AVIDA MORTE

Di Sallybrown

 

 

"Qui, oh, qui voglio avere il mio eterno riposo e togliere dal giogo delle avverse stelle questo mio corpo stanco della vita ... Avida morte, ecco il tuo contratto! " Romeo "Romeo e Giulietta" W. Shakespeare

 

Il suo viso era scivolato in una pozzanghera. La fanghiglia gli penetrava l'orecchio, le narici, la bocca. I capelli scomposti gli coprivano il viso. Sentiva l'acqua entrargli in gola, il respiro rantolante. Non ricordava che piovesse, ma ora sentiva il suo corpo freddo tempestato da gocce gelide e pesanti. La creatura sembrava apparentemente sparita. Si era nutrita e ora se n'era andata. William non sapeva se doveva sentirsi fortunato al pensiero di essere sopravvissuto.

Finalmente riuscì ad aprire gli occhi. Il fango che si era appiccicato alle ciglia gli impediva di aprirli completamente, bruciando sotto le palpebre. Vide che tutto era fuori fuoco. Capì che gli occhiali gli dovevano essere sfuggiti probabilmente mentre cadeva.

Aveva braccia e gambe che formicolavano. Nel tentativo di sollevarsi sulle mani, avvertiva il terreno come se fosse stato distante metri sotto di lui.

Si mise a sedere, appoggiando la schiena contro il muro umido.

Si, pioveva.

E allora se ne accorse. Non poteva essere solo perché non indossava gli occhiali.

Il suo difetto di vista gli era noto e sapeva in cosa consisteva. Probabilmente il lavoro come impiegato alle poste, sicuramente tutte le ore passate sul suo quaderno fino a tarda notte, alla fievole luce di una candela.

Ma quello che vedeva ora non era causato dalla miopia.

Non era nemmeno sicuro fosse una conseguenza dell'aggressione, o lo shock.

Gli pareva di vedere il calore delle cose, cose se non si distinguessero solo per la forma o il colore, ma anche…per la vita.

Ciò che era vivo balzava ai suoi occhi con maggiore intensità rispetto al resto. Un ratto che si agitava intorno ad un ammasso di rifiuti, pipistrelli sopra la sua testa appesi alle travi delle abitazioni.

A quell'ora non passava nessuno, lo avvertiva distintamente. E questa certezza non era nei suoi occhi. Ascoltava e capiva. Capiva le emozioni di ciò che era vivo intorno a lui. La frustrazione del roditore che non trovava niente da mettere sotto i denti. I pipistrelli con i loro sensi all'erta, sebbene stessero riposando. La mancanza di vita di quel vicolo lo demoralizzava: voleva più vita. Sconvolto da un frustrante desiderio, si alzò di scatto, dimentico dello squarcio al collo, di tutto il sangue che aveva perso, della debolezza, di…

Rimase come imbambolato…

Era in piedi: non un capogiro, non una vertigine. Eppure, lo sapeva, aveva perso molto sangue. Forse quello che sapeva non era, in fin dei conti, tutta ciò che era vero.

Si guardò le mani, le braccia, avvertiva ancora quel formicolio strano. Un senso di nausea si annidò nel suo stomaco, affondandoci gli artigli come quei pipistrelli a testa in giù che penzolavano dalle travi sopra di lui.

Un fremito attraversò lo stormo di bestiole. Iniziarono a emettere suoni che non aveva ai sentito prima, forse quei versi di cui tanto si sentiva parlare ma che nessuno aveva mai ascoltato, proprio perché non percepibili da orecchio umano.

Li vide allentare la presa intorno alla trave, li vide precipitare per un breve tratto, quindi aprire le ali, riprendere quota come se le ali fossero stati paracaduti. E quindi iniziare a sbatterle, gli occhietti aprirsi all'improvviso, vividi e piccoli, pungenti. Quel radar che avevano nel cervello li guidava lontano.

Una piccola nuvola rumorosa e nera si agitò sopra la testa di William ("Oh, cosa sono ora?"), per fuggire scompostamente verso il cielo scuro.

Il tutto era durato forse cinque secondi.

Non ci aveva mai prestato così tanta attenzione. Mai.

Sapeva cosa li aveva spaventati. Avevano sentito il suo sgomento, il suo orrore.

Il ratto era vivo, i pipistrelli erano vivi. Quel calore, la sensazione di sentire persino l'odore del sangue che scorreva nel loro piccolo apparato vascolare.

Ma, di quel calore, nel suo corpo, non c'era traccia.

Adesso, svengo, aveva pensato. Ma, di fatto, non avvenne. Niente sangue, niente pressione.

Niente pressione che si alza, niente pressione che si abbassa. Niente svenimento.

Perdere i sensi..

Ogni muscolo del suo corpo si contrasse. Gli occhi, le labbra, le mani.

Piegò il collo all'indietro, digrignando i denti.

Una risata echeggiò nel vicolo; dapprima amara e stridula, quindi sempre più profonda, sempre più lucida, perdendo acidità, ma comunque, terribilmente spaventosa.

Qualcosa aveva perso, ma non erano i sensi. Stranamente, gli era sfuggito qualcosa di così prezioso come il sangue, la vita, la sua vita. Eppure gli sembrava di aver ricevuto più di quanto se n'era andato.

Il sangue. Lo aveva ancora in bocca, lo sentiva coagularsi sulle sue labbra. Quel gusto, ferroso e viscido.

Fece schioccare la lingua all'interno della sua bocca chiusa e poi se la passò contro il palato.

Socchiuse le labbra e fece scivolare la punta sulle labbra, raccogliendo quello che era rimasto lì a seccarsi.

Si portò la mano al collo, alla ricerca della ferita. Ma non ce n'era più traccia.

Sorrise ancora.

Si sentiva benissimo, ci vedeva benissimo. Le sue orecchie funzionavano alla perfezione.

Ogni suo difetto fisico era stato spazzato via, succhiato via con il suo sangue.

E quando aprì la bocca per parlare, la sua voce gli sembrò quella di qualcun altro, non più stridula e piagnucolosa come la ricordava.

Basso, bassissimo, appena percettibile.

"Prendila questa vita che non mi serve. Me ne procurerò di migliori".