forse tenterei di tornare indietro verso l’abitato e di cercare rifugio almeno fino a domattina in una delle prime case. Immagino che dopo essermi impossessata di una macchina della polizia rompere il vetro della finestra di una casa non costituisca più un problema per me.

 

Ma l’istinto di lasciare Sunnydale è troppo forte e mi trascina, un passo dopo l’altro, verso la salvezza e prima di poterlo decidere razionalmente sto già camminando lungo il ciglio della strada che porta verso Los Angeles.

 

All’inizio non va molto male: anche se sono completamente sola gli avvenimenti della serata mi hanno insegnato ad apprezzare un po’ di solitudine.

 

Ma la solitudine significa anche che ho molto, moltissimo tempo per pensare alla mia situazione; e la prima cosa che mi viene in mente è che procedendo a piedi ci vorrà molto, moltissimo tempo anche solo per lasciare veramente Sunnydale.

 

 

Adesso sono veramente spaventata. Non che prima non fossi spaventata, ma non era niente rispetto a come sono spaventata adesso.

 

Continuo a dirmi di pensare chiaramente ma non riesco a pensare più chiaramente di qualcuno che stia affogando: tutto quello che mi viene in mente è solo che sto per fare un’orribile morte prematura.

 

Anzi, se stessi affogando sarei forse meno terrorizzata: mio padre da bambino rischiò di annegare e assicura che in quell’occasione vide tutto bianco e perse conoscenza senza provare né dolore né paura finché qualcuno non lo tirò fuori dall’acqua e cominciò a fargli sputare acqua dai polmoni.

 

Io invece dubito fortemente che morirò senza provare né dolore né paura; in quanto al vedere tutto bianco non se ne parla neppure perché al contrario sono circondata da quell’oscurità assoluta che si verifica solo durante un black–out .

 

Quando sento il rombo del motore e vedo le luci dei fanali mi immobilizzo come un coniglio spaventato, riuscendo solo a pensare che non so decidere se devo nascondermi o farmi vedere. Che se devo nascondermi non c’è un posto in cui possa nascondermi. E che se non riesco a farmi vedere perderò l’ultima occasione di lasciare Sunnydale.

 

Quando la macchina si ferma, comincio a pregare.

 

Dio mio, aiutami. Forse è un po’ tardi per prometterTi che in cambio sarò buona e mi comporterò sempre bene ma io ci provo lo stesso.

 

Sento aprirsi la portiera dal lato del guidatore. E poi la sento richiudersi con un tonfo.

 

Se non vuoi salvarmi la vita, Signore Iddio, fammi almeno morire in fretta.

 

I passi scricchiolano sulla ghiaia della banchina mentre resto immobile con la testa china e la maniglia della borsa da viaggio che s’infradicia di sudore.

 

Non voglio guardare, Signore, non voglio guardare chi sta venendo a prendermi: non credo proprio che sia un Tuo emissario con le ali e una spada fiammeggiante.

 

– Ti serve un passaggio?

 

Sono così spaventata che i miei occhi fanno fatica a mettere a fuoco la figura che mi si para davanti e che alla luce dei fari mi sembra solo un’enorme ombra scura.

 

Lo sconosciuto si china verso di me e mi chiede gentilmente: – Che cosa è successo?

 

Alzo lentamente la testa come una scolaretta timida che venga interrogata dalla maestra e intravedo una camicia scura sotto una giacca nera poi un collo largo due palmi e la faccia squadrata eppure piacente di un grosso giovanotto con fitti capelli neri e onesti, dolci occhi scuri che in questo momento mi stanno scrutando come se fosse veramente ansioso di aiutarmi.

 

– Eh?

 

Lo so, non è un granché come risposta. Potrei fare certamente di meglio se solo scoprissi dove è andata a finire tutta la saliva che di solito circola per la mia bocca.

 

– Che cosa ci fa in mezzo alla strada una… persona tutta sola in una notte come questa?

 

Non so che cosa sia a tranquillizzarmi, se il fatto che abbia detto persona invece di ragazza o il taglio perfetto della sua giacca o qualche particolare altrettanto insignificante della sua voce o della sua persona.

 

– Stavo andando via. – rispondo finalmente con una vocina che sembra la metà della mia voce abituale. Una risposta vaga ma sincera.

 

– Anch’io – mi sorride in modo impercettibile – Vado a Los Angeles: vuoi un passaggio?

 

Lo so: una ragazza sola non dovrebbe accettare un passaggio da uno sconosciuto. Si tratta di una buona regola, largamente nota e convalidata da un’infinità di storie raccapriccianti su quello che capita alle imprudenti fanciulle che non la seguono.

 

Ma una ragazza sola non dovrebbe nemmeno restare a Sunnydale in questa notte di maggio: e qualcosa mi dice che se infrangessi questa regola un domani potrebbero esserci in giro storie raccapriccianti su di me.

 

– Mio Dio, certamente. – rispondo con un sospiro di sollievo.

 

 

Il mio compagno di viaggio non è un tipo loquace. Non gli piace ascoltare la musica mentre guida perché tiene l’autoradio a volume bassissimo e sintonizzata sui notiziari. Se prevede che al giornale radio parlino di quello che sta accadendo a Sunnydale si sbaglia, ma forse non è quello che si aspetta. Mi ha preso la borsa da viaggio dalle mani, l’ha messa sul sedile posteriore, mi ha cortesemente tenuto aperta la portiera e io sono salita.

 

Non so ancora se dovrei temere la sua compagnia ma capisco subito che non devo temere la sua guida perché è il miglior autista che abbia mai incontrato, dotato di una grazia fluida e di un occhio sicuro come non ne ho mai visto l’eguale; l’automobile è una gloriosa vecchia Plymouth GTX ben tenuta, nera con gli interni di pelle chiara e la capotte abbassata e fila veloce sulla strada monotona che porta a Los Angeles senza incontrare praticamente traffico mentre grandi nuvole sfilacciate si spostano pigramente nel cielo notturno.

 

Si sta veramente bene qui, così bene che forse potrei cedere alla stanchezza e farmi un pisolino in questo sedile ampio e comodo, rivestito di lussuosa pelle color crema, mentre dall’autoradio il ronzio dei notiziari ha ceduto il passo al suono rilassante di pezzi di musica classica: sembra quasi di essere dal dentista.

 

Chiudo gli occhi e penso a mio padre, che a quest’ora sarà ormai in Texas insieme ai coniugi Bliss; ad Andrew accampato a casa Summers; a Sassassa e ai suoi rapitori e a chi di loro sia messo peggio. Penso a Sunnydale, intatta e vuota come una città colpita dalla bomba ai neutroni; e a Thomas, che sta dormendo il sonno del giusto dopo una giornata di duro lavoro in chissà quale remota cittadina agricola, magari con una bella bionda a fianco a fargli compagnia. Penso a Detroit e a come non ci farà poi tanto caldo anche se ormai è maggio inoltrato.

 

Credo anche di aver dormito per un po’ di tempo perché mi sveglio di soprassalto con le braccia gelate; la piacevole frescura si è trasformata ormai in una fastidiosa sensazione di freddo; apro gli occhi, vedo le stelle in cielo e come sempre succede quando si guardano quelle gelide fonti di luce mi viene ancora più freddo.

 

Sbircio il mio compagno di viaggio e vedo il suo profilo regolare e gradevole. Sembra perfettamente immobile e tiene la mano – liscia come quella di chi non ha mai fatto un giorno di lavoro manuale in vita sua – morbidamente appoggiata sul volante; non ho fatto nessun rumore, eppure si gira impercettibilmente verso di me e mi chiede: – Hai freddo? Devo alzare la capote?

 

Vorrei rispondere di sì, poi penso che se quest’aria gli avesse dato fastidio ci avrebbe già pensato per conto suo ad alzare la capote: magari è originario di qualche stato del Nord dove nevica sei mesi all’anno e questo clima californiano è un supplizio per lui. Finora ha parlato così poco che non sono ancora riuscita a capire che cosa sia quella lieve inflessione che di tanto in tanto affiora sotto la sua parlata standard.

 

– No, prendo io una giacca – replico e mi giro per cercare qualcosa di adatto nel mio bagaglio.

 

Ma proprio perché i sedili sono così ampi e d’altra parte le mie braccia sono abbastanza doloranti, dopo aver annaspato inutilmente con la mano allungando la spalla all’indietro più che posso per tentare di raggiungere la mia borsa mi rendo conto che non ci riuscirò mai a meno di mettermi in ginocchio sul sedile volgendomi in direzione opposta a quella di marcia.

 

Ed è mentre mi sposto verso di lui mentre cambio posizione che me ne accorgo.

 

Non lo vedo nello specchietto retrovisore.

 

Il mio cuore smette di battere per un istante. Ottimo, penso, così adesso siamo in due a non avere un battito in questa macchina.

 

– Che cosa c’è?

 

Accidenti, si deve essere accorto con il suo super udito che ho saltato un battito: vampiri, ideali come infermieri nel vostro reparto di cardiologia. A parte il piccolo inconveniente che si mangeranno i vostri pazienti, naturalmente.

 

Potrei buttarmi giù dalla macchina in corsa e sperare di non venir travolta da un altro veicolo o di non lasciare metà della mia pelle sull’asfalto; potrei usare la croce che porto al collo per cercare di bruciargli gli occhi; potrei tentare di dargli fuoco usando l’accendisigari della macchina. Sono tante le cose che potrei fare ma la realtà è che non farò un bel niente perché sono troppo stanca.

 

Sono stanca di sotterfugi, stanca di scappare e stanca di affrontare pericoli a cui sono destinata prima o poi a soccombere: in breve, sono l’immagine speculare di Sunnydale e ho dentro di me lo stesso vuoto che ormai la contraddistingue.

 

Sto zitta, immobile e tremante, sperando ancora che possa attribuire il mio tremito al freddo e non alla paura ma allo stesso tempo non ci faccio gran conto, dato che dicono che i vampiri siano in grado di avvertire l’odore della paura.

 

Forse è proprio il suo olfatto a fargli capire che ho capito, o forse più prosaicamente si rende conto che dalla posizione in cui mi trovo dovrei poter vedere la sua immagine riflessa nello specchietto retrovisore.

 

– Sì, sono un vampiro – dice riportando lo sguardo sulla strada.

 

Ecco, ci siamo.

 

– Ma non devi aver paura di me.

 

No? Magari la mia fama è arrivata fino a lui e da me non vuole sangue quanto un buon taglio.

 

– Io sono diverso – chiarisce il vampiro – Io ho un’anima.

 

Questa volta resto veramente di stucco. Due vampiri con l’anima in tutto il mondo e mi hanno salvato la pelle tutti e due: se non è fortuna questa, ditemi voi che cosa lo è.

 

– Ah, ho capito – esclamo sollevata – Allora tu sei l’altro vampiro con l’anima!

 

Ricordate quello che vi avevo detto sulla sua guida dolce e senza scosse? Dimenticate tutto perché ha dato un tale colpo sul freno che la macchina si è messa di traverso sulla strada.

 

– Io non sono l’altro vampiro con l’anima! – mi grida nelle orecchie non appena lo stridio dei freni sull’asfalto ha smesso di assordarmi.

 

Poiché questa vecchia macchina non ha le cinture di sicurezza è una vera fortuna che mi fossi girata per raggiungere la mia borsa, altrimenti a quest’ora mi sarei spiaccicata con la faccia contro il parabrezza.

 

Così invece quando il vampiro ha frenato all’improvviso sono solo rotolata giù dal sedile e sono finita sul tappetino in una scomoda e imbarazzante posizione a V dalla quale riesco a districarmi a fatica e solo grazie al suo aiuto.

 

– È lui l’altro vampiro con l’anima – precisa imbronciato mentre mi tira su di peso e mi risistema sul sedile come se fossi un manichino.

 

È una fortuna anche che non avessimo un altro veicolo subito dietro di noi, altrimenti un bel tamponamento non ce lo avrebbe levato nessuno. Sarebbe stata una specie di record, due tamponamenti nella stessa serata. Come si fa, a proposito, se si ha un incidente stradale mentre si viaggia con un vampiro? Mettiamo che sbatta la testa sul cruscotto e svenga: cosa fai, se sei ferita ma cosciente? Chiami un’ambulanza, così quando gli sentono il polso lo mettono dentro un sacco nero e te lo portano via sotto il naso? Oppure te ne stai lì ad aspettare che rinvenga e intanto continui a dissanguarti così quando quello putacaso si sveglia con l’amnesia sei già pronta a fargli da colazione?

 

Io non dico niente ma evidentemente la mia espressione parla per me perché lui mi spolvera un po’ i vestiti con le mani e dice: – Ti prego di scusarmi. Ehm, non ti sei fatta niente, vero?

 

– No. Non volevo essere… scortese.

 

Rimette in moto scuotendo la testa: – No, non è colpa tua; è solo che Spike… certe volte penso che esista solo per farmi diventare matto.

 

– Non sei il solo a pensarlo – ridacchio io – Spike può essere piuttosto irritante. Con o senza anima.

 

– Lo conosci bene.

 

– Lui ma soprattutto i suoi capelli – chiarisco io – Faccio la parrucchiera. E visto che non ci siamo ancora presentati: mi chiamo Tarantula. Veramente, mi chiamerei anche Taylor Peters.

 

– Io sono Angel. E ho avuto altri nomi, ma ormai non contano più.

 

– Vita nuova, nome nuovo – concordo gravemente – Capisco perfettamente.

 

– Non mi sei sembrata particolarmente sorpresa quando ho detto di essere un vampiro – dice Angel dopo un po’ che ha ripreso a guidare in silenzio.

 

Io nel frattempo ho preso la giacca dalla borsa e mi sono coperta; adesso che non ho più freddo, comincio ad accorgermi che ho fame.

 

– Forse perché anche mia madre è un vampiro – mi esce detto prima ancora che mi renda conto dell’effetto che può avere questa frase.

 

La sua reazione è inaspettata: – Davvero? E come ha fatto a…

 

– Ovviamente è diventata un vampiro dopo la mia nascita. – gli spiego un po’ incerta.

 

Come può venirgli in mente che io intenda dire di essere nata dal grembo di una vampira? Devo dire che l’altro vampiro con l’anima che conosco mi sembra più acuto.

 

– In effetti avevo nove anni. I vampiri non possono avere figli, giusto? Dato che sono, sì, insomma, morti.

 

– Sì, certo, naturalmente non possono – conferma.

 

Silenzio. Comincio a rendermi conto che una conversazione con quest’uomo è come una partita di ping–pong in cui si facciano spesso lunghe pause durante le quali si va alla ricerca della pallina.

 

– Hai continuato a vedere tua madre dopo che è diventata un vampiro?

 

– Di tanto in tanto. Mi telefona. Mi manda soldi per il mio compleanno. Cose così. Tu hai continuato a vedere la tua famiglia dopo essere diventato un vampiro?

 

– Io ho mangiato i miei genitori e mia sorella – mi dice.

 

Immagino che la mia solidarietà dovrebbe andare a questi poveri disgraziati dei suoi consanguinei, eppure c’è qualcosa nelle sue parole che mi fa sentire in dovere di confortarlo.

 

– Magari, se tu avessi avuto un bambino… – gli dico intendendo che l’amore paterno avrebbe potuto essere più forte dell’istinto di uccidere.

 

Dopotutto io sono la testimonianza vivente che l’amore materno può esserlo; ma lui non accetta la scappatoia che gli ho appena offerto.

 

– Per fortuna non lo avevo – replica asciutto dopo averci pensato su un mucchio di tempo.

 

Non c’è molto che io possa dire a questo punto perciò sto di nuovo zitta; ma ormai ho troppa fame per riuscire a dormire di nuovo.

 

– Dove siamo? – chiedo dopo un po’.

 

– Circa a metà strada da Los Angeles, direi. C’è un locale più avanti che è aperto tutta la notte: vuoi che ci fermiamo?

 

– Sarebbe splendido, grazie. Vorrei proprio mettere qualcosa sotto i denti.

 

La tavola calda davanti a cui ci fermiamo è uno di quei posti aperti tutta la notte dove puoi incontrare sia camionisti che agenti della polizia stradale seduti fianco a fianco e attenti a non incrociare mai lo sguardo: in pratica una sorta di santuario in cui vige una precaria tregua dedita al consumo di ciambelline e di caffè. Gli officianti nel momento in cui entriamo consistono in un paio di cameriere avanti con gli anni, mentre sugli sgabelli davanti al bancone poggiano sederi variamente fasciati in diverse gradazioni di tessuto jeans e una coppia sovrappeso mastica metodicamente a uno dei tavoli davanti a un assortimento di portate caloriche ed indigeste da cui ricavo la confortante nozione che qui si può mangiare sul serio anche a quest’ora della notte.

 

Angel si guarda attorno e mi guida a un tavolo che a prima vista non ha niente di speciale che lo distingua dagli altri; quando si siede a un’estremità della sua panca mi accorgo però che quella è probabilmente l’unica posizione da cui si possano vedere sia l’ingresso, che la porta che dà sul retro, che quella che porta in cucina. Per la prima volta da quando questo pomeriggio ho promesso ad Andrew che avrei tentato di lasciare Sunnydale al più presto, mi sento veramente al sicuro: bella cosa i vampiri con l’anima, se non esistessero bisognerebbe inventarli.

 

– Non so se troverai qualcosa che ti va – mi dice porgendomi la lista – Temo che qui una dieta sana non sappiano nemmeno che cosa voglia dire.

 

– Magnifico, perché non lo so nemmeno io – rispondo scorrendo il menù in cerca di quello che mi consentirà di ingurgitare il maggior numero di calorie possibile nel tempo più breve possibile – Sei già stato qui altre volte?

 

– Nell’ottobre di due anni fa – mi risponde e come al solito non aggiunge dettagli.

 

Dal momento che mi ha salvato da una morte orribile non voglio rompergli le scatole con le mie chiacchiere e perciò tengo la bocca chiusa mentre studio la lista dei piatti a giudicare dalla quale si direbbe che qui o non sappiano che cosa sia il colesterolo o confidino in un rapido ricambio della clientela.

 

Nel frattempo Angel rimane immobile a guardare il vuoto davanti a sé con quella fissità che denota una lunga pratica; dopo un po’ si riscuote e mi fa la domanda che mi aspettavo che prima o poi sarebbe venuta.

 

– Che ci facevi ancora a Sunnydale, Tarantula, dopo che tutti gli abitanti più o meno senzienti se ne sono andati da un pezzo?

 

– Sfortuna. E tu che ci fai fuori da Sunnydale, adesso che solo gli eroi sono rimasti?

 

Si rabbuia; e visto che già normalmente è discretamente tenebroso rabbuiarsi nel suo caso significa diventare cupo come una notte senza luna.

 

– Lei mi ha chiesto di tornare a Los Angeles per preparare il secondo fronte. Casomai le cose andassero male.

 

Non c’è bisogno di chiedere chi sia lei.

 

– Prenderò solo un toast, allora. Immagino infatti che non avrai tempo da perdere a nutrire parrucchiere vagabonde e disoccupate.

 

– Non ti preoccupare. A me piace nutrire la gente – mi risponde distrattamente, perché evidentemente la sua mente è altrove, poi mi guarda sorpreso da ciò che mi ha detto e aggiunge: – È vero che mi piace.

 

– Sarà perché in altri tempi te ne nutrivi – dico io d’impulso prima di fare goffamente marcia indietro: – Scusami: non ho saputo resistere.

 

Lui non ride alla mia battuta come avrebbe fatto Spike ma nemmeno si offende; mi guarda tristemente e mi dice senza prendersela: – Tu mi ricordi un po’ una persona: anche lei non può fare a meno di dire quello che le viene in mente.

 

– È una brava ragazza?

 

– La migliore – dichiara in un tono che mi fa pensare che ci sia del tenero e, se non avesse usato il presente, mi porterebbe anche a credere che la poveretta non sia più tra noi.

 

– Che cosa le è successo?

 

– Che cosa non le è successo… Lavorava per me. Le persone che lavorano per me tendono a fare una brutta fine.

 

– Lo terrò presente, casomai tu aprissi un salone e mi offrissi un posto. Forse però in questo caso dovresti lavorare da solo.

 

– Ci ho provato, ma sembro attrarre collaboratori come una calamita.

 

– Sarà perché hai le qualità naturali del leader – azzardo io perché ho l’impressione che gli faccia piacere sentirselo dire: dopotutto mi ha portato lontano dalla Bocca dell’Inferno, un po’ di adulazione è il minimo che possa fare per ricambiare. In alternativa potrei anche offrirgli un taglio decente, ma francamente non mi sembra né il momento né il luogo opportuno.

 

 

La cameriera, una donna grassoccia di mezza età, viene a dirmi che la torta di mele è finita e mi chiede se può portarmi al suo posto delle fragole con la panna montata.

 

Io vorrei solo che non perdesse tempo e si sbrigasse ad arrivare con la mia bistecca prima che io svenga dalla fame e acconsento. Nel frattempo ci ha portato due tazze di caffè e un pacchetto di patatine fritte che le strappo letteralmente di mano prima ancora che lo metta sul tavolo.

 

– Venite da Sunnydale? – ci chiede invece di andarsene ad occuparsi della mia bistecca.

 

– No – rispondo io con la bocca piena di patatine.

 

– Sì – dice Angel lanciandomi un’occhiata di rimprovero.

 

Si vede che non ha mai avuto molto a che fare con cameriere da tavola calda, cosa che del resto non sorprende dal momento che non ha bisogno di mangiare.

 

– Si può sapere che cosa sta succedendo laggiù? Sono passati di qua a migliaia come se stesse per crollare la diga o che so io, e non c’è stato verso di farsi dire da che cosa esattamente stessero scappando.

 

– Tornado – rispondo io tra un colpo di tosse e l’altro.

 

Mi si deve essere incastrato un frammento di patatina in gola, ma che importa? Non ho mai mangiato delle patatine così buone in vita mia, tanto che mi riprometto di prendere nota della marca per poterle ricomprare.

 

– Bradisismo – dice Angel contemporaneamente a me.

 

La cameriera ci guarda con compatimento, scuote la testa e va via.

 

– È quando il terreno si muove – mi spiega il vampiro – Non dovresti ingozzarti così. Almeno non credo che dovresti farlo.

 

Il caffè è fin troppo caldo e mi sembra buono quasi quanto quello di Willy, o forse sono solo io che troverei di mio gusto qualsiasi liquido anche vagamente commestibile. In effetti Angel fa una faccia strana mentre lo beve: suppongo però che lui non abbia pranzato con una scatola di crauti e saltato la cena, ma che abbia invece regolarmente consumato le sua razioni di sangue di maiale. Mi chiedo anche se quando viaggia si prepari i thermos e li metta nella borsa refrigerata come si fa con i biberon quando ci sono dei bambini piccoli.

 

 

– Così non sei americano, vero?

 

– Irlandese – replica – Ma credevo che l’accento non si sentisse più.

 

– Non si sente – lo tranquillizzo io – però si capisce che non sei nato da queste parti.

 

– Perché ti sto raccontando tutte queste cose? – mi chiede.

 

Tutte queste cose francamente mi sembra un’espressione un po’ esagerata: conosco gente, con o senza battito e con o senza anima, che nello stesso tempo mi avrebbe raccontato morte e non–morte di sé e di mezza Sunnydale.

 

– È colpa del mio mestiere – gli spiego comunque – la gente tende a confidarsi con il suo parrucchiere.

 

– Non col mio: con l’età é diventato piuttosto sordo.

 

Che il collega oltre che diventare un po’ sordo sia diventato anche un po’ cieco spiegherebbe effettivamente molte cose sul modo in cui Angel tiene i capelli. Qualcuno dovrebbe o fargli una fotografia o dirgli qualcosa.

 

“Un buon parrucchiere” diceva sempre Monsieur Alexandre “è come Robin Hood: toglie dove c’è troppo per dare dove manca.” In altre parole: è tutta questione di volumi.

 

– Beh, del resto non sono molti i saloni in cui servono persone che non si riflettono nello specchio – osservo.

 

– E di solito per lo più le servono in retrobottega male illuminati.

 

– Sono pochi i posti fuori di Sunnydale attrezzati a soddisfare una clientela così particolare.

 

– A proposito: hai già deciso cosa fare una volta arrivata a Los Angeles? Dove ti devo accompagnare?

 

– Ho una specie di invito da parte di amici – rispondo pensando ai parenti della mia amica Dolores – Ho l’indirizzo in macchina.

 

– Il tipo di amici che si butterebbe nel fuoco per te oppure…

 

– L’altro.

 

– Posso trovarti io un posto sicuro in città.

 

– Perché?

 

– Perché cosa?

 

– Perché faresti questo per me.

 

– Perché é quello che faccio: aiutare la gente che non ha nessun altro che la aiuta.

 

– Suona bene: hai mai pensato di farne uno slogan?

 

 

– Scusa se te lo chiedo, ma hai per caso conti in sospeso con la giustizia? – mi chiede Angel improvvisamente.

 

– Perché?

 

Mi giro leggermente seguendo la direzione del suo sguardo e mi accorgo che è appena entrato nel locale un paio di poliziotti – il tipico abbinamento nero attempato e bianco giovane dei telefilm – e che il primo dei due non mi toglie gli occhi di dosso mentre beve il suo caffè con il gomito appoggiato al banco.

 

Riporto lo sguardo su Angel che sta ancora aspettando una risposta.

 

Non so se prendere in prestito una macchina della polizia abbandonata costituisca una qualche forma di reato; smontarne i sedili e buttarli fuori probabilmente è vandalismo anche se non ne sono sicura; in ogni caso non penso che farei una buona impressione se chiedessi delucidazioni, e nemmeno se dicessi che è stato un demone Sfreyano ad avere l’idea e che comunque agivamo entrambi in quello che credo si chiami stato di necessità.

 

– Non lo so – dico – non credo.

 

E veramente non credo che nessuno dei tutori della legge di Sunnydale abbia assistito al mio breve e sfortunato viaggio a bordo di una delle loro automobili; e in quanto all’introdursi in proprietà altrui, partecipare a risse e spacciare sostanze magiche illegali – tutte cose che ho fatto ultimamente – o non c’erano testimoni oppure ero stata gravemente provocata.

 

Per quanto riguarda un passato più lontano, se anche qualche volta ho trasgredito la legge non si trattava di niente di importante; e cosa più rilevante ai fini di una risposta onesta alla domanda di Angel non mi hanno mai preso. A Houston poi mi sono comportata come una cittadina modello e a meno che la signora Gomez non mi abbia denunciato per averle fatto i capelli viola – che comunque le stavano benissimo – sono assolutamente sicura di non avere niente da temere dalla sbrigativa macchina giudiziaria texana.

 

Non so se il vampiro mi abbia creduto: il suo sguardo è impenetrabile come sempre.

 

– Forse quel poliziotto mi guarda perché gli piaccio? – ipotizzo mentre l’effetto cumulativo di troppi film incentrati su agghiaccianti e talvolta fatali errori giudiziari si fa sentire aumentando istantaneamente la mia sudorazione.

 

Angel non risponde ma mi guarda di nuovo in silenzio in modo che definirei veramente molto poco lusinghiero, se non fosse verissimo che il mio tipo non incontra molto tra gli afro americani di mezza età.

 

– OK, non sembro il suo tipo. Sei almeno sicuro che non stia guardando te?

 

– Nemmeno io credo di essere il suo tipo – replica il vampiro – Andiamo?

 

– Sì, certo. Ecco, sono pronta – rispondo dopo aver ingoiato in un solo boccone tutto quello che resta della mia coppa di fragole e che non era poco.

 

Angel si è già alzato e mi copre completamente la visuale verso l’agente – il che data l’imparzialità delle leggi dell’ottica significa che allo stesso tempo impedisce al poliziotto di vedere me; pensando che questo pover’uomo ha solo bevuto un caffè che non gli è nemmeno piaciuto mentre io sono riuscita a spazzolarmi un intero pasto lascio sul tavolo i soldi per pagare il conto prima di alzarmi. O che il vampiro condivida la mia valutazione o che sia un taccagno o che stia semplicemente pensando ad altro, non perde tempo a fare complimenti ma mi prende per il gomito e mi spinge verso l’uscita così ce ne possiamo andare passando davanti ai poliziotti ciarlando come se non avessimo una preoccupazione al mondo. Anche se la parte in cui si ciarla tocca tutta a me, mentre lui si limita a stare zitto con quell’aria vagamente stolida che la maggior parte degli uomini prende davanti a una donna che parla a ruota libera e che ci fa gioco come e anche meglio che se partecipasse alla conversazione.

 

Siamo già fuori quando l’altro poliziotto – quello bianco e giovane di cui volendo potrei anche essere il tipo, sempre che a me fossero mai piaciuti i piccoletti grassottelli con la pelle butterata e un’incipiente calvizie – mi mette una mano sulla spalla. Angel si gira di scatto, apre la bocca per dire qualcosa, la richiude istantaneamente come vede la divisa e sorride: è un’imitazione così perfetta del bravo ragazzo pronto a difendere la sua compagna da eventuali molestie e sollevato dal trovarsi invece di fronte a un tutore della legge che quasi quasi ci cascherei anch’io. Ha ancora una mano sul mio braccio e posso sentire che si è irrigidito, pronto ad intervenire se fosse necessario, e non posso negare che questo mi faccia sentire molto meglio di come mi sento di solito quando la polizia si interessa ai miei andirivieni. Ma bisognerebbe conoscere la polizia di Sunnydale per potermi capire veramente.

 

– Mi scusi, signorina – mi dice l’agente – Viene da Sunnydale?

 

Ahia. Non ho niente in contrario a mentire ai poliziotti – non potrebbe essere diversamente dopo aver frequentato George per tanto tempo – ma non so da dove diavolo potrei dire invece di venire: il più delle volte dire la verità è solo segno di scarsa fantasia.

 

– Sì, perché?

 

– È vero che la città è praticamente deserta?

 

– Sì.

 

– Posso chiederle come si chiama?

 

– Perché? – chiede Angel prima che io possa parlare.

 

Il poliziotto di colore, che fino a questo momento è rimasto a guardarci in silenzio fermo davanti alla porta del locale, si avvicina.

 

– Perché no? – chiede a sua volta.

 

– Perché per combinazione io sono il direttore di un grande studio legale di W&H che tiene molto alla tutela della privacy?

 

– Un avvocato – dice il poliziotto e non so proprio come sia riuscito a mettere tanti significati dentro una singola parola di quattro sillabe, nessuno dei quali lusinghiero verso gli esponenti della professione forense.

 

– Non ho mai detto di essere un avvocato – chiarisce Angel – Avvocati sono quelli che lavorano per me.

 

– Facciamola finita – intervengo io – Che importa se gli diciamo come mi chiamo? Non viaggio mica in incognito. Taylor Peters. Volete vedere la mia patente di guida?

 

– Secondo me non le assomiglia per niente – dice il poliziotto bianco rivolto al collega.

 

– La descrizione combaciava – obietta questi.

 

– Bianca, capelli e occhi scuri, altezza media, si veste di scuro? La descrizione combacia con metà delle ragazze che ci sono in giro – protesta il piccoletto – Vada pure, signorina; e ci scusi tanto.

 

Mentre ci allontaniamo sento ancora il poliziotto di colore discutere con il suo collega: – Come fai a dire che non è lei?

 

– Ma ti sembra un accento di Boston, quello?

 

Angel sta ascoltando attentamente e io rallento istintivamente per poter sentire, dimenticandomi delle sue eccezionali facoltà sensoriali.

 

– Un accento si cambia – protesta il più anziano.

 

– Sì, certo. Ma stammi a sentire: tu quella lì l’avresti mai definita un vero schianto?

 

Ehi.

 

Ma si è visto lui?

 

Mentre mi guida verso la macchina Angel mi lancia un’occhiata e la mia espressione dev’essere eloquente; noto che gli brillano gli occhi e che gli angoli delle sue labbra si alzano in un sorriso divertito: evviva, sono riuscita a farlo ridere, forse ho vinto un animale di pezza.

 

Da vero gentiluomo, non commenta; ma per la seconda volta questa notte mi tiene aperto lo sportello della macchina mentre mi accomodo.

 

– Davvero hai uno studio legale alle tue dipendenze?

 

– Temo di sì. Hai per caso ammazzato qualcuno?

 

– No. No – ripeto ridendo nervosamente quando mi accorgo che questo rientra per lui nel novero delle possibilità – Però gli avvocati servono anche a cercare le persone, non è vero?

 

– Certo.

 

– Come quando cercano gli eredi scomparsi, no?

 

– Sei tu l’ereditiera?

 

Meglio non soffermarsi troppo a riflettere sul suo tono di incredulità: le conclusioni potrebbero non essere lusinghiere per il mio amor proprio.

 

– No. Ma se mi vuoi veramente aiutare, potresti trovare una persona per me.

 

Annuisce: – Questo è facile.

 

– Anche se quella persona fosse a Detroit?

 

– Sì.

 

Mi appoggio allo schienale e chiudo gli occhi.

 

Per il momento sono comodamente seduta con la pancia piena di bistecca, patatine e fragole ma presto saremo a Los Angeles; il mio compagno di viaggio non solo non mi assorda con le sue chiacchiere ma può anche difendermi da qualsiasi minaccia potrebbe presentarsi o quasi; mi ritrovo con ottocento dollari in tasca senza contare che potrò guadagnarmi da vivere con il lavoro delle mie mani praticamente dovunque tranne che in un paese di calvi.

 

La vita non sembra poi così male.

 

Che Sunnydale vada pure all’inferno.

 

Io invece andrò a Detroit.

 

C’è là qualcuno a cui voglio proprio dire di persona che undici anni di menzogne mi sembrano veramente troppi anche per chi nel frattempo non è invecchiato.

 

FINE