Di ReaderNotViewer
TITOLO:
Gli ultimi giorni di Sunnydale
AUTORE:
ReadeNotViewer
COMPLETATA:
estate 2005
TIPOLOGIA:
storia a capitoli
WORDCOUNT:
71504
TIME LINE:
settima stagione di Buffy
PERSONAGGI:
un po’ tutti quelli del telefilm
GENERE:
commedia, drammatico
RATING:
giallo
DISCLAIMER
I
personaggi tratti da Buffy sono di Joss Whedon e ahimè non sono miei, anche se li
frequento da così tanto tempo che tendo a dimenticarmene. Però ce ne ho messi
anche di miei (e naturalmente Joss ha il mio permesso per usarli, visto che io
ho usato i suoi…).Gli avvenimenti narrati si svolgono - o avrebbero potuto
svolgersi - durante la settima stagione di Buffy.
Spoilers
sulla quarta stagione di Angel (abbastanza velati e solo in uno dei capitoli,
ma è mio dovere avvertirvi).
Per
citare, riprendere, tradurre questa storia in parte o in toto dovete avere il
mio esplicito permesso.
Introduzione
La mia
protagonista è Tarantula, ve la ricordate?, la ragazza che Spike ha portato al
matrimonio di Xander nella sesta stagione. Per esigenze narrative e dal momento
che non credo che Tarantula sia il suo vero nome, le ho dato anche un nome, un
cognome, una famiglia, una storia, un lavoro e tante altre cose che mi
tornavano utili.
Mi piace
pensare che questa fanfic sia In Carattere e ho fatto del mio meglio per
restare in canone.
Per mia
fortuna della mia protagonista si sa troppo poco per potermi accusare di essere
Fuori Carattere.
In
quanto agli altri personaggi, le libertà che mi prendo sono tanto maggiori
quanto meno è rilevante il loro ruolo nel telefilm.
Poiché
la classificazione di una fanfic non è una scienza esatta, qualcuno potrebbe
non condividere le mie scelte: se così fosse, vi giuro che non ho fatto apposta
per farvi arrabbiare!
Ringraziamenti
È un
vero peccato che le persone che maggiormente meriterebbero i miei
ringraziamenti, vale a dire i miei colleghi e i membri della mia famiglia,
siano anche quelle stesse che è molto meglio non sappiano come ho occupato una
parte del tempo che avrei dovuto invece usare per far fronte agli impegni della
vita reale.
Venendo
a coloro che posso ringraziare senza correre rischio di licenziamento o di
divorzio, i primi sono innanzitutto coloro che mantengono vivo il mondo di
Whedon in rete in Italia perché il loro impegno mi ha garantito un facile
accesso alle informazioni che mi servivano per incastrare la mia fantasia con
gli avvenimenti realmente raccontati nel telefilm.
Ma tutto
questo non sarebbe stato possibile innanzitutto senza le mie magnifiche
beta-reader, che mi hanno spronato e incoraggiato a cominciare, continuare e
soprattutto portare a termine questa, che è la prima fanfic della mia vita.
Perciò
un grazie di cuore sia a Cinderella per il suo sostegno, i suoi consigli e il
costante apprezzamento del mio lavoro sia soprattutto a Jean Genie che oltre a
non farmi mai mancare il suo appoggio ha messo generosamente a mia disposizione
la sua competenza professionale svolgendo un'insostituibile, preziosa ed
accurata funzione di editing. Farina del suo sacco sono il diminutivo - Tula -
con cui gli amici chiamano la mia protagonista e la scelta della canzone in
testa al secondo capitolo: insomma, così come per i vampiri con l'anima, se
questa ragazza non esistesse bisognerebbe proprio inventarla.
1. Un
demone per capello
“Gracias
a la vida que me ha dado tanto
me dió
el corazón que agita su marco
cuando
miro el fruto del cerebro humano
cuando
miro al bueno tan lejos del malo
cuando
miro al fondo de tus ojos claros”
Gracias
a la vida di Violeta Parro
Ho
sempre odiato Sunnydale. Eravamo all’asilo, io e la mia amica di quando avevo
quattro anni, Gladys con le treccine bionde e i pomelli sulle guance, e io le
dicevo seria seria “Quando divento un po’ più grande prendo la mia Jenny — era
la mia bambola preferita, anche se già a quell’epoca sembrava uscire dal campo
di battaglia più che dalla scatola dei giochi — e scappo col treno.” La mia
amica Gladys annuiva così energicamente che le trecce ondeggiavano di qua e di
là, entusiasta di quest’idea di abbandonare Sunnydale non appena le nostre
gambette ce lo avessero consentito.
E se lo
avesse fatto davvero, forse non sarebbe giù nella terra scura sotto quella
bella lapide bianca con l’angioletto che la sua famiglia ha fatto scolpire per
lei giusto una settimana dopo il suo sedicesimo compleanno. Uno spaventoso
incidente stradale con la vecchia macchina che Bobby, il suo ragazzo, aveva
sgraffignato al nonno, a quanto pareva il motore li aveva traditi lungo la
strada di ritorno dal cinema e un maledetto pirata della strada li aveva
travolti e uccisi mentre Bobby cercava ancora di capire cos’era successo con la
testa dentro il cofano e Gladys gli faceva luce con la torcia elettrica.
C’era
sangue dappertutto, sapete, un lago di sangue in cui il motore sembrava
galleggiare come un pezzo di manzo in brodo di rape quasi fossero stati
investiti da una mietitrebbia, non da un’altra macchina, ma da quando in qua i
mietitrebbia se ne vanno in giro in una piovosa serata di gennaio, domando io?
Maledetta Sunnydale, i suoi strani incidenti stradali e i suoi molti cimiteri.
Ed
eccomi qui di nuovo nonostante tutto a Sunnydale come se ci avessero attaccato
un elastico a quel suo stupido cartello di benvenuto, sì, proprio quello che
tutti gli ubriaconi abbattono quando capitano in città, e l’altro capo
dell’elastico me l’avessero attaccato al bottone dei jeans, o giacché ci siamo
all’asola delle mutande, sempre se io portassi mutande e se queste avessero
un’asola.
Ero
tornata in città da poche ore — giusto il tempo di scaricare i bagagli a casa e
di godermi un caloroso benvenuto di bestemmie da papà — e chi è il primo che ti
incontro? Clem, naturalmente, e chi altri. Voglio dire: benvenuti a Sunnydale,
l’unica cittadina della California in cui non solo vivono più demoni che esseri
umani ma spesso i primi sono più simpatici dei secondi, e si sanno anche
comportare meglio, come la primavera scorsa ad esempio, quando quel ricevimento
di non nozze a cui tra l’altro ero pure stata invitata si è trasformato in una
rissa coi fiocchi e a sentire Dolores, la mia amica del catering, cominciarono
proprio gli esseri umani a dar fuori di matto.
In
confronto a quello del mio caro genitore, che si era riscosso dal suo stupore
alcolico solo per darmi della puttana e della fallita, il benvenuto di Clem fu
un vero balsamo sulle ferite del mio animo, con genuino piacere di rivedermi,
pacche sulle spalle e autentico dispiacere che le cose mi fossero andate male a
Houston, e Dio, se mi erano andate male, non potete nemmeno avere idea di
quanto.
Così
Clem mi offre da bere al suo bar preferito — più demoni che umani anche lì, ma
chi se ne frega, come se gli umani non potessero essere abbastanza demoniaci,
guardate ad esempio quel maiale di mio cugino Ronnie — e io gli racconto i miei
guai e gli piango sulla spalla, o per meglio dire su tutte quelle pieghe di
pelle che ha attorno al collo e che di solito tiene accuratamente ripiegate e
figuratevi che sto anche attenta a censurare le parti più scabrose e avvilenti
del mio racconto perché ho paura che se la prenda troppo a cuore e non sia mai
che perda il suo eterno ottimismo.
Così
quando ho finito di piagnucolare e di bere Cuba Libre lui mi chiede che cosa ho
intenzione di fare adesso, con quello sguardo tutto speranzoso di chi si
aspetta che tutto torni al suo posto, ed è chiaro che se fosse per lui potremmo
rientrare in affari anche subito, come se non me ne fossi andata e l’avessi
lasciato lì come una stronza proprio alla fine della primavera, quando le
giornate si allungano, le notti si accorciano e tutti i demoni di Sunnydale
hanno un mucchio di tempo libero da passare al chiuso e al coperto. Addirittura
mi chiede se ho imparato qualcosa di nuovo a Houston e io potrei dire di no,
che a togliermi di dosso uno che ha in mente di violentarmi con un bel calcio
nelle palle lo avevo imparato già da prima, solo che non mi era ancora capitato
a Sunnydale di doverlo fare con uno di famiglia, e in quanto al lavoro avevo
passato quasi tutto il tempo a scopare capelli dal pavimento, a pulire i
pettini e a tenere aperta la porta alle clienti perché Monsieur Alexandre non
fa certo mettere le mani in testa alle sue clienti dalla prima venuta,
soprattutto quando le referenze che questa gli potrebbe portare sarebbero
firmate col sangue o magari col sigillo dei demoni Kaa.
Tant’è
vero che stare in una cantina a disegnare la riga con l’eye-liner semipermanente
sulla palpebra di vampire annoiate o a fare la permanente a un demone della
vendetta secondo la moda del 1920 dopo il mio soggiorno a Houston non sembra in
fondo così male ed eccomi lì a chiedere a Clem se il salone è ancora aperto e
se sua cugina ha già trovato qualcuno per sostituirmi. Peccato che durante
l’estate sua cugina si sia trasferita a Cleveland per stare vicina alla madre
ammalata di una misteriosa affezione dermatologica, confermando così ancora una
volta l’indiscussa superiorità morale dei parenti di Clem rispetto ai miei e
che il salone sia andato distrutto nel corso di un non meglio precisato raduno
di una setta di adoratori del fuoco che probabilmente avevano esagerato con le
loro manifestazioni di adorazione.
E io già
sto pensando che con la scalogna che c’ho addosso, diciamo pure che mi sta
attaccata come fossimo gemelle siamesi dalla nascita, va a finire che mi tocca
andare a fare i turni serali al Doublemeat Palace, per intenderci quelli che
non vuole fare nessuno perché a parte il lavoro che è uno schifo in sé e per sé
ogni volta che vai a buttare la spazzatura corri il rischio che qualcuno abbia
voglia di farsi uno spuntino con te invece che da te, se capite cosa intendo; e
io non ho neanche uno straccio di ragazzo che venga a prendermi con la
macchina, per non parlare di madri amorose o padri preoccupati per la mia
incolumità, nel senso che mio padre si preoccuperebbe per la mia incolumità
soltanto se andassi in giro con delle bottiglie di whisky infilate nelle tasche
e in quanto a mia madre ha avuto l’accortezza di filarsela niente di meno che a
Detroit, cioè praticamente nel posto più lontano da qui in cui uno possa andare
senza lasciare il continente e senza espatriare, a parte l’Alaska naturalmente.
Ma qui potrei sbagliarmi perché la geografia non è mai stata il mio forte a
scuola; inoltre la mia insegnante di geografia è sparita misteriosamente prima
della verifica finale, e per quanto possa sembrare strano questo è un modo
tutt’altro che insolito di finire i corsi scolastici a Sunnydale.
Ma Clem
si dimostra portatore non solo di amicizia e di beveraggi gratuiti perché già
mi rassicura che un posto per me nel ramo cure estetiche settore demoniaco ci
sarà sempre e che lui può trovarmi un lavoro così, e nel dire questo tenta di
schioccare le dita, emettendo una sorta di plop al posto dello schiocco per via
della sua particolare conformazione morfologica, perché lo sanno tutti che ero
brava e coscienziosa, prova ne siano le mance sostanziose che mi lasciavano
anche i demoni della vendetta, che tutti lo sanno quanto sono parsimoniosi.
Giuro che dice proprio così — “parsimoniosi”— ma solo perché Clem non darebbe
del taccagno nemmeno a Zio Paperone. I demoni della vendetta restano in
circolazione un mucchio di tempo, sarà per questo che sono avare come un ebreo
che prestasse denaro a strozzo ad Edimburgo. Sapete quel proverbio che dice “la
farina del diavolo va tutta in crusca”? Si direbbe proprio che la stessa cosa
succeda alla mancia del demone, e questo è un altro dei motivi per cui ho tentato
di trasferirmi a Houston, perché ne avevo davvero abbastanza di ricevere in
cambio dei miei servizi gattini, monete fuori corso e cartamoneta che alla luce
del sole si riduceva a un mucchietto di polvere.
— Ma
senti, credi che mi darebbero dei soldi veri questa volta?
Clem mi
guarda con tristezza e una traccia di offesa sul viso, come se stessi
implicando che nemmeno lui sia del tutto vero, cosa che in effetti è difficile
a credersi, perché è così gentile e cordiale che potrebbe benissimo essere una
leggenda come Babbo Natale, e io mi affretto a chiarire:
— Devo
fare la spesa al supermercato se voglio mangiare, lo sai. E non posso nemmeno
abitare in un sotterraneo o in una bella cripta perché mi farebbe proprio male
alla salute.
— Ah,
Tarantula, scusami, anche se la tua pelle è così tirata dimentico sempre che tu
sei solo un essere umano.
Decido
di prenderlo per un complimento, ci mancherebbe altro che alla mia età la pelle
non sia tirata; e per di più sarebbe anche un pessimo biglietto da visita per
il lavoro. Insomma Clem alla fine mi rivela che un’altra parente (no, non
proprio una parente ma la sposa vivente di un membro dormiente del suo clan, e
grazie no, non voglio assolutamente andare a fondo sul significato di questo
particolarissimo stato civile) ha aperto di nuovo la stessa buona vecchia
attività proprio in centro, in un posto sicuro dove prima ci stava un certo
Brack o Grack a spacciare magia nera al migliore offerente a quanto pare con
tanto di ogni comfort, sala d’aspetto e schermatura anti-umani comprese.
A questo
punto chiedo a Clem che fine ha fatto lo spacciatore e lui si agita sulla sua
sedia a disagio finché questa comincia a scricchiolare in modo sinistro sotto
il suo peso, e poi comincia a raccontarmi la storia più assurda delle storie
assurde che mi sono state raccontate a Sunnydale, in cui per di più è
immischiata un mucchio di gente che conosco solo di vista, sicché ogni quattro
parole è costretto a farmi un identikit; e davvero non vorrei essere nei panni
di un povero disgraziato di disegnatore della polizia che avesse Clem come
testimone principale di un delitto, perché sarebbe una di quelle esperienze che
ti viene voglia di tirarti un colpo in testa pur di farla finita alla svelta.
Alla fine insomma mi sembra di capire che una strega della cricca della
Cacciatrice sia andata fuori di matto dopo che uno spostato aveva sparato al
suo amato bene e abbia fatto il solito macello di mezza primavera (che a
Sunnydale è puntuale come lo sarebbe una fiera dei fiori in luoghi più bucolici
e meno infernali) nel corso della quale lo spacciatore di magia nera così ben
alloggiato ha perso anche l’ultima delle diverse vite di cui era dotato e ha
tolto definitivamente l’incomodo. Il tutto con un contorno di spellamenti,
viaggi sul piano astrale, combattimenti con mostri di terra e altre amenità che
vi risparmio, tolto il particolare che mi interessa dal punto di vista
professionale che nel pieno di questa furia omicida la strega di cui sopra ha
operato su sé stessa una tintura full-immersion, che francamente se si potesse
fare davvero mi tornerebbe veramente utile anche in occasioni meno funeste.
— E
adesso la strega dov’è? — chiedo a Clem dopo che mi ha confusamente spiegato
come Xander Harris in persona, il mancato sposo del mancato ricevimento di
nozze a cui avevo mancato di partecipare fino alla fine, abbia convinto la
sciagurata a più miti consigli attraverso una storia d’asilo; magari proprio
quello stesso asilo che avevo frequentato con la mia amica Gladys. Sì, perché
io ho due anni meno di Xander Harris e ho frequentato le stesse scuole fino
alla fine, nel senso fino all’esplosione che ha distrutto il liceo di Sunnydale
proprio durante la cerimonia di consegna dei diplomi. Quella fu l’unica
occasione in cui ebbi fortuna, in effetti, perché se quell’anno George, il
disgraziato che era la mia palla al piede di allora, avesse passato più tempo
sui banchi di scuola e meno a rubare autoradio, fumare spinelli e tradirmi a
destra e a manca, probabilmente sarebbe anche riuscito a diplomarsi, quindi
sarebbe stato presente alla cerimonia e di conseguenza io ce l’avrei
accompagnato. E magari ci avremmo lasciato la pelle tutti e due, come il nostro
beneamato sindaco Wilkins, l’indimenticabile preside Snyder e un certo numero
di studenti e di invitati.
Invece
quel giorno io e George passammo la giornata al mare e nel momento preciso in
cui la scuola saltò per aria io e lui giocavamo come due cuccioli fra le onde,
tirandoci l’acqua addosso e facendoci scherzi scemi come se fossimo una coppia
di attempati e spensierati amanti in una pubblicità di colla per dentiere. A
pensarci bene, è stata anche una fortuna che quello sia l’ultimo ricordo che ho
di lui, cioè un ricordo buono, perché con l’andazzo della nostra relazione le
probabilità che l’ultima immagine che mi restasse di lui fosse una cosa bella
che avevamo fatto insieme era una su dieci. La settimana successiva Lois Grey
scoprì che George, che era suo vicino di casa, aveva messo incinta sua sorella
Selma e gli spaccò il naso. George andò al Pronto Soccorso per farsi tamponare
l’emorragia e da lì dobbiamo supporre che abbia raggiunto direttamente la
stazione degli autobus perché da allora nessuno in città l’ha mai più visto. Mi
mandò una cartolina da L.A. dopo un paio di settimane — un fondo di magazzino di
cartolina con su la scritta “Hollywood” — senza dire né dove stava né come
stava ma solo che gli mancavo: “Mi manchi. George.” La stessa identica
cartolina con la stessa identica frase la mandò a quella povera donna della
madre — lo so perché ci incontrammo io e lei con le nostre rispettive cartoline
in mano, avendo pensato tutte e due che l’altra avrebbe avuto piacere di sapere
che i vampiri non si erano mangiati George nel tragitto tra il Pronto Soccorso
e la fermata degli autobus, però a Sunnydale non rimise più piede. Non posso
nemmeno dargli torto: lo avete presente Lois Grey? Lavora al macello, è quello
grosso con i capelli rossi che una volta ha usato la mannaia per tagliare la
testa a un vampiro che era troppo malconcio per la caccia e si voleva rifornire
all’ingrosso del meno pregiato sostituto di origine animale, almeno secondo
Tony Delmonte, il suo compagno di lavoro ubriacone, ovvio se voi state a
sentire quello che dice uno che alle dieci di mattina ha già gli occhi lucidi e
il naso rosso.
Questo
mi riporta al mio babbo e alle sue abitudini, e al fatto che in casa con lui è
igienico restarci il meno possibile, e quando dico igienico mi riferisco anche
al fatto che ci sono scarafaggi in giro, piatti pieni di muffa sotto i mobili
della cucina e macchie di origine sospetta sui materassi e io non sono più la
piccola Cenerentola che dopo la scuola correva a casa a lavare le chiazze di
vomito dal pavimento e a raccogliere i bicchieri rotti da sotto il divano. E
che quindi devo trovarmi un alloggio decente e per quanto gli affitti a
Sunnydale siano sospettosamente convenienti per avere una casa ci vuole pur
sempre un lavoro.
* * *
— Tu —
dico a quella forma umana con i capelli a cespuglio che occhieggia da un angolo
come un cane randagio — Io non lo voglio aiutare lui, Clem, nemmeno se è amico
tuo.
Spike,
niente di meno. Qui si rende necessaria una breve digressione sui miei
principi. Come tutti, io ho degli standard riguardo agli uomini con cui mi
accompagno, standard bassi, d’accordo, ma pur sempre standard. E avere un
battito cardiaco è una condizione sotto la quale non sono disposta ad andare.
Io non ho niente contro il fatto che uno voglia fare sesso con me, ma il fatto
che voglia fare pranzo con me mi indispone parecchio, scusate tanto ma sono fatta
così.
Naturalmente
per Spike io e altre avremmo fatto volentieri un’eccezione perché questo
particolare vampiro è la nostra specialità locale, per così dire, uno schianto
di giovanotto con occhi blu e un accento che ti viene voglia di mangiartelo, e
il vantaggio supplementare di non poterti azzannare senza che gli venga un
tremendo mal di testa.
— Ma lo
potrei fare lo stesso, se ne valesse la pena — come precisa lui a questo
proposito con quel tono blandamente minaccioso che lo fa sembrare ancora di più
un gatto affamato, ma insomma, è un buon deterrente. Senza contare che una
paria come me un altro paria lo sa riconoscere, e un vampiro qui a Sunnydale
che non può banchettare con i bravi cittadini ma si deve accontentare di fare
il cane da guardia per
Al
contrario è il candidato ideale — nonché probabilmente l’unico disponibile — ad
occupare il posto di buttafuori in un salone di bellezza riservato ai demoni in
cui una povera fragile e commestibile lavorante umana entra quattro sere alla
settimana alle 09:00 p.m. sperando di uscirne, viva e tutta intera, alle 02:00
a.m., straordinari esclusi.
Io sono
brava. Davvero, non si direbbe a vedere come mi pettino e come mi trucco io, ma
quando si tratta di tingere capelli o squame o piume o di sfumare ombretto
sulle palpebre o sui bargigli o di laccare unghie o artigli o zoccoli io non
temo rivali; certo, Monsieur Alexandre è più informato di me sulle ultime
tendenze di moda ma non credo proprio che se la caverebbe meglio se dovesse
tingere le criniere di un intero clan di demoni Kaa in una sola notte e in modo
che risultino tutte intonate o se dovesse truccare una neo-vampira in modo che
assomigli a Barbie anche con le fauci di fuori e gli occhi gialli (diciamo una
Barbie-vampira, va bene?)
Ora, il
demone medio di Sunnydale è altrettanto stupido del cittadino medio di
Sunnydale, visto che il primo si ostina ad abitare nella stessa città in cui
risiede
Felicity,
la cugina di Clem, li mise in fuga tutti e due con uno spruzzatore di profumo
riempito di acqua santa e una serie di oscenità che non avrei mai creduto
conoscesse e che mi svelarono un mondo completamente nuovo riguardo alle
abitudini sessuali di alcuni clan demoniaci senza che la mia collega subisse
conseguenze più gravi di un fastidioso torcicollo, ma poco prima della chiusura
quei due disgraziati si rifecero vivi, o forse dovrei dire non-morti, con un
paio di amici della stessa razza pronti a dar loro man forte nel fare a pezzi
il locale e le sue occupanti. Quella notte però era mercoledì e il buon Clem
doveva venire a prendere Felicity per andare a giocare a pinnacolo come tutti i
mercoledì, e difatti si presentò sulla porta nel momento stesso in cui uno dei
rinforzi dava inizio alla festa cercando di togliermi un occhio con il ferro
arricciacapelli — che per mia fortuna però non è una cosa molto facile da fare
con un arricciacapelli elettrico — e come Clem fece un salto di lato,
spaventato dallo spettacolo, ci accorgemmo tutti che non era venuto da solo ma
si era tirato dietro un tizio con i capelli ossigenati e un soprabito di pelle
nera, un po’ il mio look, se vogliamo, che con un marcato accento inglese e un
eccessivo uso di imprecazioni pittoresche stava dicendo qualcosa su una donna
che lo faceva diventare pazzo. Come vide la scena che si stava svolgendo nel
locale, il nuovo venuto sorrise come un bambino che avesse trovato una
bicicletta nuova sotto l’albero di Natale e disse in tono di apprezzamento “Una
festa! Posso partecipare?” Gli avvenimenti successivi sono abbastanza confusi,
però, soprattutto perché il bastardo che mi teneva per il collo si mise in
agitazione e senza farlo apposta riuscì quasi a sgozzarmi con quel dannato
arricciacapelli prima che riuscissi a divincolarmi e a strisciare nel
retrobottega, dove sapevo di potermi trincerare dietro una scorta di acqua
santa in bottiglioni. Mentre io strisciavo l’amico di Clem aveva già fatto
qualcosa di brutto e definitivo all’altro sgherro, era saltato sul banco
provocando un fragore di vetri rotti e un diluvio multicolore di essenze e di
tinture e da lì teneva impegnati gli altri due vampiri maschi usando il manico
della scopa come paletto. Come lo vidi balzare dal pavimento al banco in quel
modo capii subito che o era un vampiro o era un acrobata molto bravo e ditemi
un po’: cosa ci avrebbe fatto un acrobata così bravo a Sunnydale invece di
lavorare a Hollywood come controfigura? A quel punto i suoi avversari erano
ancora in tempo a usare il loro buon senso e a dileguarsi su per le scale ma
evidentemente avevano dimenticato il cervello a casa e insistettero in una
futile schermaglia finché vennero infilzati uno alla volta e contribuirono con
la solita polvere grigiastra ad incrementare il volume della poltiglia di creme
e di lozioni che ricopriva il pavimento. A quella vista la vampira — il cui
stupido gusto in fatto di acconciature in fin dei conti aveva provocato tutto
questo sconquasso — emise un suono stridulo, sfuggì con uno strattone alla
inefficace presa dei due demoni dalla pelle floscia e si buttò con tutta la sua
forza sulla porta di servizio. Il telaio della porta e il chiavistello
cedettero contemporaneamente ed evitando per un pelo di impalettarsi da sola
con le schegge di legno la bella riuscì a fiondarsi nelle fogne, dove nessuno
dei presenti ebbe il desiderio o lo stomaco di seguirla.
Il
nostro salvatore si spazzolò il soprabito, che a dire la verità era già molto
conciato di suo, si guardò intorno e commentò “Bel posticino, un po’ in
disordine però.” Solo allora mi resi conto che anche se era un vampiro non
aveva perso per un momento il suo volto umano, e che quel volto umano era
tutt’altro che sgradevole da guardarsi.
Ma
questo succedeva quasi un anno prima del momento in cui io e Clem siamo nel
sotterraneo del ricostruito liceo di Sunnydale e guardiamo questo mentecatto
che parla da solo come quei barboni cha vagano per le strade e dormono sotto i
fogli di giornale — a Houston, non a Sunnydale, perché ovviamente noi qui non
abbiamo gente che passa le notti all’aperto. Non per molte notti, quantomeno —
Io mi sento anche un’idiota, con il mio borsone degli attrezzi del mestiere, e
sussurro a Clem:
— Perché
non me lo hai detto che si trattava di lui?
— Perché
se te lo avessi detto non saresti venuta — mi risponde Clem — Lo vedi anche tu
come s’è ridotto. Poverino.
Mi viene
da ridere a sentir dire “poverino” a Spike, come se non fossi io la poverina
qui tra i presenti, senza un lavoro e con una casa piena di scarafaggi. E con
dei parenti da schifo. È anche vero che non so per i parenti, se li sarà
mangiati quando è diventato un vampiro, ma in quanto a specie animali moleste
qui di certo è pieno di topi. Suppongo anzi che si nutra di topi, visto che non
può né cacciare come fanno i vampiri di solito né andare dal macellaio come
credo facesse l’anno scorso. Come se mi avesse letto nella mente, Clem dice:
— Io gli
porto dei gatti ma il più delle volte non li tocca nemmeno.
Scuote
il testone preoccupato e si avvicina a Spike, che come lo vede arretra spaventato
e comincia a dire:
— No,
no. Non devi incontrare Harry, lui non crede ai mostri.
— Ha una
ricrescita di quattro mesi — dico senza muovermi dal mio posto — forse di più.
Dev’essere ancora la tinta che gli avevo fatto io a suo tempo. Che cosa gli è
successo?
— Non lo
so con esattezza: di sicuro qualcosa di tremendo. Ha perso tutto il suo
buonumore, non vedi?
—
Veramente a me sembra che abbia perso la testa — obietto.
Buonumore?
Non mi sembra che Spike sia mai stato un campione di buonumore. Non che non
abbia un suo senso dell’umorismo, anzi, ma è un umorismo che ti fa a fette come
una lama d’acciaio.
— Anche
— ammette Clem e poi si china su di lui, che sta dicendo a un fantomatico Harry
che non avrebbe dovuto portargli i compiti, e da come parla ho paura che creda
proprio di avere sei anni e di andare a scuola. Gesù, quanto tempo sarà passato
da quando questo qui ha veramente avuto sei anni e ha imparato a scrivere? Clem
gli parla come si parla ai bambini e ai matti.
—
Guarda, ti ho portato Tarantula così ti taglia i capelli e te li mette a posto.
E dove hai messo i vestiti che ti ho dato l’altra volta? Guarda qui, li hai
tutti rovinati — si lamenta Clem accorgendosi che c’è qualcosa sotto il
ginocchio di Spike.
— Gli
avevo portato le sue cose — mi spiega cercando invano di raccogliere una
camicia da terra, perché adesso il vampiro ci si è aggrappato con tutta la
forza soffiando come un gatto arrabbiato, e io so già su chi scommettere se
questi due vengono alle mani.
— Clem…
— tento di avvertirlo ma Spike gli è già balzato addosso con un unico movimento
tanto più impressionante dopo il pietoso farneticare di poco fa e ora gli sta
seduto a cavalcioni sull’ampio petto e gli torce il naso, o quello che è, con
una mano.
— Ahia,
ahia! — grida Clem — Mi fai male!
— Siamo…
tutti… demoni… qui? — chiede Spike sottolineando ogni parola con una strizzata
di naso — Siamo tutti demoni cattivi?
Io no,
mi dico, e devo fare qualcosa prima che Clem si ritrovi senza qualche
importante pezzo della sua fisionomia — e io senza l’unica possibilità di
rientrare nel giro cure estetiche per i demoni di Sunnydale. Questo mi fa
decidere — sono sempre stata una vigliacca, cosa credete? non lo fossi stata
avrei bussato già da anni alla porta di Ravello Street e chiesto alla Cacciatrice
se le serviva una mano, lo fa Xander Harris, forse che non lo potrei fare io? —
e mi avvicino lentamente, parlando ancora più lentamente, come faccio quando
mio padre ha bevuto tanto da vedere cose che non ci sono
— Clem è
buono, Spike. Clem è tuo amico. Lascialo andare adesso.
Mi
chiedo se nel suo attuale stato di alienazione mentale il vampiro si lascerebbe
scoraggiare da un po’ di mal di testa nel caso la mia vista gli mettesse
appetito. Sarò più o meno appetitosa dei gatti che gli porta Clem?
Ormai sono
a un passo, Clem sempre sdraiato per terra, Spike sempre seduto su di lui con
le ginocchia strette in una presa d’acciaio, una mano attorno al naso del
demone e l’altra sul collo per impedirgli di usare l’unica arma di difesa che
ha. Ho sentito dire che la pazzia moltiplica le forze degli uomini, spero solo
che non accada lo stesso ai vampiri perché Spike potrebbe strozzarmi con una
mano mentre si accende una sigaretta con l’altra senza aver bisogno di nessun
aiuto da parte della sua pazzia. Più per scaramanzia che per altro, ho preso
dalla borsa il mio pennellone per il fard, che ha un bel manico di legno
appuntito, ma dubito che sarei capace di infilarlo nel cuore di Spike, anche
perché sto tremando come una foglia, del resto non è che possa nemmeno lasciargli
strapazzare in quel modo una delle poche creature in questo mondo che mi abbia
dimostrato dell’affetto. Per fortuna il vampiro sembra prestare orecchio alle
mie parole e ripete lentamente:
—
Lascialo andare, adesso — come se parlasse a qualcun altro.
Odio
quando fanno così, quando parlano con sé stessi come se ci fossero diversi
coinquilini dentro un corpo solo, mi fanno sentire come se fossi sciroccata
anch’io.
All’improvviso
lascia la presa, si gira verso di me e io vedo i suoi occhi blu riempirsi di
lacrime: sono affascinata, non ho mai visto un vampiro piangere, credevo che
non avessero ghiandole lacrimali. Ad essere sincera, non ho mai capito che cosa
i vampiri abbiano e non abbiano, questo qui ad esempio è sempre sembrato in
tutto e per tutto una persona come me, solo più vecchio, più forte e magari
anche più bello.
Mentre
le lacrime gli scivolano lentamente sulle guance smagrite scavandosi una
stradina bianca tra lo sporco il mio primo pensiero, assolutamente fuori di
luogo, lo ammetto, è che anche lurido come un topo e matto come un cavallo è
sempre l’uomo più attraente con cui sono uscita, e probabilmente anche il più
educato, il che la dice lunga sul modo di comportarsi dei George e dei Ronnie
di questo mondo. Non che il vampiro sia stato educato con me, figuriamoci, ma
lo capivo anch’io che aveva delle potenzialità in questo senso, che doveva
essere uno di quelli che ti aprono la portiera della macchina e ti regalano
mazzi di fiori, e che se prendono fuoco le tende non scappano dalla porta della
cucina senza neanche avvertirti come quella volta George alla festa di suo
cugino. Tanto per fare un nome a caso.
Mentre
Spike piange e mi fissa — e chissà cosa sta vedendo invece della mia faccia —
Clem riesce a strisciare via senza che lui faccia più niente per trattenerlo,
avendo perso interesse nel suo demoniaco amico come un bambino che si è
improvvisamente stancato di un giocattolo; io resto ferma, mormoro “Su, su, non
fare così.” e quasi quasi mi sto per commuovere anch’io quando il vampiro all’improvviso
comincia a ruggire come una belva — una cosa tanto più spaventosa perché nel
frattempo il suo volto resta completamente umano — come una belva che sta
soffrendo, che sta morendo anzi, e allora io faccio un balzo all’indietro
tenendomi le mani sulle orecchie e sugli occhi perché non voglio più vederlo,
non voglio più sentirlo, non voglio avere niente a che fare con i fantasmi o i
mostri o qualsiasi altra cosa spaventosa che abita nella sua testa e grido a
Clem:
—
Andiamo via, Cristo, non c’è niente che possiamo fare adesso.
Così ce
ne andiamo lasciando il vampiro allo strazio della sua follia e alla ricrescita
dei suoi capelli, Clem con le lacrime agli occhi non so se per il male che gli
fa il naso o quello che stringe il suo cuore sensibile, io con un gusto amaro
di rivalsa in bocca, perché anche se a suo tempo ho augurato a Spike di andare
all’inferno, non intendevo proprio alla lettera. Per quanto qui a Sunnydale sia
sempre meglio fare attenzione alle parole che si usano.
Tre sere
dopo, sono ancora a casa di mio padre e sto parlando al telefono — il mio
cellulare perché mio padre si è dimenticato di nuovo di pagare la bolletta —
con la mia amica Dolores che mi racconta di quello che è successo a scuola a
suo fratello minore, Carlos, e mi sta dicendo che è una fortuna che finalmente
il ragazzo si sia dato una regolata perché se il preside li fa chiamare ancora
una volta, é quella buona che suo marito Luis butta fuori di casa Carlos una
volta per tutte e il ragazzo se ne torna in Messico dalla nonna (l’avessi io
una nonna in Messico, a quest’ora sarei là a mangiare tortillas e frijioles, ma
non è quello che Dolores vuole sentirsi dire, perciò sto zitta) ed ecco che
proprio mentre Dolores fa una pausa per prendere fiato suona il campanello
della porta.
—
Scusami, Dolly, ma adesso devo proprio andare, c’è qualcuno alla porta,
probabilmente un altro dei creditori di papà.
Stasera
mio padre sembra meno sbronzo del solito, infatti invece di svenire lungo disteso
sul pavimento si è messo a russare sulla poltrona con il giornale sulle
ginocchia come un qualsiasi bravo papà rispettabile, e quasi quasi mi
dispiacerebbe lasciarlo in pasto a qualcuno a cui deve dei soldi da così tanto
tempo che è persino disposto ad avventurarsi nelle strade buie di Sunnydale per
venirlo a cercare a casa.
Do
un’occhiata al bell’addormentato mentre passo davanti alla porta del salotto e
noto con piacere che il mio vecchio deve aver dato una ripulita alla stanza — o
magari convinto la nostra caritatevole vicina a farlo al posto suo per
guadagnarsi un posto in Paradiso — e che riesce perfino ad alzare una palpebra
di qualche millimetro, segno che il campanello l’ha sentito.
— Lascia
stare, papà, vado io — gli dico magnanima intanto che mi viene in mente che
magari, non si sa mai, la polizia ha trovato la macchina che mi hanno rubato a
Pasqua, per quanto la nostra forza pubblica vada più famosa per le cose che
riesce a non vedere che per quelle che è capace di trovare.
Sono
così sorpresa di vedere attraverso il vetro Spike che aspetta sul gradino con
quella tipica aria da martire che mette su ogni volta che è costretto a passare
qualche nanosecondo in attesa che faccio istintivamente un balzo all’indietro
ed emetto un imbarazzante gridolino di paura.
Sapete
che cosa c’è di bello nei vampiri? Che diversamente da rapinatori, stupratori o
maniaci omicidi, non importa che siano pazzi o non pazzi, col chip o senza, che
siano appena strisciati fuori dalla tomba o che siano in circolazione da centinaia
d’anni, i vampiri non possono entrare in casa a meno che non siano stati
invitati. E nessuno è così stupido da invitare un vampiro in casa, non è vero?
Io no di sicuro.
Perciò
Spike può restare sul gradino di casa mia fino all’alba ed è inutile che mi
guardi con quell’espressione di dignità offesa nei suoi occhioni blu, perché
tanto io non mi commuovo e lì lo lascio.
— Dai,
tesoro, tanto lo so che sei lì — mi dice col naso appoggiato al vetro.
— E
allora? — rispondo io aprendo la porta così in fretta che non fosse per
l’invisibile barriera mistica lui mi cadrebbe addosso — Tanto non ti invito
certo ad entrare.
— Non
voglio entrare. — mi risponde col suo sorriso, quello che se potesse
brevettarlo diventerebbe il vampiro più ricco del mondo nel giro di qualche
settimana — Ma ho bisogno di te. Professionalmente. — chiarisce come se potesse
anche solo venirmi in mente il contrario.
— Ci
puoi giurare che hai bisogno di me — rispondo io, impietosa ma obiettiva — Hai
i capelli che sono conciati da fare schifo.
— Lo so,
amore — ammette lui e non sembra per niente pazzo — È per quello che ho bisogno
delle tue mani da fata.
—
L’altro giorno volevi strappare il naso a Clem perché aveva avuto la stessa
identica idea — gli ricordo, mentre la mia mente calcola in automatico l’esatta
combinazione di tintura che servirebbe per farlo passare da quel castano
sbiadito da intellettuale alternativo al biondo platino da divo rock.
— Lo sai
come vanno le cose in questa città, Tarantula: succedono cose strane là sotto.
C’era della gente morta che era entrata nella mia testa.
— Tu fai
parte della gente morta.
— Quelli
erano più morti di me — mi dice e non faccio fatica a credergli, perché era
esattamente quello che secondo Dolores sosteneva quel cacciaballe di suo
fratello Carlos, cioè che nei sotterranei della scuola c’era della gente morta
che lo aveva aggredito. Solo che Dolores era incline a pensare che fosse un
problema di droga più che di zombie. Come se una cosa escludesse l’altra.
— Senti,
dobbiamo stare qui molto? I vicini si chiederanno chi sono e che cosa voglio —
mi sussurra come se io fossi Doris Day in una qualche commedia anni ’60. Quando
sussurra in questo modo il suo accento inglese è sexy in modo addirittura
ridicolo, ma io non ci casco.
— Visto
che quello che vuoi è taglio e tinta — dico brusca — hai intenzione di pagare
almeno i materiali?
— Ma
certo — replica in tono offeso, come se non mi avesse scroccato più di una
birra con la scusa di avermi salvato la vita. — Ti pagherei anche per il tuo
disturbo, tesoro, ma potresti farlo in nome dei vecchi tempi. E poi…
— … sei
al verde.
— Già,
come hai fatto a capirlo?
Come ho
fatto a capirlo? Facile: perché tutti gli uomini che frequento o non hanno il
becco di un quattrino o sono dei ladri o sono dei veri figli di puttana. Spesso
tutte e tre queste cose insieme.
—
Aspettami, prendo della roba e andiamo nel garage — gli intimo.
Non mi
chiede ancora di entrare e un po’ persino mi dispiace, in questa casa perfino
la visita di un vampiro servirebbe ad alzare la media, quanto meno la visita di
un vampiro carino come questo. Nel garage, ora che a papà hanno ritirato la
patente e a me hanno rubato la macchina, ho messo un paio di sedie e ho
sistemato un lavatesta attaccato al tubo dell’acqua per annaffiare; per le
altre clienti scaldo l’acqua usando un fornellino da campo, ma non credo che lo
farò per Spike, tanto i vampiri non sentono il freddo. Ci sono anche una radio,
una lampada d’officina e tutto quello che mi serve per lavorare comoda e
tranquilla: certo non è il salone di Monsieur Alexandre con i suoi marmi rosa e
i suoi cristalli fumé, ma è pulito e arieggiato e soprattutto mio padre non ci
mette mai piede. Non ci potrei pagare un affitto ma almeno non resterò
completamente al verde intanto che non ho un posto di lavoro vero e proprio.
— Arredo
minimalista — osserva Spike dopo essersi guardato attorno — Mi siedo là?
— Su
quella sedia. Questo è quello che passa il convento, tesoro — replico io
facendogli il verso — perciò se non ti piace…
— No, no.
Va benissimo — si affretta a replicare e mi fa persino un mezzo sorriso di
scusa.
Giuro,
mai visto un uomo così attaccato ai suoi capelli.
Mentre
lavoro, chiude gli occhi e ascolta la musica alla radio, battendo il ritmo con
la mano sul bracciolo della sedia; strano che non faccia storie per il tipo di
musica che danno, non abbiamo esattamente gli stessi gusti in fatto di gruppi:
i suoi sono così… antiquati, ma non è strano che lo siano, non è vero?
La sua
testa è fredda ma non gelida come quella di un morto, la pelle del suo collo
liscia e compatta come un pezzo di sapone, anche se immagino che il paragone
corretto in questo caso sarebbe alabastro, e quando gli dico di stare fermo
smette anche di respirare, cosa che non ho mai capito esattamente perché si
ostini a fare comunque visto che non ne ha bisogno.
Non è la
prima volta che gli faccio la tinta, l’ho già fatto l’anno scorso, ma è la
prima volta che lo faccio senza avere nessuna aspettativa, se capite quello che
intendo, e perciò mentre giro attorno al suo orecchio stando attenta a non
sbavare, l'idea che qualche mese fa ho fatto delle cose con la mia lingua su
questo stesso lobo mi fa sorridere.
— Dove
sei stato?
—
Quando?
—
Quest'estate: non eri a Sunnydale.
—
Nemmeno tu. Dove sei stata?
— Houston.
E tu dov'eri?
—
Africa. Perchè Houston?
—
Lavoro. E tu perchè Africa?
— Perchè
la gente viaggia? Per viaggiare.
— Uhm.
Sabbia, sole, gente malnutrita: che ci facevi in Africa, Spike? E poi Africa
dove, Egitto, Sudafrica o cosa, quella dei cavalieri, Malta?
— Per
amor del cielo, Tarantula, l'isola di Malta è in Europa.
— Girati
un po' verso destra, per favore, ecco, sì, così. Credo di aver letto un libro
sui cavalieri di Malta. È un'isola piccola.
—
Capitale
— Se lo
dici tu. Li faccio del solito colore, naturalmente.
— No, li
fai blu come quelli della Fata Turchina. Certo che li fai del solito colore,
donna, che domande mi fai?
Ridacchio
fra me e me spalmando la tinta ciocca per ciocca pensando come starebbe con i
capelli blu, a parte che probabilmente starebbe benissimo perché farebbero
pendant con gli occhi, però questa cosa del suo viaggio in Africa continua ad
incuriosirmi. Tanto più perché evidentemente non ne vuole parlare e questo è
veramente strano, perché se c'è una cosa che a Spike piace — a parte il sangue
tagliato con l'whisky, le corse in moto e quella sua Cacciatrice formato mignon
— è proprio quella di sentire il suono della sua bella voce mentre esprime le
sue opinioni sui fatti degli altri in modo tanto colorito quanto scortese. E
proprio mentre sto pensando che a lui invece non frega un accidente di che cosa
ho fatto ad Houston — non che mi aspettassi il contrario, s'intende — sento una
domanda che a tutta prima non riesco nemmeno a capire da dove provenga:
— Perchè
sei tornata a Sunnydale, Tarantula?
D'istinto
mi volto a cercare chi abbia parlato, primo perché il grande vampiro centenario
se ne fa un baffo di quello che succede alle povere parrucchiere di Sunnydale,
secondo perché non sembra esattamente la voce di Spike, cioè sembra la voce di
Spike dopo che si è sgonfiato di un bel po', se capite quello che intendo, o
magari era la voce che aveva prima di diventare una creatura della notte che si
nutre di sangue. Ma lui si gira un po' a guardarmi — ce l'ho uno specchio ma
ovviamente non mi serve a niente con questo tipo di clienti — e così facendo il
colore gli cola lungo il collo e finisce sull'asciugamano che gli ho messo
sulle spalle per proteggere la sua maglia nera da incidenti e mi ripete la
domanda guardandomi in modo incerto:
—
Allora? Perchè sei tornata in questo cazzo di posto? Che ti è successo a
Houston?
E con
questo siamo demoni due e umani zero, almeno per quanto riguarda l'interessarsi
ai guai del prossimo ove questo prossimo si chiami Taylor Peters, che poi sarei
io così come risulta dal mio numero di tessera sociale.
— Quello
stronzo di mio cugino mi è saltato addosso mentre mia zia era andata in Chiesa.
Ecco quello che è successo.
— E tua
zia...
Scrollo
le spalle.
— ... non
ha creduto alla tua versione dei fatti. — completa lui stringendo un po' gli
occhi e inclinando la testa da un lato in un gesto che gli è tipico. Sono
sorpresa perché non lo facevo così intuitivo, no, non è esatto, intuito ce l'ha
sempre avuto, è il fatto che sappia così bene da che parte si schierano le
vecchie bigotte quando hanno per figlio un porco debosciato che mi lascia di
stucco.
— Già.
Come hai fatto ad indovinare? Sta fermo, ti è entrato il decolorante
nell'orecchio, adesso lo tolgo con l'asciugamano.
— La
classica storia della parente pov... — si ferma e mi fa segno di stare zitta.
Adesso mi aspetterei che si sdraiasse per terra con l'orecchio incollato al
pavimento, invece si alza dalla sedia e si sposta verso la saracinesca del
garage, che ho lasciato mezza alzata per fare entrare un po' di aria fresca,
non che a lui il caldo darebbe fastidio ma io sono già un bagno di sudore e
oltretutto devo usare i guanti per maneggiare i prodotti. Si è armato della
vanga che è ancora appesa al muro dai tempi remoti in cui papà si dedicava al
giardinaggio e ora si è accovacciato nell'ombra e scruta verso l'oscurità del
cortile rimanendo assolutamente immobile e non fosse per l'asciugamano rosa
ricamato a fiorellini blu che porta avvolto attorno al collo e le ciocche di
capelli intrise di decolorante che stanno in piedi come gli aculei di un
istrice sembrerebbe proprio una letale minaccia. Mi lascio prendere da una
passeggera preoccupazione per il mio vecchio addormentato in salotto mentre la
porta di casa non è nemmeno chiusa a chiave prima di ricordare che almeno metà
dei guai in cui attualmente mi trovo è colpa del vecchio ubriacone e che se
proprio devo preoccuparmi per qualcuno posso sempre preoccuparmi per me stessa.
Così mi sfilo i guanti e resto ferma dove sono nella convinzione che chiunque
sia là fuori e qualunque cosa voglia non c'è proprio bisogno di rendergli il
lavoro più facile emettendo stupidi e riconoscibili rumori umani. La prima cosa
che sento è un rumore di legno che si spacca lentamente, come se una bestia
troppo grossa fosse salita sul ramo dell'albero dei vicini, e subito dopo un
paio di tonfi come se qualcosa fosse precipitato dal suddetto ramo sul soffice
terreno. Ho appena il tempo di ricordare che i vicini hanno un cane — un grosso
dobermann di tredici anni di cui avevo una paura dell'accidente quand'ero
ragazzina — e di chiedermi perché diavolo non stia facendo il suo lavoro di
cane da guardia prima di sentire una serie di cupi grugniti d'incerta origine
intervallati da pietosi guaiti che potrebbero effettivamente provenire da un
cane, anche se faccio fatica a credere che il vecchio feroce Siegfrid possa
suonare così patetico. Prima che mi renda conto di che cosa stia succedendo, il
mio cliente è già uscito dal mio estemporaneo salone armato di vanga e di
asciugamano a fiorellini senza dire una parola, senza fare rumore e senza
lasciare mance. Molto meno silenziosa ma in compenso molto più lenta, arranco
in punta di piedi fino all'uscita del garage e sbircio alla fioca luce della
vecchia lampada da giardino dei vicini. Si direbbe che il dobermann Siegfrid
sia andato a seppellire l'ultimo osso nei giardini dell'eternità, perché ha
smesso di guaire e ora giace con le zampe all'aria subito al di qua della
recinzione con i vicini, mentre una pozza umida si sta allargando sull'erba
rinsecchita dell'area incolta che io e papà chiamiamo il nostro prato più per
abitudine che per convinzione. A prima vista il responsabile del canicidio
potrebbe essere quella creatura grossa e pelosa che ha afferrato Spike per la
gola con le sue zampacce e lo sta sbatacchiando di qui e di là come se fosse un
cespo d'insalata da scolare; ma nel frattempo il mio vampiro non demorde e
continua a tirare calci al suo avversario nelle parti molli o che potrebbero
esserlo e a menargli sul testone oblungo colpi di vanga che risuonano
tutt'attorno con un cupo clang clang. Anche se non credo che se Spike potesse
parlare chiederebbe il mio aiuto quanto piuttosto imprecherebbe come un
carrettiere perché non dev'essere piacevole venir sbattuto ripetutamente in
quel modo contro i montanti di cemento della palizzata, mi pongo il problema di
fare qualcosa per preservare il suo collo e il mio asciugamano: è vero infatti
che se anche spezzi l'osso del collo a un vampiro quello non muore finché non
riesci a separare la testa dal corpo, ma è anche vero che è assai probabile che
svenga e io non ho la minima voglia di restare a tu per tu con questa cosa che
se fosse un po' più piccolo potrebbe forse essere un lupo mannaro enorme.
Il
nostro tubo da innaffiare è così impolverato per il poco uso che si fa fatica a
capire dove comincia il tubo e dove finisce l'arrotolatore, ma io so che è
ancora collegato al rubinetto perché la settimana scorsa mi ha gocciolato sulle
scarpe mentre cercavo di sbloccare la saracinesca, così allungo una mano ad
aprire il rubinetto fino in fondo e con l'altra afferro l'estremità del tubo e
lo srotolo più in fretta che posso come se stesse andando a fuoco la casa e
intanto che litigo con le annose spire di quel serpente di plastica lo sento
gonfiarsi sotto le mie dita così che quando finalmente riesco a sollevarlo
l'acqua sta già uscendo con un bel fiotto generoso e io sono anche abbastanza
brava da centrare il mostro in faccia o quello che è al primo tentativo, sebbene
mi tremino le mani per la paura di fare un pasticcio e di innaffiare invece i
capelli in lavorazione di Spike perché non solo non servirebbe a niente ma
rovinerebbe tutto il mio lavoro. È vero: non sto pensando chiaramente, perché
se questo tipaccio tramortisce Spike io rischio di fare la stessa fine di
Siegfrid e a quel punto il mio orgoglio professionale sarebbe al riparo da ogni
offesa per sempre, ma che vi devo dire, avere nel mio giardino un vampiro e un
enorme mostro peloso che cercano di ammazzarsi a vicenda mentre il cane dei
miei vicini muore dissanguato sul mio prato ha evidentemente appannato le mie
capacità di ragionamento.
In ogni
caso l'effetto della mia estemporanea azione di disturbo va oltre ogni rosea
aspettativa perché emettendo un lamento che sembra quello di King Kong quando
gli sparano sull'Empire State Building il mostro molla la presa e lascia cadere
Spike sull'erba, anzi a dire la verità sul corpo del povero Siegfrid che
assorbe la caduta come un materassino di gomma facendo un orribile suono da
palloncino sgonfiato.
— Brava
— trova il tempo di dirmi Spike con voce arrochita dai maltrattamenti subiti
dalla sua gola intanto che si rialza e si ributta alla carica con rinnovato
ardore, e io mi sento molto orgogliosa di quello che ho fatto perché ho passato
tutta la vita a Sunnydale ed è la prima volta che torco un capello a qualcuno.
Almeno in senso figurato perché a rigor di termini ho passato un mucchio di
tempo ad attorcigliare capelli a una grande varietà di soggetti.
Ora il
mostro si sta arrampicando sulla palizzata nell'ovvio tentativo di andarsene
per la stessa strada per la quale è presumibilmente arrivato e che il dobermann
ha inutilmente difeso a prezzo della vita ma Spike lo tira giù e gli dà addosso
vangate su vangate finché non si muove più.
— È
morto? — chiedo senza avvicinarmi troppo.
— Certo
— risponde Spike che si è inginocchiato di fianco a Siegfrid — Gli ha spezzato
l'osso del collo buttandolo giù dalla palizzata. Era il tuo cane?
— No,
era il cane dei vicini, aveva questa fissazione che niente e nessuno potesse
passare sul suo terreno senza lasciargli un pezzetto di carne per ricordo.
— Non ti
piacciono i cani — mi rimprovera Spike.
— Non ti
facevo così amante degli animali: è solo perché sei inglese o è perché porti il
nome di un cane anche tu? — ribatto — Dicevo se è morta quella... cosa là.
— Non ci
scommetterei: questi demoni mannari rispuntano quando meno te lo aspetti.
— Un
che? Un demone mannaro? Ma non è mica luna piena.
— Non è
luna piena qui. Nel posto da cui viene lui non si sa — spiega Spike e si sposta
verso il corpo del suo avversario, che giace scomposto a pancia all'aria, col
pelo tutto arruffato e i quattro arti, tutti più o meno della stessa lunghezza
e tutti muniti di strani zamponi che finiscono con cinque grossi artigli
violacei, spalancati.
Mi
accorgo di tenere ancora in mano il tubo dell'acqua e di stare allagando il
giardino e mi affretto a chiudere il rubinetto prima di raggiungerlo.
— Se
fosse morto non dovrebbe tornare nella sua forma umana, insomma, nella sua
forma normale? — chiedo osservando il muso affollato di pelo fra cui si
distinguono a malapena le palpebre, chiuse e prive di ciglia, un naso a palla
dalle narici allungate e delle piccole orecchie frastagliate che sembrano
attaccate nel posto sbagliato.
— Forse.
Ma come cazzo è la sua forma normale? — dice Spike pensieroso e quando si
accorge di come lo sto guardando aggiunge — Non lo so, va bene? Scusa tanto se
non sono un trattato ambulante di demonologia.
— E
allora come fai a sapere che è un demone mannaro?
— Che
cosa succede, Taylor?
Mi volto
e vedo mio padre, in ciabatte, pantaloni del pigiama e canottiera, inoltrarsi
sul terreno fradicio
— E
perché è tutto bagnato? — aggiunge guardandosi sconcertato le ciabatte
infangate. Fa schifo, ma sembra sobrio.
—
Niente, papà, torna in casa.
— Chi è
quest'uomo? E che cosa sono quelle cose? — insiste mio padre indicando i corpi
a terra. Resto un attimo spiazzata non tanto perché non so cosa rispondere
quanto perché non riesco a ricordare quanto tempo è passato dall'ultima volta
in cui mi ha rivolto tre, no, quattro domande di seguito. Spike ne approfitta
per interloquire:
— Buona
sera, signore, lei è il padre di Tar..., di Taylor, immagino. Mi stavo facendo
tagliare i capelli da sua figlia quando c'è stato un po' di trambusto. Ora però
è tutto a posto.
Visto?
Lo sapevo che c'era del potenziale in lui: questa è stoffa da perfetto
fidanzato, e non dico solo per le parole in sé e per sé, dovreste sentire come
ha parlato, mi ha fatto venire in mente l'ex bibliotecario dell'ex liceo, quel
signor Giles così carino e così misterioso.
Mio
padre ci casca vestito e calzato, si fa per dire perché in realtà non è né
l'uno né l'altro, e gli si rivolge come se fosse San Giorgio dopo che ha
sconfitto il drago.
— Succedono
certe cose in questa città... Un padre si preoccupa.
Ipocrita
bugiardo, quando mai si è preoccupato il vecchio ubriacone?
— Ma
certo — rincara la dose il nostro vampiro gentiluomo non meno ipocrita e non
meno bugiardo di lui — È Sunnydale, dopotutto. — e intanto si sposta di lato
per coprire la vista del demone mannaro.
— Quello
è il cane dei vicini, Manfred — dice mio padre indicando il corpo del dobermann
col dito e facendo una certa confusione tra nomi tedeschi — Che cosa gli è
successo?
— È caduto
sul campo — dico io — Era un bravo cane.
—
Difendendoci da un grosso randagio rinselvatichito — rincara la dose Spike.
Come pensi di far passare un demone peloso di due metri per un cane randagio va
al di là della mia immaginazione.
— Era
una bestia stupida e sanguinaria — obietta mio padre e quasi quasi potrei
ricominciare a volergli bene — E tu l'hai sempre odiato a morte, Taylor. Come
minimo i Bruebacker penseranno che sei stata tu.
— Non
credo che i Bruebacker siano in casa, oppure sarebbero venuti a vedere che cosa
sta succedendo.
— Non
c'è bisogno che sappiano i particolari di questa... disgrazia, porterò la
povera bestia sull'altro lato del giardino — si offre Spike con perfetta
urbanità. Se li lascio fare mio padre lo inviterà in casa per offrirgli una
tazza di tè o un bicchere di limonata ed è vero che io sono tanto tanto
riconoscente a Spike; ma non così riconoscente da invitare un vampiro a casa
mia.
— I tuoi
capelli! — dico allora — Temo di aver lasciato il decolorante troppo a lungo.
Accidenti, accidenti, accidenti. Dobbiamo proprio andare.
Ma
naturalmente per il momento non possiamo proprio andare da nessuna parte perché
se io e Spike ci spostassimo mio padre vedrebbe chiaramente questa grossa cosa
pericolosa che giace sul nostro prato e dovrebbe ammettere di non esserne
affatto sorpreso, cosa che non farebbe mai nemmeno da ubriaco figuriamoci in
uno dei suoi rari momenti di sobrietà; così restiamo lì a guardarci l'un
l'altro come tre tipici cittadini di Sunnydale alle prese con fatti che preferiscono
far finta che non siano mai accaduti finché mio padre grazie forse alla
percentuale insolitamente bassa di alcool nel suo sangue capisce l'antifona
tutto da solo, borbotta:
— Allora
ti lascio al tuo lavoro, Taylor. Buona sera — e rientra in casa trascinando le
sue ciabatte infangate.
—
Muoviti, vediamo che cosa si può fare per i tuoi capelli — sollecito Spike
spingendolo verso il garage, mentre lui ragionevolmente obietta che non
possiamo lasciare il demone lì dov'è, casomai non fosse morto, dimostrando con
mia grande sorpresa di essere più interessato al rischio di morte prematura del
vicinato che a quello di decolorazione eccessiva delle sue radici. Troviamo un
rotolo di corda in garage e Spike vi trascina il corpo del demone mannaro, che
è svenuto ma ancora vivo, procedendo poi a legarlo come un salame con
un'abilità che non voglio nemmeno pensare quando e dove e perché abbia
acquisito. A dir la verità io vorrei anche vedere se inchiodandolo al terreno
con il rastrello il demone sopravviverebbe ancora ma il mio cliente si rifiuta
di darmi man forte in questa bisogna, e siccome il cliente ha sempre ragione —
in particolare quando è un vampiro di centoventi anni — non mi resta che
inchinarmi alle sue preferenze.
Il resto
della serata trascorre operoso e tranquillo, nel senso che io opero e gli altri
due se ne stanno zitti e buoni ovvero uno buono e l'altro privo di conoscenza
mentre tolgo il decolorante e stendo la tinta. È entre io e Spike aspettiamo
che la tinta faccia effetto, subito dopo che gli ho spiegato che i suoi capelli
potrebbero risultare un po' più gialli del dovuto e che per tutta risposta lui
ha cercato senza risultato di scroccarmi una birra — quest'uomo è il più
perseverante scroccatore di birre che io conosca e, credetemi, questo vuol dire
qualcosa — che il nostro silenzioso e involontario ospite comincia a
starnutire. La prima volta starnutisce così rumorosamente che per poco non mi
viene un accidente e mi stringo istintivamente a Spike come un bimbo spaventato
dal temporale alla sua mamma, mentre da parte sua lui si ritrae come una
fanciulla a cui venissero fatte delle indesiderate avances; a questo punto
siamo così imbarazzati dal nostro reciproco inopportuno comportamento che
accogliamo con sollievo anche il diversivo di un demone colto da un violento
accesso di starnuti. Il nostro involontario ospite starnutisce a più non posso
per quasi cinque minuti mentre il naso a palla assume una colorazione violacea
e uno spesso muco grigiastro gli cola dall'unica narice come fosse lava dalla
bocca di un vulcano. E sì, fa schifo esattamente come sembra a sentirlo
descrivere.
— Che
schifo — borbotta infatti Spike mentre cerca allo stesso tempo di tenersi fuori
tiro e di slegare il demone, che tra uno starnuto e l'altro ci guarda in modo
discretamente implorante con occhi lacrimosi, verdi e dotati di una strana
pupilla oblunga — Possibile che in questa città non ci si possa nemmeno fare i
capelli in pace?
A chi lo
dice.
— Perché
lo sleghi?
— Così
almeno si pulisce il naso. Strano che abbia preso freddo con questo look da
yeti che si ritrova.
— Più
facile che sia un'allergia — obietto io. Certe volte questi non—morti
dimostrano proprio tutti gli anni che hanno: non credo infatti che al tempo in
cui Spike era vivo ci fossero tante allergie. In compenso bastava trascurare un
raffreddore e potevi persino beccarti una polmonite e finire col rimetterci le
penne. Il nostro amico peloso qui però, mi spiace dirlo, ma sembra che non
toglierà il disturbo così facilmente, perché non appena Spike ha finito di slegarlo
alza una delle sue zampone a pulirsi vigorosamente il naso in modo efficace
anche se molto poco elegante.
— Non ha
più gli artigli — noto io — Prima aveva venti centimetri di artigli su tutte e
quattro le zampe.
— Sarà
calata la luna — dice Spike — O quello che è. Ha anche cambiato colore.
In
effetti se prima aveva pelle e pelo di un uniforme bianco sporco adesso tra un
pelo chiaro e l'altro si intravede un luccicante verde—blu di base: a dir la
verità è anche peggio di prima, perché ora sembra un gigantesco pupazzo di
plastica coperto di pelo sporco e col naso che cola.
— Credi
che questo colorito bluastro sia... normale?
—
Smettete.. etciù... di parlare di me... etciù... come se non avessi ancora...
etciù... ripreso conoscenza! — ci dice il demone a questo punto senza smettere
di starnutire. Ha una voce baritonale e ben impostata che sarebbe più adatta a
un candidato in campagna elettorale che a un demone mannaro di due metri.
— Finito
con la tua missione di distruzione e terrore? — gli chiede Spike con un tono
più amichevole di quello che mi sarei aspettata dopo che si è preso tutti quei
colpi in testa. È pur vero che anche se tutti i vampiri hanno la testa dura ce
ne sono certi che l’hanno più dura degli altri. Nel frattempo io sono riuscita
a trovare un pacchetto di fazzoletti di carta nella tasca del grembiule e li
offro al mostro che li afferra e mi ringrazia educatamente prima di rispondere.
— Mi
dispiace... etciù... non ricordo niente... etciù... di quello che faccio
quando... etciù... mi trasformo. Non avrò mica... etciù... ammazzato qualcuno?
— Il
cane dei miei vicini — lo informo io, ma come vedo la sua espressione mi
affretto ad aggiungere:
— Era
cattivo. Faceva paura ai bambini.
— È
terribile — commenta il demone e si asciuga gli occhi con un fazzoletto di
carta.
— Era
anche vecchio, anzi sarebbe presto morto di vecchiaia — rincaro io.
— Dove
sono?
— A
Sunnydale.
Il
demone starnutisce e ci guarda come se fossimo due deficienti.
— A casa
mia — rettifico io — Anzi nel mio garage.
Altra raffica
di starnuti e altro sguardo di compatimento.
— Lo
vedo, grazie. Perché lui ha quella roba sui capelli?
— Glieli
sto tingendo. Ed è fortunato che ha la testa dura, perché altrimenti a
quest'ora tutto quello che potrei tingergli sarebbe il cervello.
— Mi
spiace tanto, anche se credo proprio che tu sia un vampiro. Ma hai uno strano
odore per essere un vampiro.
Io non
sento niente, ma non c'è da meravigliarsi visto che probabilmente sono quella
della comitiva che ha il naso peggiore.
— È la
tinta — dice Spike in fretta — Perché starnutisci, Eolo?
— Non lo
so, mi succede sempre quando smetto di essere... sì, insomma, mannaro, come
dite voi. Adesso finisce.
Quindi
c'è un voi — umana di un metro e sessantacinque scarsi e vampiro sul metro e
settantacinque — e un noi, demoni alti due metri con la pelle blu e la
pelliccia bianco sporco ai quali capita di diventare mannari e di sviluppare
artigli violacei lunghi venti centimetri. Del resto la gran parte dei demoni
tende a snobbare i vampiri vedendoli come un compromesso poco riuscito tra uomo
e demone e non sembra trovare rilevante la circostanza che quando metti insieme
umani e vampiri i primi tendano a fare una brutta fine. Graziosi vampiri mezzi
matti resi inoffensivi da un dispositivo elettronico a parte. E che ora
rischiano anche di restare con i capelli mezzo arancioni, se non ci spicciamo a
togliere il decolorante.
—
Sentite, gente, io mi chiamo Sassassa — dice il demone — siete stati proprio
gentili a non uccidermi. Del resto — aggiunge guardando Spike in modo
significativo — io sono terribilmente indigesto. Non vi dispiace se resto
seduto qui ancora un po' prima di andare a casa e cercare di capire che cosa è
successo? Ho bisogno di una mezz'oretta per riprendermi. È lontana la stazione
da qui?
— Non
tanto, ma non ci sono treni a quest'ora.
— Abito
vicino alla stazione, in una bella caverna asciutta, pulita e molto ventilata —
dice Sassassa guardandosi attorno come se il mio garage invece fosse umido,
sporco e soffocante, cosa quest'ultima niente affatto lontana dalla verità —
Dove dovrei trovarmi tuttora con un bel collare imbottito e una robusta catena
fissata alla parete, casomai il sonnifero avesse finito di fare effetto.
— Molto
prudente e molto rispettoso dell'incolumità del vicinato — dice Spike assentendo
gravemente col capo — Però i tuoi guardiani devono essere usciti a farsi un
goccio.
— No, no
— nega il demone recisamente — Mio cugino sa quello che fa, e io dormivo già
quando se ne è andato.
— Non
puoi esserti liberato da solo? — ipotizzo io.
— Oppure
qualcuno ha voluto sguinzagliare per Sunnydale una belva sanguinaria. — dice
Spike e siccome Sassassa l'ha guardato un po' male aggiunge:
— Sia
detto senza offesa, amico. Possiamo andare avanti con i miei capelli adesso,
tesoro? L’alba mi rovina la pelle.
Mentre
tolgo la tinta, faccio lo shampoo e taglio via tutta quell'adorabile abbondanza
di riccioli che Spike aborre come l’acqua santa, Sassassa ci racconta con un
certo imbarazzo come è diventato mannaro. È una storia che coinvolge una
demonessa molto affascinante con una certa tendenza a mordicchiare durante i
momenti di intimità e con una memoria così breve da impedirle di avvertire i
suoi occasionali amanti del suo piccolo problema personale. Il risultato
sembrerebbe un drappello di grossi demoni mannari bianchi nel mondo natale di
Sassassa, che è emigrato qui da noi per non mettere in imbarazzo la sua
famiglia.
Sunnydale,
ricettacolo dei demoni reietti di questo e degli altri mondi.
Sarà
perché ultimamente mi sento molto reietta anch'io, ma quasi mi viene da
piangere quando il nostro demone ci racconta di come ha dovuto lasciare la sua
casa natale di nascosto prima che gli anziani della tribù venissero a fare
giustizia sommaria. Quando Sassassa arriva al punto in cui sua madre pronuncia
strazianti parole di commiato porgendogli il cestino da viaggio ricolmo di nidi
di scarafaggi amorevolmente preparati con le sue stesse mani persino Spike si
agita a disagio sulla sedia, mettendo a grave repentaglio i perfetti lobi delle
sue orecchie, dato che proprio in quel momento io sto lavorando di forbici di
buzzo buono e non ci vedo nemmeno tanto bene perché sto ricacciando indietro le
lacrime; ma potrebbe anche essere perché non gli piacciono gli scarafaggi, che
poi in effetti non piacciono a nessuno in questo mondo tranne a quanto mi hanno
riferito al defunto Sindaco Wilkins. E anche in quel caso non si può dire che
il Sindaco appartenesse proprio a questo mondo, non è vero?
Il primo
ad andarsene è Sassassa, non prima di essersi ripetutamente scusato per l'incomodo
arrecato ed essersi congratulato con me per aver usato così tempestivamente
l'unica arma efficace verso i demoni mannari, cioè l'acqua corrente. A dir la
verità io credevo che servisse solo per tenere a bada i cani idrofobi ma non lo
dico perché mi piace che il nostro visitatore sia convinto che sono una tipa
tosta e ben informata sul mondo demoniaco. Ormai io ho quasi finito con Spike,
che dopo aver chiacchierato a sprazzi di questo e di quello per tutta la sera
in ultimo è diventato taciturno in modo così poco caratteristico da farmi
temere un nuovo incontrollabile exploit alla Qualcuno volò sul nido del cuculo,
tanto più quando mi dà i soldi che mi deve senza nemmeno che io abbia bisogno
di chiederglieli. Nonostante tutto prima di andare via si carica i resti del
povero Siegfrid in spalla, perché evidentemente intende mantenere la promessa
che ha fatto a mio padre e portare il cane morto davanti alla porta di casa dei
suoi padroni. Da parte mia sono sicura che i Bruebacker, da esemplari cittadini
di Sunnydale, non metteranno in dubbio per un momento che Siegfrid sia morto di
morte naturale.
Riordino
e rientro in casa in punta di piedi, perché sono stanca e non ho voglia di
rispondere alle domande di mio padre, si sa mai sia ancora sveglio e ancora sobrio
e ancora desideroso di sapere chi viene a farsi tagliare i capelli da sua
figlia. Ma potevo anche fare a meno di preoccuparmi, perché il vecchio è seduto
al tavolo da cucina, con la testa sopra il tavolo e una bottiglia di vodka
vuota sotto il tavolo, come se avesse voluto recuperare alla grande quei pochi
momenti di sobrietà. E io sono così cretina che mi dispiace, e quando sono nel
mio letto, nella mia cameretta da bambina, davanti alla fotografia di me e di
Gladys a otto anni al luna park con i palloncini in mano che è sempre stata sul
mio comodino, ecco che comincio a piangere senza nemmeno sapere io di preciso
perché.
Quella
notte, per la prima volta dopo molto tempo, sogno mia madre. Porta lo stesso vestito
bianco a fiori che portava alla festa della mia scuola — l’ultima festa alla
quale intervenne, portando anche una torta fatta da lei, che era buonissima
anche se un po’ storta da una parte — e ha al collo la collana di granati che
le aveva regalato papà per il primo anniversario di nozze, prima che io
nascessi, e che si è portata a Detroit mentre la catenina e la fede sono
rimaste nel primo cassetto del comò in camera di papà. Mi guarda dolcemente
come se fossi ancora una bambina di nove anni e mi dice che presto verrà a
trovarmi. Nel sogno io alzo le spalle e le rispondo che può anche risparmiarsi
il viaggio, che poi è esattamente quello che le direi anche nella vita reale se
mi proponesse la stessa cosa al telefono. Se solo non fossero tre mesi che non
mi telefona.
2. La
vendetta mangia piatti freddi
“You
would seem so frail
In the
cold of the night
When the
armies of emotion
Go out
to fight.
But
while the earth sinks to its grave
You sail
to the sky
On the
crest of a wave.”
Cello
Song di Nick Drake
Fra i
molti misteri di Sunnydale, come si formi l’inesauribile riserva di gente
imprudente o disinformata da cui proviene la sempre folta clientela del Bronze
è forse il meglio custodito.
È vero
che il nostro vampiro medio è così rognoso e insofferente che qui le gang di
vampiri hanno vita breve, e che di solito i loro membri finiscono per farsi
fuori tra loro prima ancora di aver ultimato la scorreria inaugurale; perciò
l’eventualità che i clienti del Bronze vengano sequestrati da una mezza dozzina
di soggetti desiderosi di ingozzarsi del loro sangue fino al mattino è in
realtà abbastanza remota. È successo, non dico di no, ma così come per la
strage sul treno della notte si è trattato di casi isolati e come tali non
sufficienti a scoraggiare i frequentatori del locale.
Io ad
ogni buon conto non metto piede al Bronze - e a dir la verità non metto piede
fuori di casa dopo il calar del sole - se non ho con me la grossa croce d’oro
che mi ha regalato papà quando ho compiuto dodici anni, l’unico regalo di
qualche valore che il vecchio mi abbia mai fatto.
E di
solito non vengo nemmeno al Bronze da sola come una disgraziata in cerca di una
compagnia maschile qualsiasi purché con battito cardiaco, ma questa sera quella
demonessa ammuffita della mia nuova padrona - e quando dico ammuffita non
intendo nel senso di qualcuno se ne sta sempre chiuso a casa ma di qualcuno a
cui cresce qua e là a chiazze sulla pelle della strana roba verdastra - aveva
dei piani suoi per una seratina romantica col suo amico e ha chiuso bottega
dopo la prima permanente. Non è un tipo tutto casa, negozio e pinnacolo come la
cugina di Clem la mia nuova datrice di lavoro, ma del resto - come dice
bonariamente Clem - questi sì che sono demoni che sanno divertirsi.
A questo
punto l’alternativa era tra tornare a casa e vedere a che punto era arrivato
mio padre con quella sbronza che sembrava già così ben avviata all’ora di cena
o tirar tardi da qualche parte in città, che in una serata feriale, a meno di
non volersi aggregare alla riunione settimanale del Circolo degli Scacchi,
voleva dire fare una capatina al Bronze.
Così
eccomi qui a ciondolare nel Bronze e a fare del mio meglio per dare
l’impressione di avere appena perso di vista la numerosa, affiatata e del tutto
inesistente comitiva con cui vorrei far credere di essere arrivata nel locale,
dove c’è molta gente e fa molto caldo come al solito. Non conosco la band che
suona stasera - dicono di chiamarsi Gli Zombie Felici - non so se siano felici
e di sicuro non sono felice io di ascoltare queste loro canzoni lagnose però a
vederli potrebbero benissimo essere davvero zombie: del resto non è questo il
problema principale a Sunnydale, che non sai mai quando è giunto il momento di
prendere le metafore alla lettera?
Naturalmente
con questa musica non può essere che una serata romantica, di quella con le
coppiette avvinghiate sulla pista da ballo e un viavai più intenso del solito
con i bagni e la porta sul retro, vale a dire per me una romantica serata di
solitudine e di rompimento di balle a meno che non mi riesca di rimorchiare
qualcuno nella prossima mezz’ora. C’è uno al bar che mi sembra solo anche lui e
non è neanche male - capelli rossicci, naso lievemente rincagnato, spalle
squadrate - vedo che ha anche una bella abbronzatura da pelle chiarissima, cioè
un arrossamento al limite della scottatura, che magari non sarà molto estetico
ma almeno significa che è stato molto tempo al sole di recente e che perciò non
riserva brutte sorprese di quelle con le fauci.
Non c’è
infatti niente di peggio che perdere tempo con uno sconosciuto scambiando le
solite frasi generiche e cercando di mostrarti nel tuo aspetto migliore, e
proprio quando pensi che sì, potrebbe andare e accetti di ballare, come gli
appoggi sul collo senza farti notare la tua vistosa crociona d’oro quello si
mette a urlare come un maiale scannato, gli vengono gli occhi gialli e gli
escono le zanne, gli astanti scappano da tutte le parti come conigli spaventati
e tu sei sempre l’ultima a svignartela, dandoti dell’idiota per aver agganciato
- di nuovo - l’uomo sbagliato.
O
meglio, il non uomo sbagliato perché in quanto agli uomini, come dice la mia
amica Dolores, sono tutti sbagliati, solo che ad alcuni hanno passato sopra la
scolorina prima di ributtarli sul mercato.
Inoltre,
a proposito di cose scolorite, devo ammettere che ho sempre avuto un debole per
gli uomini con la carnagione chiara, meglio ancora se hanno una spolverata di
lentiggini sul naso come George, che se lo guardi nelle fotografie di quand’era
bambino sembra proprio uno di quei angiolotti paffuti che mettevano una volta
sulla scatola dei biscotti.
Mi muovo
quindi verso il bar in modo che vorrebbe essere al tempo stesso rapido e sexy,
perché ho notato nella parte opposta del locale una biondona superdotata che
potrebbe aver messo l’occhio sul mio stesso obiettivo; ma proprio mentre sto
per posare il sedere sullo sgabello di fianco al giovanotto, una mano con le
unghie laccate in una tonalità di carminio molto ma veramente molto fuori moda
mi trattiene per il braccio e una piacevole morbida voce femminile dall’accento
vagamente inglese mi dice con felice tono di sorpresa:
- Oh,
mia cara… che combinazione. Posso offrirti da bere, sì?
Mai
usare forbici poco affilate per fare un taglio; mai correre tenendo le suddette
forbici in mano; mai uscire di casa dopo il tramonto senza una croce a portata
di mano; mai contraddire un demone della vendetta.
- Oh,
grazie, Halfrek: molto volentieri.
Perché
al salone è la signora Halfrek e io sono la lavorante ma qui al Bronze siamo
clienti tutte e due e se si aspetta che la tratti con deferenza si sbaglia di
grosso.
Stranamente,
perché le demoni della vendetta sono i più permalosi di tutti i demoni oltre ad
essere i più avari, non batte ciglio ad essere apostrofata con tanta confidenza
e mi mette invece in mano
La seguo
pensando che sembra una cosa da poco, ma é uno sforzo di modernizzazione
veramente encomiabile in una donna che non era nemmeno abituata a pettinarsi da
sola, figuriamoci poi a portarsi da sola le bibite al tavolo in un locale
pubblico. Ha scelto un tavolo ideale dal suo punto di vista, comodo per non
farsi sfuggire eventuali liti tra le coppie impegnate sulla pista da ballo da
cui possano eventualmente sorgere motivi di vendetta, peccato però che sia così
vicino al palco che i bassi mi fanno rimbombare le orecchie.
Mi
sembra di ritornare ai bei vecchi tempi subito dopo che George se ne era
andato, quando ciondolavo da un raduno all’altro, intanto che la vecchia Taylor
se ne andava facendo spazio alla nuova Tarantula con il suo corredo di vestiti
neri, borchie, catene e occhi bistrati.
Ci ho
quasi rimesso l’udito da un orecchio in quel periodo ma ne è valso decisamente
la pena, perché almeno ho imparato che se proprio devo farmi spezzare il cuore
dal primo venuto, tanto vale che si tratti di un ragazzaccio con un po’ di
spina dorsale e la voglia di vivere pericolosamente piuttosto che di un
provincialotto con le toppe al sedere come il povero George.
Un’altra
cosa che ho imparato in quel periodo: mai sedersi al tavolo più vicino al palco
perché non c’è bassista sexy e malandrino che valga la rottura di un timpano
quando il più delle volte basta presentarsi dopo lo spettacolo con un paio di
birre ghiacciate “per i ragazzi” perché l’intero gruppo ti veda come una
salvatrice della patria.
Non
stiamo parlando dei Rolling Stones: il nome scritto sulla batteria dei gruppi
di cui parlo è un nome che a malapena le loro madri ricorderanno ore dopo la
loro esibizione. E non si tratta necessariamente di madri come la mia, che si
ricorda di me solo il giorno del mio compleanno, quando mi arrivano i soldi in
una busta da Detroit. Nemmeno lo sforzo di compilare un assegno o di comprare
un biglietto d’auguri: due o tre banconote da cento con scritto “auguri -
mamma” di traverso sulla faccia di Lincoln.
Halfrek
mangia i suoi tramezzini strapieni di sottaceti con l’inimitabile grazia di una
vera signora di altri tempi mentre io tracanno metà della mia Coca con la
spensierata volgarità di una vera proletaria dell’era moderna; quando ha finito
mi guarda al di sopra del bicchiere con interesse professionale come se
indovinasse il corso dei miei pensieri - e magari sa abbastanza della mia vita
per andarci abbastanza vicina perché è una di quelle fanatiche del lavoro che
pensano sempre agli affari ventiquattro ore su ventiquattro ed è convinta che
il momento buono per appioppare una vendetta prima o poi si presenterà per
chiunque.
In
compenso non è una cliente rognosa anche se non vuole proprio saperne di
rinunciare a quei suoi ricciolini da capretta in favore di qualcosa di più
originale; e quando le ho proposto una tinta mi ha guardato come se fossi un
mostro con tre teste - a pensarci bene anzi sono sicura che un mostro con tre teste
non avrebbe suscitato in lei lo stesso sguardo di oltraggiato orrore.
- Non mi
piace per niente questa musica - mi confida guardando pensierosa il cantante
del gruppo e io mi chiedo per un momento se l’espressione “il suo modo di
cantare grida vendetta” si possa intendere alla lettera e se magari questo
ragazzetto stridulo si risveglierà domani mattina con due orecchie d’asino
intonate a questo suo tremulo ragliare. Ma non è questo che ha in mente
Halfrek.
-Come
stai, Tula? Tutto bene a casa?
Ahi, ahi,
ci siamo. È il mio vecchio che ha in mente allora, il vecchio con le sue epiche
sbronze, quella patetica sbiadita imitazione di padre che è tutta la mia
famiglia da undici anni.
- Halfrek
- ritorco io con un sorriso serafico prima che mi venga la tentazione di
appioppare al vecchio un retino da pesca al posto del gozzo così che quando
cerca di mandar giù qualsiasi tipo di liquido gli coli tutto sul petto in una
cascatella - Io mi chiedo che cosa ti avrà mai fatto il tuo di padre. Il mio
non è certo il migliore dei papà ma in fondo è solo un poveraccio di ubriacone
che fa più danno a se stesso che a chiunque altro. E io non gli auguro alcun
male - aggiungo strizzando l’occhio al demone della vendetta solo un pochino,
non così tanto da farla arrabbiare però, e alzando il mio bicchiere di Coca
dico ancora
- E anzi
bevo alla sua salute - e mi scolo tutto quello che resta della bibita gelata in
un colpo solo esattamente come farebbe il vecchio con la sua birra.
- Uhm -
mi dice Halfrek senza prendersela e accompagnando anzi il mio gesto con un
tentativo poco convinto di alzare anche il suo bicchiere - In fondo c’è una
sorta di giustizia poetica nel bere alla salute di un ubriacone con una bibita
analcolica.
-
Hallie, sei sicura di stare bene? - chiede una voce argentina alle mie spalle
in tono canzonatorio - Da quando in qua ti unisci ai brindisi invece che alle
maledizioni?
Mi giro
a guardare la nuova venuta che sta manovrando agilmente con un vassoio in mano
per unirsi a noi: è una biondina magra magra e molto carina con un vestito a
fiori e un bel paio di gambe. Non mi sembra di conoscere la ragazza e di certo
non conosco quei suoi capelli piuttosto sfruttati ma se c’è una cosa che vi posso
dire con assoluta sicurezza è che non si tratta di una bionda naturale. Frase
che di solito dicono i dongiovanni da strapazzo per lasciare intendere di aver
conosciuto intimamente una donna, ma che nel mio caso invece è da intendersi
alla lettera, cioè come il giudizio di una professionista.
- Anya,
vieni, siediti vicino a me - la accoglie Halfrek con calore e procede a fare le
presentazioni come se ci trovassimo a un evento mondano
- Non
conosci Tarantula, vero? Questa è Anyanka, ma noi la chiamiamo Anya, è una
collega ed una carissima amica.
Magnifico,
due demoni della vendetta al prezzo di uno: qui la cosa si fa alquanto
delicata.
Le due
signorine si lamentano vicendevolmente di non riuscire mai a consumare un pasto
come si deve perché i loro doveri assorbono una parte eccessiva del loro tempo
e mi chiedono che cosa ho mangiato per cena.
Io mento
e rispondo pollo arrosto e patatine, mentre invece ho riscaldato nel forno a
microonde la pizza avanzata da ieri; se fossi sincera dovrei aggiungere che
però ho fatto fuori anche quella che in teoria sarebbe dovuta andare a mio
padre, perché lui si era già fatto la sua dose di zuccheri sotto forma
rigorosamente liquida.
Mentre
l’amica di Halfrek s’imbarca in una spiegazione lunga e non richiesta sul come
e sul perché abbia saltato la cena e stia cercando di rimediare con i panini
che ha sul vassoio - spiegazione che comprende un rapido confronto sul rapporto
prezzo/qualità dei vari piatti freddi offerti nel locale - io la osservo con
più attenzione e non sono più tanto sicura di non averla incontrata prima.
Succede sempre così a Sunnydale: la città è abbastanza piccola perché si
finisca col conoscersi di vista praticamente tutti e al tempo stesso troppo
grande perché all’impressione di aver già visto qualcuno si possa sempre
riuscire ad associare un nome o una circostanza precisa.
- E così
le ho detto che sono un demone della vendetta, non la sua fata madrina -
conclude Anyanka alzando sospettosamente la foglia d’insalata del suo panino
per scoprire che cosa ci sia sotto
- E che
se voleva buttare il suo ex in mezzo alla strada non c’era bisogno che
diventasse la proprietaria di uno stabile di quattro piani. Roba da matti. Uhm,
che cos’è questo?
- Un
cetriolino? - azzardo io.
-
Zucchina cruda? - dice Hallie.
- Non si
mettono le zucchine nei panini, tantomeno crude - protesta Anya
- Non è
vero - dice Hallie - Le zucchine si possono mangiare crude in insalata,
quand’ero in Grecia lo facevo sempre.
Il bello
dei demoni della vendetta è che fanno pasti regolari come chiunque altro -
anche se non ho mai capito se per sfizio o per reale necessità - perciò quando
sono di buon umore ti possono raccontare un mucchio di cose interessanti su
quello che si mangia in giro per il mondo.
I
vampiri invece ad esempio sono noiosissimi da questo punto di vista ed è già
tanto se sono capaci di distinguere il sakè dalla tequila. Magari ti raccontano
che sono stati a Pechino e tu gli chiedi “E com’era?” e tutto quello che sono
capace di dirti è che era buio e che hanno fatto un macello. Una volta ho
passato tre ore a fare i capelli a una vampira che voleva i colpi di sole e per
tutto il tempo questa ha chiacchierato ininterrottamente senza dirmi
assolutamente niente. Niente, se non quello che sapevo già e cioè che i vampiri
si nutrono di sangue e che il modo più spiccio per procurarselo è appostarsi in
un vicolo buio e piombare addosso al primo malcapitato affondandogli i denti
nel collo. Che questi vicoli si trovassero a New York o a Città del Messico o a
Parigi non faceva la minima differenza nel dettagliato racconto delle sue
scorrerie.
Tentare
di fare conversazione con un vampiro è come chiedere a un giocatore di football
di parlarti delle sue partite: quando è arrivato alla metà del campionato del
1999 tu stai già sperando che succeda qualcosa, qualunque cosa - una scossa di
terremoto, un tornado, un’invasione di extra-terrestri - purché quello strazio
abbia fine.
- Questa
ragazza - dice Halfrek alla sua amica - ha un padre che è un vero disastro…
- Hallie,
che noia con questa tua mania per i padri. Magari Tarantula ha un fidanzato che
è un vero disastro. Uno che la tradisce con le sue amiche o che le ha fatto un
occhio nero o che le ha fregato tutti i risparmi per giocarseli a Las Vegas -
aggiunge Anya in tono vagamente speranzoso.
- No
guarda che non ce l’ho proprio un fidanzato - mi affretto ad interromperla
prima che si faccia delle illusioni, omettendo di dire che in passato ho avuto
sia fidanzati che mi hanno tradito con le amiche sia fidanzati che mi hanno
fatto occhi neri e anche fidanzati che si sono giocati i miei risparmi ai dadi.
Mi piacerebbe anche venire vendicata, non dico di no, ma l’esperienza mi ha
insegnato che i metodi di questi demoni della vendetta finiscono
invariabilmente per coinvolgere vittime innocenti o, peggio ancora, ritorcersi
su chi ha avuto l’idea.
- Sei
fortunata - osserva Anya acidamente - I fidanzati tendono a piantarti nel
momento meno opportuno.
- Il suo
l’ha lasciata il giorno delle nozze - mi spiega Halfrek con quella mancanza di
tatto che deve far parte del profilo attitudinale per la professione di demone
della vendetta.
- Strana
coincidenza: la scorsa primavera sono stata a un matrimonio che è finito
proprio in questo modo. Qui a Sunnydale.
- Sarà
stato il mio - dice Anya.
- Ma no,
era il matrimonio di Xander Harris.
- Era
proprio lui il mio fidanzato. C’eri anche tu? Non mi ricordo di averti vista
tra i partecipanti alla rissa.
Mi
profonderei in scuse chiunque fosse la persona con cui ho fatto questa gaffe:
figuratevi se risparmio sforzi per convincere il demone della vendetta
dell’involontarietà del mio errore. Servisse a qualcosa, striscerei sul
pavimento. Anche se a dir la verità preferirei proprio di no perché a questo
punto della serata il pavimento del Bronze fa veramente schifo.
- Non mi
hai visto per niente semplicemente perché sono andata via prima. L’idiota con
cui ero non aveva voglia di restare per il matrimonio.
- Ma
certo - dice Halfrek - Tu eri con Wil.. con Spike. Perché avevi invitato Spike
al tuo matrimonio, a proposito, Anya? Non l’ho mai capito.
- Era
stata un’idea di Willow. E quando Willow parla, Xander esegue. Così eri tu la
strana ragazza che Spike aveva portato al matrimonio? - dice Anya e dopo avermi
scrutata attentamente aggiunge - Il tuo trucco non è così pesante come mi
avevano detto. A me non sembri per niente una passeggiatrice.
- Grazie
- rispondo un po’ seccata. Certo non mi aspettavo di piacere all’esclusivo
circolo di bigotti che ruota attorno alla Cacciatrice ma non prevedevo nemmeno
di essere scambiata per una donna di strada.
-
Guardate che io Spike lo conosco solo perché gli faccio i capelli. E prima che
me lo chiediate, no, quel colore non è stata proprio un’idea mia.
- Aveva
i capelli color can che scappa. Quand’era vivo, intendo dire - dice Halfrek.
-
Conoscevi Spike da prima? - chiedo io - Che strana coincidenza.
Stasera
le coincidenze abbondano.
- Beh,
sai: tutti che vengono a Sunnydale porta dell’Inferno e via dicendo. Non c’è un
posto migliore in cui passare l’inverno nel nostro ambiente. Noblesse oblige.
- Perché
sarei rimasta, se no? - dice Anya - Non è che imbattermi di continuo nel mio ex
fidanzato mi faccia poi questo gran piacere.
- Non
avrei mai pensato che Xander Harris si fidanzasse con un demone della vendetta.
È sempre stato un tipo così provinciale!
- Non lo
era - dice Halfrek.
- Certo
che lo era: lo conosco fin da bambino ed è sempre stato di vedute ristrette.
- Non
ero un demone della vendetta quando mi dovevo sposare - chiarisce Anya - Poi,
sai, ho preferito riprendere la mia carriera lavorativa.
- Oh.
Sì. Capisco - mi dichiaro frettolosamente d’accordo io anche se in realtà non
capisco un accidente. Demoni della vendetta che smettono di esserlo per sposare
giovanotti umani? Sembra una versione bieca e molto sunnydaliana della
Sirenetta. Quella del libro che la mamma mi leggeva quand’ero piccola, non
quella di Disney.
-
Comunque lui adesso ha un’anima - mi dice Halfrek abbassando la voce come se mi
stesse rivelando che un comune conoscente soffre di una malattia venerea - Lo
sapevi?
- È per
questo che dà fuori di matto - aggiunge Anya - L’hai vista quella ragazza là
con il vestito viola? Non ti sembra che stia piangendo?
- Chi? -
chiedo io che sto ancora pensando a Xander Harris e a come sia potuto passare
da nullità insignificante a fidanzato di demone della vendetta. Forse sono i
vantaggi collaterali che nascono dal far parte dell’entourage della
Cacciatrice. Vantaggi si fa per dire.
- Quella
vicino alla porta con i capelli arancione e le gambe storte.
- Non
piange per niente - chiarisce l’altro demone dopo essersi contorta sulla sedia
per dare un’occhiata - Ha solo un tremendo raffreddore. E non ha nemmeno le
gambe storte: ha solo le ginocchia una diversa dall’altra.
- Quella
cosa che dite dell’anima. Di chi state parlando?
- Di
Spike, naturalmente. L’hai mica incontrato di recente?
- Sì.
Gli ho tagliato i capelli il mese scorso.
- E come
ti è sembrato? Niente scambi di vedute con persone invisibili? Non usava la
terza persona per parlare di sé stesso?
Mi
sembra un quadro abbastanza preciso dello stato in cui si trovava il vampiro
quando mi ci ha portato Clem; ma dal momento che Spike mi ha salvato la vita
dal demone mannaro mentre queste due qui vorrebbero solo trasformare mio padre
in un dromedario o appioppare due braccia di troppo a qualcuno dei miei ex non
è poi così difficile decidere a chi debba andare la mia lealtà.
- Non
so, normale. Per quello che può essere normale uno come Spike. Ma come mai ha
un’anima?
- E chi
lo sa? - dice Anya scrollando le spalle - Se provi a parlargliene in un momento
in cui ti sembra abbastanza lucido per rispondere cerca di romperti le ossa.
- Sicure
di non entrarci niente? Affibbiare un’anima a un vampiro sembra una cosa
veramente crudele da fare. Degna di voi, intendo dire.
Come
diceva sempre Monsieur Alexandre, un po’ di adulazione non costa niente e non
ha mai fatto male a nessuno. Ma Anya sembra più indignata che lusingata.
- Per
chi ci hai preso? Siamo forse una tribù di zingare? Magari adesso vorrai che ti
legga la mano.
- Certo
che no - dico io - Non siete vestite per niente come zingare, anzi siete
proprio molto eleganti.
Questa è
veramente grossa perché io ho invece sempre avuto il sospetto che Halfrek abbia
la stessa sarta di mia zia, quella bigotta che sta ad Houston; ma evidentemente
Monsieur Alexandre sa il fatto suo perché dopo la mia smaccata esibizione di
falsità mi sorridono tutte e due aggiustandosi meccanicamente i vestiti.
- La ragazza
qui non sa niente dell’altro vampiro con l’anima - osserva amabilmente Halfrek
- Non vedi che le confondi le idee? E tra l’altro non credo nemmeno che ci
siano gli zingari dietro questa anima qui.
-
L’altro vampiro con l’anima?
Anya
conviene con la sua amica che l’anima di Spike non viene dagli zingari e che
soltanto un idiota potrebbe andare a caccia di un’anima.
- Se è
un’idiozia stai pure certa che William è la persona ideale per farla. Quantomeno
era proprio un idiota quand’era vivo e diceva di amarmi - osserva Halfrek.
- Spike
da vivo era innamorato di te? - chiedo io piuttosto sorpresa. Non ho idea di
come fosse il vampiro prima di diventare un vampiro, ma questa signorina bene
con la puzza sotto il naso non mi sembra proprio il suo tipo né da vivo né da
morto.
- Magari
hai ragione - conviene Anya dopo aver scrutato il fondo del suo bicchiere
corrugando la fronte come se vi cercasse un’ispirazione
- Ci
scommetterei la testa che Buffy sa come è andata, ma quando mai
Anya si
interrompe e fa una risatina amara: - Era furiosa quando ci ha trovato insieme.
Non furiosa come Xander ma insomma non era contenta per niente.
-
Insieme? - chiedo io.
Mi
sembra di essere in una di quelle sit-com in cui il nuovo venuto non sa niente
di quello che sanno tutti gli altri e continua a fare la figura dell’idiota,
con me nella parte dell’idiota.
- Umani!
Ci scaricano e ci trattano come pezzi di cacca perché siamo demoni o lo siamo
stati e quando ci trovano a letto insieme hanno anche la faccia tosta di
offendersi - prosegue Anya infervorandosi senza rispondermi. Poi ci ripensa e
aggiunge: - Anche se era un tavolo e non un letto. Ma che cambia?
-
Niente. Mi stai dicendo che tu e Spike…
-
Avevamo alzato un po’ il gomito - si giustifica Anya - Sai come succede. Siamo
d’accordo che è un idiota, ma da quel punto di vista lì niente da ridire.
Vampiri, lo sai come si dice: c’è un’unica cosa che sanno fare. A parte
uccidere, intendo dire. Ma lo saprai già, immagino.
- Io non
so un accidente di niente - protesto io un po’ risentita.
Ma come,
devo essere io l’unica ad essere andata in bianco col vampiro? Non che non
l’avessi capito che aveva un debole per
- Ti ha
fatto qualcosa di male? - mi chiede Halfrek con inesauribile zelo
professionale. Non mi meraviglia che non abbia il tempo di fare dei pasti
regolari.
- No,
non mi ha fatto proprio niente di niente. Non mi ha lasciato nemmeno assaggiare
il rinfresco.
- Potremmo
vendicarti per la sua mancanza di interesse… - mi dice Anya poco convinta -
Anche se a dir la verità il rinfresco non l’ha mangiato nessuno: quello che
l’impresa di catering non è riuscito a mettere in salvo è finito spalmato sulla
faccia degli invitati.
-
Qualcuno è riuscito a mangiarlo anche così - obietta Halfrek - Però l’hanno
fatto solo quelli che avevano una lingua molto lunga e particolarmente mobile.
L’amica
le rivolge un’occhiataccia e allora lei si affretta ad aggiungere: - Ma è stato
molto scortese da parte loro. In ogni caso, se vuoi esprimere un desiderio, io
posso far succedere qualcosa di tremendo a William.
-
Qualcosa di più tremendo di quello che gli è già successo? - chiede Anya con
aria scettica.
- E poi
non era un amico tuo da vivo? - chiedo io.
- Il
lavoro è lavoro - protesta Halfrek agitando le sue manine paffute con le unghie
color carminio come una maestra che protestasse di non aver favorito in nessun
modo il nipotino preferito agli esami
- Noi
abbiamo un’etica professionale, cosa credi?
- Ecco,
a proposito: quella ragazza con i capelli arancioni sta proprio piangendo -
interviene Anya.
-
Anch’io piangerei se fossi uscita con un vestito come quello. Ma li avete visti
i volants?
- Per
non parlare di quella cosa che spunta da sotto: cos’è, una sottoveste? Una
volta avevo una cameriera che aveva sempre la sottogonna più lunga della gonna.
Orribile.
- No, è
una specie di pizzo attaccato al vestito - decreta Anya dopo averla osservata
socchiudendo gli occhi per inquadrarla meglio.
- Quando
è stata l’ultima volta che si sono messi i pizzi e i volant insieme? Durante
- Non
so: non c’ero - rispondiamo io e Halfrek in coro, poi ci scambiamo uno sguardo
risentito. Forse dovremmo fare cric e croc.
Anya si
alza dal tavolo con un sospiro e dice: - Ecco il tuo problema, Hallie: sei
giovane. Se tu fossi in circolazione da più di mille anni come me non
confonderesti lacrime di dolore da vendicare con lacrime da eccessiva
produzione di muco. Penso proprio che adesso andrò fuori a fumare.
- Auguri
con la ragazza ma stai attenta a non strozzarti col fumo: non hai mai imparato
a fumare - dice Halfrek
- Non è
vero: una volta ho fumato oppio in un bordello di Chicago. Un bordello che è
anche una fumeria d’oppio è un ottimo posto in cui trovare donne bisognose di
vendetta. Non guardatemi così: io ero solo la lavandaia là dentro.
-Che
schifo - mi lascio sfuggire. No, davvero: il mestiere di demone della vendetta
non è tutto rose e fiori se significa anche lavare le lenzuola di un bordello.
Anya e Halfrek fanno una smorfia da martiri.
-
Lavatrice: la più grande invenzione nella storia dell’umanità - mi dice Anya
con un sorriso di intesa prima di allontanarsi puntando sulla ragazza col
vestito viola e i capelli arancioni con la stessa foga di un barbone che avesse
intravisto un cappotto quasi nuovo dimenticato su una panchina.
- Sai -
mi confida Halfrek - Anya ha bisogno di migliorare un po’ il suo punteggio: è
andata maluccio ultimamente.
- Avete
i punteggi? - chiedo io più per gentilezza che per altro sbirciando verso il
bar per vedere se il rosso con l’eritema solare è ancora là e ancora libero. Mi
sembra per il momento di aver passato tempo più che a sufficienza in compagnia
di altre femmine per di più demoni e vorrei tornare al mio piano originale di
trovare compagnia maschile per la serata. Ma ovviamente nel frattempo la bionda
che avevo già individuato come rappresentante della concorrenza è riuscita a
piazzarsi con il suo voluminoso davanzale e tutto il resto di fianco all’ignaro
oggetto del nostro silenzioso contendere e ora se ne sta appollaiata sullo
sgabello con un metro e mezzo di gambe in mostra chiocciando e ridendo
instancabilmente alle sue battute di spirito come si fa in questi casi.
Lui
invece continua a bere, che potrebbe essere un segno buono o un segno cattivo
perché o beve per farsi coraggio e diventare intraprendente oppure beve per
darsi un contegno e prendere tempo. Oppure ancora beve semplicemente perché è
un ubriacone come papà e in questo caso sono stata fortunata ad incontrare
Halfrek sulla mia strada perché se voglio vedere un uomo che vomita sul
pavimento non c’è nessun bisogno che venga al Bronze, basta che me ne resti a
casa mia.
A un
certo punto però estrae il telefonino dalla tasca e dopo aver parlato
brevemente fa dei gesti di scusa alla bionda e se ne va lasciandola lì con il
suo bel faccino tutto imbronciato. Io seguo con la coda dell’occhio il percorso
del giovanotto, che si fa strada tra gli avventori mettendo in mostra ahimè un
caracollare assai poco elegante per poi sparire da quella stessa uscita
laterale in cui si sono infilate, una dopo l’altra, la ragazza con i capelli
arancione e il demone della vendetta numero due.
Nel
frattempo Halfrek ha cominciato una noiosa spiegazione sui punteggi delle
vendette a cui presto orecchio con un sorriso di circostanza ma poiché tutte e
due continuiamo ad allungare il collo per vedere che cosa sta succedendo in
giro - io per guardare se il rosso ricompare, lei per cogliere al volo improvvisi
desideri di vendetta - quando si sente il primo urlo siamo pronte a balzare in
piedi come molle scambiandoci uno sguardo d’intesa, sempre che ci possa essere
intesa tra un normale essere umano che quando sente gridare pensa che qualcuno
ha bisogno di aiuto e un demone della vendetta che quando sente gridare pensa
che finalmente è cominciato il carnaio.
Le urla
continuano e si intensificano, sovrastando sia il brusio dei clienti che la
lagna sul suo perduto amore in cui si sta producendo il cantante del gruppo, e
mi consentono di distinguere almeno due sorgenti distinte: una donna con una
voce da soprano che sta urlando con tutto il fiato che ha nei polmoni e una
creatura rauca che più che urlare ringhia e bramisce. Hallie fila verso la
porta come un treno riuscendo a conservare non so come un portamento
incredibilmente distinto nonostante la fretta e i tacchi alti e io la seguo
ondeggiando con molta meno grazia sui miei stivaletti col tacco a spillo con
cui non manco di colpire casualmente qua e là malleoli e metacarpi dei
malcapitati che ostacolano la mia marcia e che reagiscono a loro volta con
indignate e rumorose proteste. Credo che Halfrek sia preoccupata per Anya -
anche se non ne capisco il motivo perché di solito non sono i demoni della vendetta
ad urlare quanto piuttosto a provocare le urla di terrore degli altri - io
invece mi chiedo che ne sia stato della ragazza con i capelli arancione e il
vestito viola: andare in giro con un look del genere mi sembra un fardello già
abbastanza pesante da portare senza doverci aggiungere spiacevoli incontri con
mostruose creature della notte.
Mi
domando anche dove sia andato a finire il giovanotto del bar, che cosa gli
abbiano detto al telefono per farlo uscire così di gran carriera e come mai il
bordello sia cominciato non appena è uscito lui. Fossi sola me ne starei al
sicuro e al calduccio al mio posto ma la compagnia di un paio di demoni della
vendetta contribuisce indubbiamente ad aumentare il mio coraggio; così eccoci
qui a varcare la porta del Bronze come dei veri duri sotto gli occhi di una
piccola folla di curiosi che scrutano nell’oscurità stando bene attenti a non
mettere piede fuori. Francamente, non li biasimo. Un ragazzo con gli occhiali e
le lentiggini che non può avere più di sedici anni è persino abbastanza
cavaliere da cercare di impedirmi di uscire mentre gli altri maschi si limitano
a guardarmi con quella tipica espressione vacua che il cittadino medio di
Sunnydale di solito assume mentre ripassa mentalmente le statistiche locali di
mortalità.
Fuori è
così buio che non potrei riconoscere la strada; così buio da andare ben oltre
le esigenze di risparmio energetico del municipio; così buio che qualcuno o
qualcosa deve aver rotto la lampada del palo che sta ed è sempre stato
esattamente all’angolo. Fossimo altrove, penserei che la lampadina è bruciata o
che qualche teppistello ha centrato la plafoniera con un tiro di fionda ben
assestato; ma siccome siamo a Sunnydale tendo a credere che qualcuno alto
quattro metri o capace di arrampicarsi su un lampione alto quattro metri o
ansioso di sottrarsi alle luci stradali abbia volontariamente spento la luce.
Peggio ancora, praticamente nello stesso momento in cui ho messo fuori dal
Bronze il mio piedino calzato di uno stivaletto nero vezzoso ancorché
scalcagnato e la pesante porta si è richiusa alle mie spalle, le urla di poco
fa sono state sostituite da un profondo, improvviso silenzio, nel quale il
battito accelerato del mio cuore sembra essere diventato l’unico suono.
È così
buio che non riesco a vedere Halfrek ma se trattengo il respiro la sento
respirare al mio fianco - grazie al Cielo i demoni della vendetta se non
ossigenano regolarmente i polmoni diventano tutti blu come chiunque altro - e
dopo un momento di assoluto silenzio che mi sembra durare un’eternità, la sento
anche dire a bassa voce:
-
Accipicchia, non si vede un bel niente.
È quello
che penso anch’io, sebbene non condivida la sua terminologia da signorina di
buona famiglia, ma penso anche che nella mia borsa vaga ancora l’accendino un
tempo appartenuto al caro George - non che me l’avesse lasciato per ricordo, lo
trovai io sotto il letto quasi un mese dopo che se ne era andato da Sunnydale.
E prima che me lo diciate: sì, è vero, non sono molto assidua nei lavori di
casa; e nemmeno riordino spesso il contenuto della mia borsa.
È un
bell’accendino d’argento che George non si sarebbe mai sognato di comprare,
quindi sta a voi decidere se l’avesse sgraffignato da qualche parte o se fosse il
regalo di un’ammiratrice. In entrambi i casi, può tornare utile in una sera
buia. Halfrek sobbalza come se si fosse punta con uno spillo nel momento in cui
faccio scattare l’accendino e una fievole luce ci permette se non altro di
guardarci in faccia; più in là a tutta prima non sembra che ci sia niente da
vedere oltre i bidoni della spazzatura e le solite cose del vicolo e questo è
strano, perché non posso fare a meno di chiedermi dove diavolo siano finite la
creatura che emetteva quei ringhi terrificanti e la donna che strillava in quel
modo. E il rosso con l’abbronzatura. Questa porta laterale del Bronze è come il
baule di un prestigiatore: tutto quello che passa di lì sparisce nel nulla. Poi
mi viene in mente Anya, il demone della vendetta. Dov’è Anya?
- Anya?
- sussurra Halfrek con voce esitante - Anya, dove sei?
-
Amanda? - chiede una voce maschile nel buio - Sei tu?
Non so
se ci siano Amande qui e non riconosco di chi sia quella voce, ma non faccio in
tempo a chiedermi se potrebbe essere stato il giovanotto del bar a parlare che
sento un rumore di passi che si allontanano. Nessuna Amanda ha risposto. Forse
Capelli Arancione si chiama Amanda?
Di
nuovo, un silenzio denso come quello di cui sono fatti gli incubi. Poi una
serie di fiochi lamenti e un pianto di donna.
È notte,
è Sunnydale, mi trovo sul retro del Bronze, ho appena sentito una serie di
suoni a dir poco inquietanti: dovrei aspettarmelo. E invece no: il colpo
sull’orecchio destro mi raggiunge completamente di sorpresa, perdo l’equilibrio
e mi abbatto sulle ginocchia a mani avanti lasciando cadere l’accendino a terra
mentre gli occhi mi si riempiono di lacrime per il dolore.
A parte
le stelline che mi appaiono davanti agli occhi adesso è di nuovo buio fitto; ma
ora la voce di Halfrek giunge profonda, forte e minacciosa al mio orecchio
sinistro, quello non direttamente interessato dall’aggressione.
Penso
che abbia indossato il suo vero volto da demone - quello per capirci con le
eruzioni cutanee squamose sul colorito violaceo di fondo e la cresta centrale
tra fronte e naso - e anche mentre sono lì per terra, con tutta la parte destra
della testa che sembra sul punto di scoppiare intanto che il mio misterioso
aggressore è completamente libero di scegliere se finirmi o meno, mi morderei le
mani dalla rabbia per non essere riuscita a vedere nemmeno questa volta il
momento esatto della trasformazione, cioè l’istante in cui il liscio volto
lievemente paffuto di Hallie ha assunto l’aspetto terrificante della vendetta
impersonata.
I
vampiri non sono altrettanto riluttanti a trasformarsi in pubblico: ad esempio
l’anno scorso una cliente particolarmente di buonumore passò più volte da una
forma all’altra mentre la pettinavo per farmi vedere come i suoi capelli
perdevano la piega intanto che le zanne uscivano dalle labbra, la fronte si
arcuava e gli occhi diventavano gialli. E credetemi: non c’è lavoro di phon o
di lacca che basti a scongiurare la completa rovina dell’acconciatura in una
simile evenienza. Va un po’ meglio se metti un sacco di gel, ma poi i capelli
restano duri come setole e alla maggior parte della gente - viva o non morta
che sia - questo non piace molto.
-
Anyanka, palesati - dice Halfrek con voce profonda e spaventosa.
- Aiuto,
chi mi ha colpito? - domando invece io con voce stridula e spaventata e mi
rimetto in piedi a fatica brancolando nel buio finché non riesco ad afferrare
quello che spero sia un lembo del vestito del demone della vendetta.
- Non mi
toccare, mortale, mentre mi rivelo nel mio vero aspetto - mi avverte Halfrek
con lo stesso tono arcano e vagamente ridicolo e poi più prosaicamente aggiunge
- Non tirare la manica che la strappi. Chi ti ha colpito?
Nel
frattempo però mi ha afferrato per un braccio e mi sta trascinando verso una
zona più in luce del vicolo, laddove riesce ad arrivare la fioca illuminazione
proveniente dalla strada principale
- Non lo
so - le rispondo cercando ubbidientemente di non toccarla ma di restarle al
tempo stesso il più vicino possibile - C’era qualcuno qui alle mie spalle.
Dov’è la tua amica?
- Dove
sono tutti? - replica Halfrek e ora c’è abbastanza luce perché io possa
intravedere le squame sul suo naso.
Mai
avrei creduto di trovare il volto di un demone della vendetta una vista
rassicurante ma - ehi - i criteri di valutazione possono cambiare in fretta.
-
Halfrek - chiama dalla strada una voce che sembra una versione altrettanto
minacciosa ma meno nasale di quella della medesima Hallie.
Ora che
ci penso è buffo come demone o no, con le zanne o senza, da vivo o da morto chiunque
si tenga stretto il suo accento di provenienza: - Vieni qui, unisciti a me. Chi
è l’umana che ti accompagna?
Hallie
cammina maestosamente fino in fondo al vicolo e gira l’angolo con quella beata
spensieratezza che nasce dall’essere un demone immortale mentre io la seguo da
presso con una corsettina sbilenca mentre mi cola il naso e il dolore
all’orecchio pulsa al ritmo del mio stesso cuore.
Ma chi
me lo ha fatto fare di venire qui fuori? Non fosse che stiamo andando dalla
parte opposta a quella da cui è arrivato il colpo sul mio orecchio me ne
tornerei indietro verso la relativa sicurezza del Bronze, ma la probabilità di
un secondo trauma cranico fa sembrare preferibile la scelta di esplorare invece
l’ignoto. La compagnia di un paio di demoni plurisecolari non guasta.
Sono
tutti o quasi tutti dietro l’angolo.
Anya o
per meglio dire Anyanka, in una versione un po’ più colorata dello stesso volto
di battaglia di Halfrek; la ragazza con i capelli arancione e il vestito viola,
inginocchiata a terra ma apparentemente viva e in buone condizioni; un
giovanotto steso per terra non saprei se vivo ma certamente non in buone
condizioni che non è il rosso scottato su cui avevo messo gli occhi; e infine
il mio amico Sassassa in tutto lo splendore biancastro dei suoi due metri senza
elemento alcuno di mannarità. Mannarismo? Quello che è.
- Sono
scappati - dice Sassassa ad Anyanka - Perché non li hai fermati?
-
Sassassa? - dico io.
-
Tarantula? - chiede Sassassa.
- Vi
conoscete? - Anyanka con aria sospettosa.
- Che
cosa sta succedendo qui? - Halfrek con un sospiro di esasperazione.
E mi
spiace dovermi dichiarare d’accordo con la signorina So-Tutto-Io ma francamente
quest’ultima mi sembra proprio la domanda più azzeccata.
- Ci
siamo incontrati qualche settimana fa - risponde Sassassa contorcendo
stranamente il pelo intorno a uno degli occhi. Mi ci vuole qualche momento
prima di rendermi conto che il demone sta cercando di mandarmi un segnale
d’intesa strizzandomi l’occhio: immagino che non desideri che si sappia in giro
delle sue abitudini mannare e non posso dargli torto. In ogni caso, sempre
meglio l’occhiolino che un calcio negli stinchi: mi fa già male abbastanza
l’orecchio perché mi debba preoccupare anche di una gamba acciaccata.
- E
perché? - chiede Anya.
- E
perché cosa?
- Per
quale ragione una ragazza come te avrebbe incontrato un demone Sfrayano come il
signore qui presente? Che di solito non dovrebbe nemmeno aggirarsi per il
nostro mondo, tra l’altro.
- Ecco…
- dico io chiedendomi se posso addossare a Spike la responsabilità di avermi
fatto conoscere Sassassa. Un guaio in più, un guaio in meno non dovrebbe fare
grossa differenza per il vampiro; certo che una ci pensa due volte prima di
calunniare un vampiro.
- I peli
delle orecchie - dice Sassassa frettolosamente - Lei mi taglia i peli che ho
nelle orecchie. Ci vuole un’estetista per questo tipo di lavori. E poi la
ragazza qui ha la mano leggera.
- Tu hai
peli dappertutto - obietta Halfrek ma sembra più incuriosita che insospettita -
perché dovresti eliminare proprio quelli delle orecchie?
- Non
dovrei averne nelle orecchie. E poi prudono. Comunque preferirei che
smettessimo di parlare dei miei peli: è molto imbarazzante.
- Perché
state lì a fare conversazione invece di aiutarlo? - chiede la ragazza dai
capelli arancione alzando la faccia verso di noi.
Le
lacrime le hanno rovinato tutto il trucco e le sue guance sono un disastro di
mascara diluito, macchie di fondotinta e tracce di acne giovanile: uno
spettacolo penoso che non è certo migliorato da un grosso livido violaceo che
si sta rapidamente allargando sul suo zigomo destro. Qualcosa mi dice che ha
incontrato lo stesso misterioso personaggio che ha preso di mira il mio
orecchio; e se avessi seguito più attentamente uno o l’altro dei vari CSI ora
forse saprei se i colpi sul lato destro significano che il nostro assalitore è
mancino oppure che ha colpito entrambe da dietro oppure solo che stanotte
dovremo dormire tutte e due sul fianco sinistro. Sempre che io e Capelli
Arancione riusciamo ad arrivare salve se non del tutto sane nei nostri
rispettivi lettini.
Tra la
ragazza che mi ostruisce la visuale e l’illuminazione scarsa, non saprei dire
esattamente che cos’abbia il giovanotto di cui si sta preoccupando, ma visto che
non ha ancora partecipato alla conversazione suppongo che abbia perso i sensi;
da quello che riesco a vedere mi sembra che ci sia qualcosa di strano sulla sua
camicia all’altezza del fianco, ma non so decidermi se si tratta del manico di
un’arma da taglio o di una piega bitorzoluta del tessuto e non sono nemmeno
tanto sicura di volerlo sapere con certezza. Superfluo a dirsi, si tratta del
fianco destro. Dove, se la memoria non mi inganna, è situato il fegato, che
come tutto quello che si trova nel nostro corpo in esemplare unico si sa che è
molto meglio se rimane dov’è e non perde pezzi in giro.
- Non
sta così male - risponde Anya in tono irritato, e mi basta sentirla per capire
che ha di nuovo il gradevole aspetto di una finta bionda dai lineamenti delicati
e che mi sono persa ancora una volta l’occasione di vedere la trasformazione di
un demone della vendetta - se lo porti all’ospedale in tempo è probabile che
riescano a ricucirlo. E poi non eri tu a volerlo morto?
Capelli
Arancione si alza in piedi asciugandosi le mani insanguinate sul suo brutto
vestito viola. Le macchie di sangue sono difficilissime da togliere dalla
viscosa perciò francamente dubito che riuscirà a portarlo ancora: se vogliamo,
questo potrebbe anche essere il lato positivo della serata.
- Io non
parlavo sul serio - dice con voce tremante - e tu, qualsiasi cosa tu sia, tu lo
sapevi benissimo!
- Sei
stata tu a dire che avresti voluto che incontrasse un mostro peloso alto due
metri, carina.
- Ehi -
dice Sassassa - Anche se sono peloso io non sono un mostro. Ma avete visto che
capelli ha lei?
- A me
sembra una cosa strana da dire per scherzo - osserva Halfrek - Incontrare un
lupo mannaro, potrebbe essere uno scherzo. Ma un mostro peloso di due…
- Non mi
aiutare, Hallie, grazie - dice Anya.
Decido
di tenere gli occhi incollati su Halfrek, che ha ancora la cresta sulla fronte
e tutto il resto, sperando proprio che questa volta riuscirò a cogliere il
momento in cui riemergerà il suo volto umano.
- E
comunque il mio mostro peloso non gli ha fatto niente. - dice Anya soffiando
dal suo grazioso nasino come un gatto arrabbiato - Quelli che gli hanno dato
una coltellata sono stati degli altri.
- Era
una spada, non un coltello - obietta Capelli Arancione.
Come se
facesse differenza, penso io in un primo momento, e poi mi rendo conto che
invece ne fa un sacco di differenza: una coltellata te la puoi prendere da un
drogato in crisi di astinenza che vuole i tuoi soldi, ma neanche il più
sballato dei delinquenti andrebbe in giro armato di spada. Almeno da trecento
anni a questa parte, o da duecento, o insomma da quando i briganti e i
tagliaborse hanno cominciato ad usare armi da fuoco.
- Io non
sono tuo - protesta di nuovo Sassassa - Io stavo solo facendo la mia
passeggiata serale. Ora che ci penso non mi piace nemmeno questa parte della
città: non ci vengo mai.
- Anzi,
il mio mostro peloso è quello che vi ha salvato la pelle a tutti e due -
prosegue Anya come se Sassassa non avesse aperto bocca - Dovresti ringraziarmi
per essertela cavata con un livido sulla guancia. A proposito: si può sapere
che cosa volevano quelli da voi?
- Ma non
lo so - protesta Capelli Arancione - So solo che stavo parlando con te di
quegli scherzi idioti che fa il mio ragazzo, poi tu sei andata non so dove…
- Volevo
buttare la gomma da masticare nel cestino dei rifiuti - spiega Anya indicando
il bidone all’angolo della strada - I coperchi dei cassonetti sono così luridi
che non li volevo toccare.
- Da
quando sei diventata così schizzinosa? - chiede Hallie e siccome mi sembra che
si sia piuttosto smontata trattengo il fiato in attesa dell’imminente
trasformazione.
- È
diventato tutto buio, ho sentito che c’era qualcuno, mi sono girata e in quel
momento mi hanno colpito. Allora ho cominciato a gridare, ho gridato e ho
gridato e ho corso e a un certo punto mi sono scontrata con questo essere qui…
- Mi
chiamo Sassassa, signorina.
- …
questo essere qui che ringhiava come un cane arrabbiato.
- Mi ha
camminato sui piedi con i tacchi! Prima quel ragazzo lì sbuca dal nulla e mi fa
venire un mezzo accidente perché mi si accascia praticamente fra le braccia.
Poi dei pazzi con delle spade mi buttano per terra come se non mi avessero
nemmeno visto, la signorina comincia a gridare come se la stessero scannando,
io mi rialzo e lei mi cammina sui piedi con quei tacchi lì! - si giustifica il
demone Sfrayano con una punta di imbarazzo. Tutti d’istinto portiamo lo sguardo
sui piedi della ragazza, che effettivamente porta un paio di scarpe color
argento a punta con tacchi affilati come lame.
- Ma
come fai a camminare su quelle cose? - si informa Hallie con sincero interesse
e io impreco dentro di me perché mi rendo conto che per guardare le calzature
di Capelli Arancione ho mancato per l’ennesima volta l’attimo fuggente - quello
in cui la carnagione di Halfrek è tornata rosea e vellutata come una pesca, la
cresta si è appiattita, i suoi occhi hanno ripreso la forma tondeggiante, le
sue iridi sono ridiventate castane e i suoi stupidi ricciolini si sono
abbassati di dieci centimetri. Maledizione, non ci riuscirò proprio mai?
-
Qualcuno di voi ha la macchina, per favore?- chiede la ragazza - Siamo venuti
con degli amici, ma non so dove siano adesso.
- Io non
so guidare l’automobile - dice Hallie, lasciando intendere che sa guidare qualcos’altro.
Aerei, carrozze, calessi, tram… chi può dirlo.
- Non ho
mai avuto un’automobile - dice Sassassa.
- A me
l’ha rubata qualche bastardo - dico io anche se dovrei forse aggiungere:
qualche bastardo che non sa distinguere un’automobile da un triciclo.
- Hai
qualche idea su cosa ti piacerebbe succedesse al ladro? - mi chiede subito
Hallie.
Tutti
concordemente facciamo finta di non aver sentito.
- Io so
guidare - afferma Anya orgogliosamente mentre Halfrek gesticola per farci
capire che non è vero - però al momento non ho una macchina.
Non
fosse per quel povero disgraziato che rischia di morire dissanguato
sull’asfalto mi verrebbe da ridere: eccoci qui, in California, lo stato più
motorizzato del paese più motorizzato del mondo, tre esseri umani e tre demoni
e non abbiamo un’automobile in sei. Green Peace dovrebbe farci un monumento.
Con
perfetto tempismo il poveraccio sull’asfalto sceglie questo momento per
emettere un lamento. Lo guardo meglio per capire come sta, e francamente non mi
sembra molto in forma: però non ci sono coltelli che spuntano dal costato,
soltanto una brutta camicia scozzese inzuppata di sangue. Probabilmente non si
riuscirà a salvare nemmeno quella. Forse si potrebbe tentare con acqua fredda e
ammoniaca, ma poi resterebbe il buco. O il taglio.
Il
giovanotto, che non sarebbe pallido in condizioni normali perché è un ispanico
con la pelle olivastra e folte sopracciglia nere, in questo momento ha un
colorito verdastro che fa una certa impressione. Non so molto di pronto soccorso
- solo quelle quattro nozioni di base che ho imparato con gli scout - ma anche
quel poco è abbastanza per dire che starcene qui a cincischiare intanto che il
sangue di questo povero disgraziato gocciola sul marciapiede non è una grande
idea. Del resto non abbiamo nemmeno qualche vampiro qui - con anima o senza -
che se ne possa avvantaggiare. Non so agli altri, ma a me viene anche un po’ da
vomitare.
-
Bisognerebbe chiamare un’ambulanza - azzardo alla fine.
Spero
solo che l’amico di Capelli Arancione, qui, abbia un’assicurazione sanitaria
migliore della mia. Ripensandoci, non ci vuole molto, dal momento che io
un’assicurazione sanitaria non ce l’ho proprio.
- Il mio
cellulare è scarico - si dispera Capelli Arancione.
Cristo,
che brutta serata che ha passato questa qui. Non so se i demoni della vendetta
utilizzino i telefoni cellulari, quello che so è che io non ho più credito sul
mio.
- Che
cos’è un cellulare? - si informa Sassassa.
Fortunatamente
prima che cominciamo col secondo atto dello show sui sei personaggi che non
avevano ancora scoperto le comodità dell’epoca moderna, un telefonino compare
come per miracolo dalle ombre della notte. Faccio un balzo perché qualcuno me
lo ha messo proprio sotto il naso e tra orecchi doloranti, giovanotti che si
dissanguano ai miei piedi e demoni della vendetta con la cresta e senza,
stasera mi sento particolarmente nervosa.
- Volete
chiamare un’ambulanza? Che cosa è successo? - chiede una voce col timbro da
basso e l’inconfondibile accento texano.
Nonostante
il mio infelice soggiorno a Houston non ho niente contro i texani - basta che
non siano imparentati con me.
Monsieur
Alexandre non era texano nemmeno lui; e nemmeno francese, se è per questo, ma
dove avesse imparato a parlare in quel modo non sono mai stata capace di
scoprirlo.
Una mano
bianca, lentigginosa e alquanto callosa mi tende un modello dozzinale di
telefono cellulare, io lo prendo e compongo il 911, poi alzo lo sguardo ad
incrociare quello del giovanotto del bar. Alcuni uomini ci guadagnano ad essere
visti da vicino. Altri no. Di solito quelli che hanno la pelle arrossata dal
sole e dal lavoro all’aria aperta, gli occhi d’un azzurro slavato e le ciglia
quasi bianche rientrano nella seconda categoria e questo esemplare non fa
eccezione. Però ha una bella voce ed è ricomparso al momento giusto, che è
molto più di quanto si possa dire del mio appuntamento medio, e anche se non
sembra per niente il mio tipo, quanto piuttosto il tipo che potrebbe cantare
una vecchia canzone country accompagnandosi con la chitarra intanto che una
bella bisteccona di manzo si cuoce sulle braci, non mi sta guardando come una
bestia rara solo perché ho una minuscola lametta appesa alla catenina, porto i
jeans aderenti e i miei occhi sono completamente contornati con l’eye-liner.
Sempre
che il trucco abbia tenuto come spero perché non vorrei proprio avere l’aspetto
che ha in questo momento Capelli Arancione.
Quando
comincio a balbettare in risposta alle domande che l’operatore del
Io
guardo il texano che guarda Anya che parla al telefono e cerco senza successo
di formulare nella mia testa una frase per chiedergli in modo educato dove
diavolo era andato a finire senza che mi risponda di farmi i fatti miei. Certo
che uno che scompare nella notte di Sunnydale e ricompare dopo un po’ senza un
graffio suscita qualche sospetto; soprattutto quando tutti gli altri umani in
circolazione sono stati o picchiati o feriti. D’altra parte non solo non è un
vampiro ma ha anche i calli sulle mani - e se c’è una cosa che solitamente
manca ai malvagi, che siano demoni o meno, è proprio l’abitudine a un sano
lavoro manuale.
Halfrek
chiede a Sassassa se per caso conosce certi demoni Sfrayani che ha incontrato
una volta a una partita di caccia in campagna. Anche se lo dice esattamente
come se si trattasse di una di quelle stupide cacce alla volpe che fanno gli
inglesi quando si mettono le giacchette rosse e quei buffi cappelli in testa
chissà perché sono sicura che la preda non fosse una volpe. E non credo nemmeno
di voler sapere che cosa cacciassero di preciso, tantomeno se quel cosa non
fosse invece da intendersi come un chi. Il mio amico texano fissa il povero
Sassassa come se fosse un fenomeno da baraccone e ho paura che da un momento
all’altro cercherà di strappargli il naso a palla con l’unica narice e tutto
per cercare di scoprire che cosa c’è sotto; non fosse per Sassassa saremmo
quattro graziose ragazze - insomma, Anya è sicuramente molto graziosa, io e
Hallie passabili mentre questa Susan bisognerebbe almeno vederla con meno
lacrime e meno trucco spampanato per la faccia prima di poterlo dire - e due
giovanotti, ma anche se io fossi dotata della fervida fantasia degli
amministratori di Sunnydale in questo campo - e non lo sono - troverei
difficile sostenere che il demone sia qualcosa di diverso da quello che sembra,
cioè una grossa creatura soprannaturale con la pelle blu, il pelo bianco e una
narice sola.
Nel
frattempo Anya chiude la comunicazione, restituisce il telefono al nostro amico
texano e chiede chi resta qui ad aspettare l’ambulanza. È una di quelle domande
che sottintendono un finale alla “io no di certo”.
- Scusa
- dice il texano a Sassassa - ma tu…
- Vorrei
restare - equivoca Sassassa - ma sono già molto in ritardo.
Non dice
in ritardo per che cosa, lungi da me volerlo trattenere qui finché nel suo
mondo non sorge la luna o qualsiasi altra cosa determini la sua trasformazione
in una bestia feroce e sanguinaria; anche se con ogni probabilità le due
ragazze del ramo vendette sono ossi molto duri da masticare anche per un demone
mannaro, il quartetto di fragili umani qui riunito potrebbe invece farsi del
male. E non so gli altri, ma il grosso ematoma che preme sopra il mio orecchio
mi basta e mi avanza.
Poiché
nessuno degli astanti sembra ansioso di trattenere il demone Sfrayano dal
riprendere la sua passeggiata serale, egli si congeda cortesemente, augura al
ferito una pronta guarigione e mi strizza di nuovo l’occhio prima di sparire
nella notte come una grossa macchia bianca in dissolvenza. Mi sa che mi sono
fatta un altro amico dalla parte sbagliata del confine tra demoni e umani.
- Non
possiamo mica lasciarla qui da sola - dico io indicando Susan o come si chiama
- Chissà quanto tempo ci metterà l’ambulanza ad arrivare.
Il suo
amico non ha perso di nuovo conoscenza ma soffre molto e lei gli tiene la mano
sussurrando la solita litania di confortanti falsità che si dicono in questi
casi, tipo “vedrai, non ti faranno male” “ti rimetterai presto” “ma no, che non
stai per morire”.
- Io
sono un demone della vendetta, non un’assistente sociale - dichiara Hallie dando
mostra della solita comprensione per i problemi degli altri.
- E io
devo ancora andare a vendicare qualcuno, stasera, perché questo lavoro qui non
è andato tanto bene - spiega Anya con una punta di rammarico.
- Si è preso
una coltellata, non ti basta? - azzardo io cercando di farmi bella davanti agli
occhi del texano, così magari si fa l’idea che sono una tipa tosta e anche
caritatevole.
- Beh,
sì… - ammette Anya.
Se non
sapessi come ragionano i demoni della vendetta, potrei quasi credere che non le
dispiacerebbe potermi dare ragione.
- Sì, ma
non l’ha presa per merito tuo - precisa Halfrek severamente - Però non ti devi
demoralizzare: adesso torniamo dentro e cerchiamo di raddrizzare la serata.
Più la
conosco e più mi ricorda una maestra. Anya sembra sul punto di protestare ma
poi cambia idea e segue docilmente l’amica; però le sento discutere mentre si
allontanano.
Restiamo
io e il giovanotto rosso. Finalmente soli, per così dire.
- Mi
fermerei volentieri, ma la mia cuginetta ha bisogno di me. Ha solo sedici anni
e mi ha telefonato perché si è spaventata quando dei malintenzionati hanno
cercato di entrare in casa dal terrazzo. Credevo anzi che fosse venuta qui a
cercarmi, ma invece si è rifugiata in casa di una compagna di scuola. Mi guarda
imbarazzato, da bravo cavaliere che non sa tra quale damigella in pericolo
scegliere: si vede proprio che non è un mio concittadino. In quanto a me, posso
forse competere in bisogno di protezione con una ragazzina di sedici anni? Di
Buffy Summers, che alla stessa età aveva già fatto fuori un leggendario vampiro
capostipite di una dinastia di vampiri con la quale persino Spike deve avere
qualcosa a che fare, ce n’è una per generazione, o almeno così mi dicono.
- Saggia
ragazza - commento perciò - le strade di Sunnydale sono pericolose durante la
notte.
- Già,
vedo. Io di solito lavoro in campagna perché faccio impianti di irrigazione,
quindi non so bene come vanno le cose in città, ma avrei creduto che una
cittadina come questa fosse un posto tranquillo.
- A
volte lo è.
- Mi
spiace lasciarti qui da sola con questi due. È così strano che ci siano in giro
contemporaneamente bande di ladri che entrano nelle case e gente armata che
ferisce i passanti…
- Strano
e anche preoccupante - concordo - Ma un po’ ci siamo abituati.
- Amanda
mi sta aspettando. Se almeno mia zia fosse ancora viva… Quella famiglia che
l’ha in affidamento francamente non mi sembra un granché. Se fossi sposato, la
farei venire a vivere con me.
Vorrei
chiedergli se è per questo che si fa abbordare dalle ragazze nei bar, per
trovare una moglie disponibile a prendersi in casa la cuginetta sedicenne senza
famiglia. Francamente, non so proprio se il Bronze sia il posto ideale in cui
incontrare la donna giusta.
- Beh,
non ti preoccupare. Probabilmente quelli del Pronto Soccorso saranno qui a
momenti.
-
Sicuramente. Allora vado. Resterò ancora in città per qualche giorno, magari ci
incontreremo ancora. Uhm, mi chiamo Thomas. Non Tom o Tommy o…
-
Thomas. Ho capito.
Io gli
dico di chiamarmi Taylor e ci stringiamo la mano come due scemi sotto il
lampione. Un livido sopra l’orecchio, una Coca Cola gratis e una nuova
conoscenza: tutto sommato, mi sono capitate serate peggiori.
E la mia
fortuna non è ancora finita perché probabilmente Thomas non è ancora arrivato
in fondo alla strada che comincio già a sentire la sirena dell’ambulanza.
3.
Dannati Doni
“E che
fatica andare avanti e non sapersi arrendere,
fingendo
d’essere fra i tanti che fanno vuoto a perdere,
poi
sostenere un’altra volta che l’uomo può anche vivere,
trovare
il tempo per giocarmi la vita che ho da spendere.”
Ottantasette
di P.A. Bertoli
È cosa
risaputa che a Sunnydale il periodo natalizio, con le sue lunghe ore di buio e
la sua ressa di umani distratti dallo shopping e resi imprudenti dai loro
propositi di buona volontà, coincide con l’epoca di massima attività demoniaca.
I
vampiri in particolare a dicembre amano uscire presto la sera e rientrare tardi
la mattina, dopo una lunga e operosa notte di massacri; ma persino le creature
a cui la luce del sole non dà nessun fastidio preferiscono nascondersi nelle
ombre della sera e approfittano volentieri delle maggiori occasioni di vita
all’aperto che la stagione offre.
Così per
un motivo o per l’altro tutti i demoni di Sunnydale hanno poco tempo da perdere
in tinture e permanenti e di conseguenza gli affari al salone languono.
E questo
è anche l’unico motivo per cui la mia padrona mi ha permesso di iniziare il
lavoro più tardi dal giovedì al sabato consentendomi così accettare un impiego
part-time in centro da Stevens & Stevens.
Così per
quattro pomeriggi alla settimana mi si può trovare dietro il banco della
profumeria, intenta a vendere creme e belletti a una clientela almeno in
apparenza completamente umana armata del mio migliore sorriso e di un grazioso
cappellino rosso con un campanellino in cima che tintinna ad ogni mio
movimento.
Sembro
proprio un piccolo felice folletto di Babbo Natale, ma non importa: se questo
servirà come spero a farmi trovare l’acconto per prendere in affitto un piccolo
appartamento tutto per me sarei disposta anche a cantare Jingle Bells
sgambettando sul bancone. E sarò eternamente grata a Clem, la mia privata
agenzia di collocamento, che mi ha trovato anche questo lavoro.
Almeno
non sono allergica al tessuto del cappello come la mia collega, poverina, che
ha starnutito tutto il giorno peggio di Sassassa post attacco mannaro e a
quest’ora ha ormai gli occhi più rossi del cappello.
- Hai
provato a lavarlo con acqua e aceto? Magari sei allergica all’amido con cui lo
fanno stare tutto ritto così…
- Mia
madre le ha provate tutte, tranne la benzina naturalmente perché sono allergica
alla benzina. Dev’essere proprio il tessuto.
- A me
sembra nylon o qualcosa del genere; e tu non sei allergica ai collant o alla
biancheria intima o…
- Beh,
alle calze no. Ma avevo un reggiseno blu che mi faceva venire l’orticaria. –
Sophie si ferma per starnutire ed asciugarsi gli occhi.
- C’è una
cliente. Etciù. La sai una cosa? Quei ragazzini là davanti al profumo in
offerta non mi pagano l’occhio, Tula. Non vorrei che sgraffignassero qualcosa.
- Allora
corri a spaventarli con una raffica di starnuti, Sophie: qui ci penso io. Buona
sera, signorina, posso aiutarla?
La
cliente è giovanissima, poco più di una bambina, ed è così assorta a
contemplare le confezioni regalo di Max Factor nella vetrina sotto il banco che
sussulta nel sentire la mia voce.
Mi
guarda con grandi occhi azzurri che nel giro di un paio d’anni faranno girare
la testa a più di un uomo e mi sorride con un dolce sorriso che farà venire ai
medesimi di cui sopra una gran voglia di proteggerla contro le insidie del
mondo.
Ha un
viso graziosissimo, spiritoso e delicato, con labbra morbide e ancora un po’
infantili e una carnagione perfetta che renderebbe possibile qualsiasi trucco;
e come al solito mi sembra di averla già incontrata da qualche parte.
- Io…
stavo cercando un regalo per mia sorella.
Nemmeno
questo tono vagamente lamentoso mi suona nuovo.
- Avevi
in mente qualcosa di preciso?
- No, ma
credo che una di queste cose qui faccia sempre piacere a una ragazza, no?
Cerca di
non darlo a vedere ma anche lei mi scruta di sottecchi come se stesse tentando
di far combaciare la mia faccia con un nome. Non le sarà facile vedendomi con
questo cappello e il vestito di compromesso – come lo chiama il direttore –
cioè i jeans classici e la camicetta verde bottiglia che ho accettato di
indossare al posto del mio solito completo in nero totale: lui avrebbe voluto
che mettessi una gonna verde, un gilet rosso e una camicia bianca o qualcosa di
altrettanto vistosamente natalizio. Ma poiché avrei dovuto vestirmi a spese
mie, non ha insistito più di tanto e alla fine si è accontentato che
rinunciassi al nero integrale. Mi sento nuda, anche se la vicina vedendomi
uscire oggi mi ha guardato con aria quasi di approvazione e ha persino risposto
al mio saluto con quello che poteva passare per l’inizio di un sorriso.
- E non
sono solo molto belli, sono anche prodotti molto buoni – la incoraggio io.
- Ma ha
già tante cose del genere…
Esitante.
- Allora
devi prendere una novità per essere sicura. Guarda, ad esempio quella
confezione lì a 45 dollari è nuovissima, l’hanno fatta apposta per questo
Natale. Crema colorata e fard coordinati. Tua sorella ha la tua stessa
carnagione?
- Lei è
meno chiara di me. I suoi capelli sono più biondi, però.
- Ci
sono anche quegli astucci di ombretti e matite, quello ad esempio è proprio
carino, secondo me.
Ragazzina
molto graziosa, alta e sottile, con occhi a mandorla e lunghi capelli chiari,
lisci e lucenti come seta. Con una sorella maggiore più bionda e probabilmente
tinta. Dove ci saremo già incontrate?
Apro la
vetrina, dispongo gli articoli sul ripiano mettendo in evidenza quelli più
costosi, come mi hanno insegnato, e procedo ad illustrarle le caratteristiche
di ciascun prodotto. Non sarò un granché in quanto a tecniche di vendita ma qui
sono nel mio elemento e non temo confronti – del resto è proprio per questo che
ho avuto il posto. Quando mi sono presentata per il colloquio il direttore
aveva già cominciato a guardarmi storto ma come ho preso a snocciolargli nomi,
marche e prestazioni gli è gradatamente comparsa in viso un’espressione di
meraviglia mista a un certo rammarico, come se riconoscesse anche se di
malavoglia la necessità di dare questo lavoro proprio a me.
- È che
non vorrei prenderle niente di troppo pretenzioso, capisci? Non stiamo facendo
molti preparativi natalizi, quest’anno.
Questo
per quanto mi riguarda fa guadagnare punti alla mia cliente: non per sputare
nel piatto in cui spero di mangiare, ma tutta questa frenesia natalizia non mi
ha mai convinto.
- Beh –
dico – un regalino così fa sempre piacere. Non è come se le regalassi una
fiammante macchina sportiva.
- Dio
mio, no. Del resto, lei va quasi sempre a piedi. Per fortuna.
-
Anch’io, da quando mi hanno rubato la macchina. Dicono che sia un’abitudine
molto sana. Guarda questa confezione: ha un piccolo grazioso Babbo Natale sul
coperchio. È festoso senza essere eccessivo.
Brava,
Tula, bella scelta di aggettivi: festoso senza essere eccessiva. Bisogna
proprio che questa me la tenga a mente.
- È così
preoccupata, non so nemmeno se sia accorta che è quasi Natale.
-
L’associazione commercianti ha fatto le cose in grande, quest’anno:
bisognerebbe essere ciechi per non… - mi mordo le labbra perché mi è venuto in
mente all’improvviso che questa misteriosa preoccupata sorella che va a piedi
potrebbe proprio essere cieca.
La cliente
si accorge della mia esitazione e sorride
- No, è
solo che c’è una persona che vorrebbe aiutare e non sa come fare e così… In
questo astuccio qui c’è anche il mascara?
- Sì,
eccolo. Ed è anche molto buono, cosa che non sempre può dirsi dei prodotti delle
confezioni regalo.
- Questi
ombretti mi sembrano un po’ troppo sul verde… Non so se starebbero bene a mia
sorella.
- Il
verde è un colore un po’ difficile, soprattutto per le bionde.
Guardo la
ragazza, chiedendomi se userei un po’ di verde scuro sulla palpebra per mettere
in risalto quegli occhi azzurri: sono incerta, non so, magari se avesse un
vestito verde acceso… Ma poi perché mai qualcuno dovrebbe vestirsi di verde
acceso, per amor del Cielo?
Ed ecco
che mi torna in mente: la sorellina della Cacciatrice, la ragazzina a cui Spike
mi ha presentato non appena siamo entrati nel salone in cui si sarebbe dovuto
tenere il ricevimento di nozze di Xander Harris.
- Tu
sei…, aspetta, Dawn Summers, giusto? Ci siamo incontrate l’anno scorso al
matrimonio di Harris. Tu eri una delle damigelle. Cioè, lo saresti stata se…
- Ma
certo, tu sei la ragazza che Spike ha portato al matrimonio. Siamo anche state
presentate, mi sembra. Scusa se non ti avevo riconosciuto.
- Non ti
avevo riconosciuto nemmeno io: senza il vestito da damigella sembri diversa.
- Vuoi
dire che non sembro un cespo di insalata – ride lei, poi piega la testa da un
lato per guardarmi bene – così tu sei l’appuntamento di Spike.
- Veramente
di solito è lui ad essere il mio appuntamento – ribatto io e davanti alla sua
espressione interrogativa chiarisco – Nel senso che sarei la sua parrucchiera:
sono io che gli faccio i capelli.
- Un
mistero che si svela, finalmente – dice Dawn Summers – Pensa che quand’ero più
giovane e ingenua, lui sosteneva che i suoi capelli crescessero in quel modo da
soli. Come sono in realtà?
- Mi
dispiace, segreto professionale. Ma ormai dovresti poterlo vedere da sola: è
parecchio che non viene da me.
Ora Dawn
mi sembra a disagio: stringe le labbra e non mi guarda negli occhi, come se
stesse cercando di decidere se mettermi o meno a parte di qualcosa che lei sa
ed io evidentemente no.
- Lo hai
visto di recente, immagino – insisto.
- Non
tanto di recente, veramente.
- Ma non
ha lasciato Sunnydale. Lo avrei saputo se avesse lasciato Sunnydale.
- No.
- Senti,
io e Spike… potremmo dire che siamo amici, in un certo senso. Mi ha salvato la vita
un paio di volte e io gli sono grata. Se sta male di nuovo o se… insomma, mi
sentirei in dovere di dargli una mano.
Dawn
sospira e guarda la trousse che stava valutando, quella con il piccolo Babbo
Natale sul coperchio.
- Se è
per quello, ha salvato la vita un paio di volte anche a me. Ma poi sono
successe delle cose e adesso non siamo più amici.
ù
Solleva
lo sguardo e mi dice con improvvisa franchezza:
- È nei
guai, se lo vuoi sapere. E per una volta, non è nemmeno colpa sua.
- Che
cosa gli è successo?
- Dei…
dei delinquenti hanno fatto una razzia in casa nostra, qualche settimana fa.
Hanno distrutto tutto e beh, hanno portato via Spike.
Dei
delinquenti? Sarà stata una grossa banda di demoni o magari saranno stati quei
sinistri figuri senza occhi che andavano in giro ad affettare la gente con le
spade la sera che incontrai Thomas. Ma se la piccola Summers che è nata e
cresciuta nella stessa casa della Cacciatrice preferisce parlare di
delinquenti, chi sono io per obiettare?
-
Aspetta: è Spike la persona che tua sorella sta cercando di aiutare ma non ci
riesce, vero?
All’improvviso
mi si rivela in tutta la sua chiarezza la gravità della situazione:
Queste
non sono buone notizie sotto nessun punto di vista.
Stiamo a
fissarci imbarazzate senza avere nient’altro da dire finché lei abbassa la
testa in una muta risposta affermativa e dice:
- Credo
che dopotutto seguirò il tuo consiglio e prenderò questa trousse col piccolo
Babbo Natale.
So già
che non mi dirà nient’altro, anzi probabilmente si sta rimproverando per avermi
lasciato capire più di quanto volesse: George diceva sempre che rispetto agli
amici della Cacciatrice, i picciotti della mafia non sono che degli
instancabili chiacchieroni. Del resto che cosa potrebbe dirmi? Che potrei non
rivedere mai più Spike vivo o per la precisione non-morto? Che a Sunnydale la
gente scompare facilmente e difficilmente fa ritorno? Tutte cose che sappiamo
già molto bene entrambe.
- Le
piacerà. Vuoi un pacchetto regalo? Te lo posso fare intanto che vai a pagare
alla cassa.
Il
direttore, che sta passando di qui proprio in questo momento, mi dice di aver
mandato Sophie a casa prima e scorta personalmente la piccola Summers verso la
cassa. Sarà che a Natale siamo tutti più buoni, ma credo proprio di aver visto
balenare l’ombra di un sorriso tra i quarantaquattro denti da squalo del signor
Wilkins.
…
Sono al
salone e sto cercando di convincere una cliente ad accorciare la lunghissima
frangia color stoppa che le cala sugli occhi: non so proprio come dirglielo
gentilmente, ma il fatto è che quando si ha una faccia come la sua secondo me
non si dovrebbe fare proprio niente per dare un ulteriore aiuto alla natura che
ci ha voluto rendere tali e quali a un pechinese.
La
cliente è molto giovane in tutti i sensi, cioè vampirizzata da poco tempo
quando era poco più di una ragazzina; mi dicono che il vampirismo curi molti
mali – come ad esempio la tubercolosi, l’asma e le carie – ma di sicuro non
rende le persone più intelligenti o più furbe di quello che erano da vive,
perciò la ragazza sembrerebbe tuttora discretamente stupida e relativamente
ingenua.
Anzi mi
meraviglia che non si sia ancora imbattuta nel paletto della Cacciatrice o non
abbia avuto la peggio in qualche scontro con i suoi simili: la fortuna dei
principianti, probabilmente. Mi chiedo anche chi sia il deficiente che non si è
accontentato di prosciugarla a morte ma ne ha voluto fare una piccola vampira
con la faccia e l’intelligenza di un cagnolino da salotto. A sentire le
leggende il sire – come dicono loro pomposamente – dovrebbe rivendicare la
proprietà del nuovo rinato, ma da quello che ho visto io invece il più delle
volte se ne frega come un libertino che vada in giro a seminare la sua progenie
a casaccio.
Chissà
dove sarà ormai la mente geniale che ha aggiunto questo bell’elemento alla
nostra popolazione di vampiri e alla specialissima clientela del salone in cui
lavoro.
- Senti
– le dico pazientemente – io se vuoi la frangia te la lascio, ma pensaci un
attimo: ti copre gli occhi e a te invece serve vedere bene. Al buio. Con la tua
supervista potenziata.
Mi
guarda mettendo il broncio in un modo che porta l’effetto cane pechinese a
livelli quasi inquietanti, poi riesce con evidente sforzo a mettere in piedi il
solito ambaradan: le zanne, nuove e candide come nella pubblicità di un
dentifricio, l’increspatura sulla fronte e gli occhi gialli. Sui quali cala
come una tendina la sua stupida frangia color can che scappa.
Nello
specchio alle sue spalle lei naturalmente non c’è – ci sono io, con il mio
grazioso camice color prugna e il mio sorriso professionale inchiodato alle
labbra e c’è la mia padrona, con un camice identico al mio anche se di una
dozzina di taglie più grande, che sta osservando dall’altra parte della stanza
la scena con una smorfia amichevole di approvazione sul suo cordiale faccione
ammuffito.
- Visto?
– dico io.
- Taglia
– sospira rassegnata la vampiretta con voce impastata dalla presenza di quelle
zanne a cui evidentemente non si è ancora abituata.
- Ecco…
dovresti, scusa, se non ti dispiace…
- Cosa?
Oh, certo.
Con
altrettanta fatica di prima la ragazza riesce laboriosamente a rientrare nella
sua faccia umana e io sto prendendo le forbici pronta a tagliare prima che cambi
idea di nuovo quando vedo Sassassa sulla porta.
Potrebbe
benissimo essere qui per farsi tagliare i peli che gli crescono nelle orecchie;
per farsi smaltare di blu le unghie degli zamponi così sarebbero in tinta con
la pelle; per tingersi il pelo della testa a righe nei colori della sua squadra
del cuore. E allora perché devo pensare subito che voglia parlare con me?
Perché
ho un sesto senso, ecco perché.
- Questo
signore dice di essere amico tuo, Tula mia cara – mi dice infatti la padrona
dopo aver parlottato con lui per un po’.
- Beh,
in un certo senso – rispondo io senza sollevare gli occhi dal mio lavoro.
I
vampiri reagiscono particolarmente male se li tagli. Non ho mai capito perché,
visto che non rischiano certo di morire dissanguati: comunque sia, se li
ferisci per sbaglio, quella che rischia di morire dissanguata sei tu.
Mi
allontano di un passo per controllare se sono andata dritta: sì, ho fatto un
buon lavoro. Un pochino ancora sulla sinistra, forse.
- Ciao,
Tarantula.
-
Sassassa. Come va?
- Posso
parlarti un minuto?
- Non
appena ho finito di ta…. Scusa, ma se fai così viene storto – redarguisco
severamente la cliente che si è girata per vedere chi mi stava parlando.
Chi
girerebbe la testa di scatto mentre gli stai accorciando la frangia con una
forbice? Solo qualcuno che non ci tiene alle pupille dei suoi occhi o che è
così stupida da non aver capito che anche se lei non viene più riflessa nello
specchio le leggi dell’ottica vanno avanti come al solito per il resto del
mondo.
Credo
proprio che la poverina non abbia mai visto un demone Sfrayano in tutta la sua
vita e in tutta la sua non-morte perché trovandosi davanti quella specie di
grosso pupazzo animato ricoperto di pelo bianco sobbalza sulla poltrona e
spalanca gli occhi.
Ma non è
niente rispetto alla mia reazione quando sento quello che Sassassa è venuto a
chiedermi. Ha chiesto molto rispettosamente alla padrona il permesso di rubare
dieci minuti del mio tempo e mi ha portato da Willy, dove siamo gli unici a non
bere né alcool né sangue ma solo caffè.
Nonostante
sia così vicino al lavoro, non posso certo dire che sia il mio locale preferito
ed anzi faccio sempre del mio meglio per girare al largo; ma devo ammettere che
tra i molti e spesso discutibili talenti di Willy c’è anche quello certamente
sotto utilizzato di saper fare un eccellente caffè. Inoltre gli sono simpatica
e mi fa la corte: non che io voglia avere niente a che fare con questo viscido
informatore doppiogiochista ma le attenzioni di un uomo vero – vero non nel
senso che non si rade i peli del petto, quanto nel senso del DNA – danno sempre
un certo senso di conforto.
Qualche
eone fa suo padre era amico del mio e giocavano insieme a bowling; a quei tempi
Willy era un ragazzetto ancora quasi imberbe ma già trafficone, precocemente
corrotto dall’aria di Sunnydale e felice di sguazzare nel pantano morale della
nostra bella cittadina.
Mi
guarda con i suoi occhietti furbi mentre parlo con Sassassa e so che sta
aguzzando le sue umane orecchie per ascoltare la nostra conversazione, ma con
questi quattro vampiri messicani mezzi ubriachi al tavolo vicino che cantano
Paloma non c’è verso che riesca a capire qualcosa.
- Ma
neanche per idea – protesto io vivacemente per la terza volta di fila.
Sono
così agitata che mi scotto la lingua col caffè troppo caldo. Sassassa mi guarda
con occhi purpurei ed imploranti e fa del suo meglio per assomigliare a un
grosso inoffensivo pupazzo di peluche.
- Lo
prometto: non ti darò nessunissimo fastidio.
- Perché
proprio nel mio garage? Non avevi una bella casa asciutta e non so che
cos’altro dalle parti della stazione?
-
Demolita.
-
Demolita?
-
L’altro ieri ho fatto una gita a Los Angeles e quando sono tornato, ci
crederesti?, ho trovato solo un mucchio di macerie. Per fortuna che avevo un
arredo minimalista.
-
Strano: mettono dei cartelli sugli edifici prima di demolirli.
-
Davvero? Ecco che cos’erano quei manifestini che continuavo a trovare
appiccicati dappertutto.
- Senti,
Sassassa, mi dispiace che tu sia sotto i ponti…
- Non
c’è un maledetto ponte in questa città. Ho dormito su un camion che puzzava
terribilmente di frutta marcia. Perché qualcuno dovrebbe darsi la pena di
trasportare frutta marcia da una parte all’altra, secondo te?
- Non ne
ho idea. E tuo cugino, quello che ti incatena?
Il
demone scuote il testone: è così abbattuto che le orecchie mi sembrano
attaccate più in basso del solito; spero proprio che sia solo un’impressione.
- È a
casa per un matrimonio.
-
Ottimo: così non solo vuoi venire ad abitare nel mio garage ma non hai nemmeno
un guardiano che ti impedisca di entrare in casa ed ammazzarmi nel sonno quando
ti trasformi, scusa la franchezza, in una belva sanguinaria.
- No,
no, no. Non metterei mai la tua vita in pericolo. Guarda: ho finalmente trovato
una cura.
Mette
sul tavolo una scatolina e la apre: dentro ci sono quattro fialette di vetro
piene di un liquido arancione.
- Niente
droghe nel mio locale, bellezza! – grida subito dal suo posto Willy, che non ci
ha ancora staccato gli occhi di dosso.
- È una
medicina, idiota – grido io di rimando.
- Lo
conosco da molti anni – spiego a Sassassa che sembra scandalizzato dai miei
modi – Dove hai trovato quella roba?
- Me
l’ha preparata una strega di qui.
-
- No, si
chiama Amy Madison. Si dà un mucchio di arie ma secondo me ha trovato la
formula per caso. E comunque questa roba mi è costata un occhio della testa.
-
Cribbio, se ha trovato un modo per impedire alla gente di trasformarsi in lupo
mannaro farà una fortuna. Funziona?
- Non
sugli esseri umani. Funziona solo sui demoni Sfrayani e solo in questo mondo.
Praticamente questa roba funziona solo su di me e quindi quella ragazza è una
vera approfittatrice, ma non importa perché mi ha tolto dai guai. A proposito,
posso pagarti l’affitto di quel garage.
Lascio
cadere l’allusione non troppo velata al fatto che se gli facessi pagare un
affitto mi comporterei come un’approfittatrice, anche se non vedo proprio
perché dovrei lasciare vivere un demone nel mio garage e per di più gratis; ma
sono altre le cose che mi preoccupano al momento.
- E chi
mi garantisce che la berrai?
- Ti sembro
il tipo che è contento di andare in giro ad aggredire le persone e ad ammazzare
i cani?
- Se non
te lo ricordi nemmeno.
- Ma le
implicazioni morali mi preoccupano ugual… - si interrompe osservando il mio
sguardo scettico – E dove le metti quelle terribili crisi di starnuti? Mi si
stava consumando il naso.
Sospiro
e finisco il caffè: devo tornare al lavoro e non ho tempo di continuare a
discutere.
-
D’accordo, mi hai convinto; ma è una cosa provvisoria. Solo perché è Natale e
siamo tutti più buoni. Ma per l’anno nuovo devi essere fuori.
-
D’accordo. Grazie, Tarantula, sei un tesoro.
- Non ho
finito: c’è una condizione.
- Tutto
quello che vuoi. Non devo farmi sentire da tuo padre, vero? Non ti devi
preoccupare perché…
- No.
Gli dirò che il pastore Bliss mi ha chiesto un favore. Tanto, non c’è pericolo
che si incontrino. Gli dirò che un vagabondo dormirà per un po’ nel nostro
garage e che in cambio dell’ospitalità ci farà qualche piccolo lavoretto.
Perciò mi aspetto che tu tagli l’erba del prato e dia una mano di vernice allo
steccato.
E che
adesso mi dia pure dell’approfittatrice, se ne ha il coraggio.
…
Il
giorno dopo vengono in coppia gli altri due: la strega e il bibliotecario, che
detto così sembra il titolo di un filmetto giallo-rosa. Lei è la signorina
Willow Rosenberg, ex-studentessa modello dell’ex-liceo di Sunnydale ed ex molte
altre cose, almeno a quanto ho inteso da frammenti di conversazioni pronunciate
sottovoce; lui è il maturo ma ancora affascinante signor Rupert Giles, ex-bibliotecario
e anche ex-proprietario del Magic Box, una delle numerose attività commerciali
di Sunnydale che nel corso degli anni sono state chiuse dopo aver subito
misteriose devastazione vandaliche. Si sarebbe quasi portati a pensare che in
questa città ci sia il racket peggio che nella Chicago anni 20.
Io e
Sophie stiamo approfittando di un momento di calma per riordinare le vetrinette
e togliere i segni di ditate che i clienti continuano a lasciarci sopra; nel
frattempo lei mi elenca tutti i fiori a cui è allergica e che pertanto non
potranno essere usati al suo matrimonio, la prossima primavera. Niente rose,
niente garofani e niente gladioli, restano le fresie, i tulipani e le orchidee;
oppure restano i fiori di plastica, come le ha suggerito un esasperato
fiorista; o magari il “niente fiori ma opere di bene” che di solito si usa ai
funerali ma nulla vieta dopotutto di estendere anche ai matrimoni.
I nuovi
clienti tossicchiano educatamente per attirare la nostra attenzione e Sophie
dice:
- Vado
io.
Mentre
finisco di richiudere la vetrinetta dei profumi francesi, sento dei tipici
squittii femminili di riconoscimento e quando mi giro vedo che Sophie e la
nuova venuta si stanno scambiando convenevoli e si stanno mettendo
reciprocamente al corrente di quanto è accaduto di rilevante nelle rispettive
vite a partire dal loro ultimo – e presumibilmente anche primo e unico –
incontro. Sophie dice che questo lavoro è molto meglio di quello che aveva al
fast-food ed annuncia trionfante che lei e Richard si sposeranno in aprile;
Willow Rosenberg parla un po’ meno trionfalmente di un’estate in Inghilterra.
So che Sophie sta glissando su alcuni eventi meno piacevoli ma forse
altrettanto rilevanti, come le improvvise nozze di suo padre con una
spogliarellista o lo shock anafilattico che ha rischiato di ucciderla solo il
mese scorso e suppongo che la nostra strega sia stata anche più reticente, dal
momento che non ha accennato per niente al suo recente tentativo di distruggere
il mondo. Si dichiara invece deliziata di sapere che Sophie e Richard si sono
fidanzati – borbottando qualcosa su “non tutto il male vien per nuocere” – e
infine le presenta il signor Giles, che Sophie non può conoscere perché non ha
mai frequentato il liceo di Sunnydale. Intanto che va avanti tutta questa
manfrina arriva una signora grassa con due bambinetti ancora più grassi al
seguito che vuole comprare delle perle di olio da bagno da regalare alla
suocera mentre quello che voglio io sarebbe solo impedire ai due pargoletti di
mettere le loro ditine appiccicose dappertutto.
- Non so
se siano una buona idea le perle, signora, soprattutto se sono per una persona
non più tanto giovane: a volte le perle rendono un po’ scivolosa la vasca.
In altre
parole: se la vecchia carampana si romperà l’osso del collo non dire che non ti
avevo avvertita.
Nonostante
uno sguardo sognante abbia attraversato per un attimo i suoi occhi affondati
nel grasso, la mia cliente finisce con il comprare una confezione regalo di
bagnoschiuma e acqua di colonia; la mando alla cassa, ripulisco con lo spray e
senza farmi troppo notare le quattro manine unte che ora adornano il vetro del
banco e procedo a impacchettare la merce. Sto dando il tocco finale arricciando
i nastrini di carta con la lama delle forbici quando la voce di Willow
Rosenberg si alza di un’ottava rispetto al sommesso chiacchiericcio intanto che
Sophie le stava mostrando le confezioni regalo natalizie:
- Che
carino questo piccolo presepe sul coperchio! Chi non vorrebbe averne uno?
- Tu
perché sei ebrea - osserva puntigliosamente il signor Giles con la sua
piacevole voce ben impostata e il suo perfetto accento oxfordiano - Buffy
perché, se non ricordo male le sue esatte parole, ha detto che non vuole vedere
in giro orpelli natalizi. E io perché non mi sembra affatto appropriato mettere
un presepio in miniatura su una scatola di cipria.
Il
signor Wilkins si avvicina al banco e mi sibila:
-
Credevo che fossimo rimasti d’accordo che non ti saresti vestita di nero per
venire a lavorare.
- Non è
nero: è grigio scuro – protesto io sottovoce aggiungendo un festoso “Auguri” a
beneficio della signora grassa che è venuta a ritirare il suo pacchetto.
Oggi
indosso un paio di jeans di un grigio così scuro da rendere assolutamente
comprensibile l’errore del signor Wilkins e una canotta che più nera non si può
ma che nelle mie intenzioni la camicia grigia avrebbe dovuto nascondere quasi
completamente.
Il
direttore mi guarda accigliato – devo dire che se è inquietante quando sorride,
da accigliato non è tanto meglio.
- E poi
ci sono dei ghirigori d’argento sui polsini della camicia – insisto io – dei
ghirigori molto natalizi. Davvero.
E
srotolo una delle maniche per farglieli vedere: si tratta in realtà di un
girotondo di piccolissimi teschietti molto graziosi ma potrebbe benissimo
passare per una ghirlanda di agrifoglio e io confido proprio sul fatto che il
signor Wilkins sia leggermente presbite.
E non
sbaglio.
- Così
può andare – ammette infatti rabbonito – Ma non tenere le maniche arrotolate:
sembri così… luttuosa.
- Ma fa
un caldo infernale.
Il
signor Wilkins fa una risatina che dire diabolica è usare un eufemismo e prima
di andare a tormentare qualcun altro mi lascia di sasso rispondendomi:
- Siamo
a Sunnydale. Che cosa ti aspettavi per Natale, la neve?
Forse tutto
sommato il nostro direttore non è tanto presbite quanto malvagio.
Il
magazziniere – un giovanotto misterioso e taciturno che secondo me o sta
scrivendo un romanzo nel suo tempo libero o sta meditando di farci tutti quanti
a pezzi con un’accetta e di nascondere i nostri resti negli scatoloni vuoti –
sbatte poco cerimoniosamente una pila di scatole sul banco davanti a me e resta
immobile a guardarmi in silenzio tenendo in mano un documento di trasporto
lungo come un lenzuolo che si trascina sul pavimento. Non so esattamente che
cosa voglia e poiché non sono la commessa titolare del reparto ma solo un aiuto
stagionale non è nemmeno previsto che lo sappia. Inoltre questo ragazzo mi
innervosisce e meno tempo passo a fissarlo negli occhi da pazzo e a chiedermi
che cosa gli stia frullando in testa meglio è, pertanto mi limito a chiamare
Sophie e a passarle la patata bollente.
-
Scusate tanto ma con queste consegne dell’ultimo momento non ci si capisce più
niente. Tula, lascia stare che ci penso io. Sostituiscimi tu con questi
signori. Eccomi, Paul, un minuto e sono da te – cinguetta subito Sophie, che
esattamente come Clem è sempre pronta a pensare il meglio di chiunque ed è
infatti l’unica di tutto il personale a ritenere che il magazziniere sia solo
un po’ timido.
- Paul –
la sento dire – Lo sai che non devi venire a portarmi la merce quando ci sono
dei clienti.
Ahia,
l’ha rimproverato: scommetto che quando sarà il momento Paul farà il suo corpo
a pezzetti più piccoli di quelli di chiunque altro di noi.
E così
sfuggo a un potenziale maniaco omicida per ritrovarmi invece davanti alla
graziosa rossa con l’aria da brava ragazza che mi dicono sia stata sul punto di
farci sprofondare tutti quanti nel nulla meno di un anno fa.
- Avete
visto qualcosa che vi piace? – chiedo professionalmente affabile.
Ovviamente
hanno messo gli occhi sulla identica confezione regalo che ha preso ieri Dawn
Summers, quella festosa ma non eccessiva col piccolo Babbo Natale. Qui mi si
pone un problema di deontologia professionale, perché se nulla mi autorizza a
farmi i fatti loro, resta pur vero che non è bello vendere due regali identici
che finiranno con tutta probabilità sotto il medesimo albero.
D’altra
parte Willow Rosenberg è una di quelle clienti perennemente indecise che prima
ti fanno tirar fuori articoli a dozzine e poi se ne vanno senza aver comprato
assolutamente niente lasciandoti col banco carico di roba da metter via. Nel
giro di dieci minuti ha già cambiato idea dieci volte e poi è di nuovo tornata
a prendere in considerazione la stessa scatola di cipria con il presepe sul
coperchio, quella che non piace al signor Giles.
La
presenza di un uomo al fianco di una cliente indecisa può a seconda dei casi essere
considerata una fortuna, perché il disgraziato accompagnatore potrebbe
convincerla a scegliere una cosa qualsiasi solo per andarsene; o un’aggravante
della situazione perché il disagio del suddetto accompagnatore può arrivare a
un punto tale da portare il pover’uomo – di solito adducendo pretesti come la
scadenza del parcheggio o inesistenti appuntamenti d’affari – a trascinarla
fuori dal negozio praticamente di peso proponendo alternative classiche quali
un mazzo di fiori o una scatola di cioccolatini; e nel peggiore dei casi può
anche sfociare in una lite furibonda davanti all’imbarazzatissima commessa,
come è successo proprio a Sophie settimana scorsa.
All’inizio
il signor Giles si limita a osservare il comportamento della giovane strega con
quello che si potrebbe definire paterna indulgenza, lasciando cadere qua e là
frasi come “Se ti sembra una buona idea, Willow, allora prendilo pure” ma in
seguito una certa impazienza comincia ad affiorare nel suo contegno tipicamente
flemmatico.
- Credo
che dovremmo arrivare ad una decisione; e non vorrei sembrare scortese
ricordandoti che siamo attesi.
- Ha
proprio ragione, signor Giles – sospira Willow e poi si volta e sorride a me in
modo che se avessi i suoi stessi gusti troverei adorabile.
Anzi, a
dir la verità lo trovo adorabile anche se non condivido le sue preferenze
sessuali.
– Senza
contare che stiamo tormentando questa povera ragazza.
– È il
mio lavoro. E qualche volta scegliere il regalo giusto è difficile.
– Ed è
esattamente il motivo per cui io le avrei comprato un libro – dice il signor
Giles.
- Un
libro? – ride Willow – A Buffy? Oh, no. No e poi no. Sarebbe come regalare un
paio di scarpe a me.
-
Sarebbe forse, uhm, un regalo un po’ troppo personale quello di un paio di
scarpe, non ti pare?
- Un
libro – ripete Willow scuotendo la testa – Un libro per tirare Buffy su di
morale. Solo a lei poteva venire in mente un’idea del genere.
- È
un’idea da bibliotecario – osservo io mentre cerco di fare un po’ di ordine
nella confusione di merce che c’è sul banco. Penso che
- Non
faccio più il bibliotecario da quattro anni. Come mai…
- Mi
ricordo di lei: ho fatto i primi due anni di liceo alla vecchia scuola. Prima
che venisse distrutta.
- Oh,
ecco…
- Non si
ricorda di me, vero? Non mi meraviglia: non era molto facile prendere a
prestito un libro in quella biblioteca. Del resto, avevate altre cose a cui
pensare – replico io tranquillamente.
Mi
guardano tutti e due come se mi fosse cresciuta una seconda testa. Non ho mai
esattamente capito questa loro passione per la segretezza – senza contare che
dopo la battaglia della cerimonia del diploma era un po’ difficile pensare che
gli studenti che vi avevano partecipato non si lasciassero sfuggire qualcosa.
- Avremmo
dovuto essere tutti sordi e ciechi per non capire che costa stava succedendo.
In fondo le hanno anche regalato un ombrello alla… a Buffy Summers, voglio
dire. La nostra protettrice e via dicendo. E a proposito, visto che il regalo è
per lei, vorrei farvi vedere questa trousse per il trucco degli occhi perché i
suoi se non ricordo male sono di un nocciola dorato. Sono tutti i nuovi colori
di moda quest’anno, c’è questo giallo acido ad esempio…
Mi
interrompo notando che non mi seguono più: diversamente da Buffy Summers,
questi due non distinguerebbero una rivista di moda da un catalogo di
giardinaggio. Inoltre il signor Giles mi guarda con un certo sospetto, quasi
che adesso dovesse accadere chissà che cosa solo perché ho ammesso apertamente
di essere sempre stata al corrente della sua vera attività come principale
collaboratore della Cacciatrice: come se la copertura della biblioteca avesse
potuto ingannare qualcuno per più di dieci minuti. Tutti sapevamo: il preside
di allora, gli insegnanti dal primo all’ultimo, e quasi tutti gli studenti.
Ovviamente facevamo anche tutti finta di non sapere niente in uno sforzo
collettivo di recitazione che definire superbo è forse riduttivo.
La
signorina Rosenberg invece passa in rassegna la merce per l’ennesima volta e
intanto mi guarda con la coda dell’occhio con un’espressione che non so
decifrare, come se la sua mente superiore stesse valutando contemporaneamente
quale regalo sia il più adatto e anche se sono inoffensiva o meno; riguardo a
questo secondo punto spero ardentemente che il responso sia positivo, perché
non ho idea di quello che potrebbe accadermi se mi considerasse un pericolo.
Si dice
tra l’altro che quando le prendono i dieci minuti sia capace di incollarti al
soffitto come un pannello termoisolante: e se devo essere sincera la sua
espressione adesso mi sembra tutt’altro che adorabile.
Ma anche
se non provassi verso la magia quel timore reverenziale che altrove di solito i
bravi cittadini provano nei confronti della legge, prenderei queste due persone
molto sul serio perché so perfettamente che questa ragazza che sembra persino
più giovane di quello che è e questo beneducato signore di mezz’età che pare
più inglese della regina e quasi altrettanto folkloristico costituiscono per
così dire il reparto informativo dello stato maggiore della Cacciatrice:
pianificazione, informazione ed elaborazione tattico-strategica hanno sempre
fatto capo principalmente a questi due. Ed è parere generale che la graziosa e
misticamente imbevuta di potere Buffy Summers stia a sentire quello che costoro
le dicono – beh, almeno quando non si tratta del suo abbigliamento, o della sua
pettinatura; o dei suoi amori.
- Sono
sicuro che questa… come si chiama? trousse per gli occhi piacerebbe a Buffy –
osserva il signor Giles – E credo che dovremmo comprarle anche qualcosa per
quando fa il bagno. Quelle nuove ragazze possono essere alquanto invadenti
quando si tratta dei prodotti da toilette degli altri: parlo per esperienza
personale.
- Quelle
nuove ragazze possono essere molto invadenti davvero – conferma Willow
enfaticamente, poi mi sorride e mi dice – Sai, abbiamo in casa delle
studentesse per uno scambio internazionale.
Non solo
non ci credo per un attimo, ma nemmeno credo che Willow creda che io ci abbia
creduto: eppure eccomi rimessa al mio posto, quello del civile inconsapevole
che si bea nella sua serena ignoranza degli avvenimenti.
Scambio
internazionale dei miei stivali, ma chi sono io per discutere con una strega?
Per il momento mi accontento di sapere che non ritiene la mia esistenza un
pericolo per la sua cricca di segreti benefattori.
Alla
fine li mando via con tre graziosi pacchetti: la famosa confezione di ombretti,
una piccola scorta di finissimo sapone profumato e un vaso di vetro molto
carino di impalpabile talco coordinato col sapone. Il talco è il mio preferito
e spero proprio che le piaccia, visto che se potessi permettermi di acquistarlo
credo proprio che farei il bagno tre volte al giorno solo per avere il piacere
di usarlo; e dopo averlo avvolto in carta rossa come il sangue ho anche fatto
con le mie manine un fiore di carta velina nera come la notte e l’ho appuntato
con un nastrino argentato. E se questa non è una confezione regalo adatta alla
Cacciatrice, non so proprio che cosa si potrebbe pretendere di meglio.
…
Il tutto
comincia come una normale rapina in una normale serata di scalogna, solo che
quelli che cercano di rapinarmi sono tre piccoli demoni, alti poco più di un
metro e mezzo, con le orecchie appuntite e la carnagione rosea: sembrerebbero
elfi un po’ bruttini, non fosse per quella strana protuberanza che sporge dal
centro della loro fronte – una via di mezzo tra un corno floscio e una corta
proboscide – e dalle pieghe di pelle che si trovano proprio dove ci si
aspetterebbe invece un naso.
Per il
resto sono molto simili a degli esseri umani: arti come i nostri sia per numero
che per posizione, mani con cinque dita e unghie alquanto sporche, occhi scuri
e a mandorla come li hanno gli Asiatici, lunghi capelli castani legati in
treccia con l’aiuto di uno di quegli elastici rivestiti di spugna colorata che
si comprano al supermercato in confezioni assortite. Particolare quest’ultimo
del tutto ininfluente ma che il mio occhio professionale non ha potuto fare a
meno di cogliere e passare al cervello.
E come
degli esseri umani questi demoni rapinatori sembrano principalmente interessati
ai miei soldi e solo in subordine a danneggiare più o meno irreparabilmente
qualche pezzo della mia anatomia.
L’idea
viene loro dopo che hanno constatato che il portafoglio che hanno preso dalla
mia borsetta contiene moneta per circa dieci dollari, uno scontrino della
lavanderia e null’altro; mentre uno dei tre controlla il portafoglio, gli altri
due mi tengono ferma per le braccia e mi minacciano con dei coltellini dalla
lama arrugginita che sembrano temibili più per il rischio d’infezione tetanica
che per quello derivanti da gravi ferite.
In un
primo momento sono più seccata che spaventata, forse perché trovo difficile
avere paura di tre creature che mi arrivano si e no al mento, per quanto brutte
siano e per quanto turpiloquio mostrino di conoscere.
- Il
portafogli di questa puttana di merda è più vuoto della figa di una monaca - si
lamenta il demone ad ispezione avvenuta.
Non è
colpa sua, probabilmente, ma ha la voce sgraziata di un adolescente che la sta
cambiando e a me sembra proprio che mi stiano rapinando tre ragazzini delle
medie in costume da Halloween.
-
Tagliuzziamole la faccia con un coltello a questa puttana. Tanto questa stupida
troia i soldi per i nostri dannati doni di Natale non ce l’ha – propone quello
che mi tiene il braccio sinistro agitandomi il coltello sotto il naso.
Non c’è
niente che mi dia più fastidio che venir insultata con gli insulti sbagliati:
voglio dire, se io fossi veramente una puttana, cioè se vendessi le mie
prestazioni sessuali un tanto a botta, dovrei avere più di dieci dollari nel
portafogli, giusto? E allora che mi date della puttana a fare, idioti? Datemi
piuttosto, che ne so, della barbona, che almeno sarebbe pertinente.
E a
proposito di soldi: ho quasi centocinquanta dollari arrotolati e infilati nella
tasca dei pantaloni – un’abitudine nata non tanto dal timore di rapine quanto
dal desiderio di tenere i miei soldi dove le mani di mio padre non possano
raggiungerli nell’ipotesi non troppo peregrina lo cogliesse un insopprimibile
impulso all’acquisto di alcool che non si potesse realizzare senza derubare la
sua unica figlia – ma non vedo perché dovrei dirlo a questi tre delinquenti da
operetta.
Il primo
dei tre, quello che ha vuotato la mia borsa e che mi sembra il capo, allunga
una mano e mi strappa all’improvviso la catenina dal collo facendomi un male
cane, poi morde ostentatamente il ciondolo a forma di mezzaluna e fa una faccia
disgustata accorgendosi che non è oro. Cribbio, quel ciondolo è viola: se non
ha capito da solo che non è oro glielo potevo dire io che cosa è. Acciaio
smaltato, che un rigattiere potrebbe valutare più o meno come un pezzo di
casseruola rotto. E se il demone rapinatore si è scheggiato un dente, ben gli
sta.
A questo
punto l’ultimo dei tre, quello che non ha ancora parlato, dimostra di essere
più propenso all’azione che alle chiacchiere e alza il coltello verso la mia
guancia, io mi sposto istintivamente da un lato per schivare il colpo, lui mi
tira dalla parte opposta e non so come ci ritroviamo tutti e due in ginocchio e
io sento caldo sulla fronte e mi rendo conto che quel suo coltellino lurido mi
ha scalfito la pelle.
A questo
punto mi spavento e mi metto a urlare. I tre si mettono a urlare oscenità –
sempre ribattendo sul chiodo fisso del mio supposto meretricio – mentre mi
saltano addosso tutti e tre assieme intralciandosi l’un altro per il troppo
entusiasmo.
Io
scalcio e mi dibatto cercando di liberarmi e mi becco un pugno sulla bocca abbastanza
forte da farmi vedere le stelline per il male più una serie di colpi meno
sensazionali ma non esattamente piacevoli in varie parti della faccia e del
corpo.
I tre
demonietti sono così scarsi nel corpo a corpo che riesco in qualche modo a
scrollarmeli da dosso e col coraggio della disperazione do uno strattone alla
treccia di uno, un calcio alle parti basse di un altro e mi allontano carponi
lasciando un pezzo della mia bella camicia grigia con i teschietti d’argento
nelle mani del terzo.
Mi tiro
in piedi e comincio a correre urlando con tutti e tre che mi arrancano dietro
lanciandomi improperi poco fantasiosi; dopo un po’ smetto di urlare pensando
che mi conviene tenere il fiato per la corsa, e visto che non sono mai stata
una grande praticante del mezzofondo sono piuttosto sorpresa di constatare che
riesco a distanziarli con una certa facilità. Immagino che avere le gambe più
lunghe sia di un qualche aiuto, ma può anche essere che questa razza di piccoli
demoni sia lenta di natura. Dopo un paio di isolati sto già rallentando e
tirando il fiato, facendo conto di arrivare presto alla relativa salvezza di
casa mia, quando me li vedo improvvisamente davanti al primo angolo.
La sorpresa
è tale che a momenti ci resto secca: mentre filo nella direzione opposta come
se avessi il diavolo alle calcagna – che poi è più o meno esattamente quello
che sta succedendo – cerco inutilmente di capire come hanno fatto ma poiché mi
riesce particolarmente difficile ragionare mentre corro a perdifiato rinuncio e
ricomincio invece ad urlare perché ormai sono a due passi da casa e spero che
mio padre mi senta e venga ad aiutarmi.
Riesco
già a scorgere il camino della casa dei Bruebacker quando il mio naso sbatte
all’improvviso contro un pugno e io ruzzolo a terra trascinata dal contraccolpo
e sbatto la testa sul selciato: questa volta sono meno sorpresa di prima perché
una parte di me in fondo se lo aspettava, in compenso sono molto più
preoccupata perché comincio a pensare che se andiamo avanti di questo passo non
riuscirò mai a seminarli.
- Corri,
corri, brutta baldracca – mi prendono in giro con la loro voce prepubere – che
quando ti sarai stancata di scappare ti facciamo la festa.
Non
faccio in tempo a cedere al terrore perché non hanno ancora finito di parlare
che vedo cambiare l’espressione delle loro brutte facce e una grande zampona
bianca entra nel mio campo visivo.
- Ma che
cosa succede, Tula cara, cosa fai lì sdraiata per terra? Forse che questi… –
Sassassa fa una pausa ad effetto mentre mi rimette in piedi – signori ti hanno
dato fastidio?
- Mi
hanno rubato la borsa – piagnucolo io mentre mi tasto la nuca in cerca del
bernoccolo – e adesso mi corrono dietro con le loro gambette corte e tutte le
volte in cui credo di averli seminati me li ritrovo davanti.
Probabilmente
i miei inseguitori non hanno più tanta voglia di scherzare davanti al grosso
demone Sfreyano ma l’aver io parlato esplicitamente della brevità dei loro arti
inferiori – imprudenza dovuta principalmente allo stato confusionale in cui
verso al momento – pare abbia rinfocolato il loro spirito combattivo, così si
buttano addosso tutti insieme al povero Sassassa menando pugni e calci là dove
possono, cioè nella metà inferiore del suo corpaccione, con un particolare
accanimento verso le zone universalmente più sensibili in tutte le razze di
tutti i mondi.
Il mio
grosso amico, che al di fuori delle particolari circostanze in cui l’ho
conosciuto ha sempre dimostrato un’indole gentile e pacifica, sembra indignato
e sorpreso dalla loro reazione e tenta più che altro di scrollarseli da dosso
come un orso che cercasse di liberarsi da tre cagnetti che si fossero afferrati
al suo folto pelo con i loro dentini aguzzi. Mi facesse meno male la testa e
non avessi il fiatone per tutto quel correre, potrei persino trovare lo
spettacolo divertente.
Sto
ancora radunando come posso le mie capacità intellettive, che a quanto pare
quando ho battuto la testa hanno deciso di andarsene a spasso, per trovare un
modo per aiutare il mio povero Sassassa quando il demone Sfreyano riesce ad
afferrare saldamente sotto le braccia uno dei suoi tre assalitori e lo scaglia
ad almeno tre metri di distanza, dove questi s’impiglia con la treccia in un
tombino mezzo sollevato e resta lì ad agitare le sue braccine e le sue gambette
come una tartaruga che si fosse disgraziatamente rovesciata sul dorso.
Reso
baldanzoso da questo successo, Sassassa comincia a picchiare sul serio gli
altri due e riesce anche a far volare via il coltello dalle mani di uno dei
demonietti; io sto guardando con un certo sentimento di rivalsa il mio paladino
che sta pestando energicamente una delle sue zampone sulla testa dell’ultimo
dei tre quando improvvisamente comincia a girarmi la testa come un mulinello e
crollo in ginocchio sul selciato in preda a un attacco di nausea.
Contemporaneamente
un nuovo suono si aggiunge ai gridolini striduli dei miei assalitori: si tratta
di un cupo ringhiare che sembra provenire dalle profondità della terra ma è
invece il modo in cui si annuncia la repentina trasformazione del mio amico in
un grosso demone mannaro sanguinario e quasi completamente privo di raziocinio.
La
sorpresa dei demonietti rapinatori a questa imprevista evoluzione della
situazione è più che comprensibile; ed anche se non lo dicono immagino si
stiano pentendo di aver pasticciato di nuovo con la linea temporale, evocando
anzitempo la solita crisi serotina di mannarismo di Sassassa ed impedendogli di
assumere la sua dose di antidoto: perché adesso si trovano di fronte a una
belva enorme col pelo color bianco sporco che si butta su di loro a quattro
zampe e con la bava alla bocca.
In
quanto a me, sapendo che finché dura la crisi Sassassa non farà distinzioni tra
amici e nemici, non mi trattengo a vedere come butta ma mi tiro invece in piedi
come posso e corro verso casa con tutte le energie che mi sono rimaste sperando
di mettere al più presto una robusta porta di legno tra me e il demone mannaro
scatenato.
Mentre
corro sbandando di qua e di là mi viene in mente che forse avrei dovuto
suggerire ai tre di investire Sassassa con il getto del primo idrante che
trovano per strada, ma a giudicare da come stanno urlando dubito che avrebbero
la possibilità materiale di seguire il mio consiglio.
Nel
rientrare in casa zoppicando sono così stremata che non penso ad altro che a
liberare i piedi doloranti dalle scarpe e mi dirigo ciabattando in bagno per
riempire la vasca di acqua calda borbottando tra me e me “Dio, ti prego, fai che
mi sia ricordata di accendere il boiler stamattina”.
-
Taylor, che cosa ti è successo? –
Accidenti,
mi ero scordata del periodo di sobrietà natalizio. Mio padre mi sta guardando
con occhi allarmati dal corridoio attraverso la porta aperta del bagno, con gli
occhiali da lettura sul naso e un vecchio poliziesco in mano, circostanza che
da sola dovrebbe bastare a provarmi che ha di nuovo smesso di bere perché
significa che sta di nuovo attingendo alla libreria del salotto – dove sono
rimasti i vecchi libri gialli della mamma – invece che alla credenza della
cucina dov’è abitualmente stivata la scorta di alcolici.
Quand’ero
più giovane e più ingenua commisi l’errore di nascondere le bottiglie ma le
conseguenze nefaste di iniziative del genere mi hanno persuasa da tempo a
lasciarle dove stanno; così come è passata l’epoca in cui credevo ancora che i
propositi natalizi di sobrietà di mio padre potessero durare oltre la prima
settimana di gennaio.
Ma per
il momento siamo ancora alla metà di dicembre, le luminarie natalizie
sfavillano per le strade di Sunnydale e la buona volontà di mio padre non ha
ancora cominciato a vacillare: sobrio, anzi soberrimo, esamina con occhio fermo
le tracce evidenti dello scontro di stasera sulla mia persona e sul mio
abbigliamento.
- Niente
di grave, vorrei solo farmi un bel bagno – minimizzo e faccio per chiudergli la
porta sul naso.
Ma
dovrei sapere che quando mio padre non ha bevuto non si lascia sviare così
facilmente.
-
Camicia strappata, labbro gonfio, lividi assortiti. E zoppichi. Hai avuto uno
scambio di idee col tuo ragazzo?
- Non ho
un ragazzo e anche se ce l’avessi non gli permetterei di mettermi le mani
addosso.
Mio
padre, che da sobrio è dotato di un’eccellente memoria, alza un sopracciglio in
modo significativo: va bene, è vero, ci sono stati dei precedenti, anche se non
mi sembra il momento per ricordarmelo.
- Eric
era un caso clinico e ti ricordo che l’ho anche denunciato. Adesso scusa ma
vorrei proprio…
- E
allora chi è stato? –
Sono
troppo stanca per inventare una storia qualsiasi.
-
Demoni.
Non solo
mio padre non sembra particolarmente sorpreso ma non fa nemmeno finta di
esserlo; per di più non insinua che io abbia cominciato a fare uso di droghe
pesanti, non minaccia di mandarmi dallo psichiatra e non mi chiede nemmeno se
ho preso una botta in testa, domanda quest’ultima a cui tra l’altro non potrei
che dare una risposta affermativa; ma si limita ad entrare in bagno, e si siede
sul bordo della vasca come se si aspettasse un prolungamento di questa conversazione.
- Demoni
come? – mi chiede.
Lo
aggiro per aprire il rubinetto dell’acqua e mettere il tappo, tanto per
chiarire che presto dovrà andarsene e lasciarmi sola in ogni caso, che le mie
risposte gli siano piaciute o meno.
- Demoni
con le orecchie appuntite e il naso al posto della fronte e viceversa. Brutti,
piccoli, con un brutto carattere. Ma soprattutto capaci di manipolare il tempo.
-
Manipolare il tempo come in Ritorno al futuro? – mi chiede mio padre tutto
serio dopo averci pensato un po’.
- Più
manipolare il tempo come in Un attimo prima ero là adesso sono qui e ti do un
pugno in faccia. Io continuavo a scappare ma loro riuscivano sempre a starmi
davanti.
- Quanti
erano?
- Tre.
Grandi più o meno come un ragazzino di dodici anni.
- Come
hai fatto a cavartela?
- Un
altro demone. Li avrà fatti a pezzi, credo: non sono rimasta lì a guardare.
-
Quell’uomo che dorme in garage non si è accorto di niente?
- Non
credo proprio: la luce era spenta.
Non so
se sia il momento di spiegare a mio padre chi è Sassassa, che cosa gli succeda
di tanto in tanto e soprattutto perché sia venuto ad abitare nel nostro garage.
-
Dormirà della grossa: deve aver sgobbato tutto il giorno per essere riuscito a
fare un così bel lavoro con lo steccato. Volevo proprio andare a ringraziarlo
ma poi ho ricordato quello che mi hai detto…
Peccato
che io invece non ricordi esattamente quello che gli ho detto per tenerlo alla
larga dal nostro misterioso ospite, forse qualcosa sul fatto che avrebbe una
dannata paura degli estranei.
- Hai
fatto bene a non dirgli niente: il reverendo Bliss si è tanto raccomandato.
Spero
che tirare in ballo un uomo di Chiesa nelle mie menzogne non mi abbia procurato
per così dire le aggravanti davanti al Grande Giudice. In quanto al reverendo
Bliss, non verrà qui a contraddirmi, almeno non finché mio padre non crolla
sbronzo fradicio davanti al suo portone e lui se lo carica in spalla – è un
omone grande e grosso, il reverendo Bliss – e me lo porta a casa come è già
successo. Ma la fine del periodo di sobrietà natalizia è ancora lontana, per
fortuna.
Ma mio
padre non pensa già più al pittore di steccati.
- Non si
può andare avanti così, Taylor – dice gravemente – Questa volta ti è andata
bene, ma la prossima?
- Hai
mica visto il mio bagnoschiuma, per caso? È un flacone rosa con il tappo blu…
- Guarda
nell’armadietto: lo avrò messo lì.
Di primo
acchito tutto quello che mi viene da pensare è che mio padre abbia preso ad
usare il mio bagnoschiuma; poi mi chiedo chi sia la donna misteriosa che viene
a fare il bagno in casa nostra mentre io non ci sono; solo quando apro
l’armadietto e vi trovo il flacone rosa allineato con i suoi compagni flaconi
di shampoo e di balsamo mi rendo conto improvvisamente che quest’anno il
periodo di sobrietà sembra comprendere anche la pulizia straordinaria della
stanza da bagno.
- Hai
messo in ordine.
- Ti
dispiace? Dopotutto tu hai due lavori e non è giusto che debba occuparti anche
della casa.
Mi
dispiace? Se mio padre non bevesse come una spugna, si potrebbe andare avanti
così bene noi due: lui non perderebbe di continuo il lavoro, io farei persino
la spesa e il sabato potrei mettere su l’arrosto prima di andare a lavorare e
trovarlo freddo e affettato e pronto da mangiare per quando torno tardi con lo
stomaco che brontola. Collaboreremmo a tenere la casa in ordine, poi lui
riparerebbe i rubinetti che perdono e io comprerei al centro commerciale fodere
nuove per i cuscini del divano.
Se mio
padre smettesse veramente di bere potrebbe persino trovarsi una fidanzata – una
donna perbene e gentile che mi tratterebbe con riguardo sperando di diventare
la mia matrigna – e avere degli appuntamenti, in occasione dei quali io potrei
arrivare al punto di stirargli una camicia e di aiutarlo a scegliere la
cravatta. Quand’ero ragazzina non ero certo l’unica nella mia classe i cui
genitori avessero divorziato, ma probabilmente ero l’unica ad augurarmi che mio
padre mi portasse in casa una matrigna: era un sogno modesto, ma fu quello che
mi consentì di tirare avanti dopo che mi resi conto che mia madre non sarebbe
mai tornata con papà e cominciai ad avere paura che i servizi sociali gli
togliessero la patria potestà e mi dessero in affidamento chissà dove facendomi
perdere quel poco che mi era rimasto, cioè i miei amici e la mia casa.
- Non si
può andare avanti così – insiste mio padre.
Così
come? Lui che smette di bere ma ricomincia sempre e io che pettino vampiri e
ospito demoni nel garage? Forse no, ma siamo andati avanti così per anni ormai
– a parte Sassassa nel garage – e non ce ne siamo mai preoccupati più di tanto.
- Ormai
non si può più vivere in questa città. Bisognerebbe proprio fare qualcosa –
chiarisce invece mio padre.
Io apro
il flacone e verso una dose abbondante di bagnoschiuma nella vasca e intanto
penso che quello che dice mio padre merita seria considerazione da parte mia.
Magari non in questo momento, in cui tutto quello che voglio è spogliarmi ed
immergermi tra quelle belle bolle colorate. E smettere di tremare, perché mi
accorgo solo adesso che sto tremando.
- Ma tu
stai tremando – dice infatti mio padre alzandosi dal bordo della vasca prima
che la schiuma gli bagni i vestiti – Hai freddo? O stai male…
- No, no,
sto bene, almeno credo. Dev’essere la reazione, quella cosa che dicono di
quando l’adrenalina cala e uno ripensa a quello che gli è successo...
- Lo
shock – traduce mio padre – è lo shock. Adesso ti lascio in pace: un bagno
caldo ti farà bene. Non stare a riordinare, dopo, lascia tutto come sta che ci
penserò io domani mattina.
Prende
lo sgabello, lo avvicina alla vasca e vi appoggia sopra un telo da bagno
pulito.
- Non
chiudere la porta a chiave, casomai ti sentissi male. Io aspetto che tu abbia finito
prima di andare a dormire.
- Grazie
– mi sento una tremenda stanchezza addosso e se mio padre non fosse qui a
guardarmi probabilmente me ne andrei a letto senza nemmeno togliermi questi
vestiti sporchi – forse è meglio così. Non mi sento molto sicura.
-
Intanto ti preparo una bella tazza di tè e te la metto sul comodino.
-
Abbiamo del tè in casa? Non ricordo.
Ma lui
sta già uscendo tutto compreso nel ruolo insolito di genitore amorevole; prima
di richiudere la porta mette di nuovo dentro la testa.
- Scusa
per prima: non intendevo dire che… sì, insomma, lo so che non sei il tipo di
ragazza che si lascia maltrattare dal suo fidanzato. E poi quel giovanotto
biondo tutto abbronzato con cui uscivi mi sembrava una brava persona.
E dopo
avermi dispensato quest’ultima perla di sollecitudine paterna, chiude la porta
e se ne va con il suo giallo e i suoi occhiali, presumibilmente in cerca di
quel tè che alligna nella nostra dispensa da tempi immemorabili. Strano, non mi
sembrava che lui e Thomas si fossero incontrati, anche perché è mia abitudine
tenere uomini potenzialmente interessanti alla larga dal mio papà ubriacone, ma
evidentemente deve averlo visto attraverso la finestra in qualcuna delle
occasioni in cui il bravo ragazzo texano paladino delle cugine smarrite mi ha
accompagnato a casa.
…
Il
panorama di cui si gode dalla mia finestra non è niente di speciale: il
giardino dei Bruebacker dove scorrazza il loro nuovo cane, un barboncino
giocherellone che se mai incontrasse un demone mannaro andrebbe a rintanarsi
sotto il portico; la strada secondaria che prendevo per andare a scuola e di
cui conosco a memoria ogni sasso, ogni lampione e ogni singola recinzione
scrostata; la casa con le finestre sprangate e il prato invaso dalle erbacce in
cui viveva un tempo la vecchia signora Smithers con i suoi quattro vecchissimi
gatti.
Non so
perciò che cosa sia a spingermi a scostare la tenda e a guardare fuori dalla
finestra mentre sorseggio la indefinibile bevanda che mi ha portato papà, forse
semplicemente l’istinto di buttare di sotto quel disgustoso intruglio
dolciastro in cui galleggiano in modo sospetto frammenti di tè d’epoca: ed ecco
che la vedo.
Buffy
Summers,
Proprio
Quando
Buffy passa sotto il lampione al confine della proprietà dei Bruebaker e il
loro nuovo cane, fedele alla consegna di far la guardia e ingrato verso chi
invece la sta facendo all’intera città, le abbaia contro col muso infilato tra
la siepe, lei si sposta istintivamente verso il centro della strada: in quel
momento la luce del lampione le cade in pieno sul volto e mi rendo conto che
non sono l’unica ad avere fatto dei brutti incontri oggi. Occhio nero, labbro
gonfio, graffi sulla fronte: per una volta tanto,
E anche
se ho sempre saputo che
Dicono
che possa sentire la presenza di un vampiro a cinquanta passi, ma dal momento
che io non sono un vampiro non può accorgersi di me se non guarda verso la mia
finestra; e credendo infatti di essere sola, si concede un momento di pausa, si
massaggia il collo con le mani e sospira prima di riprendere il cammino
zoppicando leggermente.
Ma
quello che ho visto è stato abbastanza: le sue labbra sono serrate, i
lineamenti tirati dalla stanchezza, il suo abbigliamento pratico ai limiti
della sciatteria.
In poche
parole tutto fa supporre che Buffy Summers sia terribilmente preoccupata.
Non so
se sia per via di Spike – non ho mai capito che cosa ci sia esattamente tra di
loro; o se sia invece per gli stessi motivi che hanno spinto mio padre poco fa
a parlare in modo insolitamente chiaro.
No, non
so esattamente che cosa stia succedendo e l’esperienza mi dice che o non lo
saprò mai o lo saprò quando sarà troppo tardi o quando sarà tutto risolto. Ma
c’è una cosa che purtroppo so con assoluta certezza: che se Buffy Summers è
preoccupata, allora tutti noi ci troviamo in guai molto grossi.
4. Il
fantasma della libertà
“La
libertà non è star sopra un albero,
non è
neanche il volo di un moscone,
la
libertà non è uno spazio libero,
libertà
è partecipazione”.
La
libertà di Giorgio Gaber
– Mi
chiedo come tu abbia potuto sopportarlo tanto a lungo.
Gladys è
seduta in fondo al mio letto, le mani paffute appoggiate sulle ginocchia
fasciate nei pantaloni troppo stretti, il medaglione appeso al collo che
ciondola sulla camicetta aperta e richiama l’attenzione sul suo decolleté
florido e lentigginoso.
Io sono
contenta che non abbia la giacca addosso, quella piena di sangue in cui la
trovarono dopo il cosiddetto incidente con la mietitrebbia.
Mi tiro
su e mi metto seduta, appoggiando la schiena alla testiera del letto. Ho un mal
di testa che la metà basterebbe e la bocca impastata: per essere un brutto
sogno, sembra terribilmente reale.
– Credo
proprio di aver bevuto troppo ieri sera, Gladys – bofonchio raccogliendo il
cuscino e sistemandomelo dietro la schiena.
Gladys
scuote la sua magnifica capigliatura ondulata rosso tiziano – la cosa più bella
che ha – e osserva tristemente:
– Buon
sangue non mente, vero, Taylor?
– Ma se
non bevo quasi mai – protesto debolmente – Mi chiedo piuttosto che cosa ci
metta Willy nella sua birra fatta in casa.
– Willy
è un porco – dichiara Gladys.
Io non
replico perché questa volta ha ragione. Ed è una fortuna che ieri notte avessi
Sassassa a farmi da scorta e a proteggere il mio onore, altrimenti dopo avermi
ubriacato con la sua robaccia Willy ci avrebbe sicuramente provato; e anche se
è vero che io non vorrei il viscido Willy nemmeno morta – cosa tra l’altro che
a Sunnydale è sempre un’ipotesi da prendersi seriamente in considerazione – non
so onestamente se nelle condizioni in cui mi trovavo sarei stata fisicamente in
grado di sfuggirgli.
Ci sono
dei lati positivi ad accompagnarsi a demoni Sfrayani alti due metri; e per di
più pagava lui. In cambio ho dovuto soltanto ascoltare la triste storia dei
suoi amori, una complicata vicenda resa ancora più intricata e deprimente da
complessi e variegati rapporti di parentela che avevano la tendenza a rivelarsi
sempre nei momenti meno opportuni, proprio come accade in quelle telenovele che
piacciono tanto alla mia amica Dolores.
Spero
solo che svelarmi le sue pene d’amore abbia fatto sentire Sassassa meglio,
perché di sicuro ascoltare la storia della mia vita a partire da George il
balordo per finire con Thomas il bravo ragazzo non deve essere stato il pezzo
forte della sua serata. Il guaio è che non so nemmeno come stiano le cose tra
me e Thomas: anche se nessuno dei due si era buttato per così dire a corpo
morto nella relazione sembravamo andare avanti abbastanza bene; ma adesso io
sono bloccata qui, lui è sempre in giro a fare impianti di irrigazione di qua e
di là per tutti gli stati del Sud e anche solo tenerci in contatto sta
diventando una fatica improba. Complicazioni, sempre complicazioni.
–
Dopotutto non è nemmeno colpa tua se ti riduci in questo stato – insiste Gladys
arricciando il naso come faceva sempre per esprimere disapprovazione.
–
Infatti: è colpa di Willy.
Gladys
arriccia così tanto il naso che gli occhiali rimbalzano.
– Ma non
vedi che è tutta colpa sua, di tuo padre? Come fai ad essere così stupida,
Taylor?
– Senti
chi parla: quella che usciva con Bobby Tate per parlare. Come se Bobby, sia
pace all’anima sua, sapesse dire qualcosa di più che “passami il ketchup”.
In
confronto al Bobby di Gladys, si può ben dire che il mio George fosse un intellettuale;
e io d’altra parte ho detto così tante volte a Gladys che era una cretina ad
uscire con Bobby che non deve sorprendere mi venga naturale ripeterglielo anche
adesso che me la vedo davanti in sogno quattro anni dopo la sua morte.
– Bobby
era un vero idiota – ammette Gladys con maggiore saggezza di quanta ne avesse
da viva – ma non è di Bobby che sono venuta a parlarti.
– No?
Meno male perché quello è un argomento che finisce subito. E allora di che cosa
mi vuoi parlare? Di mio padre?
Gladys
annuisce solennemente:
– Non ti
accorgi che ti sta rovinando la vita? Te la rovinava quando beveva e adesso che
ha smesso di bere te la rovina ancora di più.
Forse
perché mi sento attaccata, tiro su istintivamente il lenzuolo fin sotto il
mento: così facendo mi accorgo che le mie coperte scivolano sotto di lei come
se non fosse seduta sul mio letto bensì qualche millimetro al di sopra di esso
e il suo sedere poggiasse su un invisibile cuscinetto d’aria. Si tratta di un
fenomeno così sorprendente e insolito che mi fa passare tutto d’un colpo
dall’ipotesi sogno all’ipotesi fantasma senza che mi soffermi sull’ipotesi
allucinazione; e mi fa anche perdere il filo del discorso. Così distolgo a
fatica lo sguardo dai suoi fianchi rotondi inguainati in quei jeans
elasticizzati che le piacevano tanto e dico scioccamente:
– Eh?
– Solo
perché non beve e va a lavorare tutti i giorni…
– Scusa
se ti sembra poco – la interrompo io.
Fantasma
o non fantasma, non mi piace che si parli male del mio vecchio; soprattutto adesso
che non beve da quasi quattro mesi, ha un lavoro fisso e lava i piatti dopo
aver mangiato, così quando torno dal salone a notte fonda trovo la cucina in
ordine e gli avanzi della cena nel frigorifero pronti da scaldare nel microonde
se nel frattempo mi è venuta fame.
Gladys
scuote la testa:
– Tu lo
sai che ho ragione. E invece… solo perché non si ubriaca tutte le sere, allora
non sei nemmeno andata a vivere per conto tuo. Ma ti rendi conto? Sei ancora
qui nella stessa casa in cui sei nata, Taylor.
– E
allora? – protesto – C’è gente che vive nella stessa casa per generazioni e
generazioni.
– In
case come questa? – mi chiede Gladys facendo con la mano un gesto che comprende
non solo la mia stanza.
D’accordo,
non sarà una reggia; ci sono muri da ridipingere, porte che cigolano come nei
film horror e mobili che erano già scadenti il giorno lontano in cui sono stati
comprati; per non parlare del giardino col quale continuiamo ad offrire ai
vicini un esclusivo panorama di urbano squallore. Ma almeno adesso è
ragionevolmente pulita, ho un copriletto nuovo e il vecchio tappeto del salotto
è sparito, sostituito da un brillante tappeto rosso e blu con un disegno tipico
di quei Navajo dai quali mio padre sostiene di discendere.
Ogni mattina
da Natale mi sveglio chiedendomi se sarà questo il giorno in cui mio padre si
attaccherà di nuovo alla bottiglia; ogni notte torno a casa dopo il lavoro col
cuore in gola, cercando già come metto piede in ingresso i segni della
colossale sbronza con cui mi aspetto che prima o poi si chiuda questo periodo
di sobrietà insolitamente lungo. E invece non trovo né bottiglie vuote
sparpagliate in giro né chiazze di vomito sul pavimento; e in quanto a mio
padre o è già in camera sua a dormire il sonno del giusto che si deve alzare
presto la mattina dopo oppure è lì in salotto stravaccato sul divano che tira
tardi guardando
–
Parlavamo sempre di essere libere, te lo ricordi? E guardati adesso invece.
– La sai
una cosa, Gladys? – osservo buttando alle ortiche ogni riguardo per la cara
estinta – Se io fossi morta non andrei certamente in giro a criticare le scelte
di vita dell’altra gente.
Gladys
alza le spalle e dice:
– Sono o
non sono la tua migliore amica? Tra parentesi non mi sembra che tu ti sia fatta
molte nuove amicizie da quando me ne sono andata. Amicizie umane, voglio dire.
Ah, scusa, dimenticavo Sophie: anche se probabilmente a forza di starnutire
ormai le sarà uscito dal naso pure il cervello.
Vorrei
proprio sapere dove lo teneva nascosto tutto questo sarcasmo quand’era viva.
– E
siccome sei la mia migliore amica saresti venuta per dirmi… cosa, esattamente?
– Non mi
sembri convinta: ma ti sbagli sul mio conto, Taylor. O Tarantula, come ti fai
chiamare adesso. Del resto non sarebbe la prima volta che ti sbagli nel
giudicare qualcuno, non è vero?
Ho già
sentito di fantasmi che tornano in questo mondo per inchiodare i loro assassini
e di fantasmi che vengono ad impedire la vendita della loro casa ad estranei.
Ma fantasmi che vengono apposta per dare buoni consigli ai loro vecchi amici?
Mai.
E se non
glielo dico è solo perché Gladys mi sta guardando con quel suo tipico fiero
cipiglio che annuncia che si sta arrabbiando sul serio: e nonostante il viso
paffuto e la carnagione lentigginosa rovinino un po’ l’effetto complessivo, so
per esperienza che non è il caso di scherzare quando le prendono i cinque
minuti. Una volta quando eravamo ancora alle medie un grosso idiota credendo di
fare uno scherzo divertente le rubò gli occhiali e allora la mia piccola Gladys
– che a perdere il lume degli occhi perdeva evidentemente anche quello della
ragione – lo stese con un fortunato uppercut sotto il mento nonostante quel
gradasso fosse il doppio di lei.
Mi
ricordo ancora la faccia della professoressa di matematica quando venne a
vedere che cosa diavolo stesse succedendo e trovò quel poveraccio che cercava
di rialzarsi gemendo e Gladys ancora tremante di rabbia che troneggiava sopra
di lui come Davide dopo aver abbattuto Golia.
Vorrei
poter dire: bei tempi. Ma francamente non era per niente un bel periodo, con
mio padre che aveva cominciato a bere sul serio, i compagni di scuola che mi
trattavano come spazzatura per colpa dei miei vestiti dimessi e i professori
che nella maggior parte dei casi mi distinguevano a malapena da un pezzo
dell’arredamento scolastico. Cosa quest’ultima che succede agli studenti
taciturni che vivacchiano sull’orlo della sufficienza senza mai distinguersi in
niente, se non forse per essere gli unici i cui genitori non si presentano mai
ai colloqui. Del resto non si poteva certo pretendere che mio padre venisse a
parlare con i miei professori, dal momento che per timore che si presentasse
ubriaco io distruggevo sistematicamente tutti gli avvisi che arrivavano da
scuola; e poiché in realtà non avevano niente di speciale da dirgli sul mio
conto la mia linea d’azione non incontrò mai intoppi significativi.
Ma anche
se non ritengo mio padre responsabile della mia incolore carriera scolastica,
questo non significa che non abbia passato dei brutti momenti per colpa sua,
soprattutto quando ero ancora molto giovane e mi dovevo coprire le orecchie per
non ascoltare la sua sfilza d’oscenità da ubriacone o peggio ancora quando si
riduceva al punto che non sapevo nemmeno più se fosse vivo o morto.
Però non
mi ha mai picchiato, nemmeno quando era così pieno di alcool da non ricordarsi
esattamente chi fossi e che cosa facessi in casa sua: anche se una volta a dir
la verità ha cercato di farmi fuori con un mestolo di legno convinto di
trovarsi davanti a un vampiro. Per fortuna la sua mano era tutt’altro che
ferma, altrimenti invece che con un livido sullo sterno mi sarei potuta
ritrovare in guai molto più seri: infatti anche se i paletti di legno
conficcati nel cuore inceneriscono solo i vampiri, tendono facilmente ad avere
conseguenze letali sui viventi ordinari.
Ed era
veramente buono con me quando ero ancora molto piccola, i primi tempi dopo che
mia madre se ne era andata e lui non aveva ancora cominciato a bere: mi preparava
da mangiare, mi aiutava a fare i compiti e qualche volta andavamo persino al
mare o allo zoo come tutte le famiglie normali.
– Non
dirmi che non ci hai mai pensato, Taylor.
– A che
cosa?
– A
vendere questa vecchia baracca e andartene da qui.
La
vecchia baracca, come la chiama Gladys, è tutto quello che mio padre possiede:
interamente pagata, perché quando lui e la mamma erano giovani si ammazzarono
di straordinari per togliersi il peso del mutuo dal collo.
A dir la
verità una volta c’era anche la fattoria del nonno, ma dopo averla venduta,
aver pagato i debiti e diviso quello che era rimasto con zia Janice, mio padre
diede praticamente tutto quello che ne aveva ricavato alla mamma, che in cambio
rinunciò alla sua parte di proprietà della casa in cui viviamo: a quanto mi fu
detto in seguito, le servivano soldi per stabilirsi a Detroit.
Anche se
le rendite immobiliari a Sunnydale sono cadute in picchiata – la qual cosa
francamente non sorprende – vendere questa casa significherebbe avere un piccolo
gruzzolo per ricominciare da qualche altra parte.
Ma mio
padre non ha mai voluto andarsene da Sunnydale: questa è la città in cui è nato
e cresciuto e dove sono sepolti i suoi genitori e sarà forse colpa delle sue
radici Navajo o dei suoi antenati svedesi o dell’alcool che gli ha annebbiato
il cervello, ma mio padre non è certo l’americano tipico che si sposta
continuamente da un posto all’altro in cerca di miglior fortuna. Sembrerebbe
piuttosto fare parte di quella minoranza eccentrica ed ostinata che preferisce
coltivarsi la sua sfortuna lì dove si trova.
Guardo
Gladys e lei guarda me attraverso le lenti non troppo pulite dei suoi occhiali.
– Adesso
non potresti andartene, Gladys? Dovrei proprio cercare di dormire ancora un
po’.
– Lui
non venderebbe mai, vero, Taylor? E tu questo lo sai.
– E
allora? Anche se vendessimo la casa dove andremmo? Dove lo trova un altro
lavoro un uomo della sua età, ammesso e non concesso che resti sobrio
abbastanza a lungo per cercarlo?
– Ma se
tuo padre fosse fuori dall’equazione, Taylor? – mi dice Gladys con una scelta
di linguaggio veramente sorprendente: non mi risulta infatti che sia mai
riuscita a risolvere un’equazione al primo tentativo nella sua vita breve,
sfortunata e accanitamente ostile alla matematica.
Non so
se sia il caso di ammetterlo davanti al fantasma di Gladys, ma non posso dire
di non averci pensato. Prima di andare a Houston, l’anno scorso, quando lo
trovai in casa ubriaco fradicio con il fornello ancora acceso: ricordo
benissimo che ero lì con la mano sulla manopola del gas e mi chiedevo che cosa
sarebbe accaduto se avessi girato sui tacchi e me ne fossi andata. Lui non si
sarebbe nemmeno accorto di niente. Nessuno si sarebbe meravigliato. Ero lì
fissando la fiamma che andava spegnendosi mentre il gas continuava ad uscire e
mi sembrava già di sentire l’agente di polizia mentre mi diceva con aria
comprensiva “È stata una fortuna che non abbia acceso la luce entrando in casa,
signorina, altrimenti sarebbe saltato tutto per aria.”
– Non
dire assurdità, Gladys.
Spensi
il gas. Gridai a mio padre che era un vecchio ubriacone incosciente fino a
perdere la voce. Fu parte della ragione per cui decisi di andare a Houston, per
le cose che avevo pensato davanti a quel fornello acceso: e a parte tutto fu un
bene, perché zia Janice e mio cugino Ronnie mi dimostrarono che nella nostra
famiglia c’è di peggio di un pover’uomo alcolizzato che ha dovuto tirar su da
solo una figlia.
– E
invece io lo so che ci hai già pensato – insiste Gladys – Potresti essere
libera, finalmente.
–
Piantala e lasciami dormire.
Gladys
sorride con aria saputa e all’improvviso non c’è più.
Se ne è
appena andata che sento bussare alla porta:
–
Taylor? Sei sveglia?
– Sì,
papà, entra pure.
Eccolo
qui, l’uomo di cui a sentire la mia vecchia amica dovrei disfarmi: già rasato e
vestito e pronto per andare al lavoro.
– Lo so
che è presto per te ma se ti va, giù c’è il caffè ancora caldo.
– Ti
prego, non mi parlare di roba da mangiare.
Mio
padre mi considera con occhio critico e scuote la testa:
– Hai
bevuto troppo, Taylor. Non te l’ho detto ieri sera, ma era evidente che avevi
esagerato. E non dovresti esagerare.
Questa
poi: mio padre che mi mette in guardia contro i rischi dell’alcool. Mi facesse
meno male la testa sarebbe da ridere.
– Ho
solo bevuto della robaccia che mi ha fatto male – ripeto stancamente anche a
lui – Volevi dirmi qualcosa?
– Volevo
solo ricordarti di stasera.
– Me lo ricordo,
papà.
–
Taylor?
– Sì?
– Ho
bussato perché mi sembrava che stessi parlando con qualcuno.
– Non
c’è nessuno qui.
– Lo
vedo – mio padre sembra a disagio, poi si illumina colpito da un’idea – Che
stupido che sono. Era il telefono cellulare, vero?
– No.
Sì. Era solo un idiota che ha sbagliato numero e mi ha svegliato.
– Volevo
dirti…
– Sì?
– In
fondo ormai sei una persona adulta. Lavori e contribuisci alle spese di questa
casa come me. A volte anche più di me.
– Mi fa
piacere che tu l’abbia notato.
–
Perciò, se volessi, sì, insomma, se tu volessi ricevere qualcuno nella tua
camera… insomma, non devi pensare di dover per forza andare via di casa per
poter dormire col tuo ragazzo.
–
Grazie. Lo terrò presente per quando avrò un ragazzo sottomano. Papà?
– Sì?
– Lo
stesso vale per te. Donne, è chiaro, non ragazzi. Sempre che i tuoi gusti non
siano drasticamente cambiati.
Rido
davanti al suo sguardo oltraggiato e continuo rapidamente prima che mi manchi il
coraggio di fargli un discorso del genere:
– Non
hai mai portato una donna in questa casa ed è stata una cosa che ho apprezzato,
perché mi sarebbe sembrato, beh, lo sai anche tu. Ma ormai sono grande e anche
tu, insomma, non dico che ti devi risposare per forza, ma se hai qualche amica
e passa la notte qui, non ci sarebbe niente di male.
Mio
padre cerca di non darlo a vedere ma posso accorgermi che c’è un luccichio
divertito nel suo sguardo:
– Lo
terrò presente anch’io. Per quando avrò una donna sottomano.
…
La sala
presso il liceo dove si tiene l’assemblea ha ancora quell’odore di colla, di
vernice e di cemento che è tipico degli edifici nuovi di zecca. E infatti
Richard, che per arrivare in tempo non si è cambiato e indossa ancora gli abiti
da lavoro e le scarpe antinfortunistiche, sta facendo fare a Sophie un giro del
locale che ha contribuito a costruire con le sue mani sottolineandone i
particolari più interessanti.
– Vedi
le stuccature tra le campate? – sento che dice mentre la povera Sophie si torce
il collo per scrutare l’alto soffitto – Sono stato io a dire al direttore che
si potevano anche fare in quel modo lì, così si risparmiava un sacco di lavoro
e anche di soldi. Figurati che lui invece…
Ma non
saprò mai come il direttore dei lavori avrebbe voluto fare invece le stuccature
perché mio padre, che mi ha visto dal tavolo della presidenza a cui è seduto,
piomba qui e mi tira su di peso dalla seggiola.
– Ah,
sei riuscita a venire. Sono contento. Ma cosa fai seduta qui in fondo?
– Lo sai
che non mi piace stare davanti, papà – mi schermisco io afferrandomi allo
schienale della sedia come se fossi uno squatter niente affatto intenzionato a
lasciarsi sgombrare.
Mio
padre scuote la testa con quel fare indulgente che mi ricorda tanto quando io e
la mamma prendevamo il tè insieme alle mie bambole e lui rideva e diceva che
non sapeva quale delle due fosse la bambina. Si è messo il vestito buono, che
poi sarebbe anche l’unico vestito che possiede, con la camicia che gli ho
lasciato pronta e stirata sul suo letto stamattina; però non ha messo la
cravatta che gli avevo preparato e dal momento che si trattava di una sorta di
cimelio storico che probabilmente risaliva al ballo del diploma non posso
nemmeno dargli torto.
Anche
senza cravatta ha comunque un’aria molto rispettabile – un aspetto onesto e
rassicurante da colletto blu della domenica – che spero lo aiuterà a far valere
le sue ragioni.
In
quanto a questo, lui è ottimista; io no.
Ed è il motivo
per cui preferisco restare nelle retrovie, per così dire, non tanto perché non
ambisca assistere da vicino all’eventuale fallimento di mio padre, che pure
sarebbe di per sé una ragione sufficiente, ma perché ho la sensazione che se le
cose andassero male lui stesso si sentirebbe meglio se non mi avesse a portata
di occhi.
– Ma non
è che te la squagli prima della fine, vero?
– Ma no,
papà, figurati. Andiamo a casa insieme.
– Come
fai col lavoro?
– Non ti
preoccupare: ho preso un giorno di ferie.
In
effetti non è per il lavoro che ho perso oggi che dovrei preoccuparmi, quanto
piuttosto per quello che potrei perdere domani e in via definitiva: gli affari
languono e la padrona mi sembra irrequieta e desiderosa di tentare la fortuna
altrove. Ieri l’ho sentita mentre al telefono con il suo amico parlava di
trasferirsi a Cleveland. Del resto non posso darle torto perché si direbbe che
a Sunnydale lo stesso preoccupante aumento di attività demoniaca straordinaria
che è alla base di questa pubblica assemblea abbia portato a una corrispondente
diminuzione di attività demoniaca ordinaria. Delle due l’una: o tutti i nostri
demoni abituali hanno improvvisamente perso ogni interesse per la loro
capigliatura in favore di attività più sanguinarie o sono stati sostituiti da
nuovi demoni più versati nel massacro puro e semplice che nel seguire la moda.
Prospettive
occupazionali della sottoscritta a parte, nessuna delle due ipotesi sembra per
la verità particolarmente confortante. Ed è esattamente il motivo per cui siamo
qui riuniti nell’aula magna del nuovo liceo gentilmente messa a nostra
disposizione dal nuovo preside signor Wood: cioè per prendere provvedimenti
nella migliore tradizione della democrazia diretta americana contro
l’intollerabile escalation di attività demoniaca violenta nella nostra bella
città.
Come
dice mio padre, promotore della neonata Associazione Civica Sunnydaliana contro
le Attività Antiumane, facciamo quello che avrebbero fatto i nostri padri
fondatori se si fossero trovati davanti a una minaccia di qualsiasi sorta: ci
organizziamo per difendere le nostre case e le nostre proprietà dai continui
attacchi che le autorità competenti o non vedono o non contrastano a
sufficienza.
Dimenticandosi
completamente della sua parte Navajo, mio padre di solito a questo punto
ricorda come i primi coloni americani prendessero le armi per difendersi dalle
incursioni dei nativi; e forse perché non ci sono nativi americani a Sunnydale
– credo infatti che quelli che disgraziatamente per loro abitavano da queste
parti siano stati sterminati tutti a suo tempo – la sua retorica semplice e
tradizionale fa sempre effetto sugli ascoltatori.
Ma per
quanto mio padre negli ultimi quattro mesi abbia fatto sfoggio delle sue
insospettabili arti oratorie in numerose occasioni, si trattava pur sempre di
riunioni in cui un piccolo numero di conoscenti si ritrovava in un bar o in una
casa per parlare alla buona delle stranezze di Sunnydale tirando finalmente
fuori dai denti ciò che in città si è sempre saputo ma di cui non si è mai
pubblicamente parlato.
Questa
sera invece mio padre si presenta per la prima volta a un vero e proprio
pubblico in una sorta di riunione politica semi–ufficiale: a questo si devono
il vestito intero, la camicia nuova e la mia presenza.
Come
dicevo, i miei sentimenti verso questa iniziativa sono ambivalenti: da una
parte, provo una naturale lealtà verso l’Associazione Civica contro le Attività
Anti–umane, che di fatto ha tenuto lontano mio padre dalla bottiglia; ma
dall’altra il mio istinto sunnydaliano mi dice che tutto questo potrebbe finire
nei soliti sgozzamenti di massa, nel corso dei quali questa volta la gola di
mio padre sarebbe probabilmente una delle prime a venire squarciate. So che non
suona per niente incoraggiante detto così, ma ehi, è stato proprio lui ad
insistere perché noi cittadini di Sunnydale ci togliessimo finalmente la benda
dagli occhi. Che sarebbe una bellissima cosa purché non vada a finire che le
bende che ci togliamo dagli occhi dobbiamo poi usarle per tamponare il sangue
dalle ferite.
Mio
padre torna al tavolo della presidenza e si siede di fianco alla signora Tate,
la madre di Bobby, e al signor Keller, proprietario di quell’Impresa di
Costruzioni Keller in cui lavorano sia Richard che Xander Harris, nonché zio di
Harmony Keller, una delle studentesse vittime della disgrazia alla consegna dei
diplomi del 1999. Per la sua solida posizione finanziaria, la sua reputazione
d’uomo d’affari e i suoi legami familiari con tutta
Le altre
tre sedie al tavolo della presidenza sono ancora vuote e il mio istinto mi dice
che così resteranno: mancano il vice–sindaco e il capo della polizia, che pur
essendo stati invitati non avevano mai detto che sarebbero venuti; e manca
anche il preside Wood, che invece aveva promesso di venire. Francamente, non ho
idea di che cosa abbia potuto trovare di più urgente o di più interessante da
fare proprio stasera il primo preside che sembrava ben deciso a non fare lo
struzzo tra tutti quelli che il liceo di Sunnydale abbia mai avuto.
…
All’inizio
le prospettive dell’Associazione Civica contro le Attività Anti–umane si
mantengono se non rosee almeno accettabili: saggiamente mio padre e il signor
Keller prendono la cosa molto alla lontana e dopo una mezz’ora buona la parola
“vampiri” non è stata ancora pronunciata, ma allo stesso tempo hanno già messo
il dito su molte delle stranezze di Sunnydale, dalla mortalità estremamente
alta al proliferare di locali apparentemente destinati a perenni feste in
costume.
Mi
accorgo che il pubblico, non così numeroso come mio padre si augurava ma
nemmeno così scarso come temevo io, segue le loro argomentazioni con interesse
e a parte pochi individui – fra cui si distingue in particolare il signor
Wilkins, il direttore di Sophie – nessuno li ha ancora tacciati di essere pazzi
o anti–americani.
– Ad
esempio se il capo della polizia fosse presente – sta dicendo proprio adesso il
signor Keller – potrebbe forse spiegare come mai quest’anno due ragazze
giovanissime sono venute a Sunnydale dall’Europa solo per incontrare una morte
violenta.
– Mafia
russa? – ipotizza qualcuno.
–
Veramente mi risulta che fossero cittadine britanniche.
– Ci
sono troppi inglesi in questa città – sussurra Sophie – Non è una cosa normale.
– Tutto
questo è solo una perdita di tempo – sbuffa il signor Wilkins alzandosi in
piedi e intervenendo senza aspettare il suo turno – Se la nostra città fosse
così violenta come voi sostenete, ce ne saremmo sicuramente accorti. E invece
il negozio di cui sono direttore non ha nemmeno mai subito una rapina: credete
forse che siano molti gli esercizi commerciali a Los Angeles o a New York di
cui si possa dire una cosa del genere? Io non me ne andrò mai da Sunnydale. Noi
Wilkins siamo qui da quando è stata fondata e io vi dico una cosa: ci sarà
sempre un Wilkins a Sunnydale.
–
Speriamo almeno che non sia sempre lo stesso – si augura Sophie a bassa voce.
– Non
stiamo parlando di rapine – dice la signora Tate – Stiamo parlando di cose di
cui i telegiornali non parlano.
–
Sunnydale non è una città come tutte le altre – dice pacatamente il signor
Keller – È ora che tutti ce ne rendiamo conto.
– E chi
lo dice, scusi? – interviene una vecchietta che non conosco e che ha la mano
alzata da almeno dieci minuti – Io ci ho passato tutta la vita e mi sembra una
città normalissima.
– Forse
dovremmo chiederlo alla signorina Buffy Summers – dice mio padre.
Il nome
della Cacciatrice piomba sull’assemblea come un petardo: metà dell’assemblea
non sa nemmeno chi sia o finge di non saperlo e chiede rumorosamente
spiegazioni; ma dall’altra metà provengono asserzioni assai diverse.
–
Giusto: ha salvato la vita a mia figlia – grida una donna seduta dalla parte
opposta della sala.
– Una
volta
– L’abbiamo
persino eletta nostra protettrice quando eravamo al liceo – gli dà man forte
una ragazza con lunghi capelli scuri che ricordo vagamente di avere già
incontrato.
– Con me
ha fatto tutto lei – brontola Richard – Prima ha messo in pericolo la mia vita
e poi ha impedito che mi ammazzassero.
– Dà
delle feste veramente orribili. E sembra che non finiscano mai – concorda
Sophie mettendogli affettuosamente una mano sul ginocchio.
– Un
momento, un momento! Forse non tutti sanno che la signorina Summers ha trovato
la collocazione più idonea per le sue capacità come consulente scolastico –
dice pomposamente il signor Wilkins – Nonostante la sua giovane età questa
nostra concittadina è sempre stata d’esempio agli altri ragazzi e io sono certo
che in questo ruolo abbia modo di esprimere al meglio la sua particolare, ehm,
sensibilità verso le tematiche giovanili.
– Chi,
Buffy? – chiede Richard in tono oltremodo scettico.
Se
parlare in pubblico non fosse assolutamente al di là delle mie possibilità, a
questo punto potrei alzarmi e precisare che ormai non abbiamo nemmeno più
Forse ho
sbagliato: forse avrei dovuto dire a Spike di chiedere a Buffy di venire qui
stasera. In teoria, l’Associazione Civica contro le Attività Anti–umane
persegue i suoi stessi scopi e non dovrebbe dispiacerle poter contare
sull’appoggio di almeno una parte della cittadinanza.
Ma
pubbliche assemblee e investiture ufficiali mi sembrano completamente estranee
al suo stile e non sono nemmeno sicura che non si sarebbe arrabbiata come una
furia alla prospettiva di perdere la sua copertura: e chiamatemi pure vigliacca
ma io non voglio avere una Cacciatrice arrabbiata con me.
…
– Bobby!
– il grido della signora Tate è improvviso e straziante e raggela l’intera
assemblea.
Peccato,
perché le cose hanno preso una bella piega, con il signor Wilkins costretto al
silenzio dopo che qualcuno gli ha finalmente intimato di smettere di blaterare
a vuoto: i promotori dell’Associazione stanno finalmente esponendo il loro
programma e la parola “demoni” è stata già pronunciata almeno tre volte senza
che nessuno abbia dato in escandescenze.
Il
signor Keller e mio padre, ammutoliti dallo stupore, la guardano ad occhi
sbarrati alzarsi in piedi, girare attorno al tavolo come in trance e avviarsi
barcollando lungo il corridoio centrale tra le fila di sedie, ripetendo più e
più volte il nome del figlio morto mentre le sue mani afferrano l’aria e il suo
sguardo rimane fisso su un punto verso il fondo alla sala. Un punto in cui a
parte due portaombrelli non c’è assolutamente niente – e tantomeno qualcosa o
qualcuno che assomigli anche vagamente a quel ragazzone alto quasi un metro e
novanta che era il povero Bobby da vivo – come chiunque di noi potrebbe
testimoniare perché tutti dal primo all’ultimo ci siamo istintivamente girati a
guardare.
– No,
no, non te ne andare – dice la signora Tate in tono implorante, mentre le gambe
le tremano al punto che fatica a tenersi in piedi.
Penso
che in questo momento vorrei tanto essere al salone con addosso il mio grazioso
camice color prugna a fissare bigodini sulla testa di qualche vampira
nostalgica degli anni “60.
– Perdonami,
ragazzo mio, ti prego, non ti arrabbiare.
– Parla
con il figlio morto – mi sussurra Sophie, che ama sottolineare l’ovvio.
La
signora Tate abbassa la voce e sono troppo lontana per distinguere tutte le
parole; però vedo le lacrime che le scendono lungo le guance avvizzite. Infine,
mentre in sala cresce un mormorio di sconcerto, chiama ancora Bobby un paio di
volte allargando le braccia come se volesse abbracciare qualcuno, si gira
visibilmente affranta e ritorna come una furia verso il tavolo della
presidenza, dove mio padre e il signor Keller sono rimasti in piedi come
impietriti, non avendo la più pallida idea di cosa fare.
La
signora Tate sembra invece molto decisa, perché senza nemmeno guardarli afferra
il microfono, si rivolge all’assemblea e dice:
–
Abbiamo sbagliato, abbiamo sbagliato tutti. Andate via.
– Ma,
mia cara signora… – obietta Keller cercando gentilmente di toglierle il
microfono di mano e beccandosi in cambio un calcio negli stinchi.
– Mi
avete capito? Andatevene: i nostri morti vogliono solo riposare.
– Ha
ragione – grida una voce dalla prima fila.
Non ne
sono sicura, ma potrebbe essere il signor Wilkins. Altre voci si levano a
protestare contro questa strana interruzione dell’assemblea, ma altre, più
numerose e più irate, rincarano la dose. Qualcuno parla addirittura di
sacrilegio.
Io,
Sophie e Richard ci scambiamo sguardi preoccupati: c’è qualcosa di pericoloso
nell’aria, e io ho paura.
– Ma,
Agatha – comincia a dire mio padre cercando di dar man forte al signor Keller –
Nessuno di noi ha visto niente. Non è vero che nessuno ha visto niente? –
chiede all’assemblea, sperando forse così di riportare in carreggiata
l’assemblea.
Non è
una buona idea.
– Che ne
sai tu di quello che io vedo? – lo rimbecca aspramente la signora Tate – Fino
all’anno scorso eri tu quello che ci vedeva doppio, se non ricordo male.
– Vero!
Da che pulpito viene la predica!
Questa
volta sono assolutamente sicura che sia il signor Wilkins.
– Perché
non ti vai a fare un cicchetto, Peters? – grida una voce femminile.
– Hai
bevuto tanto che l’alcool ti ha mangiato il cervello – questa volta è un uomo.
È solo
l’inizio: all’improvviso l’assemblea si rivolta contro mio padre come un cane
rabbioso, gridandogli insulti e chiedendogli di andarsene; i più gli danno del
vecchio ubriacone ma qualcuno ricorre anche ad insulti più fantasiosi e meno
mirati.
La mia
vicina di posto gli chiede chi si crede di essere per venire a dire agli altri
quello che devono fare.
– Ma chi
ti ha obbligato a venire, vecchia strega – le dico io.
Per
tutta risposta quella comincia a darmi ombrellate sul ginocchio e sono
costretta a disarmarla come posso, impresa che si rivela tutt’altro che
semplice, e perciò mi perdo una parte dello svolgimento degli eventi, ma quando
mi alzo vittoriosa con un pezzo di ombrello in mano è evidente che la
situazione è ormai molto compromessa.
Ad onore
del signor Keller, va detto che non butta subito mio padre a mare, ma anzi per
un po’ tenta di difenderlo e di calmare le acque; il suo problema principale
però non è mio padre, bensì la signora Tate, la quale, determinata a chiudere
immediatamente questa pubblica assemblea anche a costo di passare sopra il suo
cadavere, è passata ormai completamente alle vie di fatto, dando prova di una
forza di cui francamente la ritenevo incapace.
Mio
padre d’altra parte è terreo in volto e non riesce più a parlare, ma non so
cosa fare per aiutarlo, perché temo che se intervenissi non servirebbe ad altro
che a rinfocolare ancora di più gli animi già così accesi: non capisco come sia
potuto succedere ma si è formata in questa assemblea una corrente di odio così
forte nei suoi confronti che mi sembra quasi di poterla toccare.
All’improvviso
da dietro le mie spalle vola un giornale strettamente ripiegato e lo manca per
un pelo: mi giro e vedo l’allenatore di football del liceo – un marcantonio che
peserà quasi centotrenta chili – con il braccio ancora alzato e un sorriso
ebete sul volto.
È una
fortuna che gli astanti non abbiano molto a disposizione da lanciare e che le
sedie siano inchiodate al pavimento; ma dopo questo primo lancio cominciano a
fioccare oggetti disparati – un berretto, un libro tascabile, qualche accendino
– come se i miei concittadini si stessero frugando nelle tasche per vedere se
riescono a trovare i mezzi con cui poter lapidare mio padre sul posto.
Per
fortuna nel momento in cui viene colpito da un accendino sulla guancia mio
padre si riscuote, impreca e corre verso l’uscita.
Sophie e
Richard si stanno già alzando per farmi passare.
– Vengo
con te – mi dice lui prendendo il suo giubbotto dallo schienale della sedia.
– Adesso
lo ammazza – grida Sophie indicando il tavolo della presidenza, dove di sta rapidamente
formando un capannello di persone urlanti attorno alla signora Tate che ha
messo le mani al collo del signor Keller.
Mi basta
un’occhiata per accorgermi che qualcuno ha in mano armi improprie di vario
tipo: intravedo persino la lama di un bel coltellaccio.
– No –
dico a Richard – è meglio che tu resti qui e cerchi di salvare la pelle al tuo
capo.
Ho quasi
raggiunto la porta della sala facendo lo slalom tra cittadini infuriati e
prendendomi anche in faccia una gomitata che non era diretta a me quando mi
sento tirare violentemente per la maglia. Poiché dando uno scrollone non riesco
a liberarmi mi giro col cuore in gola aspettandomi di dover affrontare una vera
e propria aggressione, ma è solo la signora Bruebacker, la mia vicina di casa,
che mi tende un mazzo di chiavi dicendomi qualcosa.
Gli
intervenuti all’assemblea, che finché se ne stavano seduti buoni e tranquilli
ai loro posti sembravano così pochi, adesso che si stanno alzando in massa
inciampando nelle sedie e gridando insulti sembrano una moltitudine. E fanno
anche il chiasso di una moltitudine, rendendomi impossibile capire quello che
mi sta dicendo la signora Bruebacker.
– Padre…
perso… chiavi – riesco a capire leggendo il labiale e mi rendo conto che la mia
caritatevole vicina ha raccolto le chiavi di casa, che devono essere cadute di
tasca a mio padre mentre passava come una furia davanti a lei, e che ora sta
cercando di restituirle a me.
Date le
circostante, è stata veramente gentile, ed è anche un’ottima cosa che le chiavi
di casa mia non restino qui a disposizione di qualcuno di questi scalmanati:
perciò le urlo un ringraziamento afferrando il portachiavi prima di ripartire
all’inseguimento del mio vecchio.
Ma anche
se ho trovato le chiavi, ho ormai perso mio padre: quando arrivo finalmente in
strada non lo vedo più e dal momento che potrebbe essere andato in tre
direzioni diverse – non credo infatti che avrebbe preso per la campagna – non
ho davvero idea di che strada prendere.
Dal
liceo di Sunnydale si può arrivare a casa nostra facendo due percorsi diversi
ma quasi esattamente della medesima lunghezza; oppure si può anche prendere
direttamente per il centro, dove si trova la più alta percentuale di bar. E
poiché a casa nostra la scorta di alcolici è attualmente ridotta alle sei
bottiglie di birra che ho comprato io stessa – mio padre ha rovesciato nel
lavandino le bottiglie di superalcolici davanti ai miei occhi due mesi fa –
quest’ultimo aspetto non è da sottovalutare.
Penso
infatti che se avesse avuto intenzione di fare qualcosa di diverso che
fiondarsi da qualche parte a bere fino a ridursi all’incoscienza, il vecchio
non si sarebbe dimenticato di me.
Perciò
il centro tutto sommato è ancora la scelta più probabile ed è verso quella
parte che alla fine mi avvio sospirando. Non che mi illuda di poter veramente
fare qualcosa per impedire a mio padre di attaccarsi alla bottiglia, ma posso
almeno impedire che qualcuno con un bel paio di zanne lo trovi dopo che si è
addormentato per strada e non si lasci scoraggiare dalla possibilità tutt’altro
che remota di prendersi una colossale sbronza per interposta persona.
Anzi,
poiché i vampiri fanno molto fatica ad ubriacarsi – Spike lo ripete sempre,
anche se a me veramente sembra che lui non si lasci spaventare poi troppo da
questo tipo di fatica – e poiché d’altra parte non occorre possedere un battito
cardiaco per sentire la necessità di annegare i propri dispiaceri nell’alcool,
dissanguare un ubriaco può addirittura risultare una comoda scorciatoia per
raggiungere l’effetto desiderato.
Con
questo tipo di foschi pensieri che mi girano per la testa, trascorro così
peregrinando da un locale all’altro circa sessanta orribili minuti che si
aggiungono alle diverse migliaia di minuti orribili che ho già passato in
circostanze analoghe, e anche se presto a conferma della mia intuizione trovo
tracce del passaggio del vecchio in cerca di libagioni sempre più pesanti, non
riesco mai a mettergli per così dire il sale sulla coda.
Il
quinto bar che visito non è un locale in cui mio padre da sobrio sarebbe mai
entrato, ma il barista che si è rifiutato di servirlo nel quarto locale perché
a suo parere aveva già bevuto abbastanza mi ha detto di averlo visto dirigersi
– barcollando – in questa direzione.
Nemmeno io
ci entrerei se solo potessi fare a meno, ma dal momento che ci sono già stata
perché è il locale preferito di Clem, la demonessa che sta asciugando i
bicchieri dietro al banco mi riconosce e mi lascia passare senza fare commenti.
Non è
molto frequentato a quest’ora – per gli umani in cerca di emozioni che sono
ancora rimasti a Sunnydale in effetti è un po’ tardi mentre d’altra parte per i
vampiri è ancora presto – perciò mi basta una rapida occhiata per essere quasi
certa che mio padre non è seduto a nessuno dei tavoli; ma dal momento che
potrebbe essere sotto uno dei tavoli devo fare il giro del locale, anche se
questo significa espormi ai commenti malevoli e alle battute salaci dei clienti
presenti, quasi tutti demoni.
– Ehi,
carina, vieni qui e appoggia il tuo bel culetto umano su questa sedia vicino a
me.
Il
demone che ha parlato ha un aspetto quasi completamente umano, a parte le
orecchie a punta, e questo lo rende più pericoloso, almeno dal mio punto di
vista, perché diversamente dalla maggior parte dei demoni potrebbe anche non
essere un fautore dell’apartheid sessuale rispetto alla razza umana. E il fatto
che mi abbia afferrato il lembo della giacca con una delle sue manacce solo un
po’ più pelose di quelle della maggior parte dei maschi della mia specie non mi
sembra un buon segno.
–
Lasciami andare, scusa tanto – reagisco io in un tentativo malriuscito e
probabilmente inutile di sembrare gentile e decisa allo stesso tempo.
Il
demone ride, mettendo in mostra una dentatura decisamente eccessiva per potersi
definire umana anche alla lontana, ma non molla la presa.
– Non
hai sentito la signora? Non ti conviene darle fastidio se ci tieni alla tua
testa.
A
giudicare dalla rapidità con cui il demone mi lascia andare si direbbe che la
mia giacca abbia preso fuoco.
– Che ci
fai qui tutta sola, Tarantula?
– Spike,
accidenti, non ti avevo nemmeno visto.
Immagino
che quando uno come Spike parla di rischi che riguarderebbero la testa di
qualcun altro, a quest’ultimo non venga proprio in mente che potrebbe anche
intendere il rischio di ritrovarsi con i capelli color verde marcio o con la
frangia a scaletta.
–
Creatura della notte. O forse illuminazione insufficiente – commenta il vampiro
spostandosi verso di me ed emergendo così dalla fitta ombra in cui è avvolto
l’angolo più lontano del tavolo – Del resto la padrona è un’avaraccia –
aggiunge alzando la voce in modo che la barista senta – che taglia l’whisky con
l’acqua e il sangue con il succo di fragola.
La
demonessa alza lo sguardo dai suoi bicchieri senza scomporsi.
– Se il
posto non ti piace, Spike – risponde placidamente con il suo tipico accento che
sembra russo ma che in realtà con
–
Dannata sparagnina – ripete il vampiro ma a voce più bassa – E ha pure
dannatamente ragione. Allora, tesoro, a cosa devo il piacere di questo
incontro?
– Mio
padre. Non so dove si sia cacciato.
– Ahi – dice
Spike mostrando di aver afferrato al volo.
– Sì. Le
cose gli sono andate male e io faccio il giro dei bar. Di nuovo. I bei vecchi
tempi sono tornati. Non voglio romperti le scatole, Spike, ma…
– Ehi,
volevo solo stare qui un po’ per conto mio. Ma adesso finisco la birra e ti
accompagno. Siediti, hai una faccia tremenda.
– Beh,
grazie – dico io che solo adesso che metto il mio bel culetto sulla sedia mi
rendo conto di quanto sono stanca e di quanto ho veramente bisogno di qualcuno
che mi accompagni e tenga lontano i cattivi – Non te lo chiederei se non fossi
veramente preoccupata.
– Alla
lunga la faccenda di stare da soli diventa noiosa. Ti va un caffè?
Mentre
sorseggio, stando attenta a non scottarmi la lingua, l’inqualificabile
brodaglia nerastra che la padrona ha messo sul già lungo conto di Spike senza
protestare – probabilmente perché almeno uno di noi, se non tutti e due, le
facciamo pena – mi accorgo che non sono l’unica ad avere un aspetto tremendo.
– Che ti
è successo alla faccia?
Spike si
tocca il naso e il labbro, dove deve aver ricevuto di recente dei colpi
piuttosto forti perché abbiano lasciato dei segni così evidenti sulla sua
resistente pelle da vampiro.
–
Questo? Qualcuno voleva tirare fuori il demone che è in me.
–
Qualcuno che era stanco di vivere?
– Stanco
di lasciare vivere me – precisa puntando l’indice sul suo petto.
Noto che
si è deciso a portare di nuovo la sua eterna giacca di pelle nera, di cui, a
sentire Clem, non poteva nemmeno sopportare la vista nei primi tempi in cui era
tornato a Sunnydale con l’anima in dotazione. Anche se non sono la persona più
adatta a criticare le interazioni fra le anime e gli indumenti di pelle nera,
dal momento che la scorsa settimana al centro commerciale ho lasciato il cuore
su un paio di pantaloni dello stesso colore e dello stesso materiale, immagino
che ci sia qualcosa di più che una questione di stile dietro questa famosa
giacca di Spike: ma so già che non lo scoprirò mai, perché questa nuova
versione del vampiro è molto meno ciarliera della vecchia.
Verrebbe
quasi da pensare che tenga la bocca chiusa nel timore che l’anima scappi via da
lì.
– E
questo qualcuno che voleva ucciderti aveva bisogno di farti diventare più forte
prima di provarci? – chiedo.
Poco ma sicuro,
se mai vorrò far fuori un vampiro io lo farò alla chetichella e possibilmente
prima di vedere spuntare zanne di sorta.
– La
gente è strana, tesoro – sospira Spike ma prima che abbia tempo di ritornare
alla sua birra la sua attenzione è richiamata da qualcuno che è appena entrato
nel locale.
– Guarda
chi c’è – aggiunge e anche se sta parlando a se stesso e non a me, mi giro
ugualmente seguendo il suo sguardo.
I nuovi
venuti sono un terzetto tre volte strano. In primo luogo sono tutti e tre umani
e già questo è un fatto insolito qui e a quest’ora. Poi si tratta di un
giovanotto accompagnato da due ragazze molto giovani che non hanno per niente
l’aria di essergli parenti. Infine hanno tutti e tre l’atteggiamento
circospetto e consapevole che i cittadini di Sunnydale non hanno quasi mai,
tantomeno quando più sarebbe il momento di averlo.
Anche se
Xander Harris si è alquanto appesantito rispetto all’anno in cui si è diplomato
e ha ormai passato quell’impercettibile soglia che divide il ragazzo dall’uomo,
lo riconosco immediatamente: sebbene non abbiamo mai frequentato veramente le
stesse persone né siamo mai stati amici ci legano infatti i molti fili lenti e
tenaci al tempo stesso che formano il tessuto di conoscenze in una cittadina
come questa.
Ad esempio
io e Harris abbiamo frequentato lo stesso asilo, la stessa scuola media e lo
stesso liceo, anche se ovviamente sempre in classi diverse perché ho due anni
meno di lui; la madre della mia amica Gladys era stata damigella alle nozze dei
suoi genitori; Harris poi lavora nei cantieri Keller come Richard, anche se per
qualche ragione ha fatto molto più carriera; ed era pure amico di Oz il
chitarrista, che a sua volta era stato compagno di banco di George per tutti
gli anni delle elementari.
Insomma
in tutti questi anni non ci sono mancate le occasioni di imparare uno il nome
dell’altro, anche se per quanto lo riguarda non credo che si ricordi che mi
chiamo Taylor perché mi saluta usando solo il mio cognome, Peters – e
probabilmente non sa nemmeno che avrei dovuto assistere al suo matrimonio, a
meno che qualcuno non glielo abbia raccontato, perché io e Spike ce ne andammo
prima che lui arrivasse e cominciasse il casino.
–
Taylor.
Non sono
molte le persone che mi chiamano ancora così in città. E io riconoscerei quella
faccia lunga un chilometro tra mille.
–
Amanda.
Sapevo
che la cuginetta di Thomas era diventata amica di Dawn Summers ma francamente
non mi aspettavo di trovarla a girare di notte per i bar di Sunnydale in
compagnia di Xander Harris e di un’altra ragazzina, una cinese che tra
parentesi ci sta guardando tutti e quattro come se non capisse una parola di
quello che diciamo.
– Vi
conoscete? – chiedono Harris e Spike all’unisono prima di guardarsi in
cagnesco.
Spike ha
salutato le ragazze e Harris ha salutato me ma non si sono ancora scambiati una
parola.
– Ma
certo, usciva con mio cugino Thomas – risponde Amanda stringendomi in un
abbraccio pieno di entusiasmo.
È una ragazza
affettuosa e mi aveva anche preso in simpatia, credo perché non avevo dato in
escandescenze quando Thomas si era presentato a un appuntamento con la
cuginetta a traino: del resto non è certo colpa sua se suo padre è scappato,
sua madre è morta e la sua famiglia affidataria è composta da una manica di
idioti.
In
quanto a quei lunghi insignificanti capelli a spaghetto che accentuano
l’insolita lunghezza del suo mento, forse ostinarsi a portarli così sarà anche
colpa sua, ma alzi la mano chi non ha sbagliato look a sedici anni. Ricordo
ancora con raccapriccio come andavo in giro vestita io a quell’età,
praticamente una via di mezzo tra Olivia Newton John all'inizio e alla fine del
secondo tempo di Grease, però tutto contemporaneamente.
– Hai
sentito Thomas ultimamente? – mi chiede Amanda.
–
Veramente no – rispondo – Però so che il mese scorso era a Tucson.
– Ti ha
mandato lei? – chiede nel frattempo Spike a Xander Harris con voce che sembra
esser passata sopra carta vetrata, come se chiedere gli facesse male e al tempo
stesso non potesse farne a meno.
– Questo
è quello che piacerebbe credere a te – ritorce Harris con prontezza ma senza
vera malignità.
Spike
incassa con maggior buona grazia di quanto lo avrei creduto capace e un guizzo
di allegria gli compare sul viso mentre alza gli occhi in faccia all’altro e
gli chiede maliziosamente:
–
Un’idea tua, allora, Harris?
Xander
annaspa prima di chiamare in causa Willow, ma è evidente che Spike non gli
crede anche se lascia perdere e lo invita anzi con un gesto a sedersi insieme a
noi.
Da come
la vedo io, che
Harris
ordina una birra per sé e un’aranciata per Amanda e lascia a quest’ultima
l’incarico di scoprire che cosa potrebbe voler bere nel cuore della notte una
ragazza cinese a Sunnydale.
Tè,
forse, ma sarei alquanto sorpresa se servissero del tè in questo locale – o per
meglio dire se servissero del tè fatto con le foglie dell’omonima pianta e
senza aggiunta di parti più o meno indispensabili tolte a creature più o meno
consenzienti. Alla fine la straniera accetta l’aranciata, anche se almeno a
giudicare dalle smorfie che fa non si direbbe che le piaccia molto.
Spike si
guarda intorno: adesso al tavolo siamo seduti in cinque. Una piccola folla per
qualcuno che ha appena dichiarato di essere venuto qui per restare da solo: e
se aiutarmi a cercare mio padre, beccarsi con Harris e stare a guardare due
ragazzine che bevono aranciata invece di mandarci tutti quanti al diavolo non è
un segno eloquente del suo ravvedimento non saprei proprio che cos’altro
potrebbe essere.
Harris
lo scruta senza tanti riguardi e dopo aver finito con comodo il suo esame senza
curarsi affatto dello sguardo risentito del vampiro che ne è l’oggetto dice:
– Beh, credevo
peggio. Speravo che il preside Wood ti avesse dato almeno una bella ripassata.
Interessante:
ecco quello che stava facendo il preside invece di presenziare all’assemblea
dell’Associazione Civica Sunnydaliana come avrebbe dovuto. Perché il preside Wood
dovesse impegnarsi in un regolamento di conti interno alle file per così dire
dei buoni, con tutti i cattivi veri e propri che girano per la città, questa
invece è una cosa che francamente non riesco a spiegarmi.
Certo
che se spero che Spike mi illumini a proposito, campa cavallo che l’erba
cresce: se devo giudicare da ciò che vedo, la riservatezza è una cosa che si
accompagna direttamente al possesso dell’anima.
–
Guarigione rapida. Tipica di noi vampiri.
– Uh, uh
– replica l’altro puntando un dito verso i segni violacei che Spike ha in
faccia e che effettivamente stanno scolorendo a vista d’occhio – Era un
tirapugni?
Non
riesco ad immaginarmi il preside Wood fare uso di un tirapugni: spero almeno
che prima si sia levato la giacca, altrimenti sarebbe sembrato un film di
gangster. – Sì. Ma l’ho fatto smettere.
– L’hai
morso?
Spike
guarda la sua birra intensamente.
– Se lo
avessi morso davvero, sarebbe morto.
– Già,
già, grande vampiro gradasso ammazzo–tutti–io. Non sembravi così in forma
quando ti abbiamo riportato a casa a gennaio.
– Vorrei
vedere te a stare appeso legato mentre ti infilano un coltello… e ora che ci
penso, ti ho visto – Spike sorride al ricordo – E anche di recente.
Xander
annuisce, improvvisamente ammansito, e alza la bottiglia per fare un brindisi.
– Agli
antidolorifici – dice – e a quelli che ne fanno uso in quantità industriale
soprattutto in relazione a ferite da taglio.
Spike si
unisce al brindisi in silenzio.
Io questi
due non li capisco: a tratti sembra che il testosterone stia scorrendo a fiumi
e che siano lì lì per ammazzarsi; poi è come trovarsi a una di quelle orribili
cene di famiglia dove tutti si odiano in silenzio e non si sa più nemmeno bene
perché; e dopo tutta questa esibizione di aggressività e di risentimento eccoli
bere assieme in confortevole silenzio come se non ci fosse mai stato il minimo
dissidio.
Deve
essere una di quelle misteriose faccende tra uomini che noi povere donne non
riusciremmo mai a capire nemmeno nell’improbabile ipotesi che ce ne importasse
qualcosa.
– Non
credi che le ragazze dovrebbero andare a dormire? – chiede Spike.
Le
ragazze in questione, che nel frattempo stanno ingannnando il tempo mostrandosi
vicendevolmente tutto il ciarpame in bigiotteria e oreficeria da poco prezzo
che adorna le orecchie, i polsi e le dita di entrambe, sollevano lo sguardo
verso di lui e mentre Amanda cerca di spiegare a Chao che Spike le vuole
mandare a letto, mi rendo conto che sono al tempo stesso risentite e
tranquillizzate per essere trattate come due bambine.
Il fatto
che l’unico a preoccuparsi che non perdano le loro ore di sonno sia un vampiro
la dice lunga sul clima che si respira a casa della Cacciatrice, e anche forse
sull’effettiva capacità da parte di Buffy Summers di occuparsi di queste
giovani candidate al suo stesso ruolo.
– Sì, è
vero – risponde Xander sbadigliando – E anche a me non farebbe male rivedere
finalmente il mio letto. Tu non torni a casa?
– Più
tardi: questa signora ha smarrito il suo vecchio. Meglio trovarlo prima che lo
trovi qualcuno di veramente cattivo.
– È
proprio vero che a questo mondo è tutto relativo – commenta Harris – Forza,
Amanda, andiamo. E anche tu, Chao: allez, schnell o come diavolo si dice. Per
caso tu capisci qualcosa di quello che dice questa ragazza, Spike?
–
Spiacente, mai saputo il cinese.
– Non è
cinese, è cantonese. O almeno così dice Giles.
– Ah, se
lo dice Giles…
– Non ce
l’avrai mica con lui?
– Perché
mai? Mi diverto sempre quando cercano di ammazzarmi a tradimento.
Adesso
anche le due ragazzine si sono alzate e Harris si sta infilando la giacca,
ormai pronto per andarsene; ma dopo aver esitato un po’ dice ancora qualcosa:
– Buffy
è furiosa con Giles.
– Accidenti
– dice Spike – allora sì che il vecchio Rupert è nei guai.
Ma si
vede benissimo che è una cosa che gli fa piacere sentire.
– Giles
cercava solo…
– … di
fare quello che credeva giusto. Lo so. Però, Harris…
– Però?
– Non ha
chiesto a te di aiutarlo.
–
Probabilmente pensava che io non sarei capace di farti fuori. Ma si sbaglia.
– Non lo
so, Harris.
– Credi
forse che non troverei il modo di ammazzarti se fosse necessario? – si inalbera
Xander.
– Quello
che credo è che tu non mi ammazzeresti a tradimento.
Il
silenzio che segue è pesante come il piombo e solo Chao, che poverina non ha
capito un accidente, non ha per niente l’aria imbarazzata. Xander Harris in
particolare ha l’espressione di qualcuno che vorrebbe che si aprisse una botola
sotto i suoi piedi – beh, forse non proprio, perché siamo a Sunnydale e una
cosa del genere potrebbe benissimo succedere da un momento all’altro.
Io mi
sento come se qualcuno che porta sempre il parrucchino se lo fosse
improvvisamente tolto e si stesse grattando la testa davanti a me.
– Io non
ci conterei, se fossi in te – dice alla fine Xander Harris puntando un indice
verso Spike – Peters. Forza, ragazze, andiamo.
– Non ci
conterò, Harris – gli grida dietro Spike mentre io guardo il terzetto
allontanarsi con la mia manina alzata in un cenno di saluto – E non contarci
nemmeno tu.
–
Gradasso – rincaro io vigliaccamente solo perché questa sembra proprio la
serata giusta per insultarlo senza rischio – Scommetto che ti faresti ammazzare
per difenderlo.
– Sì, ma
solo perché se quell’idiota morisse, Buffy metterebbe giù uno stufato più
finito – ammette il vampiro.
– C’è
qualcosa che non quadra in questo ragionamento – dico io, che ad ora tarda
tendo a diventare un po’ tarda anch’io – Perché se morissi tu, quello che
direbbe
– Ecco,
vedi? – mi interrompe Spike con logica ferrea – L’unico che può permettersi di
morire sono io. Hai finito quella schifezza?
– Sì,
possiamo andare. E tu me lo potevi anche dire che qui il caffè faceva schifo –
protesto mentre gli tengo dietro a fatica lungo il locale: per essere uno che
non ha le gambe poi così lunghe, cammina molto veloce.
E
bisogna anche dire che è sempre un bello spettacolo vederlo camminare, con quei
jeans così aderenti e il soprabito che gli sbatte sulle gambe in quel modo: lo
so benissimo che non è pane per i miei denti, ma non sono ancora diventata
cieca.
Però a
pensarci bene è bello anche che io non sia pane per i suoi, di denti, e che
invece di volermi mordere mi voglia aiutare.
– Anche
se non è stata
Suppongo
che cedere il passo alle signore sia un’abitudine inculcategli quando era
ragazzo nella quale tende a ricadere se non esercita un ferreo autocontrollo, e
in questo momento è evidente che sta pensando ad altro.
– Sì,
sì, sono commosso – mi risponde un po’ sorpreso per la mia uscita, poi gli
viene in mente una cosa – Ehi, te l’ho detto che mi ha parlato di te?
– Chi,
Spaventata
però forse è meglio.
– Buffy.
Mi ha detto perché non uscivo di nuovo con te.
Oh.
Sapere che questi due – il vampiro e
– Come se
quella fosse mai stata una buona idea – bofonchio vagamente risentita.
– Le
buone idee sono rare, tesoro – commenta mostrandomi le chiavi della sua Yamaha,
quella con cui sta andando in giro da quasi due anni – E aver preso la moto
stasera dev’essere una di quelle.
…
Due ore
più tardi, siamo ancora in giro, abbiamo passato al setaccio quasi tutta
Sunnydale e non abbiamo ancora trovato mio padre, sebbene siano emerse
ulteriori tracce del suo passaggio in tre diversi locali; i bar che hanno una
clientela solo o prevalentemente umana sono chiusi da un pezzo; e per fortuna
questa notte Spike si è rivelato oltre che la mia guardia del corpo anche il
mio fornitore di trasporto, altrimenti avrei le gambe a pezzi.
Se ci
fosse qualcuno in giro potrei persino pavoneggiarmi mentre mi faccio
scarrozzare sulla moto del vampiro più sexy di Sunnydale tenendogli un braccio
intorno alla vita. Ovviamente, se la sua spensierata noncuranza nei confronti
del codice della strada – tipica di chi è già morto – non mi facesse sudare
freddo tutto il tempo mentre il braccio di cui sopra mi diventa praticamente
insensibile a forza di afferrarmi disperatamente.
A dir la
verità, sono ormai così preoccupata per mio padre che mi accorgo che il mio
braccio si è irrigidito solo quando smonto dalla moto davanti a casa: è stata
un’idea di Spike venire a vedere se per caso il cavallo dopo aver sgroppato è
tornato alla stalla.
– Ma non
ha nemmeno le chiavi di casa – ho obiettato io battendo le mani sulla tasca dei
miei pantaloni, dove tra le chiavi mie di casa e del salone e quelle di mio
padre, ormai c’è così tanta ferraglia che il peso potrebbe facilmente
trascinarmi a terra.
– Che
importanza ha avere o non avere le chiavi quando non riesci a infilarle nella
serratura? – obietta saggiamente Spike.
Ed
essere in giro da centocinquant’anni deve pur servire a qualcosa se la sua si
rivela un’intuizione fortunata. Già dalla strada posso intravedere un lembo
della giacca buona di mio padre tra i gradini davanti alla porta di casa e il
grosso vaso di cemento sul marciapiede in cui stanno crescendo gli stentati
tulipani con i quali ho invano cercato di ricreare i fasti dei tempi di mia
madre, quando ricordo che i fiori traboccavano dal contenitore in una cascata
multicolore.
Gli
ultimi passi di questa ricerca sarebbero i più difficili da fare se non avessi
un vampiro con me.
– Sento
il battito – mi rassicura infatti Spike mentre sta ancora parcheggiando la
moto.
Poi giro
intorno al vaso e posso vedere io stessa che il petto di mio padre si alza e si
abbassa ritmicamente; la giacca del vestito buono è sporca e spiegazzata, ha la
camicia fuori dai pantaloni e ha addirittura perso una scarpa; ma è vivo e non
è nemmeno svenuto, bensì soltanto addormentato del sonno pesante e rumoroso
degli ubriachi.
Quando
mi avvicino di più mi accorgo che ha un bigliettino appuntato sul petto come i
trovatelli che si lasciavano un tempo davanti alle chiese affidati al buon
cuore dei passanti e nel bigliettino il reverendo Bliss mi informa
indirettamente di averlo raccolto chissà dove e scaricato qui. Sul retro del
volantino di una vecchia pubblicità di un gommista il reverendo ha infatti
scribacchiato con una matita spuntata il seguente messaggio “mi spiace non ha
addosso le chiavi lo lascio qui. Bliss” e l’ha infilato per un angolo in uno
degli occhielli della camicia.
Spike,
che si è inginocchiato per vedere come sta il bell’addormentato, si ritrae
istintivamente quando il suo fine olfatto da vampiro viene colpito in pieno
dalle zaffate di alcool e di vomito che emanano dal corpo inerte del vecchio
ubriacone.
–
Sbronzo fradicio. Chissà il mal di testa domani. Spero avrai delle aspirine in
casa.
– Gli
sta bene se starà male da cani; addormentarsi per strada di notte: è proprio fortunato
che sia stato il reverendo Bliss a trovarlo e non qualcos’altro.
Mi
accorgo di tremare per il sollievo e so anche che se Spike non fosse qui a
guardarmi probabilmente adesso starei prendendo mio padre a calci nei fianchi
per avermi fatto spaventare in questo modo.
Spike
gira attorno a mio padre, si china e gli mette le mani sotto le ascelle.
– Cosa
fai?
– Ti
aiuto a portarlo in casa. Credi di essere Hulk, tesoro?
– No.
Solleva
la testa a guardarmi e nei suoi occhi azzurri vedo passare qualcosa che non
saprei definire: sembrerebbe quasi che io l’avessi offeso ma che avessi anche
il diritto di farlo. Io. Offendere di proposito il vampiro della Cacciatrice.
Non capisco.
– Giusto
– si corregge Spike in fretta – Tu entri, io lo sollevo e lo butto dentro.
Allora
capisco.
– No –
ripeto cercando di districare il mazzo giusto dal groviglio di chiavi che
staziona nella mia tasca – Volevo dire che lui resta qui fuori a smaltire la
sbronza senza vomitare sui pavimenti. Tu invece entri a bere qualcosa con me.
Se ti va, naturalmente.
Spike
non dice niente mentre io trovo le chiavi, gli volto le spalle e armeggio con
la serratura ed è ancora lì in piedi in fondo ai tre gradini davanti alla
porta, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, quando mi giro nuovamente
dopo aver aperto ed invito con un gesto scenografico il mio amico vampiro a
varcare la soglia della mia casa.
E in
questo momento invece che un vampiro pluricentenario capace di ammazzare mostri
di ogni sorta a mani nude senza che nemmeno un ricciolo sfugga alla presa del
gel mi sembra un bambino al quale gli altri bambini abbiano appena permesso di
giocare con loro ai giardinetti.
Poi si
schiarisce la voce e io posso vedere la posa da duro ricomporsi per così dire
in diretta sotto i miei occhi, a partire dal modo in cui tiene la testa ben
ritta per compensare la statura tutt’altro che eccelsa fino a quel lieve
bilanciarsi sulle ginocchia che fa a volte, proprio come un atleta prima del
salto.
Solo
quando si è completamente calato nel suo personaggio ed è diventato di nuovo un
tutt’uno con il suo eterno soprabito di pelle nera, piega la testa da un lato e
si decide a rispondere con il solito tono noncurante. E forse perché risponde
alla mia domanda in ritardo mi dedica per compensarmi dell’attesa uno di quei
sorrisi affascinanti che lasciava sempre come mancia quando veniva a farsi fare
i capelli.
– Mi hai
mai sentito rifiutare una birra?
Dal
momento che quando è uscito di casa mio padre era perfettamente sobrio, suppongo
che la mia birra sia ancora nel frigorifero: non è un granché, anzi era in
offerta al supermercato, ma Spike non è mai stato un tipo difficile. Se lo
fosse, rovinerebbe tutta la sua messinscena alla Full Monty.
– Ad
essere sincera, no. Allora vieni, Spike, entra.
– Ma,
Tula, tuo padre… lo vuoi davvero lasciare qui?
È
esattamente a questo punto che mi viene il dubbio che la sua anima sia migliore
della mia. Perché no? Potrebbe essere: dopotutto, lui non è cresciuto a
Sunnydale.
5.
Pomeriggio di Maggio
“Ninetta
mia, crepare di Maggio
ci vuole
tanto, troppo coraggio.
Ninetta
bella diritto all'Inferno
avrei
preferito andarci in Inverno”.
La
guerra di Piero di Fabrizio De Andrè
– Non è
un problema per me, Taylor – conclude il reverendo Bliss guardandomi con aria
comprensiva.
Dio solo
sa – e avrebbe anche fatto bene a dirlo al pastore Bliss, se è vero che questi
è un Suo emissario come dice – che non mi è mai piaciuto venire commiserata; ma
negli ultimi due mesi mio padre ci si è messo d’impegno a riguadagnare il tempo
perduto e dopo aver perso il lavoro e aver pagato il conto dell’ospedale gli è
rimasto così poco che non so se sarebbe bastato a comprare il biglietto
dell’autobus per Houston.
Per
fortuna la zia Janice si è detta disposta ad ospitarlo nonostante tutto – cioè
nonostante io abbia calunniato il suo povero figliolo sostenendo falsamente che
mi avrebbe messo le mani addosso. E pertanto che io vada a Houston insieme a
lui e al reverendo Bliss è fuori questione, non importa quello che mio padre
dice o non dice.
Avrei
potuto pagare io stessa il biglietto dell’autobus di mio padre, sempre se i
miei risparmi – faticosamente sottratti alla custodia della banca dopo aver
fatto una coda di due ore insieme a una moltitudine di miei concittadini,
intenzionati come me a svuotare i loro conti prima di battersela – non fossero
attualmente nelle zampone di Sassassa.
Eccomi
perciò incastrata in una Sunnydale da cui tutti stanno scappando come topi da
una nave che affonda, almeno finché non trovo il mio grosso amico Sfreyano e lo
prego di restituire il maltolto: cosa che sono sicurissima farà profondendosi
in scuse non appena gli ricorderò le circostanze in cui il suo alter–ego
mannaro mi ha praticamente rapinato.
Perciò non
posso che accettare con gratitudine l’offerta del pastore Bliss di dare un
passaggio a mio padre fino a Houston intanto che lascia Sunnydale per
raggiungere la sua nuova congregazione a Austin.
–
Potresti venire anche tu, Taylor – insiste ancora il reverendo – staremo un po’
strettini, ma d’altra parte la signora Bliss occupa così poco spazio.
Dal
momento che sua moglie, un donnino esile ed arcigno con la comunicativa di un
istrice, è veramente meno della sua metà in peso e circa i tre quarti di lui in
altezza, io e mio padre ci sforziamo di sorridere mentre il reverendo ride
fragorosamente; e io non per la prima volta mi chiedo con morbosa inevitabile
curiosità quali possano essere i dettagli della loro intimità. Non hanno figli
– cosa di cui secondo me la signora Bliss dovrebbe essere grata al Cielo perché
portare un gigante simile al genitore in quel suo corpicino rinsecchito sarebbe
stata un’impresa non da poco.
Anche se
la prospettiva di un viaggio da Sunnydale a Houston nel vecchio fuoristrada dei
Bliss stretta tra le loro masserizie e l’ossuta signora Bliss non mi
entusiasma, non posso fare a meno di prendere in considerazione l’ipotesi:
potrei non trovare Sassassa in tempo o se anche lo trovassi a quel punto
potrebbe non essere più disponibile un mezzo di trasporto alternativo.
Inoltre
Los Angeles, che oltre che ad essere infinitamente più vicino di Houston,
sembra molto meno definitivo è al momento la mia prima opzione.
Dolores
infatti ha impacchettato e rispedito in Messico suo fratello Carlos e si è già
rifugiata a Los Angeles in casa del cognato; e dopo aver ricevuto un paio di
gomitate nel fianco da Dolores, domenica scorsa suo marito mi ha persino
rivolto tra i denti un mezzo invito ad aggiungermi alla già numerosa brigata
s’intende per un paio di giorni al massimo.
–
Partite alle sette, vero?
– Sì,
subito dopo la funzione. Non so se verrà qualcuno, ma…
– Va
bene. Se per allora non avrò trovato un altro mezzo di trasporto, ci vediamo
davanti alla Chiesa prima delle sette.
– Certo.
Puoi venire con tuo padre.
– Sì. E…
reverendo Bliss?
Il
pastore sta già per andarsene ma si ferma e mi rivolge uno sguardo
interrogativo.
– Grazie
– dico io – di tutto.
Tutto
significa per me aver riportato mio padre a casa infinite volte, essere l’unica
persona in questa città ad offrirci un passaggio per andarcene ed anche essere
rimasto a Sunnydale fino ad oggi; non so quanto il pastore Bliss abbia capito,
ma mi prende una mano fra le sue manone e me la scuote in silenzio ma con così
tanta energia che io comincio a tremare come se avessi afferrato un martello
pneumatico in funzione. Poi mi lascia e se ne va senza parlare quasi fosse
sopraffatto dall’emozione.
– Credo
che non riceva spesso dei ringraziamenti – mi spiega mio padre tirandomi gentilmente
dentro casa e richiudendo la porta alle mie spalle – E non mi sorprende affatto
in questa città d’ingrati.
– Hai
già fatto la valigia – dico io cambiando discorso perché l’ingratitudine degli
abitanti di Sunnydale è esattamente una delle ragioni che l’hanno spinto a bere
fino quasi ad ammazzarsi – Sei sicuro di aver preso tutto?
– Non lo
so – risponde mio padre osservando pensosamente la vecchia valigia di pelle
scura che staziona in ingresso – Non è che abbia poi questa gran roba.
So che
ha dovuto scartare diverse paia di pantaloni perché non ha ancora ripreso tutto
il peso che ha perso quando è stato male; ora non tocca alcool da due
settimane, ma non so se può durare.
Una
parte di me – quella più meschina – spera ancora che si ubriachi grandiosamente
quando sarà a casa di zia Janice; soprattutto se farà pipì dalla finestra
proprio come quella sera in cui la signora Bruebacker mi telefonò sul lavoro
per chiedermi di tornare a casa. Due giorni dopo fui costretta a ricoverare mio
padre per quello che il personale ospedaliero definiva eufemisticamente
“intossicazione acuta”, volendo intendere che aveva così tanto alcool in corpo
che fegato, stomaco e reni avevano inscenato uno sciopero a singhiozzo per
protesta.
– Non
staremo via per tanto tempo – lo rassicuro mentendo spudoratamente – nemmeno io
ho preso molta roba.
In
realtà se ho preparato solo una borsa da viaggio non è certo perché mi aspetti
di ritornare presto, ma solo perché non so ancora dove andrò.
–
Taylor, perché non vuoi venire a Houston con me?
– Io e
la zia non andiamo d’accordo, papà, lo sai.
– Ma se
non si accetta l’aiuto dei parenti nemmeno in momenti come questo…
– Stai
tranquillo, papà: è probabile che sia fuori da Sunnydale ancora prima di te –
taglio corto io mettendomi la borsa a tracolla e riaprendo la porta – Se non ci
vediamo prima di stasera, chiudi tutto per bene e ricordati di spegnere il gas.
–
L’hanno tolto.
– Che
cosa?
– Il
gas. E stamattina mentre tu eri fuori tutto il quartiere è rimasto senza
corrente elettrica per quasi un’ora.
Mio
padre mi viene incontro e stringe me e la mia borsa in un abbraccio che mi fa
male non perché sia troppo forte ma perché al contrario è troppo debole, come
quello di un bambino. O come quello di un uomo vecchio e malato.
– Su,
su, papà. Mi puoi chiamare sul cellulare; ti telefonerò anch’io a casa della
zia: la prima cosa che faccio non appena lascio questo postaccio, compro una
ricarica, te lo prometto. Lasciami andare adesso.
– Ma
dove andrai, Taylor? – mi chiede ancora mio padre quando sono già uscita.
– Ho
solo l’imbarazzo della scelta – rispondo io scendendo baldanzosamente i gradini
– Tutti mi vogliono, lo sai com’è.
Thomas
non risponde più da almeno due settimane al numero di cellulare che mi aveva
dato; d’altra parte, sapete come si dice: lontano dagli occhi, lontano dal
cuore.
Nonostante
tutto sono sicura però che se solo sapesse quello che sta succedendo qui,
verrebbe a prendere me ed Amanda e a portarci via di qua. Ma se c’è una cosa di
cui sono certa, è che il resto della nazione e del mondo non abbia la più
pallida idea di quello che stia succedendo qui.
E anche
se ad evacuazione già iniziata le autorità locali hanno cominciato a parlare di
un tornado in avvicinamento, siamo ancora in attesa di una comunicazione
ufficiale sulla ragione per cui gli abitanti di Sunnydale avrebbero dovuto
lasciare la città in massa.
Non so
se è la quarta o la quinta volta in tre giorni che mi trascino fino alla remota
periferia in cui Sassassa dopo aver passato tre mesi nel mio garage ha trovato
finalmente dimora in un grande e decrepito magazzino, nato credo per il
deposito di granaglie, utilizzato in seguito da una ditta di trasporti e
abbandonato infine all’incuria del tempo e all’occasionale interesse di
senzatetto di varia natura e provenienza.
Quella
che fino a poco tempo fa sarebbe stata solo una piacevole passeggiata tra
quartieri residenziali seguita da un noioso scarpinare tra officine, depositi e
rivenditori industriali è oggi un viaggio irreale in una città fantasma,
svuotata dai suoi abitanti, tra villette con le tavole alle finestre e attività
commerciali con le serrande abbassate. Qui e là si notano i segni di una
precipitosa partenza, con masserizie giudicate inutili abbandonate sui
marciapiedi e vecchie automobili non più funzionanti parcheggiate di traverso
col cofano ancora alzato.
Dal
momento che adesso mi sono dovuta portare fin qui questo pesante borsone in
spalla, è la prima volta però che ci arrivo con il fiatone; e sono costretta a
sedermi a riposare all’ombra sui primi gradini della scaletta di ferro che
porta all’ex–appartamento del custode in cui il mio amico Sfreyano si è
sistemato. Appena mi passa l’affanno, mollo la borsa e scatto su per i gradini
chiamando Sassassa a gran voce; ma potrei risparmiarmi la fatica, perché non
appena comincio a salire la seconda rampa riesco già a vedere appiccicato sulla
porta l’ultimo dei biglietti che io stessa ci ho lasciato. Dal momento che non
c’è un’anima in giro che mi possa vedere – e fortunatamente per me nemmeno
altri soggetti a cui non converrebbe l’appellativo di anima – posso benissimo
piangere; cosa che faccio senza vergognarmi dopo aver tentato per l’ennesima
volta la robustissima porta di ferro di questo dannato alloggio.
Dietro
questa porta a soli dieci passi di distanza in cima a un pesante armadio di
noce ci sono tutti i miei risparmi: ma io non li posso prendere, accidenti ai
vecchi robustissimi chiavistelli che facevano una volta e sulla cui efficienza
posso giurare perché io stessa – accidenti anche a me – ho accuratamente
ripulito e lubrificato quello montato qui quando ho aiutato Sassassa a
traslocare.
Sul
biglietto ho scritto con il mio rossetto a zampe di gallina la data e l’ora di
ieri sera e poi “Telefonami o cercami: è urgentissimo. Tarantula”; sfiduciata
come sono, non mi do nemmeno pena di scrivere un nuovo biglietto ma mi limito
ad aggiornare la data e l’ora su quello vecchio.
Non per
la prima volta, mi viene il terribile dubbio che il grosso corpo peloso di
Sassassa si stia decomponendo dietro questa porta; e accosto il mio nasino alla
toppa della serratura in cerca del primo sentore di putrefazione – come se
avessi la più pallida idea di quello che succede al corpo di un demone Sfreyano
rimasto orbo del suo occupante.
L’unica
finestra che non sia a sei metri d’altezza – cioè subito sotto la copertura del
capannone – ha i vetri chiusi, le tende tirate e una robusta inferriata a
protezione: se mi mettessi in piedi sulla balaustra e fossi alta mezzo metro
più di quello che sono forse potrei raggiungerne il davanzale con la punta
delle dita prima di fracassarmi la testa precipitando di sotto.
C’è una
cosa da dire sull’ultimo occupante umano di questo appartamento, il custode che
lo abitava all’epoca dell’azienda di trasporti: che non era uno che prendesse
alla leggera i problemi di sicurezza. Scommetterei che sia riuscito a morire di
vecchiaia nel suo letto.
Mentre
me ne ritorno tristemente verso il centro con la mia pesante borsa in spalla – tenendo
gli occhi bene aperti perché ormai le strade non sono più sicure nemmeno in
pieno giorno – sono costretta per calmarmi a riepilogare tutte le ragioni che
mi spingono a ritenere lo scomparso Sassassa ancora in vita.
Willy
dice di avergli servito da bere l’altra sera, cioè dopo e non prima della sua
improvvisa e inaspettata trasformazione e della mia conseguente e precipitosa
fuga. Ma Willy non è sicurissimo della data; ed è inutile tentare di
rinfrescargli la memoria con la corruzione o le minacce perché a quest’ora è
ormai chissà dove con il suo camper stipato di bottiglie. A dir la verità, aver
visto Willy lasciare Sunnydale è stato esattamente quello che mi ha fatto
tornare a casa di corsa a fare la valigia: è stato un po’ come vedere
E Clem –
dopo avermi offerto con il suo solito buon cuore un passaggio sulla sua
decappottabile rossa – mi ha riferito che qualcuno avrebbe visto Sassassa alla
stazione degli autobus la mattina successiva l’episodio in cui ho perso i miei
risparmi in modo al tempo stesso comico e sventurato.
Il
cugino di Sassassa, quello stesso che lo incatenava perché non facesse danni
quando diventava mannaro, non vive neppure più stabilmente a Sunnydale; ma
ricordo benissimo che una volta un demone di Frisco venne a cercarlo per una
storia di scarafaggi d’importazione avariati e mi disse che la sua amica
abitava alla Fortitudo, la vecchia palestra di Sunnydale che conosco benissimo
perché andavamo proprio lì ad allenarci per ginnastica artistica, quando la
palestra della scuola non era disponibile.
Ed è
proprio verso
La porta
principale della palestra è chiusa e sbarrata come quella di tutti gli altri
esercizi commerciali della strada ma io so che c’è una porta sul retro che dà
su una strada secondaria – proprio di fronte alla lunga staccionata bianca su
cui Bobby Tate si sedeva sempre ad aspettare Gladys l’anno in cui eravamo tutte
e due nella squadra di ginnastica ritmica.
Sarà
forse colpa della stanchezza o della dieta squilibrata – ormai in città stiamo
vedendo il fondo delle riserve di derrate alimentari e per pranzo io e papà
abbiamo mangiato sardine in scatola, crauti sotto aceto e due minuscole mele raggrinzite
dell’albero di uno dei nostri vicini – fatto sta che mentre mi avvicino alla
porta della palestra mi sembra di vedere Bobby appollaiato là sulla staccionata
che inganna l’attesa fumando e facendo dondolare i libri appesi alla cinghia
proprio come una volta.
È solo
un attimo ma un attimo in cui mi chiedo se quello che sto vedendo sia la stessa
cosa che ha visto la signora Tate all’assemblea: perciò come provo la porta e
mi accorgo che non è chiusa a chiave scivolo dentro trascinando il mio borsone
e me la richiudo alle spalle senza perdere tempo a prendere precauzioni di
sorta.
Per una
volta, la fortuna mi assiste: la piccola anticamera su cui si apre la porta
degli spogliatoi e quella del magazzino è deserta e tranquilla, e non c’è
traccia di occupanti umani o di qualsiasi altra sorta. Per prima cosa vado nel
magazzino, dove aveva messo le tende la fidanzata – se così si può dire – del
cugino di Sassassa tra un episodio e l’altro di una complicata love story i cui
dettagli vi risparmierò: nonostante l’apparenza compassata, i demoni Sfreyani
sono in realtà molto passionali. E anche discretamente pettegoli. Il magazzino
non solo è quasi completamente vuoto ma è anche troppo polveroso perché un
demone Sfreyano vi abbia abitato di recente; ci sono solo delle scaffalature
vuote ad eccezione di alcune scatole ordinatamente impilate, una branda
accuratamente ripiegata e in un angolo un fornello da campeggio, completo di
un’essenziale batteria da cucina, il tutto scrupolosamente pulito.
C’è
anche una busta appoggiata sulla branda, su cui ovviamente mi butto come un
naufrago su un messaggio in bottiglia: ma il foglio che contiene non mi è di
maggior aiuto di quanto sarebbe a un naufrago apprendere l’esistenza di un
altro naufrago su un’isola a trenta o a quaranta miglia di distanza dal momento
che i caratteri di cui è fittamente ricoperto appartengono a un alfabeto che mi
è completamente sconosciuto.
Pensando
che sarebbe bello se tutti i miei concittadini avessero dimostrato altrettanta
precisione e altrettanta discrezione nel lasciare Sunnydale, infilo nuovamente
il foglio nella busta e la rimetto al suo posto: è evidente che il messaggio
non è diretto a me.
Ritorno
nella piccola anticamera ed entro negli spogliatoi a fare un giro, più che
altro per rimandare il momento in cui dovrò decidere che cosa posso fare
adesso; sono molto sfiduciata e sono anche piuttosto stanca dopo tutto quel
camminare, e l’idea di farmi un riposino in un posto tranquillo come questo non
mi dispiacerebbe.
Ma non
ho fatto due passi che qualcuno sbuca dal corridoio e come mi vede fa un balzo
all’indietro per lo spavento che è esattamente speculare a quello che faccio
io. Ci guardiamo come in uno specchio, muti e spaventati, finché il
contemporaneo reciproco riconoscimento non suscita un identico sospiro di
sollievo in entrambi.
Andrew
Wells. Era a scuola con me fino alla terza elementare. Era un bambino biondo,
timido e pasticcione, pateticamente devoto al fratello maggiore, quello stesso
Tucker che avrebbe a suo tempo combinato quel famoso casino con i mastini
infernali. Gli Wells traslocarono in un altro quartiere dopo la terza
elementare e io non lo rividi più fino al liceo, quando ci ritrovammo assieme
in qualche corso, dove entrambi tiravamo avanti senza infamia né lode passando
praticamente inosservati agli insegnanti e alla maggior parte dei compagni di
classe. A partire dal secondo anno io cominciai ad uscire con George e i suoi
amici mentre Andrew Wells a quanto ne so restò confinato nel suo limbo di
studente né brillante né sportivo né popolare né antipatico né niente fino al
giorno in cui il fratello si mise nei guai con i suoi mastini e con
Di quei
due ultimi anni all’unica scuola superiore rimasta a Sunnydale dopo
l’esplosione, in cui morirono tra gli altri sia il preside che il sindaco,
ricordo le classi sovraffollate e le continue discussioni tra studenti e
all’interno del corpo docente sui turni per utilizzare le palestre, le aule e
praticamente qualsiasi cosa; peggio ancora, dal momento che quelli che venivano
dalla vecchia scuola come me erano visti con sospetto o con compatimento e non
legavano affatto con gli altri ragazzi il preside decise di dividerci il più
possibile in un esperimento d’integrazione che fra tutti i gli analoghi
esperimenti dai tempi di Luther King in poi avrebbe buone probabilità di
condurre la classifica dei peggio riusciti.
Personalmente,
affrontai la situazione andando a scuola il meno possibile compatibilmente col
riuscire a superare l’anno; cosa fece Andrew Wells non ho idea, fatto sta che lo
intravidi solo qualche volta nei corridoi ma non ebbi più occasione di pensare
a lui fino al giorno del diploma quando a causa della confusione e della
mancanza di organizzazione il mio nome – Peters – venne chiamato tra
Nel caso
di mio padre, l’espressione è da intendersi alla lettera perché pur essendo
effettivamente partito, già alquanto alticcio, alla volta della scuola per
assistere alla cerimonia di conferimento dei diplomi non riuscì mai ad
arrivarci e dopo aver fatto tappa in un paio di locali finì invece per perdersi
definitivamente dalle parti della pista di pattinaggio, dove c’era uno dei suoi
bar preferiti.
–
Taylor… Peters? – dice Andrew mentre si allaccia febbrilmente i bottoni della
camicia; come se quel po’ di pelle bianca che ho intravisto potesse turbarmi o
che so io. E ha anche la barba lunga, mentre al liceo sembrava proprio che la
barba non si sarebbe mai decisa a crescergli.
– Andrew
Wells – gli dico io – che ci fai qui?
– Mi
lavavo – mi risponde cercando di pettinarsi i capelli umidi con le mani – C’è
un magnifico bagno con una doccia e un grande asciugamano bianco, lo sapevi?
– Beh, c’è
sempre stato – osservo – non ce l’hai un bagno a casa tua?
– Mai
abitato insieme a due dozzine di ragazze? Non fai in tempo a chiuderti in bagno
che qualcuno sta già bussando alla porta strillando che si sta facendo la pipì
addosso.
– Due
dozzine di che cosa, Andy? – gli chiedo utilizzando il nomignolo che gli davamo
a scuola quand’era piccolo – Ragazze? Tu e due dozzine di ragazze?
Andrew
mi aggira per andare a frugare negli armadietti alle mie spalle e la sua
risposta mi giunge intervallata dal rumore degli sportelli che si aprono e si
chiudono
– Sì, le
Potenziali. – sbam – Cioè piccole Cacciatrici – sbam – Carine ma toste. – sbam
– Possibile che nessuno abbia dimenticato un rasoio qui dentro? – sbadabam –
Toh, cinquanta centesimi. – sbam – Ma niente rasoi.
–
Cacciatrici? Ma non ce ne dovrebbe essere una sola,
Andrew
interrompe la sua ricerca per occhieggiarmi sospettosamente.
– Sei tu
o sei lui? – mi chiede all’improvviso con una punta di panico nella voce – Sei
mica morta, Peters, per caso?
– Che
cazzo dici? Sei diventato scemo? Cioè, sei diventato più scemo?
Improvvisamente
mi balza davanti e mi punta un dito sotto la spalla, proprio all’incrocio fra quei
muscoli che non ricordo come si chiamano: mi fa un male incredibile.
– Ahi –
grido spingendolo indietro – Sei completamente pazzo?
Arretra
sotto la mia spinta, sbatte rumorosamente un gomito contro uno degli armadietti
e cade sul sedere, ma stranamente la cosa sembra tranquillizzarlo tant’è vero
che si rialza e mi sorride tutto contento come se invece che una sederata sul
pavimento gli avessi appena offerto una fetta di torta.
– Non
sei il Primo! Mi hai spinto. E poi ti ho toccato, vero che ti ho toccato?
– Mi hai
toccato? Mi hai fatto un buco. Cristo, Wells, possibile che siate tutti fuori
di testa in famiglia? E poi, chi è il Primo e soprattutto: come potrei essere
qualcun altro? – grido massaggiandomi la spalla.
– Ssh,
stai attenta, non vogliamo attirare la sua attenzione, non è vero? – mi dice
Andrew a voce bassa con un dito sulle labbra venendomi così vicino che posso
sentire l’odore di sapone della sua pelle e dei suoi capelli.
Questa
poi. Non puzza di alcool perciò non può essere ubriaco. Lo guardo più
attentamente in cerca di segni evidenti di squilibrio mentale, ma mi sembra
quello di sempre: occhi azzurri, lineamenti anonimi, sguardo gentile ma un po’
stralunato, orecchie alquanto a sventola. Mi accorgo adesso che con il passare
degli anni sta emergendo una certa somiglianza con il Robin Williams di Mork e
Mindy, ma non saprei dire se sia dovuta alla fisionomia o al personaggio.
– Di chi
non dobbiamo attirare l’attenzione? – gli chiedo abbassando la voce. Forse è
droga oppure delirio paranoico pure e semplice; in ogni caso dicono di
assecondarli ed è quello che io faccio: assecondo.
– Del
Primo – mi bisbiglia lui di rimando – Lui può essere dovunque!
Mi
guardo attorno: lo spogliatoio della palestra appare del tutto deserto e nonostante
le luci al neon che si riflettono sugli armadietti verdi gli diano un’area
vagamente spettrale, non c’è nessun posto in cui qualcuno potrebbe nascondersi,
a meno che un nanetto non avesse trovato rifugio proprio dentro uno degli
armadietti in cui Andrew stava frugando fino a un momento fa.
– Adesso
di solito viene da me come Jonathan – mi confida – ma una volta prendeva il
corpo di Warren.
Non
fossimo a Sunnydale, Bocca dell’Inferno, adesso sarebbe proprio arrivato il
momento di fare una telefonata all’ospedale e chiedere l’urgente intervento di
un paio di infermieri muniti di una camicia di forza e/o di un potente
tranquillante; ma siccome siamo a Sunnydale comincio al contrario a vedere una
logica nell’apparente delirio del mio ex–compagno di scuola.
– C’è
forse in giro qualcuno che prende in prestito il corpo della gente? – chiedo
sospettosa.
– Solo
di quella morta – mi dice Andrew – il guaio è che io ne conosco un sacco di
gente morta.
– Io ho
visto Gladys – mi esce detto prima che riesca a evitarlo – sai, te la ricordi
Gladys Tomason?
– Era il
Primo – sentenzia Andrew – Gladys Tomason è morta in quell’incidente quattro
anni fa. Non l’hai toccata, vero?
– Non ci
ho proprio pensato: credevo che fosse un fantasma.
– Che ti
ha detto? Voleva spingerti a fare qualcosa di malvagio?
–
Gladys? Poveretta, a parte quel cretino in seconda media, non aveva mai fatto
male a nessuno in vita sua.
– Il
Primo fingendo di essere Gladys – mi chiarisce Andrew – Il Signore degli
Inganni, il Compagno Infido…
Non so
ho idea di chi siano questi personaggi e, conoscendo Andrew, non credo nemmeno
che saperlo mi servirebbe a qualcosa, ma certo la vera Gladys non avrebbe avuto
nessun motivo per parlarmi male di papà. Lei era rimasta affezionata al bravo
papà che ci accompagnava al luna park e comprava a tutte e due palloncini e
zucchero filato – il suo di padre era morto di cancro quando aveva tredici anni
e se io le dicevo che era meglio non averlo affatto un padre che un ubriacone
buono a nulla come il mio, le si riempivano gli occhi di lacrime e mi pregava
di non parlare così.
– Sai,
Peters – mi dice Andrew smettendo bruscamente di blaterare – anche se questo
look dark ti dona non dovresti nascondere sotto di esso la tua vera natura.
Resto a
bocca aperta guardandolo allontanarsi verso la palestra, poi faccio una
corsetta e lo seguo. Prima di oggi Andrew Wells non mi aveva mai detto più di
cinque parole di fila, forse un centinaio in totale se contiamo anche un
litigio in seconda elementare per una gomma da cancellare a forma di fungo. Non
che io abbia mai desiderato maggiore attenzione da parte sua, ma le cose
sembrano molto diverse ora che facciamo parte entrambi della scarsa popolazione
residua di Sunnydale.
Nella
palestra vera e propria, diversamente che negli altri locali, sembra che sia
passato un tornado: le cyclette e le altre macchine sono rovesciate, mentre i
tappetini e gli altri aggeggi sono sparpagliati dovunque, tanto che
nell’entrare metto il piede su una clavetta e rischio di fare un volo. Andrew
sta radunando i tappeti in un mucchio sollevando nugoli di polvere che diventa
d’oro brunito sotto i raggi del sole pomeridiano e mi fa venire prurito al
naso. Questo naturalmente mi fa tornare in mente Sassassa.
– Senti,
hai mica visto in giro per caso un demone mannaro con il pelo bianco e la pelle
blu alto circa due metri?
– Nah.
Supervampiri con la pelle spessa come quella degli elefanti. Portatori ciechi
ma con una buona mira. Demoni amichevoli e inoffensivi con più pelle del necessario.
Niente lupi mannari quest’anno. Tantomeno demoni mannari. Io sono capace di
evocare i demoni, tu lo sapevi?
– Sei
capace di evocare i demoni nel senso che li evochi o nel senso che vengono e
cercano di mangiarti la testa? Scusa, Wells, ma io mi ricordo ancora di quando
hai fatto saltare per aria il laboratorio di chimica.
– Non
ero stato io. Lo sai benissimo, Peters, che i tre quarti degli incidenti che
succedevano al liceo non erano incidenti. Ti sei mai chiesta com’è possibile
che nessuno faccia mai caso al fatto che quando c’è in giro Superman, Clark
Kent non è mai in circolazione. No?
– E
questo che c’entra?
– Le
persone vedono solo quello che vogliono vedere. Te lo ricordi quando gli insegnanti
del liceo trovavano gli studenti dissanguati in mezzo al corridoio e dicevano
“Oh, che orribile incidente, si è certamente sgozzato con il vetro del
lucernario.”
– Non è
più così. – No, non è più così. – ammette Andrew e si siede sul mucchio dei
tappeti a gambe incrociate, così da sembrare un bizzarro genio pronto a volare
via – Resta il fatto che noi siamo cresciuti tra gente che ci raccontava un
mucchio di balle.
– Non ci
credevamo. Non mi dire che tu ci credevi.
– Non lo
so più.
Mi arrampico
goffamente accanto a lui e dopo un po’ lui mi guarda e mi dice:
– Non
credi che tutto sarebbe stato diverso se non fossimo nati qui?
– Come
no. Saremmo ricchi e felici e in questo momento saremmo al college. Credo che a
me sarebbe piaciuto andare all’UCLA, tu che cosa avresti scelto?
–
Conosci
– No.
– Non la
conosce nessuno. È una piccola università con un ottimo corso di scienza delle
comunicazioni.
– Va
beh, tu alla cosa lì, allora, alla Playton. Facciamo che è venerdì pomeriggio,
che cosa fai stasera? Torni a casa per il fine settimana o ti fermi al campus?
Credo ci sia una festa, con molto da bere, e ragazze.
– Oh,
ragazze. Maggiorenni e che non ti picchiano? Perché se sono maggiorenni e non
minacciano di spezzarmi le gambe, è meglio.
– Lo
sai, Wells? Tu devi aver frequentato uno strano genere di ragazze, ultimamente.
– Non ne
hai idea. Comunque mi avevano preso.
– Chi?
– Alla
Payton. Ma poi invece è andato tutto in malora.
– Cosa
ti è successo?
– Io… io
ho avuto sfortuna. Ma non parliamo di me, parliamo di te. Perché non te ne sei
ancora andata?
– Ci ho
provato l’anno scorso. Ma ho avuto sfortuna anch’io.
– Devi
andare via di nuovo. – dice Andrew, poi come se si ricordasse all’improvviso
che è un cretino, fa un sorriso storto e aggiunge: – Subito, prima che il
ghiaccio invada Gotham City.
È sempre
stato lo stesso con lui: proprio quando stai per pensare che tutto sommato è
una persona normale, ti tira fuori una delle sue stupidate su Star Trek o su Batman.
– Un po’
di ghiaccio in questo momento non sarebbe una cattiva idea. E se ci fosse
assieme un dito di bourbon sarebbe anche meglio.
– E in
ogni caso qui sotto dovrebbe esserci fuoco, non ghiaccio – aggiungo dopo averci
pensato su un momento indicando il pavimento col dito.
A dir la
verità non sono sicura che l’Inferno si estenda fino a questa parte della
città: dicono che
–
Secondo alcuni la parte più profonda dell’Inferno sarebbe fatta di ghiaccio –
sta dicendo intanto Andrew in tono saccente – Ad esempio Dante Alighieri nella
Divina Commedia…
– Dante
che cosa?
–
Alighieri, il poeta italiano medievale. Quello con il nasone, hai presente?
– Quello
della pena del contrappasso? – dico io guadagnandomi uno sguardo compiaciuto da
parte sua, come se fossimo a scuola e io avessi appena dato prova di essere la
sua alunna più brillante. A dir la verità una delle clienti di Monsieur Alexandre
una volta mi attaccò un tremendo bottone a proposito di questa storia di
orribili delitti a imitazione delle pene infernali, quelle stesse descritte
proprio nel poema antico, ma al momento non riesco a ricordare se si trattava
di fatti reali o di un’invenzione. So solo di aver pensato che con la sua
fantasia per i supplizi il signor Dante Alighieri si sarebbe proprio trovato a
casa sua a Sunnydale, anche se i suoi demoni avrebbero forse un aspetto un po’
troppo ordinario in confronto a quello a cui siamo abituati qui.
– Senti,
Wells, mi piacerebbe stare qui a parlare con te di letteratura antica…
–
Medievale – mi corregge Andrew.
–
Antica, medievale, quello che è. Ma io devo trovare il mio demone mannaro prima
che faccia buio e vedo che anche tu hai da fare con questi materassi, a che
cosa ti servono, a proposito? perciò…
– Magari
più tardi torno a prenderli con il furgone. C’è gente che dorme sul pavimento a
casa della Cacciatrice… – mi spiega Andrew in modo vago – Ma dimmi di questo
tuo demone mannaro. Io potrei aiutarti a trovarlo. Credo. Sono uno dei buoni,
adesso.
Lo
guardo attentamente chiedendomi se posso fidarmi di lui; quello che mi fa
decidere non sono tanto le sue dichiarazioni quanto il fatto che mi è difficile
credere che Andrew Wells costituisca una minaccia per qualcuno. Succede con le
persone che hai conosciuto quando avevano sei anni.
E anche
che non ho la più pallida idea di come fare a trovare Sassassa. Male che vada,
Andrew può portarmi da qualcun altro che sia più pratico di demoni di me.
Quando ho finito di raccontargli di come è fatto Sassassa, Andrew sospira con
ostentazione, dice qualcosa che non capisco su dei pennarelli colorati e
conclude che possiamo provare ad evocare il demone.
A me
all’inizio non sembra una bella cosa evocare il mio amico Sassassa come un
demone qualsiasi e mi sento come se mi proponessero di far consegnare un
mandato di comparizione a un vecchio amico. Ma sono tre giorni che batto
Sunnydale a tappeto nonostante i rischi ricavandone solo un paio di storte e
una serie di spaventi e non mi posso permettere proprio in questo momento di
dire addio ai miei soldi insieme al mio amico Sfreyano. Perciò alla fine
acconsento.
Io i
demoni non li evoco, io li pettino: non saprei evocarne uno più di quanto un
callista saprebbe estrarvi un dente. Ma sono nata e cresciuta a Sunnydale e
anche se ho passato la maggior parte dei vent’anni della mia vita a fare finta
di non sapere niente, una qualche idea su come funzionano queste cose me la
sono fatta e sono praticamente sicura che servano candele di cera vergine e
formule magiche in lingue arcane.
Perciò
resto piuttosto sorpresa quando Andrew dispone per terra un circolo fatto di
dodici clavette da ginnastica ritmica e usa la mia matita per le labbra per
tracciare sul linoleum sintetico del pavimento dei segni magici che
assomigliano in modo sospetto a quelli che comparivano in un episodio di Relic
Hunter.
– Ci
vorrebbe del fuoco… hai un accendino?
– Ho
perso il mio quando sono stata aggredita dietro al Bronze.
– Uff,
speravo di non dover usare il sangue. Mi sento male quando c’è di mezzo del
sangue.
– Se
vuoi usare il mio sangue, mi sento male anch’io.
–
Speravo che… Pazienza: una goccia per uno – dice Andrew – Vedi di farti
sanguinare qualcosa, Taylor. Non è che per caso, sì, insomma…
– No. –
taglio corto io, poi mi viene un’idea – Va bene se mi tolgo una crosta dalla
gamba?
Ieri
mentre vagavo all’inutile ricerca di Sassassa ho messo il piede in uno dei
molti buchi dei marciapiedi in pessime condizioni che abbiamo qui a Sunnydale e
sono caduta procurandomi un ematoma al ginocchio e una scalfittura alla
caviglia. Stamattina c’era una piccola tenera crosta, di quelle che quando le
stacchi per sbaglio ti fanno un male dell’accidente e sanguinano un po’.
– Sì,
sì: deve solo essere fresco, non importa che sia tanto. E nostro. Almeno, credo
che non funzionerebbe con il sangue di qualcun altro. O forse…
– Non importa:
tanto non vedo nessun altro qui pronto ad offrirci il suo sangue.
Mentre
ci sediamo per terra davanti al circolo di clavette e ci impegniamo a tirar
fuori qualche goccia di sangue più che due adulti coinvolti in pratiche magiche
illegali sembriamo due ragazzini intenti a uno di quegli stupidi giochi che
coinvolgono patti di amicizia eterna e case abbandonate e che di solito
finiscono con cani ringhiosi e fughe in bicicletta.
Quando
stacco delicatamente la crosta con la punta dell’unghia una piccola striscia di
sangue cola calda e appiccicosa lungo l’interno della mia caviglia e macchia
l’orlo del calzino; Andrew si dimostra più furbo di quanto immaginassi e si
mordicchia l’orlo dell’unghia del pollice finché non riesce ad asportare una
pipita.
– Ahi.
Ecco fatto.
Ricordo
che dicevo sempre a George di non essere disgustoso quando faceva cose del
genere.
Andrew
tira fuori dalla tasca un vecchio biglietto – mi sembra un biglietto dello zoo
– e a turno lo usiamo come se fosse una paletta strofinandolo sulle nostre
piccole ferite finché non è tutto macchiato di rosso sui bordi. Non mi sembra
per niente una procedura igienicamente raccomandabile ma del resto evocare
demoni di rado lo è. Mentre il sangue di Andrew è di un bel rosso rubino il mio
è piuttosto sbiadito e tira sul rosa.
– Sei un
po’ anem… – commenta lui e non so perché si interrompa come se non volesse
dirlo: non è che ci sia da vergognarsi ad essere anemici.
Anzi. A
Sunnydale è una caratteristica premiata dalla selezione naturale un po’ come
certe malattie del sangue che proteggono dalla malaria o che so io e che perciò
si sono diffuse in alcune popolazioni africane. Sempre che sia vero ciò di cui
ho spesso sentito i vampiri vantarsi, cioè di saper distinguere a naso chi ha
un sangue buono e nutriente dalle prede insoddisfacenti come la sottoscritta.
…
Sono
così incredula che la cosa possa funzionare, che quando all’interno del circolo
di clavette compare improvvisamente una grossa forma biancastra con un cono
rosa shocking in cima la prima cosa che mi viene in mente è che il rivestimento
di polistirolo del soffitto abbia ceduto trascinando il lampadario con sé e
faccio un balzo indietro temendo istintivamente la scossa.
Poi mi
vedo improvvisamente davanti il naso a palla e gli occhietti di Sassassa e
capisco che Andrew – per quanto la cosa mi meravigli – deve esser riuscito nel
suo intento.
–
Tarantula – mi dice Sassassa in tono di rimprovero – Che cosa ti viene in mente
di trascinarmi via in questo modo?
– Scusa
tanto, ma tu non tornavi e io non sapevo più cosa fare.
– Beh,
mi spiace – dice un po’ lusingato dal mio interesse – Chi è questo ragazzo?
– Mi
chiamo Andrew Wells e sono un evoc… – si presenta Andrew tendendo una mano che però
sbatte contro un’invisibile barriera – Cacchio, ormai la forza mistica si
taglia con il coltello.
– Sei
stato tu a farmi questo? – chiede Sassassa severamente – Credevo che questi
giochetti fossero proibiti.
– Anche
costringere gli abitanti di una città a lasciarla in massa dovrebbe essere
proibito – obietto io acidamente.
– Ecco,
a proposito: dove siamo? – chiede Sassassa girando la testa per osservare la
palestra – Uhm, sono già stato qui con mio cugino quando gli serviva un
portatore d’anello… Perché sei ancora a Sunnydale, Tarantula? Se proprio non
volevi unirti alla colonia sunnydaliana di Frisco, potevi sempre andare a
Cleveland. Anche se a questo punto persino Los Angeles sarebbe meglio di
Sunnydale.
– Sei a
San Francisco?
–
Veramente sono a una festa di compleanno qui appena dopo il confine messicano –
mi dice il mio amico Sfreyano svelando così la ragione per cui ha infilato sul
suo grosso testone un cappellino rosa a cono con un ciuffo di stelle filanti in
cima – ma stasera parto con questi amici. È stata una vera fortuna incontrarli:
lo sapevi che gli autobus messicani hanno pochissimo spazio tra un sedile e
l’altro?
– È vero
– interviene Andrew – e non sono nemmeno tanto puntuali.
–
Messico?
–
Quell’imbrogliona di una strega era in spiaggia, ci crederesti? – si rabbuia
Sassassa – Del resto, con i soldi che le ho dato in questi mesi, non mi
meraviglia che si possa permettere un albergo a quattro stelle. Ma questa volta
l’ho fatta aspettare insieme a me finché non ho provato l’antidoto, così almeno
sono sicuro che non mi abbia rifilato un po’ d’acqua fresca come l’ultima
volta. A proposito, Tula: spero di non averti fatto del male.
– È
proprio questo il punto.
– Oh, no
– si dispera il demone e si dà in testa in segno di rammarico una zampata che
spappola il cappellino – Che cosa ho fatto questa volta?
–
Praticamente mi hai rapinato, Sassassa.
– Non
sono mai stato un ladro – replica un po’ adombrato.
Io lo
rassicuro: – Credo che volessi solo uccidermi. Ti ricordi quando ho cercato di
innaffiarti col tubo della doccia?
–
Vagamente: devi capire che da un certo punto in poi vedo solo una specie di
nebbia rossa, poi diventa tutto nero e quando mi sveglio starnutendo non ricordo
quasi niente. Comunque era una buona idea quella di innaffiarmi quando ho
cominciato a… ehm… trasformarmi.
– Lo
sarebbe stata se il servizio dell’acquedotto non avesse subito un’altra
interruzione – dico io scuotendo la testa.
Non è
una circostanza a cui ripensi con piacere.
– Ce ne
sono state tre anche ieri – conferma Andrew – la seconda proprio mentre lavavo
i piatti. Che tra parentesi è una cosa molto scomoda da fare quando non c’è
acqua.
– Non
così scomoda come tentare di innaffiare un demone Sfreyano alto due metri che
si sta trasformando in un demone mannaro sanguinario sotto i tuoi occhi con una
rapidità mai vista…
– … lo
so, lo so: sono gli effetti di quei fumi che escono dalla Bocca dell’Inferno –
ci spiega Andrew.
– Sei
scappata?
– Certo
che sono scappata, se no non sarei qui a raccontarlo: mi sono anche rotta un
tacco su quelle tue maledette scale di ferro. Ma prima che io riuscissi a
uscire tu mi sei venuto addosso con tutti quei denti e quegli occhi spaventosi
e il pelo tutto arruffato e…
– E? –
mi chiedono Andrew e Sassassa col fiato sospeso.
– … e mi
hai buttato per terra e hai addentato il mio borsellino rosso che avevo ancora
in mano!
– I
demoni mannari sono come i tori: quando vedono rosso non capiscono più niente –
annuisce Andrew – E nemmeno prima, veramente. Sia detto senza offesa.
– Hai
fatto un gran salto, Sassassa, sembravi un cane di quelli che si esibiscono al
circo. Solo molto più grande e spaventoso. Non pensavo che potessi saltare così
in alto.
– Ero un
atleta da ragazzo – si compiace Sassassa – Ho saltato con il tuo borsellino
rosso, quello in cui tenevi i soldi che avevi ritirato in banca?
– Sì,
sei salito sull’armadio e stavi per… per…
–
Ammazzarla? Stava per ammazzarla, signor Sassassa, vero?
– E io
che ne so? Non mi ricordo niente.
– Me la
sono vista così brutta che a momenti ci rimanevo secca per la paura, Sassassa,
dannazione. Ma il peggio è stato che mentre ti dondolavi ringhiando su
quell’armadio hai aperto la bocca e hai lasciato cadere il borsellino là in
cima. Poi hai saltato mentre io strisciavo sul pavimento: solo che hai saltato
troppo alto. Si vede che eri un atleta troppo bravo – non posso fare a meno di
aggiungere un po’ malignamente.
– In che
senso troppo bravo?
– Hai
dato una capocciata sul soffitto e sei piombato giù come un masso.
– Ecco
come mi sono procurato quel bernoccolo in testa – dice Sassassa – E così il tuo
borsellino è ancora…
– … sul
tuo armadio. In casa tua. E io ho solo dieci miserabili dollari in tasca. Anzi,
nove dollari e venti centesimi.
– Tu non
hai pensato a prendere le chiavi prima di uscire?
Non
rispondo ma il mio sguardo deve essere eloquente perché Sassassa dice: – Certo,
capisco, date le circostanze. Devo tornare a Sunnydale, vero?
– A meno
che tu non mi dica come fare a entrare in casa tua. Oppure se hai
ottocentocinquanta dollari da darmi. E me lo trovi tu un modo per lasciare
Sunnydale con nove dollari e venti in tasca?
–
Ottocentocin… Caspita, se ne fanno di soldi a pettinare la gente – osserva
Andrew
– Wells,
fammi il piacere: sono anni che lavoro. Tu hai mai lavorato un giorno in vita
tua?
–
Lavorato lavorato, non direi. Anche se tutto sommato sarebbe stato forse meno
faticoso oltre che più onesto – ammette Andrew senza offendersi – Lo sa, signor
Sassassa, credo proprio che lei dovrebbe tornare qui per ridare a Taylor i suoi
soldi.
– Non ho
bisogno che me lo dica tu, ragazzo – sospira il mio amico demone – Ci vediamo
stasera davanti a casa mia, Tula. No, facciamo a casa tua: è più sicuro per te.
– E poi?
– Hai la
patente?
– Certo.
–
Ottimo, perché io avrò la macchina – mi annuncia Sassassa trionfante – Come
faccio ad andarmene, ragazzo?
– Oh,
sì, giusto. Alzi il braccio, non quello: l’altro. Adesso chiuda gli occhi. Tutti
e due. Al mio tre, pensi intensamente a qualcosa di messicano. Frijoles,
tortillas , asini: quello che vuole.
– Sto
pensando a un sombrero, va bene? – ci comunica Sassassa a occhi chiusi e un
attimo dopo non c’è più.
– Beh –
dico io ad Andrew – immagino che dovrei ringraziarti.
– Certo
che dovr… no, non importa. Noi buoni non andiamo a caccia di ringraziamenti,
giusto?
– Mi hai
fatto un grande favore, davvero. Non voglio certo restare a Sunnydale. E non
capisco perché non te ne vada anche tu. Ma certo, perché non ci ho pensato
prima? Vieni via stasera con me e Sassassa: abbiamo una macchina, l’hai sentito
anche tu.
Andrew
Wells mi guarda in silenzio mordendosi le labbra come se la mia proposta lo
tentasse. Poi scuote la testa: – No. No. Non posso farlo.
– Si può
sapere perché? Chi ti obbliga? Non mi sembra che tu sia incatenato a Sunnydale.
– Ora
non più – risponde lui stranamente guardandosi le braccia come se si aspettasse
di vederci attaccate delle robuste corde – però devo restare lo stesso con
Buffy fino alla fine.
Oddio,
un altro con la fissa della Cacciatrice?
– Devo
restare. E molto probabilmente – fa una lunga pausa prima di dire piano –
morire.
No, non
sembrano le parole di un uomo innamorato; più quelle di qualcuno che è stato
condannato a una pena eccessiva e crudele, come in quelle storie di
braccialetti esplosivi e di esecuzioni capitali a casaccio.
– Ma…
– Senti,
non ne parliamo. Davvero, Peters, per favore. Non è tanto brutto come sembra, lo
sai? A volte penso persino che all’ultimo momento riuscirò a cavarmela.
Il modo
in cui dice questa frase come sorridendo della sua ingenuità mi stringe il
cuore: in questo momento non sta recitando nessuna parte, è il vero Andrew
Wells quello che ho di fronte, come credo non l’abbia visto nessuno in quattro
anni di liceo e raramente qualcuno in tutta la sua vita.
– E vuoi
ridere? – mi dice con lo stesso tono di sincerità – Quello che mi dà più
fastidio è morire senza Nemmeno prima, come dire?, esser stato con una ragazza.
Perché io la ragazza non ce l’ho.
Forse
quest’ultima dichiarazione di Andrew dovrebbe sorprendermi, ma onestamente non
riesco a trovare niente di strano nel fatto che un ragazzo di vent’anni in
ottima salute convinto d’incontrare a breve una fine violenta e prematura
rimpianga di non essersi potuto fare almeno una bella scopata prima che sia
troppo tardi.
– Se è
solo per questo – rispondo senza pensarci affatto – se è solo per questo posso
essere io quella ragazza per il tempo che basta.
Dal
momento che di solito non vado in giro adescando ex–compagni di scuola non so
proprio come mi sia venuta un’idea del genere: magari sono i fumi di cui
parlava Andrew prima.
In
quanto a lui, poco manca che faccia un balzo indietro per lo spavento: vedo
distintamente passare nei suoi occhi la sorpresa e l’incredulità. Immagino
proprio che Andrew Wells non sia abituato a ricevere avances .
Poi mi
guarda. E io lo guardo. E succede. Quel momento in cui guardi un uomo negli
occhi e ti rendi conto che vi state rendendo conto entrambi che lo potreste
fare – e che se non sarete interrotti da un tornado o da qualche altro evento
imprevisto e sconvolgente come un tornado quasi certamente lo farete. Quel
miracoloso magico momento che vale tutte le seccature e i dispiaceri che ci si
procura a frequentare i ragazzi, tutto il tempo perso a ridere alle loro
battute scadenti e la sofferenza dovuta alle scarpe troppo strette e ai tacchi
troppo alti.
– Forse
non ho capito bene – dice Andrew anche se io so che in verità ne è già sicuro
come ne sono sicura io – Io e te? Qui e adesso?
– Hai
capito benissimo.
– Oh.
Non te l’ho mai detto, Taylor, ma la sai una cosa? Quando avevo otto anni mi
sono picchiato con Vincent Spencer per te.
–
Vincent Spencer? Il figlio del droghiere? Ma se mi ha sempre odiato.
–
Infatti lui diceva che eri brutta e antipatica e io non ero d’accordo. Non che
tu fossi molto simpatica, ma io pensavo proprio che tu fossi la bambina più
bella della classe.
– E
com’è andata?
– Mi ha fatto
un occhio nero. È lì che imparai che non ci si deve mai picchiare per le
ragazze.
– Perché
non l’ho mai saputo?
– Perché
tu probabilmente mi avresti fatto nero l’altro occhio?
– Forse
hai ragione – ammetto io e poi stiamo zitti tutti e due, un po’ incerti su come
procedere.
“Sto per
andare a letto con Andrew Wells” mi dico incredula. E mi sembra di sentire la
risata argentina della mia amica Dolores “Andrew Wells? Ma sei diventata
matta?” Beh, no. Chi se ne frega se Andrew è strano e ha passato gran parte dei
suoi vent’anni a vivere in un mondo immaginario, se lo prendevamo in giro
quando eravamo bambini e se fino a dieci minuti fa l’ipotesi mi sarebbe
sembrata semplicemente assurda. A dir la verità, non sono nemmeno sicura che
sia proprio eterosessuale – adesso come adesso mi interessa solo che sia
tecnicamente maschio e che in questo momento mi stia guardando fino in fondo
all’anima con i suoi begli occhi azzurri.
E che
anche lui sia rimasto a Sunnydale ha creato fra di noi un legame che non ho mai
sentito con nessun altro – non è un flirt e di certo non è un colpo di fulmine,
non so bene quello che è. Disperazione. O il contrario della disperazione:
ostinata speranza. Non lo so. Quello che so è che gli metto le mani sulle
spalle e mi avvicino lentamente con il viso al suo collo fino a sentire il
profumo di sapone e di cotone pulito che viene dalla sua pelle e dalla sua
camicia mentre il suo mento mi sfiora i capelli – e poiché non lo ricordavo
così alto mi viene da pensare che deve essere cresciuto ancora di un centimetro
o due dopo la fine del liceo.
Ride
nervosamente e mi sfiora la schiena con il palmo della mano; c’è un filo di
luce tra i nostri corpi che entrano in contatto solo nelle zone sporgenti. Come
ad esempio all’altezza dei miei seni.
– Senti,
Taylor…
– Non lo
vuoi più fare? – gli chiedo a bassa voce approfittando del fatto di avere il
suo orecchio sinistro a portata.
– No,
no. Sì che lo voglio fare – si affretta a replicare mentre mi conferma
involontariamente la sua buona volontà con l’improvviso aumento della
superficie di contatto all’altezza della sua cintura – Solo che io…
– Non
l’hai mai fatto prima? Non c’è niente di male se non l’hai mai fatto prima. –
dico io rassicurante come suppongo che si debba essere in casi del genere anche
se in realtà sono un po’ spaventata.
La mia
prima volta è stata con George e non è che lui fosse vergine: è persino
difficile credere che per i tipi come George ci sia mai stata una prima volta.
Non mi è
mai capitato di essere la prima donna di qualcuno e non so bene se dovrei
considerarla una buona cosa o meno.
– No,
ecco – Andrew sospira – a dir la verità, l’ho fatto ma ero così pieno di
tequila che non mi ricordo molto.
–
Tequila? – ridacchio pregustando una storia divertente.
Per
essere sincera sono terribilmente incline a trovare divertente qualsiasi storia
mi racconterà. Gli circondo il collo con le braccia allacciando le mani sulla
sua nuca e accarezzando con le dita i capelli; adesso non c’è più spazio tra di
noi e va molto meglio, ma devo alzarmi in punta di piedi per arrivare con le
mie labbra all’altezza delle sue perché lui non sta collaborando e non piega il
collo.
–
Messico – mi spiega velocemente – C’era questa ragazza. Donna. Almeno ottanta
chili. Rischio di soffocamento.
Che io
ricordi, questa è la prima volta che sento Andrew esprimersi in modo conciso,
anzi telegrafico.
– Allora
ti farà piacere sapere che peso cinquanta chili scarsi. – ridacchio io – Nessun
pericolo di soffocamento con me.
– Questo
è un bene, credo – ammette lui, poi inspira come se dovesse tuffarsi e
finalmente china la testa per baciarmi.
Non è la
prima volta che io e Andrew ci baciamo. Triste a dirsi, l’abbiamo già dovuto
fare davanti a venticinque ragazzi che ci incitavano in coro – per la
precisione in prima liceo quando siamo arrivati ultimo e penultima alla gara di
popolarità; però è sicuramente la prima volta che ci diamo dentro in questo
modo, abbrancandoci l’uno all’altra come se fosse la fine del mondo.
Ripensandoci, potrebbe anche essere perché è veramente la fine del mondo.
Se mi
doveste chiedere di dare un giudizio su Andrew Wells come baciatore, non saprei
proprio cosa dire tranne che almeno non è di quelli che sembrano volerti fare
una tonsillectomia con la lingua, se capite quello che intendo. Ma il modo ad
esempio in cui mi accarezza lungo i fianchi con molta lentezza come se volesse
imparare a memoria il contorno delle mie costole è interessante e ancora più
interessante è forse che riesca a non farmi solletico.
È proprio
vero che a volte trovi il talento dove meno te lo aspetti.
Può
darsi che compensi la scarsa conoscenza dello spartito con una discreta
capacità di andare ad orecchio; o può essere che la probabilità di morte
imminente gli abbia messo il fuoco nelle vene: ho sentito dire che succede.
Mentre mi stringe fra le braccia passando le mani sul mio corpo io gli infilo
una mano tra un bottone e l’altro della camicia all’altezza dello stomaco, e la
sensazione della sua pelle calda e liscia sotto il mio palmo mi procura un
piacevole brivido di anticipazione.
Senza
smettere di baciarci con metodo ma senza eccessivo scambio di saliva e
continuando a lasciare che le nostre mani facciano conoscenza con il corpo
dell’altro, riusciamo anche a spostarci in diagonale attraverso la stanza in un
modo che credo visto dal di fuori debba sembrare piuttosto buffo ma che al
momento pare perfettamente adeguato alle circostanze.
Approdiamo
così all’enorme materasso da palestra alto due palmi che sta sotto la finestra
e dal quale si sprigiona una nuvola di polvere dorata non appena vi cadiamo
sopra in un miracolo di coordinazione, fianco contro fianco, mancando per un
pelo io il suo occhio con il mio gomito, lui il mio ventre con il suo
ginocchio. Un po’ troppo soffice, ma sempre meglio del nudo pavimento.
Il
momento in cui prendiamo fiato, ci guardiamo negli occhi e sorridiamo
compiaciuti di noi stessi per essere stati così bravi è uno di quei momenti di
assoluta intimità che valgono da soli una vita d’incontri occasionali, di storie
finite male e di compagni di letto deludenti. Siamo io e lui, due perdenti
nati, la piccola Taylor Peters che tutti hanno sempre trattato come uno zerbino
e l’imbranato Andrew Wells che riesce invariabilmente a rendersi ridicolo; ma
allo stesso tempo siamo anche le persone sagge, rispettate e valide che in
fondo ai nostri cuori speriamo ancora di poter diventare.
Forse è
proprio la saggezza a cui un giorno potrei aspirare a ricordarmi di chiedergli
se ha un preservativo; e non so se sia più strano che Andrew Wells abbia
effettivamente dei preservativi nel portafoglio o che io non ne sia niente
affatto sorpresa.
– Ah, sì
– dice alzandosi su un gomito per raggiungere la tasca posteriore dei jeans –
sempre che Xander non li abbia presi tutti… no, eccoli qui. Ci crederesti? Il
primo articolo a finire in città sono stati proprio i preservativi.
– Non mi
meraviglia – ridacchio io – se tutto questo ha fatto anche agli altri l’effetto
che sta facendo a noi.
– Potrei
raccontartene di cotte e di crude a questo proposito – dice Andrew togliendosi
le scarpe – ad esempio… ma non è il momento. Giusto?
– Giusto
– concordo mentre armeggio con l’ultimo bottone della sua camicia e gliela
sfilo da dosso.
Che cosa
ci posso fare se ho sempre avuto un debole per i biondi dalla pelle chiara?
Sembrano sempre così delicati, come se dovessero passare tutta la vita a
dimostrare di non essere dei cherubini, e fare certe cose con loro mi ha sempre
dato la piacevole sensazione di partecipare a una corruzione di qualche sorta.
Una sensazione raramente giustificata dai fatti, perché George ad esempio era
tutto tranne che un innocentino da corrompere, ma ognuno a questo mondo ha le
sue debolezze.
Sta
filando tutto liscio in modo sorprendente e devo proprio credere che gli stia
tornando la memoria sulle sue avventure messicane perché sta mettendo le mani
in tutti i posti giusti dando addirittura l’impressione di sapere quello che
sta facendo; ma certo che quando mi slaccia il reggiseno usando una mano sola e
senza nemmeno graffiarmi la schiena col gancetto non posso fare a meno di
pensare che ha proprio ragione: se quello stesso Andrew Wells che era a scuola
con me può riuscire a fare una cosa del genere al primo colpo, la fine del
mondo dev’essere ormai questione di ore.
…
– La sai
una cosa strana? Che quando sei cattivo non ti accorgi di esserlo.
– Io non
credo che tu sia molto cattivo.
Andrew
mi accarezza la spalla con un dito ma non mi guarda mentre parla.
– E ti
sbagli, perché io non riesco nemmeno a dirti quello che ho fatto.
– Siamo
a Sunnydale, giusto? Vai a letto con qualcuno e quasi sempre salta fuori
qualche scheletro dall’armadio. E a volte lo scheletro non è nemmeno
nell’armadio.
– Per me
è diverso. – mi guarda con occhi molto più vecchi dei suoi vent’anni, poi ride
fra sé e sé e aggiunge – Soltanto l’anno scorso avrei pagato oro per poter dire
“per me è diverso”, come se fossi, non lo so… E invece adesso vorrei solo poter
tornare indietro. Così non dovrei morire.
– Andy…
– Ma tu
devi andare via da qui finché sei in tempo. Tu non hai ammazzato nessuno.
Non
risponde.
Ladruncoli.
Imbroglioni. Violenti. Un assassino finora mi mancava. Non so perché non mi tiro
indietro e resto invece qui a lasciare che mi tocchi e mi sfiori la pelle con i
suoi capelli; non so nemmeno che cosa stia facendo di preciso mentre tiene la
fronte appoggiata sul mio seno finché una sensazione di umido sulla pelle mi fa
sospettare che si sia messo a piangere. Onestamente non credo che siamo
abbastanza intimi perché io possa chiedergli particolari o promettergli che non
morirà: ci vuole ben altro che tre anni di scuola elementare e un po’ di sesso
con in mezzo un buco di dodici anni per dire di conoscere veramente qualcuno o
anche solo di volerlo conoscere. Ma c’è una cosa che posso fare per lui oltre
che farmi sgocciolare le sue lacrime addosso, perciò faccio leva con le mani
sulle sue spalle e scivolo verso il basso incuneandomi tra il materasso e il
suo corpo finché non mi trovo più o meno sotto di lui, e tirandolo per i
capelli gli sollevo la testa per guardarlo negli occhi.
L’ho già
detto che mi piace il colore dei suoi occhi? Colore a parte, non sembrano gli
occhi di qualcuno capace di ammazzare a sangue freddo e forse nemmeno quelli di
uno che potrebbe uccidere per difendere la sua vita; ma naturalmente è solo
un’impressione, altrimenti non si spiegherebbero tutte quelle storie truci che
si vedono al telegiornale di bravi ragazzi che fanno a pezzi qualche parente
con l’accetta tra la meraviglia dei vicini e lo stupore degli insegnanti.
Andrew
cerca di girare la testa per non farmi vedere che sta piangendo ma io gli
asciugo gentilmente le lacrime con un dito e poi lo abbraccio facendogli
appoggiare il mento sulla mia spalla: sento i nostri cuori che battono più o
meno all’unisono e un po’ mi sembra di sentire un orologio che scandisca
solennemente gli ultimi istanti di questa città che ha visto nascere e crescere
entrambi. Un po’ invece mi sembra di capire che non gli dispiacerebbe
ricominciare daccapo e siccome non ho niente in contrario sto per chiedergli se
vuole provare in un altro modo questa volta, visto che io non peso ottanta
chili come la sua amante messicana e che lui mi sembra esattamente il tipo che
non disdegna affatto essere quello dei due che guarda il soffitto. La prima
volta mi è sembrato più prudente andare sul classico e devo dire che non se l’è
cavata per niente male, molto meglio di certa gente che si crede chissà chi e
poi alla prova dei fatti sembra un trapano umano più di ogni altra cosa. Certo,
può darsi sia stato aiutato dal fatto che non gli ci voleva niente per
distrarsi e pensare a qualcosa di poco piacevole, dal momento che si sente come
se fosse un condannato nel braccio della morte; ma comunque sia non ho avuto
niente di cui lamentarmi e sentendomi particolarmente generosa alla fine l’ho
ricoperto di complimenti, facendolo arrossire in un modo che francamente mi è
molto piaciuto.
Ma prima
che io abbia il tempo di mettere in pratica i miei propositi, lui ricomincia a
strisciare verso il basso facendo nel frattempo delle cose con le mani e con
altre parti del corpo che risultano piuttosto piacevoli dal mio punto di vista
e all’improvviso alza la testa e mi dice: – C’è una cosa che ho sempre
desiderato fare…
Non so
se sia imprudenza da parte mia, ma non penso affatto che sia venuto il momento
in cui tirerà fuori l’accetta e comincerà a farmi a pezzi; e ad essere sincera
mi riesce proprio difficile scontentare un amante così carino e volonteroso,
soprattutto quando questo potrebbe essere il suo ultimo desiderio.
– Fai
quello che vuoi, Andy.
E allora
a riprova del fatto che qualche volta persino a Sunnydale fidarsi è bene, e
anzi è anche meglio che non fidarsi, lui si tuffa fra le mie gambe facendomi
solletico con la barba sulle cosce e comincia a dimostrarmi di essere in grado
di fare con la lingua qualcosa di meglio che dire sciocchezze.
…
– Mi
meraviglio di te, Taylor.
La voce,
quella voce, interrompe il beato sonnecchiare in cui mi sto crogiolando. Mi
alzo a sedere di scatto e la vedo: mia madre, con lo stesso vestito bianco a
fiori del mio sogno, nel vano della porta.
– Dio
mio, che cosa ci fai qui, mamma? – le chiedo mentre afferro i primi vestiti che
ho sottomano per coprirmi; caso vuole che si tratti della camicia di Andrew e
così mi alzo in piedi apparendo nella migliore tradizione della
donna–che–ha–appena–fatto–sesso della televisione: con i piedi scalzi, le gambe
nude e solo la camicia del partner addosso.
Il
partner in questione, che fino a un momento fa sonnecchiava con la testa
appoggiata sul mio stomaco e ora si ritrova improvvisamente senza cuscino,
bofonchia, alza un braccio per guardare l’orologio e protesta – Che cosa
succede? Accidenti, è tardi.
Stranamente
la presenza di mia madre nella stanza non sembra preoccuparlo mentre recupera
mutande e pantaloni dal pavimento, perciò gli do di gomito caso mai fosse un
po’ miope e non avesse notato mia madre nella luce fioca del tardo pomeriggio.
Ma lui invece mi rivolge uno sguardo addolorato e rassegnato al tempo stesso,
come se fosse dispiaciuto ma non particolarmente sorpreso che io lo prenda a
gomitate nello stomaco dopo aver fatto l’amore con lui: a essere sincera con
quegli occhi azzurri e i capelli biondi tutti per aria è proprio carino e anche
se la magia di poco fa è completamente svanita non sono per niente pentita di
aver fatto quello che ho fatto.
– Andy
Wells – deplora mia madre facendo un paio di passi nella nostra direzione – Lo
sapevo che non avevi buon gusto con gli uomini, Taylor, ma credevo che anche tu
avessi dei limiti.
– Il
ruolo di genitore moralista non ti si addice molto, mamma.
– Cosa stai
dicendo, Taylor? – mi chiede Andrew finendo di allacciarsi i pantaloni – Vorrei
che mi restituissi la mia camicia. Anche se penso che questo sia il momento in
cui dico che sta meglio a te che a me. Sebbene faccia un effetto stranissimo
dirlo davvero. Cioè, quando lo senti dire al cinema non suona proprio nello
stesso modo.
Non so
se perché Andrew abbia ripreso a straparlare o per qualche altro motivo, ma mia
madre ride. Io la guardo poi guardo Andrew.
– Tu non
la vedi, vero?
– Chi? –
mi chiede lui guardandosi attorno e strofinandosi gli occhi, ancora un po’
intontito dal brusco risveglio.
Forse
sono diventata matta? Alzo debolmente un braccio a indicargli mia madre, che
continua a ridere con le mani sui fianchi.
– Mia
madre. È lì davanti alla porta. Sta ridendo.
Anche se
sembrerebbe impossibile con la carnagione che ha, Andrew sbianca e mi afferra
un polso – È lui. Non lo stare a sentire. È il Primo.
– È mia
madre – protesto io debolmente cercando di liberarmi mentre lei scuote la testa
con quella stessa aria indulgente e divertita che aveva davanti alle mie
marachelle da bambina – Ha persino lo stesso vestito che…
– Dov’è
quel vestito? Te lo ricordi? – mi dice Andrew senza lasciare ma anzi aumentando
la presa sul mio polso.
So che
non posso liberarmi senza prenderlo a calci e fargli veramente male: dopotutto
è un ragazzo di vent’anni alto circa un metro e settantacinque con una
muscolatura non appariscente ma adeguata, perciò mi concentro sulla sua
domanda.
– L’ho
dato io stessa alla Croce Rossa due, no, tre anni fa – ammetto mentre per
qualche motivo mi si riempiono gli occhi di lacrime.
Forse
perché mi piacerebbe che mia madre fosse venuta a Sunnydale per portarmi via,
che mi dicesse che non mi devo preoccupare perché non so dove andare e che c’è
e sempre ci sarà posto per me a casa sua a Detroit.
– Non
dar retta a questo perdente, cara – dice mia madre – Sono proprio io, la tua
mamma.
Ma non è
la mia mamma perché la mia mamma non avrebbe mai usato la parola perdente, se
non altro per l’ottimo motivo che siamo tutti dei perdenti in famiglia. Una
lunga catena di perdenti che arriva a Coney Island e prosegue al di là
dell’oceano fino ai miei perdenti antenati irlandesi, svedesi e turchi e non so
cos’altro. Anche se credo che si potrebbe definire la nonna di mia nonna
–un’autentica indiana Navajo – una perdente autoctona di questo continente.
Così
questo è il Primo e deve proprio avercela con me perché ha già preso più volte
per visitarmi le sembianze della mia amica Gladys.
Andrew
mi fissa e mi accorgo che sta cercando di comunicarmi qualcosa senza parlare e
senza farsi sentire da questa presenza che non può vedere ma che evidentemente
lo spaventa a morte. Non so se sia questo pomeriggio di sesso che abbiamo
condiviso oggi o piuttosto il fatto che siamo cresciuti tutti e due in questa
città di merda e di menzogne, conducendo due vite parallele eppure legate dai
fili sottili dell’inganno e della malafede degli adulti che ci hanno insegnato
a nascondere la testa sotto la sabbia e a fare finta di niente invece che ad
essere forti e coraggiosi; fatto sta che capisco perfettamente che mi sta
suggerendo di mettere alla prova la finzione del Primo. Se non ricordo male, mi
ha detto che è incorporeo e che non mi può fare altro male se non quello che
deriva dalle parole. Mi infilo le scarpe sui piedi nudi e così come sono con
addosso solo la camicia di Andrew mi dirigo decisa verso mia madre, anche se mi
sento come quella volta che George mi convinse a portar via i mozziconi di
candela dalla chiesa cattolica. Addirittura mi sembra di sentire nelle narici
l’odore dell’incenso che ristagnava nella vecchia chiesa e non mi meraviglierei
se da un momento all’altro saltasse fuori la decrepita e minuscola signora
Gonzales invocando oscure maledizioni in spagnolo sulla mia testa sacrilega.
Prima
che io riesca a giungere a portata di braccio, però, la mia sedicente madre si
sposta dalla porta ridendo.
– La mia
piccola Tommasa… – mi prende in giro – hai sempre voluto metterci il tuo
nasino, non è vero? Ricordo ancora quando non volevi credere che ti saresti
bruciata le tue piccole dita sul fornello…
Mi giro
di scatto verso Andrew, che sta allacciandosi le scarpe con mani che tremano
visibilmente e gli chiedo disperata: – Mi dice cose di quando ero piccola,
Andy, cosa devo fare?
Non
posso evitare che si senta il pianto nella mia voce: Andrew sembra imbarazzato
e guarda da un’altra parte, ma mi dice lo stesso quello che ho bisogno di
sentire.
– Lui sa
tutto quello che sai tu…
– Tu non
sei mia madre, tu sai solo quello che so io su di lei. – ripeto allora io a
pappagallo.
Allora
l’entità malvagia che sembra mia madre sbuffa e alza gli occhi al cielo
esattamente come fa mia madre quando sente dire un’enormità e mi dice: – Se
preferisci la strada più difficile, figlia mia… Fossi in te, io farei una lunga
chiacchierata con quell’ubriacone buono a nulla di tuo padre.
Poi si
gira verso Andrew, punta l’indice contro di lui e gli dice con un tono così
carico di malvagità che non sapevo nemmeno che le corde vocali di mia madre
fossero in grado di esprimere:– E tu, piccolo inutile idiota, aspettami: tu
sarai presto tutto mio.
E mentre
io e Andrew restiamo a guardarla a bocca aperta svanisce così rapidamente che
entrambi ci strofiniamo gli occhi come quando non si riesce a credere a quello
che si è visto.
Andrew
stringe i pugni e impreca – un’imprecazione veramente oscena che mi meraviglia
persino un po’ sentirgli usare – ed è così spaventato che non ho bisogno di
essere un vampiro per sentire il suo cuore battere anche a questa distanza; ma
poi mi guarda negli occhi con infinita pena e alza una mano verso di me come se
volesse toccarmi ma gliene mancasse il coraggio.
E solo
in quel momento mi rendo conto.
Il Primo
può impersonare chiunque: purché si tratti di qualcuno che è morto.
Cerco di
calcolare senza riuscirci l’ultima volta in cui ho parlato al telefono con la
mamma. Tento di ricordare la data stampigliata sul francobollo della busta con
cui mi ha mandato cento dollari per il mio compleanno. Ma non lo so, non lo so
proprio. Io compio gli anni a febbraio e la busta mi è arrivata in ritardo, ma
in ritardo di quanto non saprei dire. Forse era già marzo: due mesi fa.
Le
lacrime mi riempiono gli occhi così in fretta che cominciano a cadere sul pavimento
come se piovesse, tanto che per un attimo alzo gli occhi al soffitto perché non
riesco a capire come possa piovere al chiuso; fra le lacrime vedo confusamente
davanti a me la faccia addolorata di Andrew che muove le labbra senza parlare
come in un film da cui abbiano improvvisamente tolto il sonoro.
– La mia
mamma – sussurro mentre mi asciugo brutalmente gli occhi con la mano uno alla
volta.
– Non…
non lo sapevi? – mi chiede Andrew riuscendo finalmente a far uscire la voce.
Stranamente,
è la simpatia che prova davanti alla mia sofferenza a darmi la forza di
prendere delle decisioni: chiedere a mio padre se la mamma è morta, andare a
casa, vestirsi. No, meglio in ordine inverso: restituire la camicia ad Andrew,
recuperare i miei vestiti e indossarli, correre a casa prima che mio padre
parta insieme al pastore Bliss come deciso.
– Io…
devo andare. Subito.
– Certo,
naturalmente. Anch’io devo tornare in quella casa, altrimenti manderanno una
squadra a cercarmi.
Non so
se sia ciò che voleva, ma questo riesce a farmi sorridere.
– Già:
sei veramente indispensabile.
– Così
mi dicono sempre – dice Andrew in un falso tono di falsa modestia che non è per
niente inteso a risultare credibile.
Poi mi
prende un polso e accarezzandomi gentilmente il palmo della mano aggiunge: –
Veramente, sai… non vorrei che pensassero che sono scappato.
– Tu non
sei di quelli che scappano, Andrew – dico con una sicurezza che mi accorgo con
stupore di non aver bisogno di fingere.
– No,
infatti: io sono troppo stupido per farlo – mi risponde lasciandomi andare il
braccio con un profondo sospiro – Dimmi che lascerai questa maledetta città
prima che puoi, Peters.
– Certo.
E tu… ecco, tu stai attento, Wells. Non mi dispiacerebbe poterti rivedere un
giorno o l’altro. Vivo.
6. Se
qualcosa può andar male
“California
is a garden of Eden,
A
paradise to live in or see.
But
believe it or not, you won’t find it so hot,
If you
ain’t got the do re mi.”
Do re mi
di Woody Guthrie
– È
vero, Taylor, tua madre è morta.
Io mi
siedo sulla sedia e mi afferro al bordo del tavolo, che a dire la verità è
piuttosto unto, mentre tutta la saliva sembra abbandonare la mia bocca in un
colpo solo.
Mio
padre mi guarda allarmato – probabilmente anche il colore sulla mia faccia è
andato nello stesso posto della saliva – e mi appoggia una mano tremante sulla
spalla in un gesto di conforto che mi fa venire una voglia pazzesca di alzarmi
e di correre via gridando a voce alta. Gridando che cosa e andando dove non so.
– No,
no. Voglio dire che tua madre è morta undici anni fa.
La prima
cosa che penso è che l’alcool gli abbia definitivamente bruciato il cervello.
La seconda cosa che penso è che mio padre si sia messo a parlare per metafore,
che conoscendo mio padre potrebbe essere solo una variante della prima.
Insomma, che stia parlando per metafore perché è diventato matto come un
cavallo.
– Ma che
cosa cazzo dici? – rispondo di getto prima di ricordare che non bisogna mai
contraddire i matti – Due anni fa era viva e vegeta: non ti ricordi che è
venuta a trovarci?
Oddio, a
trovarci trovarci magari no. Diciamo che ha bussato alla nostra porta e mi ha
portato a fare un giro in macchina, ma non sono nemmeno sicura che mio padre
l’abbia vista di sfuggita: era tardi e quasi certamente era già completamente
immerso nel suo stupore alcolico. Non avrebbe notato l’Arcangelo Michele se si
fosse presentato davanti a casa nostra con quattro metri quadri di ali e una
spada fiammeggiante.
Con la
puntigliosità che un tempo gli era abituale e che il più delle volte s’infrange
ormai contro la difficoltà di esprimere la propria opinione quando si ha la
bocca impastata e non ci si ricorda dal naso alla bocca, mio padre replica con
calma: – Vegeta può darsi ma di certo non viva.
La mia
mente registra con una certa sorpresa che la mia veemente reazione non ha
innescato una tragedia familiare prima di soffermarsi sul significato della
frase: che cosa significa, non viva?
– Non
viva e nemmeno morta, Taylor – aggiunge mio padre prendendo una delle mie mani
inanellate in una delle sue manone ruvide, calde e tremanti e all’improvviso
sembra più sobrio di quanto sia mai stato negli ultimi undici anni.
Io
guardo i miei anelli – uno dei quali sembra una bandiera dei pirati in
miniatura – e mi chiedo perché mi metto addosso certa roba che solo a vederla
mi fa venire da vomitare.
Quando
morì il canarino Stella avevo credo sei anni. Fui io a trovarlo rigido e
stecchito nella sua gabbietta, corsi piangendo dalla mamma e lei mi prese in
braccio e mi spiegò dolcemente che purtroppo Stella era morto. E quando ebbe
finito di spiegarmi che gli animali che teniamo nelle nostre case per farci
compagnia a volte muoiono e noi non ci possiamo fare niente, io mi asciugai le
lacrime e le chiesi: “Sì, va bene, ho capito che è morto: ma perché non canta?”
Ripensandoci
col senno di poi quell’episodio – che i miei genitori avevano l’abitudine di
raccontare ad amici e a parenti per farli sorridere della mia supposta ingenuità
infantile – dimostra invece secondo me che quando sei nato e cresciuto a
Sunnydale impari presto che il confine tra questo mondo e l’altro non è così
ben difeso e invalicabile come si sarebbe portati a credere.
–
Taylor? – mi dice mio padre dopo un po’ che sto zitta.
– Credo
di aver capito, papà – rispondo io togliendo la mano dalla sua e ascoltando la
mia voce con sorpresa come se appartenesse a qualcun altro.
E adesso
che ci penso, lo è davvero la voce di qualcun altro, è la voce di mia madre,
uguale e identica alla sua al punto che quando cinque anni fa la nonna morì
d’infarto, credeva fosse proprio mia madre, e non io, a parlarle e a tenerle la
mano fino all’ultimo. Mia madre non fece neppure in tempo a vederla viva.
Adesso so anche perché: mia madre doveva aspettare che calassero le tenebre per
poter fare la strada dall’aeroporto all’ospedale senza incenerirsi.
Come ho
fatto a non capirlo? L’improvviso cambiamento del suo carattere, l’orario
serale delle visite, l’abbigliamento inadeguato alla stagione, il pervicace
rifiuto a mangiare qualsiasi cosa. Come ho fatto a essere così stupida, come
hanno osato farmi fare per undici anni una tale figura da stupida?
– Perché
cazzo non me lo avete detto? Non lei, non tu, mai, mai? Ci tenevate così tanto
a convincermi che la mia mamma avesse preferito andare via piuttosto che
restare con me? – le lacrime mi scorrono sulle guance e sento in bocca il
sapore amaro di un rivolo di rimmel.
E poi mi
accorgo di quello che ho detto. E penso che sono un’orfana da undici anni ma lo
so soltanto adesso. In questi undici anni la donna di cui sono orfana ha
continuato a venirmi a trovare e a offrirmi gelati, a mettere dollari in una
busta e a spedirmeli per il mio compleanno, a telefonarmi per conoscere i miei voti
a scuola e per sapere come è andata la gara di ginnastica ritmica. Una madre
del cavolo, lontana e distante e che non mi ha mai chiesto di andare a vivere
con lei a Detroit – e adesso si spiega perfettamente anche perché non me lo
abbia mai chiesto – ma pur sempre una madre.
– Lei
non voleva che tu lo sapessi – mi risponde mio padre.
– E
allora perché me lo stai dicendo?
– Tu sei
una donna ormai e a me non importa più quello che vuole e quello che non vuole
lei – farfuglia mio padre tra le lacrime e io sono meravigliata perché non l’ho
mai visto piangere da sobrio.
Ci
asciughiamo gli occhi col dorso delle mani tutti e due, e non so la sua ma la
mia trema così forte che rischio di infilarmi un dito in un occhio.
– Forse
dovrei bere qualcosa – azzardo io e mio padre si alza barcollando, si sente un
rumore di vetri che si scontrano e di sportelli che si aprono e si chiudono e
poi eccolo che torna con una bottiglia di whisky piena a metà e un bicchiere
pulito.
Tenendo
la bottiglia con due mani mio padre versa il liquore mentre io a mia volta
tengo il bicchiere con due mani; poi mi guarda mentre bevo a piccoli sorsi e
sento l’alcool diffondere il suo calore nel mio corpo e riportare un minimo di
chiarezza nella mia testa. Mio padre guarda la bottiglia ma invece di
portarsela alle labbra come mi sarei aspettata la richiude accuratamente e la
allontana da sé.
– Ti
senti meglio?
– Sì,
credo di sì. Temo di essere un po’ sconvolta.
Per forza
che sono sconvolta: chi non lo sarebbe nel venire a sapere che sua madre è un
vampiro ormai da undici anni? Ci sono molte domande che vorrei porre a mio
padre e la prima che mi viene in mente è “È per questo che hai passato gli
ultimi anni a bere fino a ridurti all’incoscienza?” ma non sono abituata a
parlare con quest’uomo dei fatti veramente intimi e personali della mia vita o
tantomeno della sua perciò alla fine gli chiedo invece di raccontarmi che cosa
successe esattamente undici anni fa.
È una storia
breve ma mio padre la rende ancora più breve e quando ha finito di esporre i
fatti mi accorgo che non mi ha detto di preciso quando o dove accadde o se
qualcun altro oltre a lui venne mai a sapere che la mamma era stata sorpresa da
un vampiro sulla strada tra il lavoro alla tavola calda e casa. Mi dice solo
che era inverno, che si faceva buio presto e che quello stronzo del padrone
aveva minacciato di licenziarla se non si fosse fermata per un’ora ancora. Non
so perché la mamma non avesse telefonato a papà sul lavoro per farsi venire a
prendere in macchina o non cercasse di farsi dare un passaggio da qualcuno dei
clienti. Forse aveva bisticciato con papà prima di andare al lavoro ed era
arrabbiata con lui e il ricordo di quella stupida lite è diventato per undici
anni l’unica compagnia di mio padre oltre alla bottiglia.
Magari
aveva così paura di tornare a casa da sola con il buio da accettare un
passaggio dalla persona sbagliata o addirittura di chiederlo lei stessa alla
persona sbagliata.
A me sembra
di ricordare che la mamma mancava di casa da due giorni prima che papà
smettesse di cercarla negli ospedali e mi dicesse che era andata via, ma
evidentemente papà riuscì a farmi credere per qualche tempo che lei era uscita
prima che io mi svegliassi o che non era ancora rientrata all’ora in cui andavo
a letto perché adesso mi dice invece che passarono diversi giorni prima che
egli finalmente incontrasse di nuovo la mamma, o meglio quello che la mamma era
diventata. A quanto pare era scappata dalla stretta sorveglianza del suo nuovo
padrone – il vampiro che l’aveva resa una di loro – perché voleva vedere lui e
voleva vedere me. La mamma non voleva il sangue di papà e tanto meno il mio:
voleva solo continuare la sua vita di prima, quella che le avevano strappato, e
così aveva già progettato di trasferirsi con noi in un’altra città, trovarsi un
lavoro notturno e comprare il sangue dal macellaio. La mamma all’inizio non
capiva che se papà avesse acconsentito né io né lui le saremmo sopravvissuti a
lungo.
Quando
mio padre arriva a questo punto del racconto piango così tanto che le palpebre
mi pungono e mi fanno male, ma so anche dentro di me che la mamma aveva torto.
Il giorno che fossi tornata a casa piangendo perché gli altri bambini facevano
i prepotenti perché erano più forti di me, il giorno in cui papà al lavoro
avesse preso uno strappo alla schiena che non voleva saperne di guarire, il
giorno in cui lei stessa si fosse stancata di nascondere la sua vera natura al
vicinato… prima o poi si sarebbe presentata l’occasione di renderci uguali a
lei. E lei non avrebbe potuto fare a meno di coglierla.
Non so
se mio padre sarebbe stato abbastanza veloce o abbastanza fortunato da riuscire
a distruggere il demone che si era impossessato di sua moglie e consegnare così
alla pace eterna la donna che amava.
Non so
se non la uccise perché aveva paura di morire nel tentativo e di lasciarmi
orfana anche di padre; o perché temeva che lei avrebbe colto l’occasione per
andare avanti col suo piano primitivo; o semplicemente perché non se la sentiva
di infilare un paletto nel cuore della donna che aveva sposato.
So solo
– perché mio padre me lo dice adesso – che mia madre mentì al suo sire fin dal
primo momento, dicendogli di essere divorziata e di non avere figli: i vampiri
non sono meno sciatti o trascurati di noi esseri umani e dal momento che le
loro facoltà soprannaturali non comprendono la lettura del pensiero è
relativamente facile ingannarli.
Dovrei
forse meravigliarmi che il primo istinto della mamma fosse stato proteggerci da
quelli della sua specie, ma ho tagliato i capelli a troppi vampiri per
illudermi che la loro malvagità non ammetta cedimenti; e so benissimo che Spike
era ferocemente leale alla sua Cacciatrice molto prima di avere quest’anima che
tutti tengono in così grande considerazione.
In ogni
caso, i miei arrivarono ad un accordo che evitava al tempo stesso ceneri
svolazzanti e gole squarciate: come tutti dicono che dovrebbero fare i genitori
quando decidono di separarsi, pensarono innanzitutto al bene dei figli, vale a
dire della sottoscritta, e si sistemarono come meglio potevano in una vita di
bugie e di mezze verità.
Per
questo alla fine la mamma si stabilì a Detroit, dove l’inverno è rigido, le
notti lunghe e da dove è difficile tornare a Sunnydale senza che il viaggio
tutto intero duri di più del breve spazio tra un tramonto e un’alba.
Un tempo
mi veniva a trovare spesso anche se mio padre non la faceva quasi mai entrare;
e quando a dodici anni presi la varicella dalla povera Gladys e stetti
veramente molto male la mamma restò accanto al mio letto una notte intera
tenendomi la mano calda di febbre con la sua mano fresca.
In
quanto a papà, non ci lasciò un attimo da sole e solo adesso ne conosco il vero
motivo: me lo posso immaginare con la paura che gli tiene compagnia per tutta
quella lunga notte – la paura che la sua moglie vampira uccidesse la sua
bambina e ne facesse un vampiro eternamente dodicenne – la paura e molto
probabilmente anche un paletto di legno e una bottiglia di acqua santa nascosti
sotto la sedia.
– Adesso
che cosa farai? – mi chiede mio padre – Tra poco sarà qui il reverendo Bliss.
– Ho
trovato un passaggio per Los Angeles, papà: non ti preoccupare. Quello che mi
hai detto non cambia niente.
– Già, è
vero. Che cosa dovrebbe cambiare? – dice mio padre guardandosi attorno per
vedere se ha dimenticato qualcosa.
Mio
padre ha già messo le assi alle finestre del pianterreno e ora sta controllando
che siano ben assicurate così quando se ne sarà andato mi chiuderò dentro ad
aspettare Sassassa come in un fortino. È strano che non mi venga neppure il
mente il sospetto che il mio amico Sfreyano potrebbe non arrivare mai; tanto
più strano perché se si trattasse di un altro essere umano invece che di un
grosso demone coperto di pelo bianco sarei già qui a mordermi le mani per
l’ansia e a chiedermi se ho fatto bene a fidarmi.
– Papà?
– Che
c’è?
– Tu lo
sai dove abita esattamente la mamma a Detroit?
Mio
padre fa una breve e aspra risata e scuote la testa in un diniego: – I vampiri
non abitano, Taylor. Credevo che lo sapessi. Comunque, no, non so il suo
indirizzo e non so nemmeno se ne abbia uno. È sempre lei a telefonare o a
scrivere.
…
– Questa
sarebbe la macchina?
– Beh,
che cosa ti aspettavi, una limousine?
– No,
però non mi aspettavo una macchina della polizia.
– È un
problema?
Il parco
macchine della polizia di Sunnydale non è mai stato un granché e questa che ho
davanti – una Chevrolet vecchia di quasi dieci anni bisognosa di una buona
riverniciatura – non costituisce certo uno dei suoi esemplari migliori. Il
profondo segno circolare sulla portiera del guidatore potrebbe essere dovuto o
all’estremità di grosso tubo di cemento o al pugno di una creatura gigantesca,
anche se è difficile dire quale sia l’ipotesi più ragionevole visto che ci
troviamo dove ci troviamo.
– Dove
sono le chiavi? Perché se ti aspetti che io riesca a fare quel giochino con i
cavi…
Con un
sorriso che va da una parte all’altra del suo faccione peloso Sassassa esibisce
orgogliosamente un mazzo di chiavi che tira fuori dal borsello con cui si è
presentato alla mia porta di casa venti minuti fa.
Ammetto
che nonostante la situazione non proprio comica, l’ora tarda e un’aria da
imminente tragedia così fitta che si poteva tagliare con il coltello, vedermelo
davanti con il borsello a tracolla sulla spalla destra, un innaffiatoio verde
da venti litri nella mano sinistra e uno zaino arancio fosforescente sulla
schiena – tale e quale il personaggio di un cartone animato per bambini
deficienti – mi ha provocato un irrefrenabile attacco di ilarità. Sassassa si è
offeso al punto che mi sono dovuta trascinare da sola la mia borsa da viaggio
per quasi un intero isolato prima che me la portasse via dalle mani brontolando
che se avessimo continuato a camminare così piano non saremmo arrivati mai.
– Oh.
Dove hai preso quelle chiavi? No, aspetta, non lo voglio sapere.
– Non
penserai che le abbia rubate? – mi chiede indignato.
In
effetti non penso certo che un demone bianco alto due metri vada in giro
borseggiando poliziotti né che si introduca furtivamente nell’autorimessa della
Polizia di Sunnydale, tantomeno con quell’enorme zaino sulle spalle che brilla
nella notte come un giubbotto ad alta visibilità; d’altra parte non sarei eccessivamente
meravigliata se scoprissi invece che queste chiavi sono un’altra delle molte
cose che il mio amico si è ritrovato misteriosamente addosso dopo un episodio
di mannarismo.
– Ma
certo che no, Sassassa – rispondo girando attorno alla macchina per vedere se
ci sono altri danni – Sai perché l’abbiano lasciata qui? Sei sicuro che vada?
– Ti
dico che funziona perfettamente – risponde Sassassa che nel frattempo ha aperto
il bagagliaio e ci sta buttando frettolosamente dentro i nostri bagagli – Li ho
visti quando l’hanno portata qui.
Le
chiavi non servono per aprire la portiera dal momento che la serratura non
funziona, probabilmente in seguito al medesimo colpo che ha lasciato quelle
vistose tracce sulla carrozzeria, e ce ne vuole del bello e del buono per
sbloccare il meccanismo di avanzamento del sedile e spingere quest’ultimo in
avanti finché non riesco a raggiungere i pedali con i piedi: l’ultima persona
che ha guidato questa macchina doveva essere molto alta. Aveva anche rovesciato
qualcosa di appiccicaticcio sul volante e con questo buio posso solo sperare
senza esserne certa che di tratti di aranciata uscita da una lattina piuttosto
di qualcosa di più sinistro e magari collegato al medesimo incidente che ha
provocato quei segni sulla portiera.
Dopo
essermi sistemata infilo la chiave d’accensione e sono così abituata agli
imprevisti negativi che il dolce ronzio con cui il motore si mette
immediatamente in moto mi lascia genuinamente sorpresa.
– Visto?
– mi dice trionfante Sassassa piegandosi praticamente in due per potermi
parlare attraverso il finestrino – Cosa faccio della benzina?
La spia
sul cruscotto indica che il serbatoio è pieno per un quarto e quindi non c’è
urgenza di riempirlo; d’altra parte non vedo nemmeno motivo di partire portandoci
dietro del liquido altamente infiammabile in un contenitore di fortuna, perciò
spengo il motore e scendo dalla macchina per fare il pieno.
Per il
momento non ho ancora fatto niente di illecito, sto solo rifornendo un’auto
della polizia che non è neanche chiusa a chiave: in pratica, si potrebbe quasi
dire che sto beneficando le autorità di Sunnydale.
Tra
quello che ha portato Sassassa nell’innaffiatoio e l’avanzo della latta che
c’era in fondo al mio garage, testimone di un’epoca in cui la famiglia era
ancora motorizzata, ce n’è abbastanza per arrivare a più della metà della
capacità; ora mi resta solo da sperare che il puzzolente liquido che Sassassa
ha trovato nel capanno degli attrezzi oltre ad avere l’aspetto e l’odore della
benzina ne abbia anche le note proprietà combustibili e non sia invece qualcosa
che ci farà restare a piedi o peggio ancora ci farà saltare per aria sul più
bello.
– Erano
due, sono arrivati e sono scesi. Io ero su quella panchina là, ma loro non mi
hanno notato – mi confida il demone Sfreyano indicando il giardino pubblico di
fronte.
– OK,
ecco fatto – dico girando il tappo del serbatoio nella sua sede – Erano
poliziotti?
– Non
erano in divisa, a dir la verità – riflette Sassassa girando intorno alla macchina
per sedersi al posto del passeggero – Ma che cos’altro avrebbero dovuto essere?
Scendevano da una macchina della polizia e uno aveva le chiavi in mano.
Apre la
portiera e guarda dentro: – Io non credo di starci, Tula.
– Ma sì,
basta tirare indietro il sedile – dichiaro io ottimisticamente – E poi che cosa
hanno fatto?
– Sono
andati via parlando tra di loro. E passando di fianco al cestino della
spazzatura quello che aveva le chiavi ha fatto un movimento come se stesse
buttando via qualcosa.
– Le
chiavi? Io tengo la leva tirata, tu spingi il sedile indietro.
– Sì,
non so proprio che cosa mi abbia spinto ad andare a controllare nel cestino dei
rifiuti. Ahia, Tarantula, stai attenta: mi è rimasto il pelo incastrato nel
meccanismo.
Secondo
me non sono i due metri di statura totale il problema, quanto l’enorme
sproporzionato torso e il testone che si incastra sotto il tettuccio della
macchina, per non parlare dei due zamponi anteriori – non mi sentirei di
chiamarli braccia – e in particolare di quell’ammasso di carne e di muscoli che
si trova proprio nel punto in cui la spalla si articola sul busto.
– Sai
una cosa Sassassa? Sono sicura che ti avrebbero dato le chiavi se solo tu
gliele avessi chieste.
–
Davvero? – mi dice il mio amico Sfreyano dando allo schienale del sedile una
manata.
Questo
si abbassa sì completamente ma produce anche un sinistro scricchiolio.
Sembra
proprio che Sassassa abbia riflettuto molto seriamente sull’opportunità di
questo prestito forzoso ai danni della polizia di Sunnydale.
– Sai –
mi confida infatti cercando di entrare nella macchina di traverso – veramente
lo penso anch’io che non avrebbero niente in contrario se prendessimo la
macchina in prestito. E sai perché? Perché avevano l’aria di essere persone di
buon cuore, ecco perché.
…
I
sobborghi di Sunnydale sono una cosa strana: proprio quando pensi di esserti
lasciato alle spalle l’ultima villetta e di essere a un passo dalla superstrada
che scende a Sud verso Los Angeles, ecco che ti ritrovi in un altro quartierino
di casette a basso costo con davanti i loro portici bianchi e i loro
giardinetti ben curati. Se devo giudicare dalla completa assenza di luci alle
finestre o gli abitanti sono tutte persone fortunate che si stanno facendo una
bella notte di sonno senza essere interrotti da neonati piangenti o da denti
doloranti o da coniugi scansafatiche e nottambuli oppure se ne sono andati in
massa lasciando di guardia soltanto i nanetti di gesso nei giardini.
– Cribbio,
siamo ancora a Sunnydale! – esclamo seccata vedendo i contorni delle case alla
luce dei lampioni – Questa città sembra non finire mai.
– Come
vorrei non vederla più – sospira Sassassa alzando il testone per occhieggiare
dal finestrino.
Quasi che
la sua Fata Madrina stesse solo aspettando il momento di esaudire i suoi
desideri, non ha ancora finito di parlare che la luce dei lampioni si spegne e
l’intero quartiere piomba in un buio fitto e sinistro nel quale restano solo i
fari della nostra macchina ad aprire uno squarcio a forma di cono.
–
Cribbio – ripeto io in tono significativo.
– Non
sono stato io – si difende Sassassa come se io potessi pensare che lui tenga
nascosto nel suo borsello un congegno con cui può accendere e spegnere le luci di
Sunnydale a suo piacimento.
– Certo
che no. Adesso finalmente stai comodo? – gli chiedo girandomi a dargli
un’occhiata.
–
Abbastanza – dichiara il demone Sfreyano – Ma questo sedile qua dietro è
veramente lurido.
– Puoi
sempre toglierlo e buttarlo via proprio come hai fatto con quello davanti.
–
Spiritosa – brontola Sassassa. – Ehi, Tula – aggiunge come colpito da un’idea
improvvisa – Ce l’abbiamo la sirena?
–
Pensavo che l’idea fosse quella di non farci notare – osservo temendo che
cominci a schiacciare pulsanti a caso con le sue zampone come ha fatto prima
con la radio.
Menomale
che dalla centrale non ci ha risposto nessuno, sempre naturalmente che la
completa latitanza delle forze dell’ordine in tutta Sunnydale si possa
considerare un buon segno.
– OK,
adesso dovremmo esserci – dico rallentando per non rischiare di perdere lo
svincolo per l’autostrada e finire invece in mezzo al deserto.
–
Menomale – osserva Sassassa rigirandosi sul sedile per guardare attraverso il
lunotto posteriore gli ultimi segni della città che ci stiamo lasciando alle
spalle e io istintivamente serro le mani sul volante perché la macchina ha
ondeggiato sotto il suo peso come se fossimo su una barca in mezzo all’acqua
invece che su un veicolo in mezzo alla strada.
Se non
ricordo male, da questo punto in poi non ci sono più case in vista fino al
prossimo paese e l’unica cosa che incontreremo è una stazione di servizio che
sarà certamente chiusa, poiché mi risulta che non sia stata rifornita da almeno
una settimana.
– Vai
più forte, Tula.
–
Scherzi? Con questo buio non vedo un accidente e rischiamo di…
– Mi
spiace dovertelo dire ma abbiamo una macchina dietro – mi interrompe il demone.
– Eh? – esclamo
incredula, perché fino a questo momento il nostro viaggio si è svolto
attraverso strade completamente deserte.
Cerco di
sbirciare nello specchietto retrovisore ma Sassassa è troppo grosso e mi
impedisce la visuale.
“Beh”
penso ottimisticamente cercando di non perdere di vista la strada nonostante mi
sia quasi venuto un colpo “Forse non sono stata proprio l’ultima a lasciare
Sunnydale, forse…”
– E una
davanti – aggiunge il demone inferendo un colpo pressoché mortale al mio
ottimismo.
Veramente
quella davanti non è una macchina ma è un furgone; ma non mi sembra il momento
di discutere l’accuratezza della definizione con un demone Sfreyano che nel suo
mondo si sposta solo per via d’acqua.
È un
mondo molto umido, o almeno così mi dicono.
E non è
neanche esatto dire che abbiamo un furgone davanti a noi, perché questo farebbe
pensare che stia procedendo nella nostra stessa direzione di marcia: invece no,
il furgone si sta muovendo attraverso la strada come se ci fosse un incrocio o
come se stesse compiendo un’improvvisa inversione a U. Solo che qui non c’è mai
stato un incrocio e nel momento stesso in cui sono costretta a una brusca
frenata per evitare lo scontro mi rendo conto che anche l’ipotesi
dell’inversione di marcia è infondata e che questo è esattamente ciò che
temevo, cioè un agguato.
–
Cribbio – dice Sassassa.
Il mio
primo istinto è quello di chiudermi dentro la macchina e di conseguenza passo
qualche prezioso istante a combattere inutilmente con la sicura dello sportello
prima di ricordarmi che la serratura è rotta.
Subito
dopo l’automobile che ci stava seguendo – un grosso fuoristrada scuro – ci
viene addosso con un boato come se avesse rotto i freni o non ci avesse visto o
meglio ancora come se fosse proprio quello che il guidatore aveva in mente: io
vengo sbattuta bruscamente in avanti mentre la cintura di sicurezza mi
impedisce di sbattere contro il parabrezza ma mi toglie il fiato e Sassassa,
che non è agganciato perché la sua corporatura non rientra certo nei parametri
d’impiego delle cinture di sicurezza, viene catapultato dal sedile posteriore
direttamente contro il vetro, lo sfonda e finisce sdraiato a pancia in giù con
le gambe dentro la macchina e la parte superiore del corpo allungata sul cofano
anteriore.
La prima
sensazione che registro è il contatto del ginocchio destro con il fusto del
volante; poiché credo di aver preso anche una discreta botta al gomito sinistro
ho il tempo di meravigliarmi di non avvertire il lancinante dolore che di
solito segue infortuni del genere prima di capire che evidentemente il mio
cervello è così bloccato dalla paura che le sensazioni provenienti dalla
periferia del mio corpo non riescono ad arrivargli.
Sassassa,
che invece non sembra afflitto dallo stesso tipo di problema, sta alternando
lamenti inarticolati a parole che non capisco, con ogni probabilità
imprecazioni nel suo linguaggio nativo, che almeno a giudicare da ciò che sento
deve offrire un ampio ventaglio di opportunità in merito.
– Sassassa,
ti sei fatto male? – gli chiedo a bassa voce mentre cerco di liberarmi dalla
cintura di sicurezza.
–
Secondo te? – ritorce lui agitando tutte e quattro le zampe nel tentativo di
rientrare in macchina – Non capisco che cosa vo…
– Ma
guarda un po’ chi si vede – viene da fuori una vocetta stridula e maligna.
La mia
portiera viene aperta bruscamente e mi ritrovo con la luce di una torcia
sparata in faccia.
– Vieni
fuori, brutta strega.
“Oh mio
Dio, di nuovo i piccoletti” è il mio primo pensiero.
Il
secondo è che evidentemente sono salita nella loro considerazione se sono
passata da troia a strega.
Anche se
non penso che questo strega sia da intendersi alla Willow Rosenberg quanto in
un senso molto più popolare e prosaico.
Il terzo
non faccio in tempo a formularlo – il che se vogliamo è anche un bene – perché
mi tirano fuori dalla macchina strappandomi letteralmente dal mio posto mentre
la cintura di sicurezza cede finalmente con un plop dimostrando che in fondo ci
voleva solo un po’ di buona volontà.
Sono tre
anche questa volta, così somiglianti al terzetto dell’altra volta che penserei
che siano gli stessi se non sapessi quello che è successo dopo il nostro ultimo
incontro; quando abbassano la torcia per sbattermi con il mento contro la
cornice superiore della portiera mentre mi tengono le mani dietro la schiena
riesco a vedere abbastanza per capire che un altro dei loro è rimasto sul
furgone, seduto al posto di guida; posso anche sentire che ha acceso
l’autoradio e che sta sparando musica country a tutto volume.
Anche se
non è la prima volta che penso di stare per morire, potrebbe essere la prima
volta che la colonna sonora è perfettamente adatta alla circostanza, e mi
vergogno a dire che questa constatazione è sufficiente a farmi inumidire gli
occhi di lacrime di autocommiserazione. Pensandoci meglio dover sentire questa
roba sarebbe già di per sé un buon motivo per piangere. Un altro potrebbe
essere il modo in cui questi disgraziati mi stanno torcendo i polsi.
Visto
che sono appoggiata alla carrozzeria della nostra macchina – anche se
preferirei non doverlo fare col mento appoggiato sul bordo affilato della
cornice sopra la portiera – posso sentire distintamente l’ampio assortimento di
scricchiolii e di gemiti che accompagnano l’impresa con cui il mio amico
Sfreyano si rialza; penso anche che sia una mossa intelligente da parte sua
mettersi in piedi sul cofano anteriore così da troneggiare su questi
piccoletti, o per meglio dire lo penso finché la lamiera non comincia a cedere
sotto il suo peso, lui perde l’equilibrio e rotola giù dalla parte opposta
della macchina come uno di quei grossi pupazzi pubblicitari che si montavano
una volta alle fiere agricole. Solo facendo cento volte più baccano.
– Te la
facciamo pagare, schifosa bestiaccia – grida un demonietto punzecchiandomi la
spalla con uno di quei loro coltellini da Barbie che conosco così bene.
Sebbene
sappia per esperienza che la loro capacità di insultare lascia molto a
desiderare sia per varietà che per precisione, immagino proprio che dicendo
bestiaccia si riferiscano a Sassassa.
–
Prendilo, prendilo – incita un altro.
La voce
proviene da dietro la nostra macchina, quindi deduco che ne siano scesi degli altri
dal fuoristrada che ci ha tamponato; giro cautamente il collo e cerco di capire
quanti sono in tutto: tre qui con me, almeno uno sul furgone e altri quattro
alle prese con Sassassa. È facile per loro prendere un furgone o un fuoristrada
e ammucchiarsi dentro, bassetti come sono e con quelle gambette corte che non
portano via spazio: avrei voluto vederli se ci avessero dovuto sistemare uno o
due demoni Sfreyani.
Sassassa
ringhia ma è inutile sperare che si stia trasformando: evidentemente questa
volta la signorina Madison non gli ha rifilato una patacca ma buon antidoto
antidemoni mannari Sfreyani testato e certificato e anche se non ho mai capito
un acca del complicato sistema Sfreyano per misurare il tempo credo che
manchino come minimo delle ore alla prossima coincidenza astrale in cui
potrebbe scatenarsi un attacco di mannarismo. E per quanto i nostri assalitori
non brillino per sagacia, dovrebbero essere veramente più stupidi di ogni
ottimistica previsione per pasticciare con la linea temporale anche questa
volta.
Anche se
non posso vedere che cosa stanno facendo al mio amico che è rotolato sulla
strada dalla parte opposta, i miei guardiani, oltre che a punzecchiarmi qua e
là con la punta dei loro coltellini come una torta di cui si voglia saggiare il
grado di cottura, sono così gentili da tenermi aggiornata sull’andamento
dell’operazione scambiando incoraggiamenti e consigli con i compari che stanno
riducendo Sassassa all’impotenza. All’inizio il mio amico demone non sembra
molto d’accordo a lasciarsi immobilizzare e cerca di sfruttare a proprio
vantaggio l’enorme superiorità fisica; né si dimostra pronto a ridursi a più
miti consigli quando uno dei suoi assalitori si arrampica sul tetto della
macchina e comincia a picchiarlo sul testone con il cric – del resto so per
esperienza che Sassassa ha la testa straordinariamente dura tant’è vero che c’é
voluta tutta la forza di un vampiro armato di vanga per metterlo KO durante il
nostro primo incontro.
E dal
momento che anche ora, nonostante sia molto meno forte così che nella sua
versione mannara, Sassassa si sta difendendo validamente e sembra quasi poter
prevalere, gli incitamenti dei demonietti si moltiplicano sovrastando quasi la
musica country, per non parlare del flusso ininterrotto di insulti con i quali
continuano a questionare sulla mia moralità e a promettere che mi dovrò
pentire, anche se non ho ben capito di che cosa esattamente, dal momento che
non sono certo stata io a programmare questi nostri spiacevoli incontri e mi
sembra un po’ ingeneroso che se la prendano con me solo perché ho cercato di
salvarmi la pelle.
Poi mi
trascinano via dalla macchina e mi fanno inginocchiare per terra in modo che
Sassassa veda mentre mi puntano un coltello alla gola e allora mi rendo conto
che così come sospettavo il gioco leale non é una delle loro priorità.
– L’hai
capito che sgozziamo questa baldracca se non stai buono? – grida a Sassassa
quello che forse è il capo della spedizione o forse solo quello che ha la
treccia più lunga.
So di
parlare contro il mio interesse e soprattutto contro quello della mia gola, ma
a questo punto se fosse furbo Sassassa direbbe che per quanto lo riguarda
possono anche affettarmi come un salame o punzecchiarmi come un puntaspilli –
cosa più probabile visto le armi che hanno a disposizione – perché a lui la mia
sorte è del tutto indifferente; invece la sua tipica cavalleria Sfreyana lo
frega e non riesce a pensare a niente di meglio che ad afferrare per il collo
quello che ha appena parlato e a tenerlo sospeso a un metro da terra mentre
squittisce e diventa cianotico.
– Ah sì?
E se voi non la lasciate andare io gli spezzo il collo – replica Sassassa e tra
il pelo tutto arruffato della sua faccia si può ora distinguere un fiero
cipiglio guerresco – Che mi dite adesso?
Certo,
se anche in questa versione eroica non continuasse a sembrare un pupazzo per
bambini giganteschi l’effetto sarebbe migliore; ma il tizio che pende dalla sua
manona, e che si sta afflosciando a vista d’occhio a partire da quella specie
di proboscide che ha sulla fronte, non mi sembra molto attento a certi dettagli
e agita le sue braccine corte per far capire ai compagni che vedrebbe di buon
occhio una trattativa.
– Che
cosa proponi? – chiede rialzandosi da terra uno che finora non ha ancora
parlato forse perché era troppo occupato a rotolare sull’asfalto mentre
Sassassa lo prendeva a calci.
Io
vorrei suggerire a Sassassa di chiedere che ci lascino andare via tutti e due
offrendo in cambio del denaro – sto pensando ai miei ottocento dollari che mi
ha restituito poco fa e che sono nascosti in un calzino dentro alla mia borsa
da viaggio – ma ho appena cominciato a dire “Sass…” che un manrovescio mi
chiude la bocca.
–
Lasciala stare – protesta subito Sassassa tutto preso dal suo ruolo di paladino
e per meglio sottolineare le sue parole scrolla il suo ostaggio da una parte
all’altra come un barman che stesse preparando un cocktail. Sbaglierò, ma mi
sembra che vada persino a ritmo con la musica.
Poiché
sembra che il mio intervento nella trattativa non sia gradito sto zitta; ma non
credo proprio che tutto questo finirà molto bene per nessuna delle parti
implicate.
Forse i
demonietti sono stanchi di farsi picchiare da Sassassa o forse hanno solo
fretta di andarsene e di portarlo Dio solo sa dove. Può anche essere che non
abbiano dei progetti precisi sul mio conto o che la noia di insultarmi sempre
allo stesso modo cominci a farsi sentire: fatto sta che così rapidamente come
tutto questo è cominciato altrettanto rapidamente finisce. L’ostaggio viene
rimesso a terra, Sassassa costretto a salire sul fuoristrada che ci ha
tamponato e che ha riportato nello scontro solo danni modesti; i demonietti
cercano di aprire il baule della nostra macchina ma è così accartocciato che
riescono a sollevarlo solo in parte e devono accontentarsi di estrarre solo lo
zaino arancione fosforescente, che riscuote imprevedibilmente il loro
entusiasmo.
Io resto
lì come un’idiota in mezzo alla strada e guardo allontanarsi sia i rapitori che
il rapito in direzione opposta, di nuovo verso Sunnydale, mentre la musica
country li segue implacabile come il destino.
Povero
Sassassa, non mi hanno dato nemmeno il tempo di ringraziarlo o di scusarmi per
essere stata l’involontaria causa delle sue disgrazie.
L’ultima
immagine che ho del mio amico è di lui dentro il fuoristrada, l’enorme testone
che riempie il lunotto posteriore lasciando ai suoi rapitori, che lo affiancano
uno per parte, uno spazio così risicato che si prenderanno certamente un tremendo
torcicollo; mentre il furgone sta facendo manovra i suoi fanali illuminano per
un attimo la sua sagoma e vedo che si è girato a guardarmi. Forse sono pazza ma
giurerei che mi stia strizzando l’occhio.
Non
credo che l’automobile della polizia camminerà ancora, certo non prima che
siano stati raddrizzati i parafanghi penzoloni, sostituiti i due copertoni
posteriori e riallineati i mozzi delle ruote; a quel punto rimarrebbe solo da
rimettere tre vetri su sei e rifare completamente la carrozzeria posteriore,
scocca compresa. In altre parole, ormai non ha davanti a sé che lo
sfasciacarrozze ed è questo il motivo per cui forzare quello che resta del
cofano con il cric non mi fa né caldo né freddo. Anzi, quando riesco a
riprendere la mia borsa da viaggio e a rimettermela in spalla provo quasi una
fuggevole sensazione di sollievo, nonostante adesso il mio cervello mi stia
regolarmente notificando che mi fanno male il ginocchio destro, il gomito
sinistro, il labbro e anche un punto sopra il fegato in cui sono stata contusa
dalla cintura di sicurezza.
Nonostante
tutto posso ancora camminare. Il problema è decidere che direzione prendere.
Se fossi
più lontana dalla superstrada, forse tenterei di tornare indietro verso
l’abitato e di cercare rifugio almeno fino a domattina in una delle prime case.
Immagino che dopo essermi impossessata di una macchina della polizia rompere il
vetro della finestra di una casa non costituisca più un problema per me.
Ma
l’istinto di lasciare Sunnydale è troppo forte e mi trascina, un passo dopo
l’altro, verso la salvezza e prima di poterlo decidere razionalmente sto già
camminando lungo il ciglio della strada che porta verso Los Angeles.
All’inizio
non va molto male: anche se sono completamente sola gli avvenimenti della
serata mi hanno insegnato ad apprezzare un po’ di solitudine.
Ma la
solitudine significa anche che ho molto, moltissimo tempo per pensare alla mia
situazione; e la prima cosa che mi viene in mente è che procedendo a piedi ci
vorrà molto, moltissimo tempo anche solo per lasciare veramente Sunnydale.
…
Adesso
sono veramente spaventata. Non che prima non fossi spaventata, ma non era
niente rispetto a come sono spaventata adesso.
Continuo
a dirmi di pensare chiaramente ma non riesco a pensare più chiaramente di
qualcuno che stia affogando: tutto quello che mi viene in mente è solo che sto
per fare un’orribile morte prematura.
Anzi, se
stessi affogando sarei forse meno terrorizzata: mio padre da bambino rischiò di
annegare e assicura che in quell’occasione vide tutto bianco e perse conoscenza
senza provare né dolore né paura finché qualcuno non lo tirò fuori dall’acqua e
cominciò a fargli sputare acqua dai polmoni.
Io
invece dubito fortemente che morirò senza provare né dolore né paura; in quanto
al vedere tutto bianco non se ne parla neppure perché al contrario sono
circondata da quell’oscurità assoluta che si verifica solo durante un black–out
.
Quando
sento il rombo del motore e vedo le luci dei fanali mi immobilizzo come un coniglio
spaventato, riuscendo solo a pensare che non so decidere se devo nascondermi o
farmi vedere. Che se devo nascondermi non c’è un posto in cui possa
nascondermi. E che se non riesco a farmi vedere perderò l’ultima occasione di
lasciare Sunnydale.
Quando
la macchina si ferma, comincio a pregare.
Dio mio,
aiutami. Forse è un po’ tardi per prometterTi che in cambio sarò buona e mi
comporterò sempre bene ma io ci provo lo stesso.
Sento
aprirsi la portiera dal lato del guidatore. E poi la sento richiudersi con un
tonfo.
Se non
vuoi salvarmi la vita, Signore Iddio, fammi almeno morire in fretta.
I passi
scricchiolano sulla ghiaia della banchina mentre resto immobile con la testa
china e la maniglia della borsa da viaggio che s’infradicia di sudore.
Non
voglio guardare, Signore, non voglio guardare chi sta venendo a prendermi: non
credo proprio che sia un Tuo emissario con le ali e una spada fiammeggiante.
– Ti
serve un passaggio?
Sono
così spaventata che i miei occhi fanno fatica a mettere a fuoco la figura che
mi si para davanti e che alla luce dei fari mi sembra solo un’enorme ombra
scura.
Lo
sconosciuto si china verso di me e mi chiede gentilmente: – Che cosa è
successo?
Alzo
lentamente la testa come una scolaretta timida che venga interrogata dalla
maestra e intravedo una camicia scura sotto una giacca nera poi un collo largo
due palmi e la faccia squadrata eppure piacente di un grosso giovanotto con
fitti capelli neri e onesti, dolci occhi scuri che in questo momento mi stanno
scrutando come se fosse veramente ansioso di aiutarmi.
– Eh?
Lo so,
non è un granché come risposta. Potrei fare certamente di meglio se solo
scoprissi dove è andata a finire tutta la saliva che di solito circola per la
mia bocca.
– Che
cosa ci fa in mezzo alla strada una… persona tutta sola in una notte come
questa?
Non so
che cosa sia a tranquillizzarmi, se il fatto che abbia detto persona invece di
ragazza o il taglio perfetto della sua giacca o qualche particolare altrettanto
insignificante della sua voce o della sua persona.
– Stavo
andando via. – rispondo finalmente con una vocina che sembra la metà della mia
voce abituale. Una risposta vaga ma sincera.
–
Anch’io – mi sorride in modo impercettibile – Vado a Los Angeles: vuoi un
passaggio?
Lo so: una
ragazza sola non dovrebbe accettare un passaggio da uno sconosciuto. Si tratta
di una buona regola, largamente nota e convalidata da un’infinità di storie
raccapriccianti su quello che capita alle imprudenti fanciulle che non la
seguono.
Ma una
ragazza sola non dovrebbe nemmeno restare a Sunnydale in questa notte di
maggio: e qualcosa mi dice che se infrangessi questa regola un domani
potrebbero esserci in giro storie raccapriccianti su di me.
– Mio
Dio, certamente. – rispondo con un sospiro di sollievo.
…
Il mio
compagno di viaggio non è un tipo loquace. Non gli piace ascoltare la musica
mentre guida perché tiene l’autoradio a volume bassissimo e sintonizzata sui
notiziari. Se prevede che al giornale radio parlino di quello che sta accadendo
a Sunnydale si sbaglia, ma forse non è quello che si aspetta. Mi ha preso la
borsa da viaggio dalle mani, l’ha messa sul sedile posteriore, mi ha
cortesemente tenuto aperta la portiera e io sono salita.
Non so
ancora se dovrei temere la sua compagnia ma capisco subito che non devo temere
la sua guida perché è il miglior autista che abbia mai incontrato, dotato di
una grazia fluida e di un occhio sicuro come non ne ho mai visto l’eguale;
l’automobile è una gloriosa vecchia Plymouth GTX ben tenuta, nera con gli
interni di pelle chiara e la capotte abbassata e fila veloce sulla strada
monotona che porta a Los Angeles senza incontrare praticamente traffico mentre
grandi nuvole sfilacciate si spostano pigramente nel cielo notturno.
Si sta
veramente bene qui, così bene che forse potrei cedere alla stanchezza e farmi
un pisolino in questo sedile ampio e comodo, rivestito di lussuosa pelle color
crema, mentre dall’autoradio il ronzio dei notiziari ha ceduto il passo al
suono rilassante di pezzi di musica classica: sembra quasi di essere dal
dentista.
Chiudo
gli occhi e penso a mio padre, che a quest’ora sarà ormai in Texas insieme ai
coniugi Bliss; ad Andrew accampato a casa Summers; a Sassassa e ai suoi
rapitori e a chi di loro sia messo peggio. Penso a Sunnydale, intatta e vuota
come una città colpita dalla bomba ai neutroni; e a Thomas, che sta dormendo il
sonno del giusto dopo una giornata di duro lavoro in chissà quale remota
cittadina agricola, magari con una bella bionda a fianco a fargli compagnia.
Penso a Detroit e a come non ci farà poi tanto caldo anche se ormai è maggio
inoltrato.
Credo
anche di aver dormito per un po’ di tempo perché mi sveglio di soprassalto con
le braccia gelate; la piacevole frescura si è trasformata ormai in una
fastidiosa sensazione di freddo; apro gli occhi, vedo le stelle in cielo e come
sempre succede quando si guardano quelle gelide fonti di luce mi viene ancora
più freddo.
Sbircio
il mio compagno di viaggio e vedo il suo profilo regolare e gradevole. Sembra
perfettamente immobile e tiene la mano – liscia come quella di chi non ha mai
fatto un giorno di lavoro manuale in vita sua – morbidamente appoggiata sul
volante; non ho fatto nessun rumore, eppure si gira impercettibilmente verso di
me e mi chiede: – Hai freddo? Devo alzare la capote?
Vorrei
rispondere di sì, poi penso che se quest’aria gli avesse dato fastidio ci
avrebbe già pensato per conto suo ad alzare la capote: magari è originario di
qualche stato del Nord dove nevica sei mesi all’anno e questo clima
californiano è un supplizio per lui. Finora ha parlato così poco che non sono
ancora riuscita a capire che cosa sia quella lieve inflessione che di tanto in
tanto affiora sotto la sua parlata standard.
– No,
prendo io una giacca – replico e mi giro per cercare qualcosa di adatto nel mio
bagaglio.
Ma
proprio perché i sedili sono così ampi e d’altra parte le mie braccia sono
abbastanza doloranti, dopo aver annaspato inutilmente con la mano allungando la
spalla all’indietro più che posso per tentare di raggiungere la mia borsa mi
rendo conto che non ci riuscirò mai a meno di mettermi in ginocchio sul sedile
volgendomi in direzione opposta a quella di marcia.
Ed è
mentre mi sposto verso di lui mentre cambio posizione che me ne accorgo.
Non lo
vedo nello specchietto retrovisore.
Il mio
cuore smette di battere per un istante. Ottimo, penso, così adesso siamo in due
a non avere un battito in questa macchina.
– Che
cosa c’è?
Accidenti,
si deve essere accorto con il suo super udito che ho saltato un battito:
vampiri, ideali come infermieri nel vostro reparto di cardiologia. A parte il
piccolo inconveniente che si mangeranno i vostri pazienti, naturalmente.
Potrei
buttarmi giù dalla macchina in corsa e sperare di non venir travolta da un
altro veicolo o di non lasciare metà della mia pelle sull’asfalto; potrei usare
la croce che porto al collo per cercare di bruciargli gli occhi; potrei tentare
di dargli fuoco usando l’accendisigari della macchina. Sono tante le cose che
potrei fare ma la realtà è che non farò un bel niente perché sono troppo
stanca.
Sono
stanca di sotterfugi, stanca di scappare e stanca di affrontare pericoli a cui
sono destinata prima o poi a soccombere: in breve, sono l’immagine speculare di
Sunnydale e ho dentro di me lo stesso vuoto che ormai la contraddistingue.
Sto
zitta, immobile e tremante, sperando ancora che possa attribuire il mio tremito
al freddo e non alla paura ma allo stesso tempo non ci faccio gran conto, dato
che dicono che i vampiri siano in grado di avvertire l’odore della paura.
Forse è
proprio il suo olfatto a fargli capire che ho capito, o forse più prosaicamente
si rende conto che dalla posizione in cui mi trovo dovrei poter vedere la sua
immagine riflessa nello specchietto retrovisore.
– Sì,
sono un vampiro – dice riportando lo sguardo sulla strada.
Ecco, ci
siamo.
– Ma non
devi aver paura di me.
No?
Magari la mia fama è arrivata fino a lui e da me non vuole sangue quanto un
buon taglio.
– Io
sono diverso – chiarisce il vampiro – Io ho un’anima.
Questa
volta resto veramente di stucco. Due vampiri con l’anima in tutto il mondo e mi
hanno salvato la pelle tutti e due: se non è fortuna questa, ditemi voi che
cosa lo è.
– Ah, ho
capito – esclamo sollevata – Allora tu sei l’altro vampiro con l’anima!
Ricordate
quello che vi avevo detto sulla sua guida dolce e senza scosse? Dimenticate
tutto perché ha dato un tale colpo sul freno che la macchina si è messa di
traverso sulla strada.
– Io non
sono l’altro vampiro con l’anima! – mi grida nelle orecchie non appena lo
stridio dei freni sull’asfalto ha smesso di assordarmi.
Poiché
questa vecchia macchina non ha le cinture di sicurezza è una vera fortuna che
mi fossi girata per raggiungere la mia borsa, altrimenti a quest’ora mi sarei
spiaccicata con la faccia contro il parabrezza.
Così
invece quando il vampiro ha frenato all’improvviso sono solo rotolata giù dal
sedile e sono finita sul tappetino in una scomoda e imbarazzante posizione a V
dalla quale riesco a districarmi a fatica e solo grazie al suo aiuto.
– È lui
l’altro vampiro con l’anima – precisa imbronciato mentre mi tira su di peso e
mi risistema sul sedile come se fossi un manichino.
È una
fortuna anche che non avessimo un altro veicolo subito dietro di noi,
altrimenti un bel tamponamento non ce lo avrebbe levato nessuno. Sarebbe stata
una specie di record, due tamponamenti nella stessa serata. Come si fa, a
proposito, se si ha un incidente stradale mentre si viaggia con un vampiro?
Mettiamo che sbatta la testa sul cruscotto e svenga: cosa fai, se sei ferita ma
cosciente? Chiami un’ambulanza, così quando gli sentono il polso lo mettono
dentro un sacco nero e te lo portano via sotto il naso? Oppure te ne stai lì ad
aspettare che rinvenga e intanto continui a dissanguarti così quando quello
putacaso si sveglia con l’amnesia sei già pronta a fargli da colazione?
Io non
dico niente ma evidentemente la mia espressione parla per me perché lui mi
spolvera un po’ i vestiti con le mani e dice: – Ti prego di scusarmi. Ehm, non
ti sei fatta niente, vero?
– No.
Non volevo essere… scortese.
Rimette
in moto scuotendo la testa: – No, non è colpa tua; è solo che Spike… certe
volte penso che esista solo per farmi diventare matto.
– Non
sei il solo a pensarlo – ridacchio io – Spike può essere piuttosto irritante.
Con o senza anima.
– Lo
conosci bene.
– Lui ma
soprattutto i suoi capelli – chiarisco io – Faccio la parrucchiera. E visto che
non ci siamo ancora presentati: mi chiamo Tarantula. Veramente, mi chiamerei
anche Taylor Peters.
– Io
sono Angel. E ho avuto altri nomi, ma ormai non contano più.
– Vita
nuova, nome nuovo – concordo gravemente – Capisco perfettamente.
– Non mi
sei sembrata particolarmente sorpresa quando ho detto di essere un vampiro –
dice Angel dopo un po’ che ha ripreso a guidare in silenzio.
Io nel
frattempo ho preso la giacca dalla borsa e mi sono coperta; adesso che non ho
più freddo, comincio ad accorgermi che ho fame.
– Forse
perché anche mia madre è un vampiro – mi esce detto prima ancora che mi renda
conto dell’effetto che può avere questa frase.
La sua
reazione è inaspettata: – Davvero? E come ha fatto a…
–
Ovviamente è diventata un vampiro dopo la mia nascita. – gli spiego un po’
incerta.
Come può
venirgli in mente che io intenda dire di essere nata dal grembo di una vampira?
Devo dire che l’altro vampiro con l’anima che conosco mi sembra più acuto.
– In
effetti avevo nove anni. I vampiri non possono avere figli, giusto? Dato che
sono, sì, insomma, morti.
– Sì,
certo, naturalmente non possono – conferma.
Silenzio.
Comincio a rendermi conto che una conversazione con quest’uomo è come una
partita di ping–pong in cui si facciano spesso lunghe pause durante le quali si
va alla ricerca della pallina.
– Hai
continuato a vedere tua madre dopo che è diventata un vampiro?
– Di
tanto in tanto. Mi telefona. Mi manda soldi per il mio compleanno. Cose così.
Tu hai continuato a vedere la tua famiglia dopo essere diventato un vampiro?
– Io ho
mangiato i miei genitori e mia sorella – mi dice.
Immagino
che la mia solidarietà dovrebbe andare a questi poveri disgraziati dei suoi
consanguinei, eppure c’è qualcosa nelle sue parole che mi fa sentire in dovere
di confortarlo.
–
Magari, se tu avessi avuto un bambino… – gli dico intendendo che l’amore
paterno avrebbe potuto essere più forte dell’istinto di uccidere.
Dopotutto
io sono la testimonianza vivente che l’amore materno può esserlo; ma lui non accetta
la scappatoia che gli ho appena offerto.
– Per
fortuna non lo avevo – replica asciutto dopo averci pensato su un mucchio di
tempo.
Non c’è
molto che io possa dire a questo punto perciò sto di nuovo zitta; ma ormai ho
troppa fame per riuscire a dormire di nuovo.
– Dove
siamo? – chiedo dopo un po’.
– Circa
a metà strada da Los Angeles, direi. C’è un locale più avanti che è aperto
tutta la notte: vuoi che ci fermiamo?
–
Sarebbe splendido, grazie. Vorrei proprio mettere qualcosa sotto i denti.
La
tavola calda davanti a cui ci fermiamo è uno di quei posti aperti tutta la
notte dove puoi incontrare sia camionisti che agenti della polizia stradale
seduti fianco a fianco e attenti a non incrociare mai lo sguardo: in pratica
una sorta di santuario in cui vige una precaria tregua dedita al consumo di
ciambelline e di caffè. Gli officianti nel momento in cui entriamo consistono
in un paio di cameriere avanti con gli anni, mentre sugli sgabelli davanti al
bancone poggiano sederi variamente fasciati in diverse gradazioni di tessuto
jeans e una coppia sovrappeso mastica metodicamente a uno dei tavoli davanti a
un assortimento di portate caloriche ed indigeste da cui ricavo la confortante
nozione che qui si può mangiare sul serio anche a quest’ora della notte.
Angel si
guarda attorno e mi guida a un tavolo che a prima vista non ha niente di
speciale che lo distingua dagli altri; quando si siede a un’estremità della sua
panca mi accorgo però che quella è probabilmente l’unica posizione da cui si
possano vedere sia l’ingresso, che la porta che dà sul retro, che quella che
porta in cucina. Per la prima volta da quando questo pomeriggio ho promesso ad
Andrew che avrei tentato di lasciare Sunnydale al più presto, mi sento
veramente al sicuro: bella cosa i vampiri con l’anima, se non esistessero
bisognerebbe inventarli.
– Non so
se troverai qualcosa che ti va – mi dice porgendomi la lista – Temo che qui una
dieta sana non sappiano nemmeno che cosa voglia dire.
–
Magnifico, perché non lo so nemmeno io – rispondo scorrendo il menù in cerca di
quello che mi consentirà di ingurgitare il maggior numero di calorie possibile
nel tempo più breve possibile – Sei già stato qui altre volte?
–
Nell’ottobre di due anni fa – mi risponde e come al solito non aggiunge dettagli.
Dal
momento che mi ha salvato da una morte orribile non voglio rompergli le scatole
con le mie chiacchiere e perciò tengo la bocca chiusa mentre studio la lista
dei piatti a giudicare dalla quale si direbbe che qui o non sappiano che cosa
sia il colesterolo o confidino in un rapido ricambio della clientela.
Nel
frattempo Angel rimane immobile a guardare il vuoto davanti a sé con quella
fissità che denota una lunga pratica; dopo un po’ si riscuote e mi fa la
domanda che mi aspettavo che prima o poi sarebbe venuta.
– Che ci
facevi ancora a Sunnydale, Tarantula, dopo che tutti gli abitanti più o meno
senzienti se ne sono andati da un pezzo?
–
Sfortuna. E tu che ci fai fuori da Sunnydale, adesso che solo gli eroi sono
rimasti?
Si rabbuia;
e visto che già normalmente è discretamente tenebroso rabbuiarsi nel suo caso
significa diventare cupo come una notte senza luna.
– Lei mi
ha chiesto di tornare a Los Angeles per preparare il secondo fronte. Casomai le
cose andassero male.
Non c’è
bisogno di chiedere chi sia lei.
–
Prenderò solo un toast, allora. Immagino infatti che non avrai tempo da perdere
a nutrire parrucchiere vagabonde e disoccupate.
– Non ti
preoccupare. A me piace nutrire la gente – mi risponde distrattamente, perché
evidentemente la sua mente è altrove, poi mi guarda sorpreso da ciò che mi ha
detto e aggiunge: – È vero che mi piace.
– Sarà
perché in altri tempi te ne nutrivi – dico io d’impulso prima di fare
goffamente marcia indietro: – Scusami: non ho saputo resistere.
Lui non
ride alla mia battuta come avrebbe fatto Spike ma nemmeno si offende; mi guarda
tristemente e mi dice senza prendersela: – Tu mi ricordi un po’ una persona:
anche lei non può fare a meno di dire quello che le viene in mente.
– È una
brava ragazza?
– La
migliore – dichiara in un tono che mi fa pensare che ci sia del tenero e, se
non avesse usato il presente, mi porterebbe anche a credere che la poveretta
non sia più tra noi.
– Che
cosa le è successo?
– Che
cosa non le è successo… Lavorava per me. Le persone che lavorano per me tendono
a fare una brutta fine.
– Lo
terrò presente, casomai tu aprissi un salone e mi offrissi un posto. Forse però
in questo caso dovresti lavorare da solo.
– Ci ho
provato, ma sembro attrarre collaboratori come una calamita.
– Sarà
perché hai le qualità naturali del leader – azzardo io perché ho l’impressione
che gli faccia piacere sentirselo dire: dopotutto mi ha portato lontano dalla Bocca
dell’Inferno, un po’ di adulazione è il minimo che possa fare per ricambiare.
In alternativa potrei anche offrirgli un taglio decente, ma francamente non mi
sembra né il momento né il luogo opportuno.
…
La
cameriera, una donna grassoccia di mezza età, viene a dirmi che la torta di
mele è finita e mi chiede se può portarmi al suo posto delle fragole con la
panna montata.
Io
vorrei solo che non perdesse tempo e si sbrigasse ad arrivare con la mia
bistecca prima che io svenga dalla fame e acconsento. Nel frattempo ci ha
portato due tazze di caffè e un pacchetto di patatine fritte che le strappo
letteralmente di mano prima ancora che lo metta sul tavolo.
– Venite
da Sunnydale? – ci chiede invece di andarsene ad occuparsi della mia bistecca.
– No –
rispondo io con la bocca piena di patatine.
– Sì –
dice Angel lanciandomi un’occhiata di rimprovero.
Si vede
che non ha mai avuto molto a che fare con cameriere da tavola calda, cosa che
del resto non sorprende dal momento che non ha bisogno di mangiare.
– Si può
sapere che cosa sta succedendo laggiù? Sono passati di qua a migliaia come se
stesse per crollare la diga o che so io, e non c’è stato verso di farsi dire da
che cosa esattamente stessero scappando.
–
Tornado – rispondo io tra un colpo di tosse e l’altro.
Mi si
deve essere incastrato un frammento di patatina in gola, ma che importa? Non ho
mai mangiato delle patatine così buone in vita mia, tanto che mi riprometto di
prendere nota della marca per poterle ricomprare.
–
Bradisismo – dice Angel contemporaneamente a me.
La
cameriera ci guarda con compatimento, scuote la testa e va via.
– È
quando il terreno si muove – mi spiega il vampiro – Non dovresti ingozzarti
così. Almeno non credo che dovresti farlo.
Il caffè
è fin troppo caldo e mi sembra buono quasi quanto quello di Willy, o forse sono
solo io che troverei di mio gusto qualsiasi liquido anche vagamente
commestibile. In effetti Angel fa una faccia strana mentre lo beve: suppongo
però che lui non abbia pranzato con una scatola di crauti e saltato la cena, ma
che abbia invece regolarmente consumato le sua razioni di sangue di maiale. Mi
chiedo anche se quando viaggia si prepari i thermos e li metta nella borsa
refrigerata come si fa con i biberon quando ci sono dei bambini piccoli.
…
– Così
non sei americano, vero?
–
Irlandese – replica – Ma credevo che l’accento non si sentisse più.
– Non si
sente – lo tranquillizzo io – però si capisce che non sei nato da queste parti.
– Perché
ti sto raccontando tutte queste cose? – mi chiede.
Tutte
queste cose francamente mi sembra un’espressione un po’ esagerata: conosco
gente, con o senza battito e con o senza anima, che nello stesso tempo mi
avrebbe raccontato morte e non–morte di sé e di mezza Sunnydale.
– È colpa
del mio mestiere – gli spiego comunque – la gente tende a confidarsi con il suo
parrucchiere.
– Non
col mio: con l’età é diventato piuttosto sordo.
Che il
collega oltre che diventare un po’ sordo sia diventato anche un po’ cieco
spiegherebbe effettivamente molte cose sul modo in cui Angel tiene i capelli.
Qualcuno dovrebbe o fargli una fotografia o dirgli qualcosa.
“Un buon
parrucchiere” diceva sempre Monsieur Alexandre “è come Robin Hood: toglie dove
c’è troppo per dare dove manca.” In altre parole: è tutta questione di volumi.
– Beh,
del resto non sono molti i saloni in cui servono persone che non si riflettono
nello specchio – osservo.
– E di
solito per lo più le servono in retrobottega male illuminati.
– Sono
pochi i posti fuori di Sunnydale attrezzati a soddisfare una clientela così
particolare.
– A
proposito: hai già deciso cosa fare una volta arrivata a Los Angeles? Dove ti
devo accompagnare?
– Ho una
specie di invito da parte di amici – rispondo pensando ai parenti della mia amica
Dolores – Ho l’indirizzo in macchina.
– Il
tipo di amici che si butterebbe nel fuoco per te oppure…
–
L’altro.
– Posso
trovarti io un posto sicuro in città.
–
Perché?
– Perché
cosa?
– Perché
faresti questo per me.
– Perché
é quello che faccio: aiutare la gente che non ha nessun altro che la aiuta.
– Suona
bene: hai mai pensato di farne uno slogan?
…
– Scusa
se te lo chiedo, ma hai per caso conti in sospeso con la giustizia? – mi chiede
Angel improvvisamente.
–
Perché?
Mi giro
leggermente seguendo la direzione del suo sguardo e mi accorgo che è appena
entrato nel locale un paio di poliziotti – il tipico abbinamento nero attempato
e bianco giovane dei telefilm – e che il primo dei due non mi toglie gli occhi
di dosso mentre beve il suo caffè con il gomito appoggiato al banco.
Riporto
lo sguardo su Angel che sta ancora aspettando una risposta.
Non so
se prendere in prestito una macchina della polizia abbandonata costituisca una qualche
forma di reato; smontarne i sedili e buttarli fuori probabilmente è vandalismo
anche se non ne sono sicura; in ogni caso non penso che farei una buona
impressione se chiedessi delucidazioni, e nemmeno se dicessi che è stato un
demone Sfreyano ad avere l’idea e che comunque agivamo entrambi in quello che
credo si chiami stato di necessità.
– Non lo
so – dico – non credo.
E
veramente non credo che nessuno dei tutori della legge di Sunnydale abbia
assistito al mio breve e sfortunato viaggio a bordo di una delle loro
automobili; e in quanto all’introdursi in proprietà altrui, partecipare a risse
e spacciare sostanze magiche illegali – tutte cose che ho fatto ultimamente – o
non c’erano testimoni oppure ero stata gravemente provocata.
Per
quanto riguarda un passato più lontano, se anche qualche volta ho trasgredito
la legge non si trattava di niente di importante; e cosa più rilevante ai fini
di una risposta onesta alla domanda di Angel non mi hanno mai preso. A Houston
poi mi sono comportata come una cittadina modello e a meno che la signora Gomez
non mi abbia denunciato per averle fatto i capelli viola – che comunque le
stavano benissimo – sono assolutamente sicura di non avere niente da temere
dalla sbrigativa macchina giudiziaria texana.
Non so se
il vampiro mi abbia creduto: il suo sguardo è impenetrabile come sempre.
– Forse
quel poliziotto mi guarda perché gli piaccio? – ipotizzo mentre l’effetto
cumulativo di troppi film incentrati su agghiaccianti e talvolta fatali errori
giudiziari si fa sentire aumentando istantaneamente la mia sudorazione.
Angel
non risponde ma mi guarda di nuovo in silenzio in modo che definirei veramente
molto poco lusinghiero, se non fosse verissimo che il mio tipo non incontra
molto tra gli afro americani di mezza età.
– OK,
non sembro il suo tipo. Sei almeno sicuro che non stia guardando te?
–
Nemmeno io credo di essere il suo tipo – replica il vampiro – Andiamo?
– Sì,
certo. Ecco, sono pronta – rispondo dopo aver ingoiato in un solo boccone tutto
quello che resta della mia coppa di fragole e che non era poco.
Angel si
è già alzato e mi copre completamente la visuale verso l’agente – il che data
l’imparzialità delle leggi dell’ottica significa che allo stesso tempo
impedisce al poliziotto di vedere me; pensando che questo pover’uomo ha solo
bevuto un caffè che non gli è nemmeno piaciuto mentre io sono riuscita a
spazzolarmi un intero pasto lascio sul tavolo i soldi per pagare il conto prima
di alzarmi. O che il vampiro condivida la mia valutazione o che sia un taccagno
o che stia semplicemente pensando ad altro, non perde tempo a fare complimenti
ma mi prende per il gomito e mi spinge verso l’uscita così ce ne possiamo
andare passando davanti ai poliziotti ciarlando come se non avessimo una
preoccupazione al mondo. Anche se la parte in cui si ciarla tocca tutta a me,
mentre lui si limita a stare zitto con quell’aria vagamente stolida che la
maggior parte degli uomini prende davanti a una donna che parla a ruota libera
e che ci fa gioco come e anche meglio che se partecipasse alla conversazione.
Siamo
già fuori quando l’altro poliziotto – quello bianco e giovane di cui volendo
potrei anche essere il tipo, sempre che a me fossero mai piaciuti i piccoletti
grassottelli con la pelle butterata e un’incipiente calvizie – mi mette una
mano sulla spalla. Angel si gira di scatto, apre la bocca per dire qualcosa, la
richiude istantaneamente come vede la divisa e sorride: è un’imitazione così
perfetta del bravo ragazzo pronto a difendere la sua compagna da eventuali molestie
e sollevato dal trovarsi invece di fronte a un tutore della legge che quasi
quasi ci cascherei anch’io. Ha ancora una mano sul mio braccio e posso sentire
che si è irrigidito, pronto ad intervenire se fosse necessario, e non posso
negare che questo mi faccia sentire molto meglio di come mi sento di solito
quando la polizia si interessa ai miei andirivieni. Ma bisognerebbe conoscere
la polizia di Sunnydale per potermi capire veramente.
– Mi
scusi, signorina – mi dice l’agente – Viene da Sunnydale?
Ahia.
Non ho niente in contrario a mentire ai poliziotti – non potrebbe essere
diversamente dopo aver frequentato George per tanto tempo – ma non so da dove
diavolo potrei dire invece di venire: il più delle volte dire la verità è solo
segno di scarsa fantasia.
– Sì,
perché?
– È vero
che la città è praticamente deserta?
– Sì.
– Posso
chiederle come si chiama?
–
Perché? – chiede Angel prima che io possa parlare.
Il
poliziotto di colore, che fino a questo momento è rimasto a guardarci in silenzio
fermo davanti alla porta del locale, si avvicina.
– Perché
no? – chiede a sua volta.
– Perché
per combinazione io sono il direttore di un grande studio legale di W&H che
tiene molto alla tutela della privacy?
– Un
avvocato – dice il poliziotto e non so proprio come sia riuscito a mettere
tanti significati dentro una singola parola di quattro sillabe, nessuno dei
quali lusinghiero verso gli esponenti della professione forense.
– Non ho
mai detto di essere un avvocato – chiarisce Angel – Avvocati sono quelli che
lavorano per me.
–
Facciamola finita – intervengo io – Che importa se gli diciamo come mi chiamo?
Non viaggio mica in incognito. Taylor Peters. Volete vedere la mia patente di
guida?
–
Secondo me non le assomiglia per niente – dice il poliziotto bianco rivolto al
collega.
– La
descrizione combaciava – obietta questi.
–
Bianca, capelli e occhi scuri, altezza media, si veste di scuro? La descrizione
combacia con metà delle ragazze che ci sono in giro – protesta il piccoletto –
Vada pure, signorina; e ci scusi tanto.
Mentre
ci allontaniamo sento ancora il poliziotto di colore discutere con il suo
collega: – Come fai a dire che non è lei?
– Ma ti
sembra un accento di Boston, quello?
Angel sta
ascoltando attentamente e io rallento istintivamente per poter sentire,
dimenticandomi delle sue eccezionali facoltà sensoriali.
– Un
accento si cambia – protesta il più anziano.
– Sì,
certo. Ma stammi a sentire: tu quella lì l’avresti mai definita un vero
schianto?
Ehi.
Ma si è
visto lui?
Mentre
mi guida verso la macchina Angel mi lancia un’occhiata e la mia espressione
dev’essere eloquente; noto che gli brillano gli occhi e che gli angoli delle
sue labbra si alzano in un sorriso divertito: evviva, sono riuscita a farlo
ridere, forse ho vinto un animale di pezza.
Da vero
gentiluomo, non commenta; ma per la seconda volta questa notte mi tiene aperto
lo sportello della macchina mentre mi accomodo.
–
Davvero hai uno studio legale alle tue dipendenze?
– Temo
di sì. Hai per caso ammazzato qualcuno?
– No. No
– ripeto ridendo nervosamente quando mi accorgo che questo rientra per lui nel
novero delle possibilità – Però gli avvocati servono anche a cercare le
persone, non è vero?
– Certo.
– Come
quando cercano gli eredi scomparsi, no?
– Sei tu
l’ereditiera?
Meglio
non soffermarsi troppo a riflettere sul suo tono di incredulità: le conclusioni
potrebbero non essere lusinghiere per il mio amor proprio.
– No. Ma
se mi vuoi veramente aiutare, potresti trovare una persona per me.
Annuisce:
– Questo è facile.
– Anche
se quella persona fosse a Detroit?
– Sì.
Mi
appoggio allo schienale e chiudo gli occhi.
Per il
momento sono comodamente seduta con la pancia piena di bistecca, patatine e
fragole ma presto saremo a Los Angeles; il mio compagno di viaggio non solo non
mi assorda con le sue chiacchiere ma può anche difendermi da qualsiasi minaccia
potrebbe presentarsi o quasi; mi ritrovo con ottocento dollari in tasca senza
contare che potrò guadagnarmi da vivere con il lavoro delle mie mani
praticamente dovunque tranne che in un paese di calvi.
La vita
non sembra poi così male.
Che
Sunnydale vada pure all’inferno.
Io
invece andrò a Detroit.
C’è là
qualcuno a cui voglio proprio dire di persona che undici anni di menzogne mi
sembrano veramente troppi anche per chi nel frattempo non è invecchiato.
FINE