By Silea
Cross-over con Jarod il Camaleonte (o se preferite The
Pretender), i cui fatti sono seguiti fedelmente fino alla fine della quarta
stagione (escluso il ritrovamento del fratello di Jarod e Miss Parker che non è
avvenuto…). Per seguire la storia non è comunque necessario aver seguito questo
telefilm…
Disclaimer: personaggi, situazioni ed eventi coperti da copyright sono
proprietà degli aventi diritto, ed usati senza il loro consenso per scopi privi
di lucro.
PARTE I
U.S.A. Da qualche parte lungo
la costa occidentale.
La donna bruna si muoveva con
cautela, la pistola puntata davanti a sé. Uscita dal retro di casa sua, appena
certa che qualcuno sorvegliava la villetta dal fondo
della strada, sfruttando la sua conoscenza dei dintorni, si era allontanata,
invisibile all’osservatore. Non le piaceva affatto che gente sconosciuta
arrivasse e la mettesse sotto vigilanza.
Non le sarebbe piaciuto in un giorno
qualunque, in questo, era proprio un errore da non commettere. Tanto peggio per
chiunque fosse. Avrebbe subito le conseguenze delle sue azioni e il suo sfogo.
Era furibonda ma ancora lucida. Non
le sembrava giusto.
Prima di quella telefonata, ieri
sera, andava tutto bene, tutto era come sempre. Poi, una sola, singola,
chiamata le aveva stravolto la vita, di nuovo. Aveva passato al
notte in bianco, pensando, bevendo, ricordando. Poi, sfinita si era
addormentata per qualche ora. Affacciarsi alla finestra era stata una delle
prime cose che aveva fatto appena sveglia. Era diventata sospettosa, quasi
paranoica, lo sapeva, ma con la vita che conduceva era una scelta obbligata.
Stava compiendo un ampio giro
parabolico per evitare che chi la stava spiando si accorgesse della sua
contromossa e si preparasse a riceverla. Lo sconosciuto aveva parcheggiato una
berlina grigia piuttosto anonima sul ciglio della strada, non si era mosso da
dentro l’abitacolo da oltre tre ore, da quando era arrivato, solo una vaga
ombra sul parabrezza ne segnalava la presenza all’interno dell’auto.
La donna, muovendosi silenziosamente
si avvicinò facendo attenzione a non pestare foglie e ramoscelli creando rumore
sufficiente a farla scoprire. Si stava accostando lateralmente al veicolo, in
modo da non apparire in nessuno degli specchietti del conducente.
Con un ultimo passo, scattò per
arrivare improvvisamente all’altezza del finestrino anteriore, apparendo
inaspettata nel campo visivo di lui, immobilizzandosi per tenere sotto tiro lo sconosciuto.
Le gambe leggermente flesse, le braccia ben tese davanti a sé, gli occhi alla
ricerca dello sconosciuto. Era certa di coglierlo di sorpresa.
Sbagliava.
La sconosciuta, perché c’era una
ragazza all’interno della berlina, a sua volta aveva un’arma puntata contro di
lei. Si era formata una situazione di stallo. La donna, imprecando tra sé per
aver perso il fattore sorpresa, decise di controllare
con attenzione tutta la scena. Non voleva altre sorprese.
Il finestrino della berlina, era abbassato, per
cogliere anche il minimo rumore. La donna si diede della sciocca, non aveva
pensato ad una possibilità del genere, mossa astuta da parte dell’avversaria.
Eppure la bruna era certa di essersi mossa senza produrre alcun suono udibile
ad orecchio umano. Doveva aver pur fatto qualche errore, però, forse un
riflesso su un vetro od altro. Come aveva ipotizzato c’era una sola persona
nella macchina e il fatto che non fosse scesa indicava che si era accorta di
lei da pochissimo. Non aveva avuto tempo per preparasi
in altro modo. Non era poi in una situazione così svantaggiosa.
Represse la rabbia, il dolore dentro
di sé, per lasciare il posto alla sola lucidità. Strinse un po’ più saldamente
la sua Smitt&Wesson e continuò a tenere sotto tiro la sua avversaria.
La ragazza sembrava tranquilla, come
se si fosse già trovata in situazioni simili. Era una professionista. Indossava
occhiali da sole dalle lenti a goccia, e, da quel che poteva vedere, aveva una
specie di giubbotto di pelle nero e sotto una qualche camicia, anche questa
nera. “Deve essere una persona molto allegra” pensò la donna. Come lei era
bruna, i capelli le ricadevano sulle spalle, sciolti.
La donna non perdeva di vista
l’indice dell’altra, immobile sul grilletto, sembrava scolpito nel marmo, non
un tremore. Ragazza o no, decise, al minimo movimento avrebbe sparato, non per
uccidere forse, lei non era un killer, ma avrebbe sparato. Proprio la ragazza,
stanca di aspettare, anche se erano passati solo pochi secondi, parlò per
prima.
-Hai qualche idea per uscire da
questa situazione di stallo, entrambe ancora con la loro pelle?
Sembrava che la circostanza la
divertisse, una specie di sorriso ironico si era formato sulle sue labbra.
“Chi vive
più vite, muore più morti.”
“Vuoi
credermi un mostro? Qualcuno che vive solo per vedere scorrere il sangue
della sua prossima, innocente, vittima? Un’aberrazione della natura? Libera di
farlo. Nessuno te lo impedisce. Ma sappi, anche se non ti interessa, che non ho
mai provato gioia nell’uccidere un essere umano.
Ed io, Buffy, posso dire di non aver
mai ucciso per noia.
Tu puoi fare
altrettanto?”
Scese dal pullman sbadigliando, con
la schiena indolenzita dal lungo viaggio, la ferita le faceva veramente male ma
la ignorò, caricandosi sulla spalla la borsa nera e avviandosi verso casa. Dopo
un viaggio durato più di dodici ore era stanca ed irrigidita. Rinunciò a
chiamare un taxi, anche perché non ce ne erano nei paraggi, e si avviò a piedi
a casa sua. Una passeggiata le avrebbe fatto bene e visto che il sole non era
ancora tramontato non doveva preoccuparsi neanche dei vampiri.
Faith si allontanò lentamente
bilanciando meglio il carico sulle spalle così che i punti non le tirassero la
ferita, recente ricordo del suo ultimo lavoro.
Era stata una missione davvero
massacrante. Sette dei più lunghi giorni della sua vita. Quel dannato vampiro
francese, vecchio più di trecento anni, le aveva fatto sputare l’anima prima
che ne avesse ragione. Marlin le aveva detto che era un osso duro ma lei non
aveva creduto così tanto. Non avrebbe più sottovalutato l’opinione della donna.
Aveva dovuto girare la metà dei
bassifondi parigini prima di poterlo trovare. L’altra metà l’aveva visitata per
trovare un po’ di “oggettistica utile” alle sue esigenze, era stato difficile
visto che non conosceva né i luoghi, né i contatti per procurarsela, ma ci era
riuscita, anche grazie ad una quantità rilevante di denaro.
Inoltre, considerando che non sapeva
neanche il francese e che aveva dovuto portare un “traduttore” con sé, un
demone di non si ricordava quale razza che aveva vissuto un po’ in America ( e
che era sfortunatamente incappato nella sua spada quando aveva tentato di
venderla al suo nemico), era stata fortunata a trovarlo in così breve tempo.
Appena finito il lavoro aveva
lasciato la stanza di motel, identica a tutte le altre (quanto odiava quei
posti, troppi ricordi…), per prendere il primo volo per tornare a casa. Il
viaggio era durato qualcosa come dodici ore tra aereo, coincidenze aeroportuali
e pullman, con cui aveva coperto gli ultimi chilometri.
La schiena se la era ferita proprio
nell’ultimo scontro con Jean-Luis, quando lui, con ormai solo quattro dei suoi
tirapiedi, si era rifugiato in una villetta poco fuori Parigi, dopo che lei gli
aveva accuratamente fatto perdere tutti gli alleati, fatto aumentare i nemici,
scavando una baratro in cui lui era caduto. Era
pericoloso andare a caccia di una preda ferita. Si era rivelato tale quando una
spada di quasi un metro le aveva squarciato la schiena, recidendo un buon
numero di fasci di muscoli e sfiorandole la spina dorsale.
Era stato decisamente doloroso. In
quel momento lei aveva perso ogni lucidità avventandosi contro quel vampiro che
l’aveva ferita con tutta la rabbia che provava, ed era molta. Si era fermata
solo quando attorno a lei aleggiava semplice polvere. Non le era piaciuto
perdere così il controllo di se stessa ma non aveva potuto evitarlo, per
fortuna le era andata bene.
Era uscita da quella casa
sanguinando abbondantemente nonostante i suoi tentativi di fermare l’emorragia.
Cacciatrice o no, si era dovuta recare da un dottore, che aveva fatto
decisamente poche domande, era conosciuto per quello, che dietro pagamento le
aveva applicato una stretta fasciatura. Dopo un iniezione
di antidolorifici era tornata in albergo per fare le valigie.
Per lei Parigi non sarebbe stata
salutare per un po’ di tempo. Presto si sarebbero accorti che era una
doppiogiochista e si sarebbero arrabbiati non poco, aveva messo in giro un po’ di voci false per arrivare a Jean-Luis, già i
residenti non avevano gradito la sua presenza e lei, senza contatti sicuri,
rischiava molto a rimanere.
Faith si guardò attorno, era quasi
arrivata a casa.
Casa, gustò
quella parola. Erano passato più di un mese da quando era tornata a Sunnydale e
finalmente sentiva di essersi riuscita a ricostruire una casa. Un posto dove
lei si sentisse al sicuro, un posto a cui ritornare la sera. Un posto solo suo.
La luce stava diminuendo. Pochi
minuti ed il sole sarebbe tramontato. Passeggiando immersa nei propri pensieri
non si era accorta di una figura familiare sull’altro marciapiede. Le ci volle
un secondo per riconoscerla. Tara stava camminando lentamente appesantita da
alcune buste di carta. Era da quel giorno nel negozio di alimentari che non la
vedeva, quasi un mese rifletté, sembrava stesse proprio
tornando dalla spesa.
Faith si chiese se doveva lasciarla
andare senza neanche salutarla o fermarsi ed aiutarla. Se fosse stata qualsiasi
altra persona, Buffy in testa, l’avrebbe ignorata, fingendo di non vederla, ma
la bionda non aveva mai fatto niente per ferirla in nessun modo. E lei, se
poteva, aiutava sempre la gente. Non era un insensibile. A quel pensiero un
sorriso triste e tirato le si disegnò sulle labbra. Pensò un attimo ancora su
cosa fare. Tara stava tornando a piedi verso il campus e non ci sarebbe
arrivata se non dopo il tramonto del sole.
Prendendo finalmente una decisione
Faith la chiamò. Tara si girò riconoscendo la bruna ed attraversò la strada.
-C-ciao Faith.
-Ciao
-Si, q-quasi un mese. –Poi notando
la borsa, le chiese se era appena tornata da un viaggio.
-Si, torno proprio ora. –ci fu un
attimo di silenzio, poi Faith decise di offrire aiuto alla ragazza. Da
Catherine e Eliza non aveva imparato solo ad usare un’arma. Ed, al contrario di
quello che poteva sembrare, lei era una persona educata. Era educata con le
persone che rispettava (cosa quasi
unica) o che comunque le ispiravano fiducia (cosa decisamente molto rara).
–Senti casa mia è qui vicino. Se vuoi puoi salire un attimo, prendiamo un
caffè, poi ti chiamo un taxi così torni al campus senza problemi…
Tara ci pensò per qualche attimo e
poi accettò, stupendo non poco Faith. Le persone che avrebbe accettato di
andare a casa sua conoscendola, si contava sulla punta delle dita della mano di
uno storpio, come i suoi amici del resto.
Ripresero a camminare e qualche
minuto dopo entrarono nello stabile e raggiunsero l’attico, dove la bruna era
tornata ad abitare. Faith era stanca, sia del viaggio sia a causa della ferita,
ma non lo voleva dare a vedere, cercava di comportarsi e muoversi in maniera
normale. Cercò a lungo le chiavi in tasca prima di trovarle, quando ci riuscì
aprì la porta ed invitò Tara ad entrare.
La cacciatrice l’aiutò a posare le
buste vicino alla porta per poi pregarla di accomodarsi sul divano mentre lei
le portava qualcosa da bere. La voce della bionda la raggiunse in cucina mentre
metteva su caffè e tè.
-Se p-posso chiedertelo, dove sei
a-andata?
-Parigi, per lavoro.
Cominciarono a parlare del più e del
meno, con naturalezza, come se si conoscessero da tempo. Si scambiarono
racconti e aneddoti della loro vita, mentre entrambe si chiedevano come fosse
possibile che loro, restie a parlare di se stesse persino alle persone di cui
si fidavano, tanto da rimanere degli enigmi per chi le conosceva, si trovassero
così a proprio agio con l’altra. Forse era proprio per quello. Nessuna delle
due era invadente nei confronti dell’altra, rispettando gli spazi personali, i
silenzi.
Faith tornò poco dopo in salone e
porse una tazza di caffè a Tara che lo accettò volentieri.
Tara si stava accorgendo di come
Faith fosse diversa da come gli altri la dipingevano. Tutt’altro che esuberante
ed esibizionista. Almeno dopo che la conoscevi. La bruna le aveva chiesto di
non dire agli altri che lei era qui. Le aveva spiegato che Buffy lo sapeva, e che
se qualcuno doveva dire della sua presenza lì agli altri, sarebbe dovuta essere
l’altra cacciatrice. Le aveva consigliato di non entrare in una discussione con
Willow su di lei, sapeva cosa la rossa pensava e non voleva il loro rapporto
rovinato a causa sua. Poi cambiando argomento Faith continuò a parlare.
-Come vanno le cose qui a Sunnydale?
Qualche cattivone da sconfiggere?
-No, è tutto relativamente
t-tranquillo. Un paio di teste calde che cercano di f-formare qualcosa di più
di un gruppo di sbandati, ma niente che Buffy non possa sistemare da sola.
-Meglio così. Meno apocalissi ci
sono, meglio mi sento.
Da quando avevano incominciato a
lavorare entrambe per il consiglio le cacciatrici avevano fatto una tregua. O
meglio, gli era stato ordinato di non ostacolarsi a vicenda e di smettere di
tentare di uccidersi.
Loro si erano adeguate. Ed a Faith
non dispiaceva che Buffy l’avesse finalmente piantata con il desiderio di
ucciderla. Non era piacevole sapere che c’era qualcuno che voleva la tua pelle.
Ogni tanto si incontravano di notte mentre facevano la ronda, ed avevano quasi
smesso anche di stuzzicarsi verbalmente. Tra loro non c’era fiducia, né correva
buon sangue, ma si rispettavano e l’ascia di guerra era stata seppellita.
Risultato più che soddisfacente per
entrambe.
Sorridendo appena al pensiero Faith
si mise a sedere sul divano. Il movimento le procurò una fitta di dolore lungo
tutta la spina dorsale, più forte nel punto in cui un vampiro l’aveva colpita
con la spada.
La fitta distorse il suo sorriso in
una smorfia di dolore. Faith cominciò a sentire la maglietta azzurra che
indossava appena bagnata, probabilmente la ferita si era riaperta. Sarebbe
stato un problema risistemare la fasciatura da sola. Domattina sarebbe andata
da qualcuno in grado di sistemarla per bene.
Tara, alla vista della smorfia di
dolore della cacciatrice e del leggero ansimo che le era sfuggito aveva capito
che Faith si era ferita durante il suo viaggio di “lavoro”. Si alzò dal divano
per andare ad aiutarla ad rialzarsi. Colse di sorpresa la bruna, che però non
protestò, rivolgendo completamente la sua concentrazione nel movimento, facendo
attenzione a non farsi più male. Di nuovo in piedi, la schiena eretta, la
ferita non le faceva più male.
-Cosa ti è successo?
-Niente.
Aveva risposto prima ancora di
pensare. Forza dell’abitudine.
Ma non aveva considerato la
testardaggine di chi le stava di fronte.
-Faith. Mentirmi è inutile. So che
stai provando dolore. E’ evidente.
Faith la guardò un attimo negli occhi,
stupita. Poi ripensò al loro primo incontro nel negozio di alimentari e capì
che c’era qualcosa che non conosceva di Tara. Le avrebbe chiesto spiegazioni
più tardi, ora era il suo turno di fornirle.
-Una ferita alla schiena, un vampiro
che voleva mostrarmi quanto affilato fosse la sua spada da macellaio.
Faith poteva sentire il cotone
umido, ormai quasi bagnato, aderire di più alla sua pelle. Stava perdendo del
sangue, molto sangue. Fece finta di niente, cercando di distrarre Tara dandole
il proprio cellulare, non quello che usava con il concilio ma un altro, per
chiamare il taxi, dicendole che si stava facendo tardi.
Tara continuò a fissarla immobile,
ignorando il cellulare che l’altra le porgeva mentre continuava a darle le
spalle con ancora la giacca nera addosso. Attese un secondo che Faith si
girasse ma la cacciatrice non lo fece. Decise di costringere l’altra a girarsi.
-Fammi vedere la schiena. –Lo disse
con voce piatta e decisa, sorprendendo comunque la bruna, concentrata nella
respirazione, nel tentativo di ignorare il dolore.
Faith si girò di scatto verso Tara.
Poi rendendosi conto che in fondo non c’erano altri che potessero aiutarla fino
alla mattina successiva e che il suo istinto le diceva di fidarsi della bionda,
cedé ma non prima di un ultimo tentativo di rifiuto.
-Senti, non è niente. Te lo ho
detto, qualche momento ed andrà a posto da solo non ti preoccupare.
-Allora fammi vedere la schiena se
non è niente.
-Ne sei sicura? Non è che per caso
ti imbarazza o ti infastidisce? Io in fondo sto bene. Davvero.
-Non è un problema per me Faith. Lo
ho già fatto altre volte.
Alla fine, dopo alcuni istanti di
riflessione Faith annuì. Muovendosi un po’ troppo rigidamente per una
cacciatrice andò in bagno a prendere la cassetta del pronto soccorso. Cassetta
tanto fornita da fare invidia ai paramedici di una qualsiasi autoambulanza.
Chigaco,
ufficio servizi sociali.
Adam Green stava rovistando nella
sua scrivania alla ricerca di una pratica, che ricordava di aver messo proprio
in quel cassetto. Non c’era più. “Dannazione!” dove poteva essere andata a
finire? Certo, lui non era il massimo dell’ordine, come si poteva notare dal
caos che regnava sulla sua scrivania. Pratiche ammucchiate in pile che
sfidavano leggi di gravità, penne e matite perse tra i fogli e mai più trovate,
foglietti di vari colori attaccati con puntine che gli ricordavano i vari
appuntamenti ed impegni presi, ai quali si presentava, se si presentava, con
una mezz’ora di ritardo, minimo. Sopra tutto questo era poggiata, in bilico, la
tazza di caffè fumante che si era appena versato.
L’uomo sulla quarantacinquina
continuò a cercare la pratica dimentico di tutto il resto. Aveva una giornata
veramente piena. Doveva andare in mattinata a casa di tre famiglie che avevano
chiesto vari assegni di sovvenzione statale, poi doveva tornare in ufficio per
la riunione giornaliera, per poi correre a casa, cambiarsi e raggiungere il
tribunale e testimoniare in una causa su abbandono di minore.
Una giornata decisamente piena.
Dopo cinque minuti di intense
ricerche trovò la pratica dispersa. Era macchiata di caffè sulla facciata, ma
andava bene. Soddisfatto di sé la posò sul piano della scrivania e prese in
mano la tazza ancora calda.
Sorseggiava l’espresso, assorto nei
propri pensieri, quando qualche educato colpo di tosse lo richiamò alla realtà.
Fissò per qualche secondo la ragazza che gli stava davanti, poi la riconobbe.
Era già venuta un mese prima e “Dannazione!” si era dimenticato di cercare la
pratica della sua adozione. Ed oggi proprio non aveva tempo da dedicarle.
-Salve signorina…
-Summers, signor Green.
Lui annuì con il capo mentre cercava
una scusa adatta a spiegare che si era dimenticato di fare quella ricerca.
-Senta non ho potuto cercarle quella
pratica. Certo, che se potesse passare, che so? Domani? Tra una settimana,
forse potrei dargliela…
Buffy lo guardò per un attimo
stupita. Il successivo era infuriata. Green ebbe paura di quello sguardo.
Strano per uno come lui che passava gran parte delle sue giornate nelle
periferie della città.
-Senta lei, Signor Green. Vengo da
Los Angeles e no, non posso tornare domani, né tra una settimana. Le ho dato un
mese di tempo. Ora voglio quella documentazione.
Adam non se la sentiva di protestare
e il discorso della ragazza lasciava poco spazio a scuse. Improvvisamente ebbe
un idea.
-Signorina Summers forse ho la
soluzione. Oggi sono impegnato ma la posso accompagnare in archivio e forse lì
troverà quello che cerca…
Buffy non era nella posizione di
scegliere. Accettò la proposta con un cenno del capo.
Sunnydale,
appartamento di Faith.
Faith si rialzò dal letto muovendosi
rigidamente, la fasciatura nuova, pulita e ben stretta, il dolore diminuito a
livelli ragionevolmente sopportabili.
Tara aveva fatto un lavoro
splendido, la cacciatrice doveva ammetterlo, ci sapeva fare. Dopo aver tolte le
bende sporche di sangue ed averle pulito la ferita, la bionda le aveva fatto
un’iniezione di morfina e rifatto il bendaggio. Faith sapeva che questa bravura
dipendeva dall’esperienza, e ce ne era tanta dietro, ma, sebbene fosse curiosa
di sapere dove Tara avesse imparato, ricacciò indietro la curiosità e si limitò
a ringraziare a mezza voce la ragazza.
La bruna si sentiva a disagio però.
Prima di tutto lei non era abituata a ricevere aiuto, e troppo spesso non
sapeva come ringraziare; secondo, la bionda non era obbligata a fare questo per
lei, non le doveva niente. Questo lasciava Faith alle prese con il problema di
come ringraziare, certa che le parole appena pronunciate non fossero
abbastanza. Immersa nei pensieri la cacciatrice si girò per scoprire che Tara
le tendeva una giacca di tuta per farla coprire, in silenzio Faith accettò
anche l’aiuto nel vestirsi, stupendosi di se stessa.
Anche Tara aveva notato qualcosa durante
la medicazione, qualcosa a cui aveva deciso di non accennare. C’erano due
cicatrice parallele che correvano sulla schiena di Faith, ancora ben visibili
anche se risalivano evidentemente ad almeno dieci anni prima.
Chiudendo la lampo della giacca la
bruna si girò cercando le parole giuste per ringraziare ancora la bionda ma
qualcosa la trattenne. Non era la sua provata incapacità nell’esprimere
emozioni, non questa volta.
Notò lo sguardo della bionda e capì
che aveva visto le cicatrici e che aveva capito abbastanza da fare domande,
domande le cui risposte avrebbe risvegliato troppi ricordi dolorosi, ma che
aveva deciso di rispettare il silenzio di Faith. Fingendo di non vedere.
Lo stesso sguardo che la cacciatrice
aveva negli occhi nocciola, senza rendersene conto. Tara poteva leggervi che la
sua bravura nel trattare ferite non era passata inosservata, e leggervi che non
ci sarebbero state domande. Per rispetto nei suoi confronti, per quello che era
adesso.
Nessuna delle due disse niente.
I ringraziamenti furono dimenticati
e così le educate risposte che ne sarebbero conseguite, rimase solo il
silenzio. Non era un silenzio imbarazzato come pochi minuti prima, quando la
cacciatrice non trovava le parole per esprimersi, era un silenzio confortevole,
amichevole. Un silenzio che nessuna delle due sentiva il bisogno di riempire
con parole.
Faith tornò nel salone e prese il
cellulare dal tavolino dove l’aveva lasciato componendo il numero di una compagnia
di taxi mentre Tara la seguiva nel soggiorno e si metteva di nuovo a sedere sul
divano. La bruna prese gli accordi necessari con l’interlocutrice per poi
posare l’apparecchio sul tavolino.
-Arriveranno fra pochi minuti.
La bionda annuì senza dire niente.
Faith rimase in silenzio pensando a questo strano incontro e a come la presenza
di Tara non la infastidisse o le mettesse soggezione, funzionavano bene
insieme. Bene in un modo che Faith aveva perso dieci anni prima. Si chiedeva
cosa fare. Stava a lei scegliere se questo sarebbe dovuto restare un episodio
isolato o no. Avrebbe potuto proseguire a vivere la sua vita come se questo non
fosse mai accaduto, semplicemente rimanendo in silenzio e godendosi questi
pochi minuti di amicizia.
In questa atmosfera rilassata Faith
si ricordò di una domanda che voleva davvero porre a Tara da quando si erano
viste quel giorno al negozio e la bionda l’aveva riconosciuta.
-Hey Tar, -stupì anche sé nel
chiamarla con un soprannome. –Ma un mese fa come hai fatto a riconoscermi?
La ragazza seduta sul divano sembrò
sorridere divertita.
-Sono una strega.
-Anche Willow lo è, ma non mi ha
riconosciuto.
Così non sarebbe bastata la risposta
classica per convincere Faith, pensò Tara.
-E’ una cosa della mia famiglia, una
specie di dono ereditario, che non si presenta in tutte le generazioni. Credo
che la mia bisnonna lo possedesse, comunque è come se noi… difficile spiegarlo
a chi non lo possiede… sentissimo l’anima di chi ci sta di fronte, è come
un’impronta mentale, simile a quelle digitali. Tutte le persone ne hanno una
caratteristica che “emanano”, anche se non è il termine corretto, è una cosa
involontaria… come il sudore, quello pure è del tutto “personale”. Così, avendo
già incontrato Buffy, anche se non eravamo state presentate, sapevo che quel
giorno non potevi essere lei.
-E così il mio piano perfetto è
stato rovinato… Dannazione! –mentre lo diceva Faith stava sorridendo, davvero
divertita.
Improvvisamente la bruna prese un
pezzo di carta da un tavolino e ci scrisse qualcosa sopra, Tara la osservava
incuriosita, si chiedeva cosa avesse fatto scattare così Faith.
-Questo è il mio numero di
cellulare. Se vuoi puoi chiamarmi, possiamo andarci a prendere un caffè insieme
o anche se ti serve un favore. Sai, sono in debito con te per la fasciatura…
La bionda sorrise, poi allungò la
mano per prendere il numero di telefono.
-Se mi dai un pezzo di carta ti
segno quello del mio dormitorio.
Faith annuì porgendole la penna. In
quel momento il taxi suonò il clacson, le due sorrisero ancora, si salutarono e
poi Tara uscì dall’appartamento.
Miami, studi televisivi
Canale 6.
La sala di montaggio era deserta se non per l’ultimo tecnico che si stava
attardando a causa di un filmato. Sembrava che qualcosa non lo convincesse, la
faccia perplessa, lo sguardo attento, faceva scorrere sempre pochi secondi di
filmato ingrandendo le immagini, rallentandole, cercando di far ruotare la
visuale grazie alla computer grafica.
L’uomo sospirò massaggiandosi gli occhi con le dita, era stanco, inutile negarlo,
stava cercando un appiglio forse davvero inesistente in quel filmato, qualcosa
che non ci sarebbe dovuta essere. Qualcosa che sperava non ci fosse.
Eppure quella sensazione che qualcosa gli sfuggisse, qualcosa che era lì,
ma che lui non vedeva, non se ne voleva andare.
La porta si spalancò improvvisamente cogliendolo di sorpresa. Impaurito
si girò verso l’ombra in contro luce cercando di riconoscere la sagoma. Il
corpo teso, pronto a reagire ad una qualsiasi minaccia, dimostrando riflessi
acquisiti non propri ad un tecnico del montaggio.
La luce dello studio si accese, abbagliandolo. La guardia notturna lo
fissò insospettito un attimo prima di riconoscerlo, era da poco che lavorava
lì.
-Ah, è lei. Mi dispiace averla disturbata.
-Non fa nulla, non si preoccupi.
Rispose gentilmente lui, accennando un sorriso ed un gesto con il capo,
mentre i battiti del cuore diminuivano di intensità. Si era preso proprio un
bello spavento.
La porta si richiuse e la sala ripiombò nella penombra.
Jarod ricominciò a lavorare al filmato.
Erano quasi le cinque del
pomeriggio, ancora pochi minuti di lavoro e poi Travers se ne sarebbe andato a
casa, guardando l’orologio a muro del suo ufficio si accorse di essere stanco,
gli bruciavano un po’ gli occhi. L’unica cosa che gli rimaneva da fare era
controllare i rapporti che provenivano dall’America. Per una volta fu quasi
felice che la pila ordinata di cartelle gialle alla sua destra non fosse alta
quanto un grattacielo, anzi era di dimensioni quasi normali. Da quando
Sunnydale non era più di sua competenza la sua mole di lavoro per l’america
settentrionale si era praticamente dimezzata, ma gli dispiaceva. Meno
territorio, meno responsabilità, meno potere. Era tutto concatenato.
Il primo rapporto che controllò fu
quello relativo alla zona di Boston, era un’abitudine collaudata ormai da anni.
In quella città erano accaduti fatti strani in seguito alla chiamata della
cacciatrice che poi sarebbe diventata
Nonostante fosse passato del tempo
Quentin immaginava che quell’episodio potesse aver innescato qualcosa. E
proprio nella zona di Boston il capo settore, un uomo di sua fiducia, aveva
notato strani movimenti. C’erano stati dei pestaggi e degli omicidi fra le alte
sfere della città ma il motivo non era ancora chiaro.
Senza fare rumore Quentin sfogliò le
rimanenti cartelle per poi tornare a quella iniziale. Era pensieroso. Quei
movimenti potevano essere del tutto normali, un regolamento di conti di scarsa
importanza.
Potevano.
Si sentiva davvero sazio, non si sarebbe
mai stancato del sangue, non vi avrebbe mai rinunciato in un’intera eternità,
ne era certo. Solo quella notte aveva ucciso due ragazze, giovani, belle e
ricche, dicevano di essersi innamorate dello splendido e nobile portoghese
conosciuto all’opera, come era stato facile ingannarle.
Ora Angelus passeggiava soddisfatto
lungo
Mentre passeggiava Angelus stava
seriamente prendendo in considerazione l’idea di partire. Era rimasto a Parigi
per un po’ di tempo ormai e nulla lo tratteneva davvero lì, inoltre non era
neanche la prima volta che si fermavano in quella città e perciò l’aveva già
esplorata. Era certo che se ne parlava a Darla lei aveva accettato, il loro
rapporto stava effettivamente cambiando, non era più un rapporto
maestro-allievo, se ne rendevano conto entrambi. Non era una cosa cominciata
esattamente ieri, era da diversi anni che sentiva quest’aria di transizione,
lui non era più un giovane a cui si doveva insegnare tutto e il suo sire aveva
cominciato a trattarlo da pari, la donna si era resa conto della sua crescente
forza.
A queste riflessioni si aggiungeva il
fatto che a Parigi si trovavano stabili organizzazioni di vampiri delle quali
lui non faceva parte e con cui non aveva mai avuto rapporti. Organizzazioni che
non facevano caso agli affari di un ospite, al contrario di quelli di un
possibile residente, e, quindi, concorrente.
Angelus, inoltre, come tutti i giovani, aveva voglia di vedere nuovi
posti, di uscire dall’Europa ed andare magari in America od in Asia, si era
allontanato raramente dal vecchio continente e gli sembrava una buona occasione
per farlo. Stava attraversando un periodo strano, si sentiva più solitario del
solito, irrequieto e assetato di esplorazioni. Decise che appena a casa avrebbe
parlato con Darla, un paio di giorni e sarebbero andati via da qui.
Immerso nelle sue riflessioni, Angelus
non si accorse finchè non fu troppo tardi di avere di fronte a sé Gregori, che
proveniva dalla direzione opposta, percorrendo il suo stesso marciapiede. La
sagoma era ben riconoscibile, quasi una divisa, bassa, tarchiata e tristemente
famosa nell’ambiente, inoltre la sua parte demoniaca era facile da “vedere” per
un vampiro. Angelus si maledisse per l’avventatezza e si giurò che mai più si
sarebbe permesso di trascurare i suoi sensi anche se fosse immerso nelle più
lugubri riflessioni od addirittura nel sonno.
Senza prendere in considerazione
l’idea di una fuga, improbabile, c’era
Infilò la mano nella tasca del cappotto, con
sé aveva solo uno stiletto, la spada che portava di solito l’aveva lasciata a
casa. Con quello solamente doveva combattere contro la famosa ascia dell’altro.
Si favoleggiava che Gregori fosse il migliore conoscitore di quell’arma nel
mondo e che avesse passato decenni a perfezionarsi. L’unica speranza del
vampiro era la sua velocità e la scherma, che conosceva a fondo. Era stata la
prima cosa che Darla lo avesse spinto ad imparare.
Eppure, osservando Gregori, ad
Angelus non sembrava che il cacciatore stesse per attaccarlo, non gli pareva un
predatore che avesse appena raggiunto la vittima tanto inseguita. Che si
trattasse di un incontro casuale, uno scherzo della Fortuna? Se così era il
vampiro avrebbe avuto dalla sua il fattore sorpresa. Ma questa tranquillità
avrebbe anche potuto essere un semplice trucco, un qualcosa recitato per fargli
abbassare la guardia, del resto di Gregori e del suo modo di combattere si
sapeva ben poco, poco quanto quelli che gli erano sopravvissuti.
Ma si rivelarono considerazioni
inutili.
Improvvisamente dieci ombre
apparvero nell’ampia e deserta strada e circondarono silenziosamente Gregori,
puntandogli contro armi da fuoco, rimanendo a più di due metri da lui immobili
come statue.
Il mezzo sangue si immobilizzò al
centro del marciapiede senza accennare ad alcuna reazione né preparandosi in
alcun modo ad uno scontro. “Un grave errore. Che cosa sta facendo?” non poté
trattenersi dal pensare Angelus, mentre si lasciava avvolgere dalle ombre di un
androne in modo da essere invisibile dalla strada.
Gli avversari non si studiarono, non
ci fu alcuna attesa. Un attimo dopo essere apparso uno dei dieci uomini,
evidentemente il capo, fece un passo avanti, la pistola in pugno, mentre i suoi
compagni tenevano sotto tiro il mezzo-sangue con dei fucili, le cui canne
rilucevano nel buio, riflettendo la luce della luna.
-Sei tu Gregori?
Dall’atteggiamento corporeo Angelus
poté capire sia lo stupore dell’accerchiato sia l’orgoglio che questi provava
per il suo nome, per la fama a cui era legato.
-Sono io. E vuoi chi sareste,
“umani”?
Non era inteso come un insulto,
avrebbe potuto usare “diversi” come parola e il significato sarebbe stato lo
stesso. La voce era tranquilla, quasi cortese, se una specie di ringhio basso
poteva essere definito cortese.
-Sono un inviato del Concilio degli
Osservatori. –L’uomo avvolto nel lungo cappotto nero aveva un marcato accento
inglese.- Gregori il mezzo-sangue, sei condannato a morte, con sentenza emessa
dal Primo Osservatore.
E così si trattava di Osservatori,
che ci fosse di mezzo una cacciatrice?
-Potrei sapere di cosa sono
accusato?
L’uomo avvolto nel cappotto nero
fece fuoco appena la voce dell’altro si spense, seguito di riflesso dagli
altri. Dieci colpi messi a segno. Gregori non aveva reagito, intuendone
l’inutilità. Poi, l’inglese, estratta una lunga spada, si avvicinò al corpo e
lo decapitò.
-No.
Fu quello che disse mentre la testa mozzata
rotolava sul selciato ed il sangue usciva copioso dal taglio netto del collo,
spandendosi in una macchia oleosa. Avvolti nel silenzio l’inviato e la sua
squadra si allontanarono senza dire niente altro.
Angelus, nel proprio nascondiglio
tra le ombre dei portoni, aveva assistito alla scena in silenzio, senza capirla
veramente. Non si avvicinò al cadavere, né lo spogliò della celebre ascia. Era
una persona orgogliosa, non si sarebbe mai abbassato al livello di uno
spazzino, né si sarebbe vantato di quella morte.
Mentre si allontanava dal vicolo,
muovendosi solo dopo che quegli uomini in nero erano spariti dalla visuale, non
poté fare a meno di ragionare su quanto aveva visto, non trovava risposta
logica all’unica importante domanda. “Perché il Concilio ha ucciso il suo
migliore alleato, migliore persino delle ultime cinque cacciatrici?”.
In realtà non lo riguardava. Si
limitò a memorizzare questo fatto mentre decideva di passare altri due mesi a
Parigi, fino alla fine della stagione dell’opera.
Era molto tardi, erano quasi le
undici, orario di chiusura e Faith era rimasta l’unica in palestra. Gli altri
clienti se ne erano andati da più di un’ora, più o meno quando lei era
arrivata. Non era esattamente uguale alla palestra gestita da Eliza a New York,
anzi era esattamente il contrario. Piccola, quasi buia, con lo stucco delle
pareti scrostato ed un odore non meglio definito che non era disinfettante né
sudore, poco frequentata, ma comunque fornita e soprattutto a quest’ora deserta.
A Faith non andava di allenarsi con altre persone, si sentiva di umore
decisamente nero e non le andava di contenersi mentre faceva esercizi. Sapeva
che se una ragazza come lei avesse sollevato un bilanciare da sessanta chili
alla panca orizzontale per fare resistenza, il fatto non sarebbe passato
esattamente inosservato.
Marlin non si era fatta sentire da molti
giorni, segno che non c’era alcuna missine importante da svolgere. Non che la
bruna si annoiasse a Sunnydale (difficile annoiarsi in un posto simile), e
detestasse non rischiare la vita per qualche giorno, più che altro Faith voleva
sentirsi impegnata, smettere di pensare. Aveva bisogno di un obbiettivo da
conseguire, qualcosa che richiedesse la sua completa concentrazione. Qualcosa
che una volta raggiunto la facesse sentire appagata e capace.
Da quando stava cercando di
rimettere insieme i cocci della sua vita troppe memorie stavano tornando a
galla e troppe domande di cui non conosceva la risposta si formulavano nella
sua mente. Faith si era fermata e cercava di ricollegare i fili della sua vita
ma questo la riportava a tempi che non erano più. E lei non sapeva neanche se
aveva più paura dei ricordi di dolore, di solitudine o di quelli piacevoli, in
cui le tornavano in mente momenti felici e sorrisi. Perché poi avrebbe pensato
a come era oggi, e avrebbe realizzato cosa le mancava, cosa sognava, quello di
cui sentiva il bisogno ma che non ammetteva di provare.
“Eravamo sedute davanti al caminetto acceso, era così che passavamo la
maggior parte delle serate, una specie di rito. Fuori aveva appena nevicato,
una nevicata ritardataria, quasi fuori stagione, e faceva freddo. Io mi stavo
godendo il caldo del fuoco mentre dentro di me rabbrividivo ancora al ricordo
di quanto era freddo l’orfanotrofio in cui ero vissuta fino a pochi mesi prima.
Seduta sulla poltrona contro cui ero appoggiata c’era Catherine. Portava bene i
suoi sessanta anni, od almeno credo che fosse questa la sua età, non me lo ha
mai detto e io non ho chiesto. Stavamo chiacchierando di qualcosa che adesso
non ricordo. Scoppiammo a ridere, non credo di aver mai riso così tanto nella
mia vita quanto nel periodo passato con lei. Poi Catherine si fece silenziosa
ed i suoi occhi divennero lontani, si persero per qualche istante per poi ritornare
a mettersi fuoco su di me. Mi sorrise. Con quegli occhi che mi guardavano
tranquilli, felici.
Gli stessi occhi che mi guardavano senza rimprovero quando Kakistos
l’uccise davanti a me.”
Faith smise di colpire il sacco e si
tolse le fasciature di protezione alle mani. Non si allenava mai con i guanti.
Era inutile, non avrebbe mai combattuto indossandoli. Si andò a cambiare e
quando rientrò nella sala principale la catena del sacco cigolava ancora, quasi
impercettibile. Con il suo sacco da palestra sulle spalle si allontanò dal
corridoio e per la prima volta si chiese dove andasse Catherine quando aveva
quello sguardo.
Doveva essere un bel posto.
Miami, studi televisivi
Canale 6.
Bloccò improvvisamente le immagini che gli scorrevano davanti. La tazza
di caffè nero ferma a mezz’aria, immobile dallo stupore. Ci mancò poco che non
cadesse a terra fracassandosi.
Non era possibile, la sua mente si rifiutava di crederci. Era davvero troppo,
anche per uno come lui che credeva di aver visto davvero tutto. Che sperava di
aver trovato una risposta definitiva, una sola risposta, non era molto quello
che chiedeva.
Sbagliava.
Respirò profondamente, accorgendosi di star trattenendo il respiro. Cercò
di riflettere lucidamente. Forse se lo stava immaginando, forse vedeva qualcosa
che non c’era. Non ci credeva, non realmente, ma semplicemente ci sperava, non
voleva che fosse così, non un’altra volta. Si aprivano troppi se. Troppe porte
chiuse, troppo dolore. E per una volta non era il suo dolore.
Riguardò per la millesima volta i pochi, ingranditi, fotogrammi in bianco
e nero. Li fece scorrere al rallentatore l’ennesima volta. Era proprio come
aveva visto. Non sbagliava, sebbene lo volesse davvero con tutto il suo cuore.
Eppure, quell’intuizione, avuta soltanto perché qualcosa gli sembrava
strano, qualcosa che gli sembrava troppo semplice, era la verità. Tutto per dei
files scomparsi, o meglio, mai esistiti.
Non avrebbe mai immaginato che sarebbe finita così.
E non sapeva cosa sarebbe cominciato.
New
York, appartamento di Eliza.
L’appartamento di Eliza poteva
essere definito un open-space. Era a dir poco enorme, occupava l’intero attico
di un palazzo di cinque piani, e vi si accedeva per l’ascensore o per le meno
usate scale di servizio. L’immortale l’aveva comprato qualcosa come trenta anni
prima, quando i prezzi di quella zona, ora una delle più ricercate, erano
ancora bassi, realizzando una speculazione virtuale di centinaia di migliaia di
dollari.
Lo aveva fatto sistemare da diversi
anni investendoci un capitale ingente ma creando una vera perla. Era arredato
con molto gusto con un mobilio non essenziale ma mai soffocante, in una unica
unione dei più svariati stili, creduta così impossibile da non essere mai stata
tentata. Un occhio attento si sarebbe stupito di vedervi una divisione spaziale
che ricordava la giapponese, un arredamento europeo antico dai legni caldi e
richiami architettonici arabo-indiani.
Ma quella casa appariva bellissima anche
per chi non conosceva tutto questo.
Faith era seduta su una poltrona di
pelle vera posizionata davanti ad un caminetto acceso, persa nei propri
pensieri, non triste né felice. Cercava di decidere come affrontare quello che
avrebbe scoperto, se avesse scoperto qualcosa, e come parlare all’amica.
Sentiva da un po’ che era arrivato il tempo di fare chiarezza. Con la testa
appoggiata ad una mano e lo sguardo fisso sulle fiamme, stava aspettando che
Eliza tornasse portando i drink che ognuna preferiva.
Quando la cacciatrice era uscita
dall’ascensore con quello sguardo, pochi minuti prima, l’immortale l’aveva
fatta semplicemente accomodare per poi sparire per andare a recuperare qualcosa
di forte. Liz sapeva che quello di cui Faith aveva bisogno di discutere sarebbe
stato difficile da affrontare. Era felice che la bruna fosse riuscita a venire
da lei per parlare di questo ma era anche preoccupata, ci teneva a quella
ragazza così giovane.
Aveva promesso a Catherine che si
sarebbe presa cura di lei, e avrebbe mantenuto l’impegno. Aveva una parola
sola. Avrebbe aiutato Faith a realizzare qualsiasi cosa volesse, fosse pure una
vita “normale”, ma la cacciatrice non le aveva mai chiesto qualcosa di simile.
Liz sapeva che quella ragazza aveva molti più problemi di quanto mostrasse, ma
non l’avrebbe mai obbligata ad affrontarli prima che fosse pronta. Ed ora era
arrivato il momento di parlare di uno di questi.
Eliza tornò nell’ampio salone con
due bicchieri con ghiaccio e due bottiglie, una di vodka e l’altra di whisky,
entrambe prese dalla sua riserva privata. Le posò sul tavolino tra le due
poltrone e riempì i bicchieri per poi porgerne uno a Faith. La bruna sorseggiò
la vodka e sorrise.
-Hai sempre la migliore, quando esco
di qui, quasi non ho il coraggio di berne altre.
-E’ uno dei privilegi di avere
solidi contatti nelle steppe del nord.
Finirono in silenzio il resto dei
drink guardando le fiamme e pensando. Se ne versarono un secondo.
-Per quanti anni hai conosciuto
Catherine?
Eliza sorseggiò ancora il whisky.
-Ci siamo conosciute nel 62, quando
lei era impegnata in un progetto benefico a favore di ragazze malate terminali.
-Sai Liz, conosco così poco di
Catherine, del suo passato… so che aveva una figlia e che le mancava ma non
conosco altro di lei, se non che era una osservatrice. Non so cosa l’ha fatta
diventare
- La vita di Catherine ha subito,
diciamo, una svolta decisiva otto anni dopo che l’ho conosciuta. Io l’ho
aiutata a salvarsi e posso dire che la sua era un’esistenza decisamente
vissuta. Correva molti pericoli a fare quello che faceva ma li ha sempre corsi,
credeva che fosse giusto quello che faceva e lo credo anche io. Sai, ha dovuto
abbandonare la figlia per proteggerla. L’ho aiutata a ricostruirsi una vita da
zero e poi ad entrare negli osservatori. Oggi mi rendo conto che forse ho fatto
male, l’ho messa in pericolo in questo modo, ma lei aveva bisogno di una causa
per vivere, ed io le ho offerto un nuovo mondo.
-E così Catherine aveva un’altra
vita che l’aspettava.
-No Faith. Lei quella vita non
poteva più averla. Ha fatto delle scelte e le ha portate fino in fondo, agendo
sempre per il meglio delle sue possibilità. Non è quello che ti ha insegnato?
Essere coerenti con le proprie scelte? Anche se magari quelle scelte ti fanno
soffrire, o fanno soffrire chi ami? Di scegliere al meglio tra le tue
possibilità e smettere di guardare indietro anche se credi di aver sbagliato?
-Si, me l’ha detto molte volte. Ma è
difficile chiudere gli occhi davanti ai “se”.
-E’ difficile anche vivere con certi
ricordi. Lei si è pentita di alcune scelte, ma ha sempre accettato le
conseguenze. Era una guerriera, sai? Raramente nel corso della mia vita ho
trovato una persona simile. Non si è mai arresa. E questo le ha procurato molti
nemici.
La voce di Eliza era serena, non
distaccata, ma non c’era dolore né rimpianto. Essere un’immortale le aveva
fatto accettare la morte delle persone che amava da molto tempo. Sapeva che
avere rimpianti era inutile, si concentrava sui ricordi piacevoli che aveva.
-Stai cercando di dirmi che Kakistos
la stava cercando per altri motivi, oltre perché era la mia osservatrice?
Eliza sorrise sincera ma lo sguardo
rimase serio. La ragazza cominciava a capire.
-Non lo hai ancora accettato vero?
La sua morte non è stata a causa tua. –Faith fece per protestare. Si sentiva
responsabile, si sentiva responsabile per quella morte da due anni. E non era
un peso facile da portare. –Rifletti un attimo Faith. Come credi che siano
entrati quei vampiri nella casa di Catherine? Lei era una delle migliori
osservatrici che ho mai conosciuto, credi che avrebbe invitato dei vampiri in
casa propria?
Faith la guardò incapace di
comprendere.
-Catherine aveva molti nemici.
Passati e presenti. Kakistos è stato mandato ad ucciderla da qualcuno di
questi. Ho provato a scoprire chi fosse stato ma non ci sono riuscita. Ho
saputo della sua morte solo un anno dopo quello che era successo. –Non spiegò a
Faith perché l’avesse saputo così tardi. –Per questo ho perso le tue tracce e
non ti ho potuto aiutare. All’epoca Kakistos era già morto e non avevo tracce
da seguire. Ma questo non significa che non esistano.
Chigaco,
archivi servizi sociali.
L’archivista, un ometto calvo
dall’età indefinibile aveva protestato non poco all’idea di far entrare una perfetta
estranea in un archivio di stato. Green dall’altro canto aveva “gentilmente”
discusso con lui fino ad avere ragione, promettendogli in cambio qualche favore
in futuro. L’accordo era stato presto fatto.
L’archivista aveva spiegato il
metodo di catalogazione a Buffy ed era sparito dalla vista lasciandola tra due
scaffali pieni di documenti a cavarsela da sola.
Da due ore Buffy era sepolta da
infinite pratiche polverose e non aveva trovato ancora quella che cercava.
Cominciava ad irritarsi, quello non era il suo lavoro in fondo, ma era l’unico
modo di arrivare alla verità. Continuò a cercare leggendo le etichette delle
pratiche per poi passare alle successive.
Il 1983 sembrava essere stato un
anno felice per quanto riguardava le adozioni, il che, tradotto per una città
della grandezza di Chigaco, significava migliaia di adozioni. E naturalmente i
dati non erano stati informatizzati. Cercò di non pensare alla possibilità che
la sua pratica fosse andata smarrita con gli anni.
Per legge tutto quello che lei
poteva sapere era il nome della madre o comunque delle persone che l’avevano
data in adozione, ma lei sperava di riuscire a capire perché. L’archivista era
stato chiaro. Non poteva portare via niente ma poteva fotocopiare tutto quello
che voleva, aveva libero accesso alla documentazione, se c’era qualcosa lei lo
avrebbe trovato. Era sufficiente.
Ci vollero quattro ore per
recuperare la pratica che cercava. Era una cartelletta gialla sporco con una
ventina di prestampati dentro, compilati con la scrittura illeggibile di Green
ed un’altra decina di persone (e ringraziando il cielo alcune erano più
leggibili).
Rimesso tutto a posto (mezz’ora),
prese la cartella e la portò sulla scrivania per cominciare a leggerla. Tagliò
il filo di canapa che la teneva insieme e la sfogliò. Avrebbe giurato di aver
visto alzarsi una nube di polvere mentre l’apriva.
Trovò il suo certificato di
adozione, con i nomi di Joyce e del padre, una trafila di documenti per lei
inutile e finalmente il certificato di nascita in cui appariva il nome della
madre, cancellato in quello che possedeva Joyce, il nome del padre era stato
lasciato bianco. Buffy sospettava che questo fosse illegale ma non poteva
saperlo con certezza, così lasciò perdere, per ora. Leggendo il foglio di
adozione, la copia riservata all’assistente sociale, che lei non avrebbe
neanche dovuto vedere, notò la mancanza di tutti i dati riguardo sua madre, non
c’era neanche una spiegazione per il suo gesto. Beh l’avrebbe avuta da lei
stessa, appena trovata.
Non riuscì comunque a trattenere un
sorriso, ora aveva un nome.
Janet Tisred.
U.S.A.
Da qualche parte lungo la costa occidentale.
Il telefono stava squillando. La
donna bruna, vestita con un tailleur blu notte, lo fissò per un attimo indecisa
se rispondere o no. Era tardi, quasi le dieci di sera e lei, seduta sul divano
sorseggiando un liquore ambrato, voleva soltanto andare a letto e far finire
quella giornata che cominciava ad essere troppo lunga. Poche persone osavano
telefonarle a quell’ora e quelle poche lei non le ignorava, non poteva
permetterselo. Finì il drink in un ultima, lunga, sorsata.
Rispose al settimo od ottavo
squillo.
-Pronto?
Non era stata il primo bicchiere
della serata, ma la voce era quella di sempre.
-Sempre sola?
Lei sospirò, conosceva quella calme
voce maschile, forse troppo per poterle piacere.
-Come se ti riguardasse. Cosa vuoi?
-Quante volte è morta tua madre?
Silea
“Se non ti
fidi di nessuno, nessuno potrà deluderti.”
“Cosa stai cercando di ottenere con
questi rozzi, così evidenti, trabocchetti, B? Questi giochi mentali che hai
imparato da riviste di infimo ordine o per sentito dire? Speri che io mi metta
a spiegare come sono fatta? Che mi metta a raccontare la mia vita? Che risponda
alle tue ottuse domande, esponendo così la mia anima?
Solo per farti capire le mie scelte?
Solo per farti capire cosa ho passato e perché ho agito come ho fatto, senza
che tu voglia comprendere? Così che, se ne avrai voglia, potrai lacerare la mia
anima e ridurla a brandelli?”
U.S.A.
Da qualche parte lungo la costa occidentale.
Faith, con la sua Glock nera, teneva
sotto mira la donna che era apparsa quasi dal nulla dalla fitta boscaglia. Aveva
appena sentito, quasi percepito, il rumore che l’altra aveva fatto per
avvicinarsi, aveva estratto la pistola più per un riflesso condizionato che
pensando ad un vero pericolo. Era mancato veramente poco che la sorprendesse
disarmata.
La cacciatrice si rimproverò per
essersi lasciata trasportare lontano dai pensieri e non aver prestato la dovuta
attenzione a ciò che la circondava. Erano quasi tre ore che guardava quella
casa chiedendosi cosa fare, quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Avrebbe
voluto avvicinarsi, bussare, aspettare la risposta, parlare, vedere, vivere, ma
una strana forza la respingeva da quell’abitazione, la stessa forza che le
aveva fatto attraversare gli Stati Uniti per un solo ricordo, solo per poche
frasi.
Decise di tralasciare quei pensieri
e concentrarsi sul presente. Lasciò che un sorriso ironico le si affacciasse
sul volto, ma non raggiunse gli occhi, serie pozze marroni. Parlò con una nota
di divertimento nella voce.
-Hai qualche idea per uscire da
questa situazione di stallo, entrambe ancora con la loro pelle?
La donna che la teneva sotto tiro la
guardava con rabbia, inesplicabile rabbia, rifletté Faith, lei non le aveva
fatto niente, e un po’ di sorpresa, ma
Faith fece silenzio ed osservò
meglio la donna sulla trentina che le stava davanti, senza mai allontanare
l’indice dal grilletto. Il corpo alto ed atletico era teso, pronto a scattare,
le linee del volto decise, incorniciate da capelli neri lunghi sulle spalle.
Il sorriso divertito si gelò sulle
labbra quando Faith capì chi le stava di fronte. Parlare divenne
incredibilmente difficile, quella che uscì dalle sue labbra sarebbe stata
difficilmente potuta credere la sua voce.
-Tu… sei la figlia di Catherine Parker?
La donna non accennò ad abbassare
l’arma, né mostrò altre visibili reazioni alla domanda, si limitò a fissarla
ancora più duramente per alcuni attimi prima di rispondere.
-Si, sono io. E tu chi saresti?
Era davvero difficile questo per
Faith. Davvero molto difficile. Ad ogni istante sembrava che la somiglianza
aumentasse. Non c’erano le rughe, i capelli erano neri, ma era identica a lei.
La cacciatrice riuscì ritrovare abbastanza controllo di sé per parlare con voce
ferma.
-Diciamo che ho conosciuto tua
madre.
Sunnydale,
campus universitario.
Willow rientrò in camera, fu
sorpresa di trovarci Buffy che l’aspettava ansiosa passeggiando avanti ed
indietro. L’amica sarebbe dovuta tornare solo il giorno successivo, era partita
per andare a trovare una zia di Chigaco. La rossa credeva che fosse una scusa
campata in aria ma non aveva obiettato. Forse Buffy aveva semplicemente bisogno
di stare lontano dalla caccia per un paio di giorni. Ultimamente si comportava
in maniera strana con dei comportamenti che uscivano fuori dai suoi abituali
schemi, anche se non si trattava più di quell’isolamento forzato che si era
imposta qualche settimana prima, senza alcun motivo apparente.
Appena Willow entrò la cacciatrice
le si precipitò incontro con in mano un foglietto di carta sgualcito con sopra
annotato qualcosa. Gli occhi erano duri, ansiosi e nervosi, non si fermavano un
momento correndo dalla mano agli occhi della strega.
-Willow ho bisogno di un favore.
Devo trovare una persona.
La rossa guardò l’amica stupita, la
cacciatrice non le aveva mai chiesto di usare il computer per problemi
personali, non era da lei.
-A cosa ti serve Buffy?
L’altra, per lunghi istanti, rimase
in silenzio, come a chiedersi quanto volesse dire. Questo fece male a Willow,
sapere che Buffy aveva dei segreti nei suoi confronti, poi pensò che anche lei
ne aveva avuti. Erano amiche.
-E’ una cosa personale, molto
importante. Non sono ancora pronta per dirtelo, ma ho disperato bisogno di
trovare quella persona. E’ importante Wil, ti prego, fidati di me.
Willow non aveva visto Buffy così
agitata neanche in caso di un’apocalisse. Annuì alla richiesta dell’amica e si
sedé al computer accendendolo. Si collegò ad internet per poi girarsi.
-Cosa sai?
-Solo il nome.
-D’accordo, farò del mio meglio…
Travers stava esaminando alcuni
documenti ma non prestava veramente attenzione al suo lavoro, continuava ad
osservare il vasto atrio dove decine di persone si muovevano, più o meno
silenziose, badando ai fatti propri. Non era costume del concilio fermarsi a
parlare durante il lavoro né mostrarsi espansivi oltre la rigida etichetta che
regolava i rapporti interpersonali.
Quentin stava aspettando di vedere
Magdalene, doveva parlarle e l’ingresso era il terreno più adatto per farlo
essendo completamente neutrale.
Come tutte le mattine alle otto e
mezza Marlin varcò la doppia porta di vetro che dava sul maestoso atrio del
terzo piano e lo attraversò senza salutare nessuno, non la si poteva
esattamente definire una persona affettuosa, dirigendosi direttamente nel
proprio ufficio.
Si fermò solo quando una figura le
ostruì la strada. Era un fatto insolito, in genere le persone cercavano di
evitarla. La mise a fuoco, uscendo dai propri pensieri, e riconobbe Travers. Lo
guardò un attimo stupita prima di chiedergli cosa volesse, ma solo dopo averlo
salutato con educate parole e gelida voce. Il fatto che si odiassero non
avrebbe influito sul comportamento che entrambi avrebbero tenuto nei confronti
di un altro dirigente del consiglio. Si trattavano in maniera fredda ma
educata, in questo senso perfettamente inglesi.
-Buongiorno anche a lei. Miss Marlin
dobbiamo parlare.
Era serio, ma lei non ricordava l’ultima
volta in cui non lo fosse stato. Lo guardò un attimo ancora prima di
rispondere.
-Perché?
-Qualcosa che riguarda entrambi, le
cacciatrici ed il passato.
Magdalene non sapeva a cosa si
riferisse esattamente ma tutto quello che riguardava quegli argomenti meritava
di essere discusso. Lui aveva fatto la prima mossa, venendole a proporre questo
incontro, e lei sapeva che non lo avrebbe fatto per cose poco importanti.
Accettare era ovvio, il solo problema era nel trovare un luogo adatto, fare
quel genere di conversazione in un atrio non era consigliabile.
-Possiamo incontrarci alla
biblioteca alle sette di questa sera se per lei va bene Mister Travers.
-Sarò lì.
Detto questo, senza una parola di
saluto, si girò per tornare nel proprio ufficio. I pochi che avevano osato
fermarsi a guardare i due parlare finsero indifferenza e tornarono al loro
lavoro evitando accuratamente di incontrare lo sguardo con altri, ricordandosi
improvvisamente di appuntamenti dimenticati e scordandosi anche quello che
avevano visto.
Sunnydale,
campus universitario.
Niente. Dagli archivi statali non
risultava che Janet Tisred fosse mai esistita in america o meglio, non quella
che cercava Buffy. C’erano state delle omonime, ma abitavano entrambe in Texas
e non avevano figli. Buffy le aveva detto che cercava una donna con almeno un
figlio.
Willow avrebbe voluto farle delle
domande ma si trattenne. Non capiva dove volesse arrivare la sua amica e questo
la infastidiva molto. La preoccupava anche. Che nel loro rapporto fosse cambiato
qualcosa e lei non se ne era neanche accorta fino a quel momento? Aveva come la
sensazione che Buffy non si fidasse più di lei, e questo le dispiaceva. Questo
la impauriva.
Volle abbandonare quei pensieri. Lei
era la sua migliore amica, punto. Non c’era altro. Probabilmente il suo
comportamento era dovuto a una qualche forma di stress post-caccia, o qualcosa
di simile, non che esistessero trattati sulla psicologia delle cacciatrici da
consultare. Almeno non che lei sapesse.
Questa ondata di pessimismo non era
da lei. Colpa della frustrazione crescente che provava. Le sua abilità di
hacker non sembravano sufficienti a trovare qualcosa. E questo non si era mai
verificato prima.
Insomma, quella ricerca si stava
rivelando decisamente frustrante. Aveva controllato nell’archivio delle carte
di identità, niente, nel registro delle patenti. Niente. Poi era entrata anche
nelle registrazione delle tessere sanitarie. NIENTE. E con il passare del tempo
la cacciatrice era sempre più depressa. Eppure doveva risultare qualcosa…
-Hey, Buffy non sai altro di lei?
Qualsiasi cosa…
-Non credo… So che era a Chigaco nel
1983, niente di più.
Era un punto di partenza. Willow
continuò a cercare.
Nulla. Non risultava nulla negli
archivi cittadini, non era segnata nelle liste dei cittadini con diritto al
voto. L’abilità di Willow nel trovare le informazioni necessarie attraverso la
rete sembrava svanita. Oppure era svanita chiunque stessero cercando.
Rimaneva solo un’ultima possibilità
percorribile, altrimenti o chi cercavano non era davvero mai esistito o faceva
parte di un qualche servizio segreto e non era igienico entrare in quegli
archivi dal proprio computer senza un minimo di preparazione. I giganteschi
archivi on-line dei giornali erano la sua ultima risorsa. Fece partire una
ricerca incrociata tra giornali nazionali e locali con il nome della donna che
cercava e l’anno interessato. Era una possibilità remota ma non le veniva in
mente altro.
Dopo quattro ore, passate a fingere di
studiare mentre osservava la cacciatrice consumare il pavimento della loro
stanza, il computer trovò un riscontro. Era un trafiletto nella cronaca di un
giornale locale, poche righe. Willow, sospirando, chiamò Buffy che arrivò di
corsa aggrappandosi alla nuova speranza. Si sporse verso lo schermo e vide i
caratteri neri sullo sfondo di un grigio sporco, con a fianco una foto in
bianco e nero a cui non prestò attenzione.
Lesse velocemente le poche righe.
“Oggi, in un incidente stradale
all’uscita dell’autostrada, è morta Janet Tisred, inglese, di trentasei anni.
Le modalità dell’incidente non sono ancora chiare alla polizia che farà
proseguire le indagini alla ricerca di risposte. La donna, sola, lascia le due
figlie una di quasi tre anni, l’altra di pochi mesi.”
-E’ lei.
Fu tutto quello che Buffy riuscì a
dire prima di scoppiare in lacrime. Non ricordava quando era stata l’ultima
volta che aveva pianto. Che aveva pianto di fronte a qualcuno. Willow non
capiva cosa stesse succedendo all’amica, ma si alzò per abbracciarla, tentando
di confortarla. Era strano tenere tra le braccia quella ragazza e sentirla
singhiozzare. In genere i ruoli erano invertiti.
La donna era una cittadina inglese…
ecco perché non risultava, eppure anche se straniera le tasse doveva pagarle
ugualmente… a meno di essere una turista. Troppe domande senza risposte. Troppi
punti ancora oscuri, come se qualcuno avesse cercato di far sparire tutto ed
avesse dimenticato un’unica traccia. Ma che interesse si poteva avere nel far
sparire la vita di una donna simile?
Più tardi, quando avesse capito cosa stesse
succedendo all’amica avrebbe provato a trovarne le risposte. Ma, soprattutto,
chi era quella donna per Buffy? Perché la sua amica era così sconvolta dalla
morte di una sconosciuta, avvenuta quasi venti anni prima?
Delaware,
casa di Miss Parker.
Faith entrò nella casa precedendo
l’alta bruna che l’accompagnava. Questo non era esattamente un gesto di
cortesia da parte della sua ospite, quanto piuttosto una mossa previdente per
evitarsi di finire con una pallottola nella schiena. Faith aveva tacitamente
accettato questa posizione, relativamente indifesa, per pratici motivi, non
certo per bontà d’animo.
Voleva che la donna si fidasse
almeno un minimo di lei, ed inoltre, come cacciatrice, aveva ben più di una
possibilità di uscire viva da quella situazione, considerando il fatto che
l’altra non impugnava la pistola, ma la teneva nella fondina alla cintura. Di
certo Faith non era più veloce di un proiettile, ma le bastava esserlo più di
chi sparava per sopravvivere.
La cacciatrice superò la soglia ed
immediatamente esaminò l’ambiente per riflesso condizionato. Controllò le vie
di fuga e di accesso, l’eventuale presenza di altre persone, per poi
soffermarsi sul mobilio e quello che i particolari della stanza le potevano
rivelare sulla padrona di casa. Conoscere il proprio interlocutore era basilare
per quello che voleva dire.
Notò la bottiglia di liquore quasi
vuota sul tavolino vicino al divano ed il singolo bicchiere poggiato lì vicino,
eppure la donna non sembrava ubriaca, anzi era decisamente lucida. Il resto
della stanza era pulito ed in ordine, non riusciva a vedere nulla fuori posto.
Se tutto questo le comunicava qualcosa, questo si poteva tradurre in un solo
pensiero, “fai attenzione, si tratta di un osso duro e di una donna abituata a
comandare”.
Miss Parker richiuse la porta dietro
di sé, notando come la sua “ospite” evitasse di fare gesti bruschi e tenesse le
mani lontano dalla fondina ascellare dove aveva riposto la sua glock, cominciò a
credere che fosse venuta realmente per parlare con lei e non per spiarla per
conto del Centro.
-Accomodati pure.
Faith si sedé sul divano ed assunse
deliberatamente una posizione rilassata, rilasciando i muscoli delle spalle ma
continuando a tenere la schiena ben eretta. Miss Parker rimaneva in piedi ad un
paio di metri dal sofà, in posizione dominante, e la fissava negli occhi
dall’alto del suo metro e ottanta.
-Cominciamo dall’inizio. Tu chi
saresti?
-Faith.
Questo fece alterare Miss Parker. La
donna non era certo famosa per la sua pazienza ma oggi era decisamente
irritabile, addirittura più del solito. E lei odiava essere presa in giro,
perciò quando parlò, per essere più esatti, sibilò con disprezzo, era la regina
di ghiaccio di cui, in un posto dove un singolo errore poteva essere pagato con
la morte, tutti avevano paura.
-Non hai nemmeno un dannato cognome!
“Certo che se fossi un'altra persona
questa donna mi metterebbe un sacro terrore addosso” rifletté Faith “Del resto è
la figlia di Catherine e non mi sarei aspettata niente di meno.”. Non si lasciò
intimorire, la cacciatrice aveva affrontato troppi altri avversari per aver
paura di semplici atteggiamenti.
-Non credo che ti riguardi, non
ancora. E il tuo nome sarebbe…
-Miss Parker. Ora voglio sapere dove
avresti incontrato mia madre. E fa attenzione a dirmi la verità, perché se non
è così, quanto è vero che esiste Dio, ti ammazzo con le mie mani.
Non stava scherzando e lo sapevano
entrambe.
-La verità? Sicura di volerla sapere?
–ma era una domanda retorica. -Tua madre? Era la mia osservatrice. Abbiamo
vissuto insieme per qualcosa come sei mesi.
E Faith le raccontò cosa era
successo, chi lei era, le disse del concilio ed infine di come era morta la
madre. Miss Parker, mentre il racconto si protraeva, aveva cominciato a
passeggiare nervosamente per la stanza, come suo solito. Con l’avanzare del
racconto si rabbuiava od illuminava ed il passo subiva leggere modifiche, ma
ascoltò tutto in silenzio, senza interrompere o fare commenti.
Nel momento in cui ebbe la certezza
che la madre era davvero morta, morta dilaniata, si fermò per girarsi e fissare
nuovamente negli occhi Faith.
-E perché tu, prode cacciatrice, non
avresti fermato quel vampiro?
Faith avrebbe voluto inghiottire a vuoto
mentre i ricordi le tornavano alla mente così facilmente, e con loro i crampi
allo stomaco che erano diventati così familiari. Ma la domanda di Miss Parker
era legittima e lei si sentiva in dovere di rispondere. Non era vero, come
sostenevano molti, che lei non avesse senso dell’onore, semplicemente si
limitava a mostrarlo solo alle persone che stimava. E la figlia di Catherine,
in quanto tale, era una di queste.
-Quella notte mi assalirono in
dieci. Mi pestarono con mazze da baseball e catene, fino a ridurmi ad una
maschera di sangue. Fui torturata per qualcosa come dieci ore, alla fine
dubitavo di avere delle costole sane. Ogni volta che perdevo i sensi dal
dolore, mi risvegliavano, acqua fredda od altri metodi, non ricordo. Mi hanno
costretta a vedere Kakistos uccidere la mia osservatrice, che era il mio unico
punto di riferimento. Non avevo nulla da guadagnare dalla sua morte. Se avessi
potuto fare qualcosa, credimi, l’avrei fatta.
Ci fu silenzio per la prima volta
dopo mezzora. Miss Parker aprì il bar e versò del gin da una bottiglia muova,
ignorando quella già aperta sul tavolo, in due bicchieri di cristallo senza
aggiungere ghiaccio od altro. Uno lo porse a Faith. L’altro, lo scolò lei di un
fiato solo.
Angel rientrò nel proprio
appartamento alle quattro del mattino circa. Era stanco, era stata una lunga
nottata, aveva dato la caccia ad un demone decisamente abile e sfuggente ma che
non era un valido guerriero in un corpo a corpo. Lo aveva seguito per tre ore
nei peggiori quartieri della città prima di riuscire a raggiungerlo e a finirlo
dopo un breve combattimento a mani nude. E così aveva risolto un altro caso.
Chiuse la porta e si tolse la lunga
giacca di pelle completamente immerso nei propri pensieri, era stanco e non
riusciva a percepire con chiarezza quello che gli stava attorno, gli sembrava
che ci fosse qualcosa. Scosse la testa per schiarirsi un po’ le idee e mentre
si allungava per appendere il cappotto si rese conto che c’era qualcun altro in
quella stessa stanza con lui.
Se ne era accorto con un decimo di
secondo di ritardo. Continuandosi a muovere casualmente, come se non si fosse
accorto di niente provò ad esaminare meglio la stanza a cui dava le spalle.
C’era silenzio, non percepì movimenti e poté solo ipotizzare che l’altro era
direttamente dietro di lui.
Riuscì ad individuare l’esatta
posizione del potenziale avversario solo con la sua vista acuta da vampiro
quando si girò per affrontarlo. Era tranquillamente appoggiato ad una parete
vicino ad una finestra ma non nel cono di luce proiettato da essa.
La figura, in leggera contro luce,
fece qualche lento passo in avanti e si fermò a due metri da lui.
-Una volta avresti agito in maniera
un po’ differente.
Angel non riuscì a riconoscere la voce
e si rese conto solo ora che l’altra figura era in realtà una donna avvolta da
un ampio soprabito. Come sempre i suoi dubbi non trasparirono in superficie.
-Ad esempio avrei acceso la luce?
-Non fare i tuoi giochini mentali
con me Angel, non sono una ragazzina spaventata. Al buio tu vedi molto bene. La
luce avvantaggerebbe me.
Lei sorrise e così fece lui
accordandogli la vittoria. Poi la donna proseguì.
-Una volta non avresti voltato le
spalle ad un avversario.
Sorrise ancora. Si era accorta del
suo ritardo nel localizzare la presenza estranea. Angel fece un leggero cenno
con il capo, come a dare un assenso.
-Di cosa vuoi parlare?
Non era lì per attaccarlo,
altrimenti lo avrebbe già fatto. E sinceramente Angel non aveva la certezza che
avrebbe vinto quello scontro. Quella donna non era ciò che appariva e per ora
questa era la sua unica certezza.
-Interessi comuni.
Angel la guardò un po’ di traverso,
divertito, chiedendosi cosa volesse davvero quella donna mentre cercava di
ricordare dove avesse già sentito quella voce profonda e calda. Doveva essere
stato molto tempo fa, probabilmente in un’altra lingua.
-Saprai che non sono più quello di
una volta.
-E’ per questo che sono qui. Ad
Angelus non interesserebbe quello che voglio dirti. Diciamo che lui, che tu, -
Sorrisero ancora. - era un po’ più assetato di potere.
-Allora accomodati mentre accendo la
luce.
-Adesso come allora non fai domande
a cui gli altri potrebbero non rispondere.
La donna si sedé su una poltrona e
la luce la illuminò. Angel la fissò negli occhi riconoscendo vagamente la
figura familiare del volto, senza però riuscire a collocarla in uno spazio ed
un tempo definito. Frustrato, fece mostra del suo migliore sorriso per poi
rivolgersi di nuovo a lei, facendo riferimento a ciò che non aveva chiesto.
-Il tuo nome appartiene solo a te.
–Rispose educatamente.
La donna sorrise divertita.
-Oggi mi chiamano Eliza, ma tu non
mi hai conosciuto con questo nome.
L’immortale continuò a sorridere
mentre gli occhi scuri di lui rimanevano impenetrabili come sempre.
Spike stava facendo quello che
faceva ogni sera da quando quelli dell’Iniziativa gli avevano piantato un chip
nel cervello. Beveva.
E oggi aveva abbastanza soldi in
tasca da potersi prendere una sbornia colossale. Ne sentiva davvero il bisogno.
Sentiva la necessità di staccare per qualche ora dai suoi problemi. E ne aveva
la possibilità, avendo per cosi dire “trovato” un centone nella tasca di un
altro vampiro che era diventato, Spike era affranto per questo, molto affranto,
cenere.
Investì il suo capitale in bourbon,
non certo di annata, né tanto meno buono, solamente accettabile da mandare giù
ed abbastanza alcolico da stenderlo con poche bottiglie. Prima di mezzanotte
era così sbronzo da non ricordarsi neanche più che era un vampiro.
Girovagava per le strade senza fare
attenzione a nulla, barcollando e canticchiando vecchie canzoni tra sé. Non si
sentiva bene, no, non bene. Ma non sentiva ed era abbastanza.
Infine arrivò ad un punto tale di
stanchezza mista sempre allo stordimento dell’alcool per cui anche lui, come
tutti gli ubriachi, perse l’equilibrio cadde rovinosamente tra i bidoni di un
vicolo dimenticato, scivolando in uno stato di dormi veglia.
Sunnydale,
campus universitario.
Tra i singhiozzi Buffy le aveva
raccontato chi era Janet. Willow era scioccata. Le sembrava così assurdo…
Eppure era vero, l’età di Buffy e della bambina più grande coincidevano, i
documenti di adozione erano veri. Mentre la rossa controllava i documenti Buffy
si era un po’ calmata.
La bionda le aveva chiesto di
trovare tutto il possibile sulla madre e magari di rintracciare la sorella più
piccola. Non sarebbe stato facile, Willow glielo aveva detto, le aveva anche
parlato di apposite agenzie che cercavano di riunire queste famiglie separate.
Ma Buffy era troppo confusa per
cercare davvero di trovare una soluzione efficace. Quella mattina non sapeva
ancora perché la madre l’avesse data in adozione. Poteva credere quello che
voleva, che fosse stata costretta, che fosse stata una libera scelta per darle
una vita migliore.
Ora sapeva la verità. Era morta. E tutta la
rabbia che Buffy aveva provato era scomparsa e con essa anche la speranza di
ritrovarla.
Non era stata abbandonata. Le
sembrava così importante anche se in realtà non cambiava nulla. Ad un tratto le
venne voglia di ridere. Di ridere dell’assurdità della situazione. Sua madre
era morta quando lei aveva tre anni. Aveva una sorella minore che non aveva mai
visto, che per quello che sapeva lei poteva essere già morta, oppure una
ricchissima pop-star. Lei Buffy Summers o Tisred era inglese.
Avrebbe riso volentieri, ma si
sarebbe trattato di un riso convulso ed isterico.
Delaware,
casa di Miss Parker.
Ci fu un secondo bicchiere di gin ed
altri dieci minuti di silenzio. Poi Miss Parker fece l’ultima domanda a Faith.
-Perché sei qui?
La cacciatrice giocherellava con il
bicchiere in mano mentre osservava i riflessi della luce sul cristallo
lavorato. Parve non aver sentito la domanda, ma dopo pochi secondi cominciò a
parlare.
-Spesso i suoi occhi. –cominciò a
bassa voce Faith, come parlando di qualcosa che non sarebbe dovuto essere
ascoltato. – diventavano lontani, come se Catherine stesse guardando qualcosa
di lontano, di irraggiungibile. Accadeva spesso sai? –La cacciatrice alzò il
volto per guardare negli occhi lo specchio della persona di cui stava parlando,
le labbra per la prima volta illuminate da un vero sorriso dall’inizio di
quella conversazione.- Per qualche attimo, pochi secondi od un minuto, lei
semplicemente non era più lì con me. Andava in una qualche posto lontano, che
evidentemente rimpiangeva, un posto che la faceva sentire triste e felice
insieme. Io non chiedevo mai di quello sguardo. Era la sua vita. Apparteneva
solo a lei, io non ne facevo parte. Se avesse voluto me ne avrebbe raccontato
lei. Erano ricordi talmente vivi che la attraevano irresistibilmente, ma quando
ne riusciva, lo vedevo, ne soffriva. –Faith fece un attimo di pausa e smise di
giocare con il bicchiere che posò sul tavolino. Rialzò lo sguardo sul volto di
Miss Parker e continuò il suo ultimo racconto. -Un giorno come tanti altri per
qualche istante fissò quel qualcosa che poteva vedere solo lei, quel suo mondo,
poi si riprese, mi guardò e sorrise. Aveva un bel sorriso. Mi raccontò di te.
Per la prima e l’ultima volta ti menzionò. Ma tu eri sempre nei suoi pensieri,
lo vedevo, lo potevo sentire. Mi rivolse poche frasi, ma le ricordo ancora a
memoria, come se mi avesse parlato pochi minuti fa. “Sai Faith io ho una
figlia. E’ una ragazza bellissima, forte, capace, sensibile. Mi manca molto, ma
so di non poterla più incontrare. Sai, vorrei che voi due, un giorno, vi
conosceste. Vi somigliate molto. Scommetto che andreste d’accordo.”
Ci fu un altro lungo silenzio che
nessuna delle due aveva il coraggio di riempire.
-Non sono qui per chiederti perdono,
non voglio la tua pietà, non me ne farei nulla. Ma non credere di potermi
odiare per quello che è successo a tua madre. Non ne hai diritto né motivo.
Sono qui solamente per informarti. Kakistos è morto. E’ stato ucciso davanti ai
miei occhi. – “Come Catherine.”-Ma ho motivo di credere che si sia trattato di
un omicidio su commissione. Quel vampiro non era lì per caso, sapeva chi cercare
e come arrivarci. –Faith si tolse dalla tasca un bigliettino e lo posò sotto al
bicchiere, sul tavolino. –Questo è il mio numero di cellulare.
Detto questo si alzò dal divano ed
uscì senza alcun gesto di saluto.
Anche Angel si sedé su una poltrona,
quella di fronte alla sua inattesa ospite. Si fissarono per qualche altro
istante in silenzio prima di cominciare a parlare. Si stavano studiando
apertamente aspettando.
-Dunque “Eliza”, - stressò la parola
ad evidenziare l’ironia, non credeva che quello fosse il suo vero nome. -posso
dire che tu non sei un umana, che non sei un demone. Quindi mi potresti
illuminare sulla tua natura?
Il suo tono era cordiale e
sinceramente interessato, amava la cultura, adorava imparare. Quella che gli
stava davanti poteva essere o meno un’avversaria, ma certamente lui avrebbe
cercato di imparare qualcosa da lei. Forse era questo quello che più gli
piaceva dell’immortalità, infinite possibilità di conoscere.
-Sono un’immortale.
Angel la guardò un attimo stupito,
il suo sguardo si fece lontano e poi, come se recitasse qualcosa a memoria,
appreso tanto tempo prima ma mai dimenticato:
-“Gli immortali sono umani che, in
seguito ad una morte violenta, tornano a vivere una vita eterna che può essere
spezzata solo con il taglio della testa.” Non ne avevo mai incontrato uno.
-O forse non te ne sei reso mai
conto.
Angel non era una persona ottusa e
ammetteva con sincerità che non aveva conosciuto ancora tutto quello che c’era
nel mondo, anche dopo più di duecento anni di vita. “Ci sono più cose in cielo
ed in terra di quante ne dica la tua filosofia, Orazio”. Shakespeare, Amleto.
-E’ possibile. –fece una breve
pausa.- Quando ti ho incontrato per la prima volta tu eri già immortale ed io
vampiro non è vero? –Gli sembrava di riconoscere qualcosa nella figura davanti
a lui.
-Esatto.
-Riconosco il tuo viso ed il tuo
odore. Deve essere stato molto tempo fa, quando ero giovane. –Quando era
giovane non faceva veramente attenzione a tutto quello che lo circondava, non
l’attenzione che avrebbe prestato dopo, era ancora inebriato e ottenebrato
dalle nuove possibilità percettive che aveva acquistato. Ricordava vagamente,
molto vagamente i tratti di quel volto, ma non significava molto, si incontrano
persone molto somiglianti tra loro in decenni di viaggi e spesso si scambiano.
La cosa che lo rendeva quasi certo
di averla già incontrata era una specie di “assenza” che provava, come se non
la vedesse chiaramente. Per riconoscerla come umana mancava qualcosa e lui non
riusciva a capire cosa. Non era come quegli uomini, o donne, che hanno un
qualche potere, e tu lo senti, lo avverti. Era l’esatto contrario. Tutto questo
era frustrante. Lei sembrava, appariva come… meno evidente. Aveva capito. Era questa
la differenza, lei era come un’ombra ai suoi sensi, era per questo che non si
era accorto subito della sua presenza nella stanza.
-“Quando ero giovane”…Perché? A soli
duecentocinquanta anni ti consideri già vecchio Angel?
La sua voce era ironica nel suo tono
basso. Il vampiro sorrise chiedendosi quanti anni avesse davvero quella donna
che non ne dimostrava più di trentacinque.
-No, non mi considero vecchio,
diciamo maturo. Non credo di essere il più anziano in questa stanza.
Eliza sorrise.
-Probabilmente hai ragione.
-Di
cosa vuoi parlare?
-Sai che cosa è il concilio degli
osservatori, Angel?
Lui rispose senza veramente capire a
cosa volesse arrivare l’altra.
-Certo che lo so. E’
un’organizzazione che ha il compito di trovare ed addestrare la cacciatrice a
compiere il suo sacro dovere di dare la caccia ai vampiri e sterminarli per
proteggere l’umanità.
-Non hai risposto alla mia domanda
Angel. Non ti ho chiesto chi sia o cosa faccia la cacciatrice. –Lui la osservò
un po’ risentito e confuso. –Credi davvero che il concilio si accontenti di
guidare una “prescelta” nel suo “sacro dovere”?
-So che il concilio usa anche altri
agenti, ma lo fa principalmente per tenere d’occhio la popolazione di demoni in
zone lontane dalla cacciatrice.
-Diciamo così Angel. Conosci la
verità, frammenti della verità, ma non li hai mai messi insieme. Segui un
attimo il mio ragionamento. Quale è il vero scopo del concilio? Spero che non
crederai alla favoletta di salvare e proteggere l’umanità.
-Una volta era così.
Lei sorrise triste e divertita.
-Una volta si credeva fosse così.
Gli osservatori, o meglio, i loro capi, cercano la sola cosa che accomuna
tutti, il potere. Il fatto che non permettano la distruzione del mondo è una
conseguenza di questa ricerca. E’ lo stesso motivo per cui le così dette
superpotenze non usano le armi più potenti in loro possesso. Si ritroverebbero
vittoriose sul nulla.
Angel non era stupito, lo aveva
sospettato in un certo senso. Non ne aveva mai avuto la certezza ma non era
un’idea così aliena. Questo spiegava molti altri comportamenti del concilio che
aveva osservato nella sua vita ma a cui non aveva trovato una ragione valida.
-Non vedo questo cosa abbia a che
fare con me. Se c’è qualcuno a cui può interessare ciò, è la cacciatrice, non
sono io.
-Se mi fai arrivare al punto… Il
potere che cercano al consiglio è il potere sul mondo sotterraneo, quel mondo
non pubblicizzato di cui noi facciamo parte. Quello che tu non sai, quello
contro cui non ti sei ancora scontrato, è che il concilio non vuole nessun
possibile leader che possa, in un futuro, essergli dannoso, sopravviva e
prosperi. Vogliono evitare il sorgere di altre organizzazioni che possano
detenere il controllo su qualcosa.
-Ed io sarei uno dei possibili capi.
-Esatto, lo sei già stato. E non credere
che per il fatto che tu non uccida più esseri umani loro ti appoggeranno o
sosterranno. Quando si accorgeranno di te, del fatto che sei vivo e che
“lavori” in una città importante come Los Angeles, questo non li fermerà per
più di un secondo. Il concilio è un club molto esclusivo, un club in cui solo
gli umani possono entrare. Vampiri con l’anima, ed immortali, non vi possono
accedere, per loro, noi siamo semplici pedine od ostacoli.
Angel non era stupito, disgustato
dal fatto che il concilio si nascondesse sotto il velo del protettore della
Luce, ma anche incuriosito.
-E tu come faresti a sapere tutto
questo?
-Sono stata un’osservatrice.
Delaware,
casa di Miss Parker. Due ore prima.
Miss Parker si versò un altro
bicchiere di gin per finirlo in un solo sorso. Fece per versarsene ancora ma si
accorse che la bottiglia era vuota. Si alzò di controvoglia dal divano per
andare a procurarsene un’altra. Stava sbagliando a cercare di assimilare le
emozioni che la stavano sommergendo in questo modo, lo sapeva bene. Sapeva che
non avrebbe risolto nulla e non era un mistero che l’orlo della vera dipendenza
dall’alcool era vicino, molto vicino.
Nelle ultime trentasei ore aveva
quasi finito la scelta scorta di superalcolici del proprio bar e dormito per
non più di quattro ore. E questo aveva lasciato i suoi effetti, come il
malditesta che minacciava di farle saltare il cervello, che non aveva aspettato
il mattino successivo per presentarsi, e la stanchezza che si sentiva addosso,
come se avesse quaranta di febbre.
Gli occhi le bruciavano non solo
dalla stanchezza ma anche dalle lacrime che non aveva pianto. Si strinse un po’
di più nella camicia a quadri, il suo ricordo di Thomas, e rabbrividì
osservando, senza vederlo, il bicchiere vuoto sul tavolino. La facciata di
impassibilità e perfezione era crollata come un castello di carte appena Faith
aveva lasciato quel salone, come se la bruna si fosse portata via con sé la sua
forza residua, quei nervi incrollabili (creduti da tutti incrollabili) che la
sostenevano, lasciando Miss Parker sola come non si era sentita da più di un
anno.
Il telefono squillò e le venne
voglia di ridere. Era cominciato tutto così meno di ventiquattro ore prima. Poi
aveva saputo che sua madre non era morta per mano di Raines, quel colpo sparato
a bruciapelo, e aveva ritrovato dentro di sé la forza di sperare che fosse
ancora viva. Per poi scoprire da una perfetta sconosciuta che lei era morta per
mano di un vampiro, di un vampiro, soltanto tre anni prima a Boston, per più di
venti anni creduta morta e onorata e pianta come tale dalla figlia quando non
era così.
Sollevò il ricevitore ed indossò di
nuovo la maschera di invulnerabilità, quella corazza che la sosteneva e si
preparò ad una discussione con chiunque fosse all’altro capo, Jarod, il padre,
od anche Sidney. Ora che ci pensava, aveva quasi voglia di parlare con lo
psicologo, magari le avrebbe fatto bene, e del resto, per certi versi, Sidney
era un padre per lei. Poi scosse la testa e cercò di snebbiarsi un po’ il cervello,
ottenendo solo un aumentare delle pulsazione che sembravano volerle spaccare il
cranio.
-Parla Miss Parker, chi è?
-Salve piccola Parker.
Le rispose una voce profonda e calda
in ucraino che lei non mancò di riconoscere. L’aveva sentita per la prima volta
il giorno prima che il padre la facesse
entrare a lavorare nel Centro, le aveva detto di essere una vecchia amica della
madre. Miss Parker non le aveva creduto e le aveva quasi sbattuto in faccia il
telefono quando la voce le aveva cominciato a raccontare cose che solo
Catherine poteva sapere.
In quel momento aveva saputo che si
poteva fidare di lei, chiunque fosse in realtà. Durante quella prima telefonata
l’aveva messa in guardia contro i pericoli del Centro, senza consigliarle di
non entrarci, sapeva che Miss Parker si sentiva obbligata a quel passo.
Quei consigli avevano salvato più di
una volta la giovane ventiseienne, che per la prima volta, dopo tanti anni,
tornava a camminare lungo quei corridoi bui. Questa voce incorporea l’aveva
accompagnata per gli ultimi dieci anni, si fidava completamente di lei, non le
aveva mai mentito. Con il passare del tempo, assistendo a sempre più tradimenti
e curiosi incidenti, Parker l’aveva
messa alla prova più di una volta, ma la voce si era sempre rivelata sincera.
Così, quella voce che parlava
l’ucraino come se fosse la sua lingua madre, era diventato il segreto meglio
custodito da Parker, il consigliere che conosceva le risposte, l’unico che
gliele dava. A volte si era fermata a pensare a come apparisse quella donna dal
dolce accento, ma non aveva mai desiderato incontrarla. Oltre che per ovvi
motivi di sicurezza, amava immaginarsi come meglio credeva la sua “fonte”, e
così non aveva mai tentato di contattarla. Era sempre l’amica di Catherine a
chiamarla quando aveva bisogno.
-E’ un piacere sentirti di nuovo.
Si sentiva rasserenata al solo
parlare con lei. Si lasciò cullare da questa sensazione.
-Fa molto piacere sentirti anche a
me, giovane Parker. Ma credo che non sia un momento felice per te, è per questo
che ho chiamato.
-Sai già tutto, vero?
Miss Parker non era stupita. In
qualche modo l’altra sapeva sempre quello che le succedeva. Anzi, spesso sapeva
più dei diretti interessati.
-Molto. Hai già incontrato Faith?
-Si, mi ha detto di mia madre, mi ha
raccontato di vampiri e cacciatrici. Come se il mondo non fosse brutto a
sufficienza. Speravo che almeno i demoni fossero solo leggende, anche se con la
gente con cui lavoro ogni giorno avrei dovuto capirlo prima, immagino. Faith è
una ragazza strana, credo di potermi fidare di lei, ma sento che è pericolosa.
-Puoi fidarti di lei. La conosco e
anche Catherine si fidava di lei.
-La conosci? – per giungere alla
conclusione successiva il salto logico era molto breve.- Sapevi che Catherine
era ancora viva.
Non c’era bisogno della conferma.
Strano, Miss Parker non si sentiva arrabbiata con l’amica, perchè ormai era
anche sua amica, forse tutto quell’alcool l’aveva fatta smettere di provare
qualsiasi tipo di sentimento. Ma non era vero, si sentiva sola e vuota.
-Si, lo sapevo. Ma se te lo avessi
detto l’avrei messa in pericolo, e anche tu saresti finita uccisa. Come ogni
figlia non avresti accettato la separazione senza agire, non è da te. Mi ha
chiesto lei di badare a te, giovane Parker.
-Aveva scelta?
-No.
La linea suonò di nuovo libera nella
cornetta appoggiata all’orecchio di Parker.
La donna posò il ricevitore per poi
portare la bottiglia in cucina e buttarla nel cestino. Si massaggiò le tempie
riuscendo a calmare appena il malditesta arrivando a mettere due pensieri
coerenti in fila. Non aveva fame, ma sapeva che doveva mangiare, così si
preparò un po’ di insalata ed una bistecca, limitandosi a bere acqua ed a
scioglierci un paio di aspirine. Fu un pasto veloce e silenzioso che consumò
preparandosi a quello che avrebbe dovuto affrontare.
Finita la cena ammucchiò i piatti
nel lavandino ed andò a farsi una lunga doccia bollente. Quando ne uscì le era
passato il malditesta e le era tornata la grinta di sempre. Con i capelli
ancora bagnati tornò in salone ed afferrò il telefono.
La prima chiamata fu per Sidney. Gli
disse che era stata male tutto il giorno e non aveva avuto voglia di avvertire.
Lo psicologo non fece commenti, se non le credeva non glielo fece notare, la
conosceva abbastanza da sapere di non fare domande. Fu una conversazione breve,
ma si conoscevano da abbastanza tempo da poter saltare i convenevoli. Lei lo
avvertì che anche l’indomani mattina sarebbe arrivata con un paio di ore di
ritardo.
Poi Miss Parker prese in mano il
biglietto bianco, un cartoncino ruvido al tatto con una scritta nera fatta in
fretta, su cui era annotato il numero di cellulare di Faith. Lo osservò un
attimo, rigirandolo pensierosa tra le dita, poi compose il numero.
La biblioteca del Concilio degli
Osservatori poteva a ben diritto essere definita immensa. Conteneva migliaia di
volumi su magia, mitologia, scienza ed arte occulta. Libri che erano stati
raccolti in secoli, a costo di enormi sforzi, non solo di natura economica. Tra
quegli scaffali ne si potevano trovare alcuni unici, dati per scomparsi o
distrutti dal resto del mondo e conservati segretamente lì. Era la biblioteca
più vasta sulla materia.
Od almeno, la più vasta raccolta di
informazioni conosciuta su quel mondo che non esisteva.
Molti studiosi la ritenevano un vero
e proprio santuario, quasi un luogo di culto, e gli immensi saloni,
alternativamente illuminati od immersi nella penombra, gli altissimi soffitti,
affrescati o dagli splendidi stucchi, assieme ai pavimenti di lucido marmo
grigio, non potevano che dare ragione a questa impressione.
E, come in tutte le biblioteche del
mondo, vi regnava il silenzio.
Grande ed importante come era, non
risultava mai deserta, ci sarebbe sempre stato qualche ricercatore al suo
interno, sepolto in mezzo ai libri o nascosto in una sala di lettura appartata,
che approfondiva questo fatto o quella magia. Era comunque difficile incontrare
dei lettori dopo le cinque, orario in cui i più andavano a casa, ed i saloni
erano così vasti da apparire spesso abbandonati.
In una di quelle sale di lettura,
quella riservata ai dirigenti del consiglio, e per questo la più lussuosa e
confortevole, Magdalene e Travers si erano dati appuntamento. Lì era conservata
la copia di tutti i Diari degli Osservatori e le Cronache degli Osservatori.
Quella collezione era la vera memoria del consiglio, la memoria ufficiale degli
atti compiuti e degli eventi accaduti, e per questo era custodita con la
massima cura, in quel luogo dove le tradizioni erano la legge.
Quando entrò, Quentin trovò Marlin
ad aspettarlo, assorta nella lettura di un pregiato volume dalla copertina di
pelle marrone, un Diario quindi, le Cronache erano contenute in libri dalla
copertina di pelle rossa.
Travers si avvicinò in silenzio
aspettando che l’altra alzasse lo sguardo dal libro che stava leggendo e
prendesse atto della sua presenza. Invece, completamente ignorato, si accomodò
nella poltrona di fronte all’unica occupata della sala.
Appena si fu seduto, Magdalene girò
con cura una pagina del manoscritto, quasi assaporandone il rumore della carta
che si propagava nell’ambiente, e
cominciò a leggere ad alta voce.
-“Oggi davanti alla porta del mio
appartamento ho trovato il suo cadavere. Dopo un sommario esame ho notato i
segni sul collo, sia lividi che due fori, come di un morso.
Marlin chiuse il volume e lo poggiò
sul tavolino vicino a lei, dove si trovava la lampada, che con la sua luce,
faceva risplendere le lettere dorate incise sulla copertina “Quentin Travers”.
Poi alzò il volto, che non era
divertito, che non era vittorioso, che non era né triste né orgoglioso. Non
aveva alcuna espressione. Fissò i suoi occhi in quelli di Travers.
-Di cosa mi vuoi parlare?
Chiese Magdalene, con finta non
curanza, dopo quasi un minuto di silenzio, lasciando che la sua lettura
penetrasse a fondo nell’altro, mettendolo in una posizione psicologia assai
svantaggiosa.
-Sai cosa stanno facendo le tue
cacciatrici?
La donna rifletté un attimo prima di
rispondere, non sapeva dove l’altro volesse arrivare.
-Che cosa ti interessa Travers?
-Credo proprio che la tua
cacciatrice preferita,
La voce sibillina di Travers si
spense nel silenzio mentre la sua avversaria si rilassava nella poltrona di
pelle. Ora sapeva come giocare questa partita.
-E cosa ti ha fatto arrivare alla
brillante deduzione?
-A Boston gli esponenti di spicco
della comunità demoniaca hanno ricevuto visite poco chiare. In quella zona si
sta muovendo qualcosa, ed è qualcosa di non chiaro. Certo potrebbe non essere
-Quentin, non prendiamoci in giro,
tu non vuoi che quel passato torni a galla esattamente quanto me. Cosa ci
guadagno se tengo occupata la mia cacciatrice per una settimana, in maniera
tale che tu possa prendere le tue contromisure?
Quentin era certo che si sarebbe
arrivati ad un accordo, ora era il momento di fare l’offerta, un’offerta generosa
ma non il massimo delle sue possibilità. Era sempre stato bravo a
mercanteggiare.
-Ti cedo il controllo della squadra
speciale Bravo, a cui si deve nominare un nuovo comandante. L’altro è morto la
scorsa settimana in azione.
Chi deteneva davvero il controllo di
una squadra del consiglio era proprio il comandante della squadra stessa. Per
tradizione a loro era data una ampia
indipendenza, sia per quanto riguardava l’addestramento che per la direzione
delle missioni. Avere il controllo di una squadra, ma il comandante di questa
avverso, era quasi più dannoso di non averla affatto.
-Ho due cacciatrici ai miei ordini,
cosa vuoi che mi interessi una manciata di uomini in più?
Rispose sorridendo la sua
interlocutrice, sorridendo in maniere sincera ma calcolatrice.
-Lo sai anche tu che non puoi
conquistare il mondo con due soldati, per quanto bravi. Gli eroi non compongono
gli eserciti. E del resto puoi mettere la mano sul fuoco per la loro fedeltà?
Le fece osservare mellifluo Travers.
Magdalene fece un attimo di silenzio e lo sguardo si fece lontano.
-Voglio il tuo appoggio affinché una
persona di mia fiducia diventi vice capo delle comunicazioni. –L’altro stava
per scuotere il capo ed interromperla ma lei lo ignorò continuando a parlare.-
Non dire di no…In questa storia tu ci guadagni più me, il passato, quel
passato, per te è molto più pericoloso…
-Intendi qualcosa che io non
conosco?
-No, niente del genere- Magdalene
sorrise a Quentin, rispondendo ironicamente alla domanda falsamente ingenua di
lui.- Una qualche missione da far compiere alla cacciatrice la troverò. Tu ti
occuperai della distruzione delle prove che tanto ti affliggono.
Travers rifletté sulla proposta, il
prezzo era alto, ma la posta in gioco era ben più importante, anche se
Magdalene non lo sapeva.
-D’accordo, accetto.
Angel distese le dita della mano
destra sul bracciolo della poltrona e le osservò per un istante. Affusolate,
quasi longilinee, alcuni avrebbero detto perfette, dalla carnagione appena
troppo pallida per essere umana. Il punto, dove prima il demone lo aveva
artigliato, ora era perfettamente rimarginato, come se lì non ci fosse mai
stata una profonda ferita che aveva lacerato i tendini di indice e medio,
rendendoli inutilizzabili per lunghe ore.
-Per ricapitolare. Tu sei un’ex
osservatrice, anche se tu stessa hai detto che gli immortali non possono
esserlo, ed in questo modo hai appreso molto sul concilio, su quali sono i suoi
meccanismi ed i suoi scopi. Quindi sei venuta qui, da dovunque tu abiti, che per
quanto ne so io può essere anche
La sua voce era gelida ed ironica
quanto quella che gli rispose calma e rilassata.
-No, Angel. Non ho intenzione di
diventare la paladina degli oppressi al momento. Sono qui, (e per chiarezza non
vengo dalla Finlandia, lì fa troppo freddo per i miei gusti), per offrirti
un’alleanza. Niente di più. Ti ho informato ed ora, a tua discrezione, puoi
accettare o rifiutare. Non credere che io e te siamo gli unici qui fuori che
non desiderano uccidere esseri umani giusto per scacciare la noia o anelano la
distruzione del mondo. Ce ne sono altri, molti altri. Alcuni che vivono da
millenni, indisturbati o quasi, ma soprattutto ignorati dal concilio. Io sto
semplicemente cercando di creare una rete di contatti in modo che ci possiamo
aiutare a vicenda in caso di bisogno. So che sei forte, ma non credo che tu ti
ritenga onnipotente.
-E perché io dovrei credere che
tutto questo funziona?
Angel muoveva leggermente indice e
medio godendosi la ritrovata mobilità e cercando un po’ di sfogo fisico
all’accumulo di idee e pensieri. La sua mente lavorava a tutta forza,
ripercorrendo tutto quello che gli era stato detto, cercando sia conferme dalla
sua memoria e dalla sua intuizione, sia pecche al quadro che gli era stato
dipinto davanti.
-Forse perché mantiene in vita me ed
i miei alleati da almeno cinquecento anni.
Eliza sorrise divertita
dall’istantaneo sguardo di sorpresa che attraversò gli occhi scuri di Angel, un
lampo che sarebbe sfuggito ai più. Gli occhi tornarono in una frazione di
secondo quelle pozze scure immobili che erano prima.
-Allora perché non mi hai contattato
prima?
-Credi forse che il tuo numero si
trovasse su un elenco telefonico? Sei sparito per più di un secolo e prima,
lasciatelo dire, non avevi esattamente la reputazione della persona di cui ci
si potesse fidare. Sei stato creduto morto dalla tua stessa famiglia ed io non
avevo motivo per cercarti e sapere esattamente se tu lo fossi veramente o no.
Poi sei “risorto” e mi sono tenuta informata, tutto qui. –Dal comportamento
sarebbe sembrata irritata, ma Angel non credeva lo fosse davvero. La donna si
muoveva quasi a scatti, mostrava atteggiamenti più aggressivi e sicuri di sé,
la voce era un’ottava più alta di prima, ma qualcosa diceva al vampiro che era
questa la vera Eliza. Chiunque fosse in realtà. La osservò alzarsi e
allontanarsi a passi misurati e rapidi verso la porta. –Quello che avevo da
dirti te lo ho detto, sono venuta qui per parlare, nulla di più, perciò ora me
ne vado.
Alzò il bavero del cappotto nero e
posò un biglietto da visita sul mobile che le era al fianco, poi si girò per
parlargli ancora.
-Questo è il mio numero, se vuoi
chiamarmi. Altrimenti, addio.
Le linee del volto, la carnagione
chiara e gli occhi di una dolce tonalità di verde, le parole che ricalcavano
quelle dette molti anni prima permisero finalmente ad Angel di riconoscerla.
Una sala da ballo alla metà dell’ottocento, note di Strauss nell’aria, un
valzer ballato con grazie ed eleganza, vestiti ricchi e multicolori, gioielli
che brillavano come stelle, qualcosa di inafferrabile che lo aveva attratto.
-Arrivederci Alexandra.
Fu tutto quello che le rispose
parlando in ucraino mentre lei usciva dalla stanza.
Jason si trovava nella palestra del
concilio, nella parte dedicata alle arti marziali, nel seminterrato del
palazzo. Con lui, divisi in diversi gruppi di allenamento, c’erano una ventina
di persone che si stava addestrando ai combattimenti corpo a corpo nel silenzio
generale, interrotto solo dalla voce dei vari istruttori. Tutti facevano parte
delle squadre operative del consiglio, quell’esercito privato che veniva
mantenuto ed addestrato a livelli di massima efficienza e che rappresentava una
delle voci più costose del bilancio del Concilio degli osservatori.
Tutti questi militari erano pagati
profumatamente e forniti delle migliori attrezzature. In genere erano ex
combattenti delle forze speciali degli eserciti dei paesi di origine, che per
caso erano venuti a conoscenza dell’esistenza dei demoni, o che erano reclutati
in base alle elevate capacità dimostrate nel proprio corpo. Per questo nel
gruppo si potevano trovare gente delle più svariate nazionalità.
Jason, maestro indiscusso nei combattimenti
ravvicinati, esperto in diverse forme di arti marziali, si occupava
personalmente della preparazione dei comandanti delle squadre. Quella sera
stava lavorando con tre dei migliori.
Improvvisamente uno degli
inservienti lo raggiunse, fermandosi rispettosamente a qualche metro,
attendendo che potesse interrompere la lezione in corso. Seppure un po’
contrariato dall’interruzione, come si poteva notare dal sopracciglio destro
leggermente alzato, Jason si avvicinò rapidamente al messaggero, il quale gli
comunicò che era atteso al telefono. Si trattava di un codice con priorità
assoluta. Scusandosi con gli altri si allontanò per andare a rispondere.
-Jason.
-Massima urgenza, livello di
sicurezza cinque, interno ed esterno. Prepari tre squadre. Le migliori tre
squadre che ha. Armamento pesante, si tratta di una missione ad alto rischio.
Tra un’ora la voglio sulla pista di decollo. L’attende una missione negli Stati
Uniti. Ulteriori informazioni le saranno fornite in seguito, durante il volo o
subito dopo.
-Come desidera signore.
Jason appese il ricevitore e si
diresse in palestra, dove diede l’ordine ai suoi uomini.
Erano immagini confuse. Si
sovrapponevano per poi dividersi sfocate, fluttuanti. Ombre nere che si
aggiravano davanti ai suoi occhi semi aperti. Sagome umanoidi che non
riconosceva, ma che risaltavano sullo sfondo lampanti, come se fossero l’unica
cosa importante che lo circondava, eppure gli odori acri che a zaffate gli
arrivavano dalla sua destra erano forti, quasi fastidiosi.
La mente ottenebrata di Spike
cominciò a farsi domande cercando risposte che non arrivavano, “perché quelle figure risaltano? Perché
sento tanto forte il calore proveniente da loro?” Non capiva, ma nel suo stato
non se ne fece un problema.
Le sagome si avvicinarono e lo
circondarono. A Spike sembrò che dovesse ricordare qualcosa circa uomini, “ma sono uomini?”, che vestiti di nero
si avvicinavano a lui. Ma ancora una volta le risposte non arrivarono. C’era
qualcosa da sapere…
Ai suoi sensi, che rispondevano in
modo strano, “Allucinazioni causate dalla
sbronza?”, arrivarono voci. Le parole erano confuse ma gli sembrava inglese
anche se non afferrava il senso delle frasi. Parole separate, nomi improbabili.
Riconobbe però che uno di loro parlava con accento inglese. La cosa lo
tranquillizzò. Il pericolo non gli sembrava provenisse dalla sua madre patria…
“Pericolo? Quale pericolo?”
Lui non era in pericolo… però… non
ricordava…
La ragazza bionda entrò nell’ufficio
e si tolse gli occhiali da sole. Si guardò intorno e poi si diresse verso la
segretaria occupata con il telefono. Rimase in pedi davanti all’imponente
scrivania aspettando che la cinquantenne dai capelli grigi finisse la
conversazione, ci volle qualche minuto. Ansiosa, la ragazza si mise a giocare
con la stanghetta degli occhiali mentre studiava minuziosamente l’arredamento
della sala, evitando gli occhi dei presenti, come se temesse di essere seguita.
La donna riattaccò la cornetta e
squadrò la ventenne che le stava di fronte, era bassa, il volto piacevole e i
capelli biondi raccolti. Le parlò con accondiscendenza.
-Desidera?
La ragazza sorpresa dal tono si
bloccò e guardò un attimo, di sfuggita, gli occhi dell’altra prima di
rispondere.
-Ho un appuntamento con la signorina
Gerew.
-Le dispiace darmi il suo nome?
-Sono Elizabeth Summers.
La segretaria controllò su una
pagina fitta di scritti e poi annuì soddisfatta.
-La signorina Gerew l’attende. La
seconda porta a sinistra.
Buffy annuì ed entrò nell’ufficio
ampio e ben arredato dopo aver bussato alla porta di legno massiccio. L’accolse
un’attiva donna sulla quarantina, castana, dagli zigomi sfuggenti e gli occhi
verdi, impeccabilmente vestita. Una donna in carriera, decisa ed intelligente.
-Signorina Summers, in cosa posso
aiutarla?
-So che la sua agenzia investigativa
ha anche un affiliato in Inghilterra.
-Si, è vero.
La donna la guardò incuriosita, non
sapeva proprio cosa volesse questa cliente e non se lo riusciva ad immaginare.
-Ho bisogno di trovare tutte le
informazioni possibili su una persona, una cittadina inglese.
-Sa che ci potrebbero essere dei
problemi, no? E sarà costoso… le ricerche possono costare anche mille dollari
mensili…
La donna la squadrava scettica, non
credeva che una ragazza di quell’età se lo potesse permettere. Buffy lo capì e
si affrettò a precisare, ancora un po’ nervosa, non voleva affidarsi ad
un’agenzia investigativa, ma del resto, di inglesi, lei conosceva solo il
signor Giles ed il consiglio degli osservatori, che era da evitare, meno
sapevano di questa storia meglio era.
-Posso pagare non si preoccupi,
inoltre quella donna era mia madre e credo di avere diritto di sapere su di
lei. Lei è morta molti anni fa ed io sono stata data in adozione, voglio sapere
chi era suo marito, se ne avuto uno, chi frequentava, se ci sono parenti in
vita…
Per Gerew ora la situazione era
molto più chiara. Si permise il lusso di sorridere sinceramente e Buffy non
poté fare a meno di notare che se voleva quella donna poteva essere veramente
affascinante.
-Forse possiamo riuscirci… mi lasci
una delega firmata, la fotocopia dei documenti di adozione e tutto quello che
possiede su sua madre. Metterò a lavorare sul caso un investigatore oggi
stesso. Per quanto riguarda la parcella…
-Mille dollari mensili e tremila
alla consegna delle informazioni, pagabili in due mesi.
La donna sorrise compiaciuta per la
prima volta da quando Buffy era entrata nell’ufficio, la sua cliente ci aveva messo poco a capire come
funzionava. La cifra che aveva detto era assolutamente soddisfacente tanto che
non c’era praticamente più da discutere. Si alzò e porse la mano alla
cacciatrice.
-Allora siamo d’accordo, la
informerò settimanalmente sui progressi. Lasci un recapito telefonico alla mia
segretaria. Avvertirò la signora Wilson di preparare una delega ed un fascicolo
a suo nome, si ricordi di faxare al più presto il resto dei documenti.
Silea
“Il presente
sarebbe pieno di avvenire se già il passato non ci proiettasse un’ombra.”
“Uccidere un essere umano, credere di aver ucciso un
essere umano, sentirti responsabile, ti cambia, i parametri non sono più
uguali, le cose che accadono sembrano fuori scala, come se non le capissi. I
tuoi punti fermi spariscono e tu sei sola, in balia degli eventi, delle
persone… e se non riesci a ritrovare un equilibrio sei finita… e lo ricerchi il
tuo equilibrio, e gli sacrifichi quello che è necessario… Un semplice gesto
e sono cambiate così tante cose…
Cosa credi Buffy? Che quando ti senti responsabile di
un omicidio rimane tutto uguale? Come ti sei sentita dopo aver ucciso il tuo
primo vampiro? Era tutto uguale?
E quello che avevi fatto ti avevano insegnato che era
giusto…”
Faith era seduta su uno sgabello di uno dei tanti
affollati ed anonimi bar dell’aeroporto, aspettando la chiamata del suo volo all’interfono.
All’interno del locale la gente continuava a vivere la propria vita come ogni
giorno, ognuno immerso nella propria esistenza.
La cacciatrice prese in mano il long-drink che aveva
ordinato per poi dare le spalle al bancone ed sprofondarsi in uno dei suoi
passatempi preferiti, qualcosa che le portava gioia ma altrettanta, se non di
più, tristezza. Come sempre diede un’occhiata nel complesso dell’ambiente
circostante alla ricerca di qualcosa che stonasse. Era stata una delle prime
lezioni che aveva appreso dalla sua maestra, al contrario di quello che tutti
fanno, ovvero osservare e ricordare essenzialmente particolari, qualcuno nella
sua posizione che avesse voluto vivere, avrebbe dovuto fare attenzione al
complesso e da quello risalire al diverso, non al particolare.
Questo esercizio, come lo chiamava, era diventato
usale per lei, un radicato riflesso, come il controllare le vie di accesso di
ogni locale in cui entrava. Ormai era nella sua natura farlo.
Il passatempo in cui cercava ora di perdersi, non era
che una distorsione di questo riflesso, un adattamento non pericoloso ed innato
nell’uomo. Invece di cercare il diverso, si limitava ad osservare le persone,
cercando di indovinare e immaginare una vita per ognuno di loro, con gioie e
dolori. Era un gioco semplice, che facevano molti bambini nel mondo, ma
rimaneva uno dei migliori sistemi che Faith conosceva per rilassarsi. Falliva
solo quando la bruna si trovava ad invidiare agli altri la vita che vivevano e
che lei non possedeva.
Fu quello che successe oggi.
Ad un tavolo nell’angolo in fondo del locale, vicino
alla vetrata che dava sull’ingresso, sedeva una famiglia di quattro persone, i
genitori con i loro figli. Data la mole dei bagagli era probabile che stessero
per partire per le vacanze. Faith li osservò ridere e scherzare mentre
mangiavano dei panini. La loro felicità era evidente.
Ignorando quella specie di gelo che si sentì nascere
nell’anima, se avesse creduto all’anima, Faith si concentrò sul proprio drink,
finendolo in due lunghe sorsate, per poi girarsi ed ordinare al barman una
vodka doppia con ghiaccio. Appena le servirono il liquore lo buttò giù di un
fiato solo e lasciati abbastanza soldi sul bancone si alzò per andarsene dal
locale.
Fuori dalla bolgia infernale che quel bar era diventato
per via dell’ora, rifletté, vedendo che il suo orologio faceva quasi l’una, ora
di pranzo, Faith si allontanò quanto bastava per mischiarsi nella folla
circostante e calmarsi. Non le succedeva spesso di cadere in quei pensieri, ma
quando accadeva era difficile ignorarli.
Il suo aereo era alla due, quindi la chiamata per il
volo non ci sarebbe stata prima di mezz’ora. Tutto quello che doveva fare Faith
era trovare un modo per occupare quel tempo. Di andare per negozi non se ne
parlava, non le era mai piaciuto. Il suo lettore cd era nel borsone nero che
aveva già depositato al check-in, quindi niente musica. Con sé aveva solo il
portafoglio ed il suo cellulare. Escluse il portafoglio, non voleva ubriacarsi
e non aveva fame. Rimaneva il telefono. Lo tirò fuori dalla tasca. Era quello
personale, quello la cui esistenza non era nota al concilio.
Compose un numero quasi prima di essersene resa conto.
Il numero della camera di Tara. Il telefono squillò un
paio di volte prima che qualcuno alzasse la cornetta.
-Pronto? Qui Tara Maclay, con chi parlo?
Faith non rispose. Ci fu qualche secondo di silenzio e
la cacciatrice fu certa che da un istante all’altro Tara avrebbe chiuso la
comunicazione pensando ad uno stupido scherzo. Come avrebbero fatto tutti.
-Faith, sei tu?
Va bene, questo non se lo era proprio aspettato. Che
fosse un altro dei poteri di Tara? “Si certo, ora è capace di riconoscere anche
chi sta dall’altra parte del telefono. All’inferno, è più probabile che abbia
un apparecchio su cui appare il numero che ha chiamato.”
-Faith…
Non era una voce irritata, non era neanche incuriosita
né impietosita. Era la solita voce calma e tranquilla, quasi sussurrata La
cacciatrice fece un respiro profondo prima di rispondere.
-Ciao Tara, si, sono io.
-Ciao Faith, mi fa piacere che hai chiamato.
Che ci fosse sollievo dall’altra parte? No,
probabilmente la bruna si stava sbagliando. Ricadde il silenzio tra di loro,
nessuna delle due riusciva ad aprire un argomento. Passarono altri lunghi
istanti.
-C’è un sacco di confusione in sottofondo. Dove sei?
Faith fu colpita da due cose, la gentilezza del tono
con cui era stata formulata la domanda, ed il fatto che Tara non avesse
balbettato dall’inizio della loro conversazione.
-Mi trovo all’aeroporto Kennedy. –si sentì rispondere
la cacciatrice.- Sto per partire per una missione.
-Capisco. Ti serve aiuto Faith? Posso raggiungerti in
poche ore, se hai tempo di aspettarmi.
Ok, questo non era normale. Ricapitolando: lei aveva
chiamato Tara che, al posto di sbatterle il telefono in faccia di fronte al suo
silenzio, come avrebbero fatto tutti, si era informata gentilmente su cosa
stesse accadendo (e Faith aveva risposto sinceramente alle sue domande, cosa
più unica che rara), e dopo aveva spontaneamente offerto il suo aiuto per un
problema di cui neanche conosceva l’entità. La cosa cominciava ad apparire
decisamene surreale.
-No, non ho bisogno di nessun aiuto, non ti
preoccupare. Volevo sentire un’amica. –Faith si chiese se un demone non stesse
controllando le sue funzioni cerebrali, in particolar modo la connessione
cervello-corde vocali. Lei non aveva mai avuto intenzione di dire quell’ultima
frase. Non era da lei. Faith era una persona solitaria, indipendente, che non
aveva bisogno dell’aiuto di nessuno, tanto meno di una compagnia che fosse
qualcosa di più che fisica.
-…erite?
La cacciatrice non era riuscita a sentire la prima
parte della domanda, perciò, per quanto le scocciasse, dov’è chiedere a Tara di
ripetere la domanda. Odiava apparire poco meno che “perfetta”.
-Dicevo, come vanno le tue ferite?
-Vanno molto bene, si stanno rimarginando in fretta ed
i punti non mi danno fastidio.
Non era del tutto vero. A meno di quarantotto ore
dall’applicazione dei punti, le ferite si stavano chiudendo bene, ma sentiva la
schiena indolenzita e di certo non avrebbe potuto affrontare nessun
combattimento senza che queste si riaprissero.
E di questo lei non poteva essere certa. Per
precauzione si era portata dietro degli antidolorifici, per ogni evenienza,
giusto in caso limite. Quella che aveva progettato era poco più di una missione
di ricognizione, con rischi vicino allo zero, ma era meglio non rischiare.
Lei e Tara continuarono a fare conversazione per
qualche minuto e Faith, non sapendo ancora una volta come, si ritrovò a parlare
di Willow. Ed a parlarne bene.
Lo ammetteva, aveva odiato quella ragazza e lo aveva
fatto per motivi personali che non avrebbe spiegato al primo venuto. Ma no,
nonostante quello che avesse detto, non l’aveva mai disprezzata, mai veramente.
Presa in giro, insultata, minacciata, ma mai disprezzata. Ed ora Tara stava
riuscendo a farle dire cosa veramente pensava della rossa. Del fatto che in un
certo senso la rispettasse.
La connessione cervello-bocca era decisamente in
potere di un qualche demone, decise Faith.
Questa conversazione continuò con i racconti, da parte
di entrambe, di episodi relativi al passato che coinvolgevano proprio Willow.
Faith si scoprì a ridere. Lo aveva fatto poco negli ultimi mesi, da quando si
era risvegliata dal coma. Ed anche prima accadeva raramente che ridesse
sinceramente come stava facendo ora.
In maniera naturale, come se fosse sempre successo,
come se fosse una formula provata, Tara l’aveva fatta tornare di buon umore.
Fu dopo oltre venti minuti di conversazione che Faith
chiuse il cellulare. Giusto in tempo per sentire la chiamata del suo volo.
Al check-in si incontrò con Miss Parker, come
stabilito.
Era tornata di nuovo in quell’ufficio ampio, illuminata
dal finestrone alle spalle della sua interlocutrice. Questa volta la segretaria
si era comportata un po’ più civilmente con lei informandola subito che la
stavano aspettando.
In effetti quando era entrata nell’ufficio la signora
Gerew l’attendeva in piedi dietro alla sua scrivania, sulla quale era posato,
in bella vista, un plico, pronta a stringerle la mano.
La stretta era salda ma non eccessivamente forte.
Piacevole, come lo era stata l’ultima volta.
-Allora signorina Summers, le ricerche sono state
completate con successo. Il saldo finale è di tremila duecento dollari, ci sono
state alcune spese.
Gerew la guardava un po’ inquieta, quasi sospettosa.
Senza battere ciglio, Buffy tirò fuori due mazzette di contanti, tenuti assieme
dalle fascette di una nota banca, e li posò davanti a lei sul ripiano della
scrivania della detective.
Avrebbe potuto pagare con un assegno, ed il libretto
lo aveva portato con sé, caso mai le spese sostenute fossero state eccessive,
ma Buffy sapeva che i contanti facevano un altro effetto durante quel genere di
trattative, come dimostrò il sorriso che apparve sulle labbra dell’altra.
C’erano voluti pochi giorni per avere le informazioni.
Il prezzo così alto era per la maggior parte a causa del premio di fine
contratto. Come aveva immaginato Buffy, persone dell’ambiente, con i contati
nei luoghi giusti, avrebbero trovato tutto quello che le serviva in poco tempo.
Gerew le consegnò la voluminosa cartelletta rossa.
Buffy non l’aprì, riservandosi tutto il tempo per quando fosse stata sola. Non
perché non si fidasse dell’altra, che probabilmente conosceva già l’intera
pratica, semplicemente perché voleva avere il tempo di studiarla con calma.
-C’è tutto?
La donna dall’altra parte della scrivania la osservò
divertita.
-Mi pare ovvio. Non è possibile trovare niente altro
su sua madre, tutto quello che c’era in un qualsiasi archivio inglese od
americano è lì. La sua famiglia, dove abitano quelli ancora in vita. Cosa ha
fatto da giovane, con chi è stata sposata. Il certificato della sua nascita ed
anche le registrazioni ospedaliere che aveva sotto l’altro nome.
Buffy annuì seria.
-Il saldo avverrà entro il mese prossimo.
-Perfetto, è stato un piacere lavorare con lei Miss
Summers, o dovrei dire in altro modo?
Gerew le strinse di nuovo la mano mentre Buffy le
sorrideva tirata.
Cortesemente l’investigatrice l’accompagnò fino alla
porta del suo ufficio.
-Signore gli uomini sono in posizione. L’edificio è
circondato.
Jason annuì prendendo atto del rapporto. Erano
atterrati in una pista fuori mano, quasi segreta, alle porte di Los Angeles
poche ore prima. Informate le squadre della missione, precisando i parametri di
sicurezza e l’identità del bersaglio, durante il volo, aveva fornito i
particolari dell’azione durante il trasporto verso la città, all’interno di tre
piccoli minivan neri.
Ora tutti gli uomini erano al loro posto e quella che
le informazioni davano come attuale residenza del bersaglio, un hotel, era
sorvegliata in modo tale che nessuno potesse uscire od entrare senza che loro
ne venissero a conoscenza.
L’uomo seduto al suo fianco, al volante del minivan
dai vetri oscurati, si agitò impercettibilmente. Era un giovane sulla ventina
che probabilmente era alla sua prima missione. Per questo era stato trattenuto
sul furgone, sarebbe entrato in azione solo se indispensabile. Girò la testa
verso di lui e lo guardò con rispetto, paura ed eccitazione al pensiero
dell’azione che si stava per svolgere davanti ai loro occhi.
-Quando darà l’ordine di attacco signore?
Seccato Jason alzò un sopraciglio, gli altri militari
erano abbastanza disciplinati da attendere i suoi ordini nelle loro posizioni,
senza muoversi né fare sciocche domande. Ma questa era una situazione buona
come un’altra per insegnare qualcosa.
-Aspetto un contatto visivo confermato.
Le informazioni che aveva, dicevano che il soggetto
aveva passato la notte in quello stesso edificio. Si trattava di informazioni
attendibili, era vero, ma lui non voleva correre il rischio di scoprirsi prima
di aver avuto la certezza che il suo bersaglio fosse ancora lì dentro. Quello a
cui dava la caccia era un bersaglio pericoloso, ed avrebbe avuto una sola
possibilità di finirlo con scarse perdite di uomini.
Sperare in una seconda occasione non era intelligente.
Appena uscita dall’ufficio di investigazione Buffy
decise di non prendere subito la metropolitana per tornare al proprio albergo
ma di fare prima qualche passo a piedi per pensare. In fondo Los Angeles le
mancava. Soprattutto la gente. I milioni di persone che sai che vivono vicino a
te. Le migliaia di persone che camminano sui marciapiedi affollati ogni giorno
ad ogni ora.
Dove viveva ora i marciapiedi non erano mai affollati.
E le luci notturne, le insegne dei locali aperti tutta la notte, che
illuminavano la città quasi a giorno. Dove viveva ora c’era solo il buio della
notte.
Da quando si era trasferita a Sunnydale, o meglio da
quando era diventata Cacciatrice, aveva perso quel senso di “comunità” (forse
era meglio dire normalità) che aveva accompagnato la sua crescita. Quell’essere
una fra tante. Un po’ le dispiaceva.
Ma del resto ormai la sua vita era cambiata, anche se
non era dipeso da lei, e dubitava che sarebbe riuscita a tornare quella di una
volta. E comunque anche se voleva non lo avrebbe potuto fare. Quindi era meglio
abbandonare quel sogno. Tanto era irrealizzabile.
Camminando lungo il marciapiede si accorse di essere
arrivata ad un incrocio. Riemerse dai propri pensieri scacciando quella strana
tristezza che cercava di invaderla, per guardarsi attorno. Non si era persa, ma
voleva sapere che tipi di locali c’erano da quelle parti, inoltre cominciava ad
avere fame nonostante fosse solo mattina inoltrata e lei avesse fatto
colazione.
Sull’altro lato della strada notò una tavola calda.
Era affollata, sebbene non fosse un’ora di punta, segno evidente che lì si
mangiava in maniera decente. Decise di fermarsi per uno spuntino.
Seduta comodamente al primo tavolo trovato libero,
mentre aspettava che le portassero il caffè e le ciambelle ordinate, Buffy
cominciò a sfogliare la documentazione che le avevano consegnato poco prima.
Una cinquantina di fogli dal valore di tremila duecento dollari. Ma erano il
passato che stava cercando ed il prezzo non le sembrava eccessivamente
spropositato.
Cominciò dall’inizio. La nascita di sua madre,
documentata dall’atto di nascita ed anche da quella che sembrava una foto presa
ancora in ospedale. Le scuole che aveva frequentato, era una donna molto
intelligente, tanto da guadagnarsi una borsa di studio per una prestigiosa università.
La morte dei suoi genitori, avvenuta quando aveva venticinque anni. Il
matrimonio con un tale Frederick Welay, la nascita della prima figlia (Buffy
stessa, le avevano dato il nome di Anne, ora capiva il perché del suo secondo
nome). La morte improvvisa del marito un anno dopo. Il trasferimento negli
U.S.A. per lavoro. L’atto di nascita della sorella, di cui però non era
specificato il padre, aveva un bel nome la bambina, particolare (Amethist). La
morte della madre per incidente stradale. Dove era stata sepolta.
Ormai Buffy era arrivata alla terza tazza di caffè e
alla quinta ciambella per un totale di due ore di lettura. Rimaneva un ultimo
foglio. “Probabilmente a quale famiglia è
stata affidata mia sorella (però mi fa strano pensare che ho una sorella) o
soltanto sapere se è stata affidata ad un qualche istituto prima di essere
adottata.”.
Il foglio invece era completamente bianco se non per
poche righe scritte a macchina.
Seduto nell’abitacolo, praticamente immobile da
diverse ore, Jason prestava attenzione solo alle comunicazioni fra le varie
squadre. Ad intervalli regolari, tutti dovevano riportare la loro posizione e
lo stato della zona sorvegliata. Era una misura di sicurezza precauzionale.
Almeno sperava che si dimostrasse precauzionale.
Il giovane che gli stava accanto cominciava ad essere
nervoso. Pochi minuti prima aveva estratto un pacchetto di sigarette da una
delle tasche, e sebbene non ne avesse accesa nessuna, batteva ritmicamente il
filtro arancione di una sul volante. Chiunque l’avesse addestrato non aveva
fatto un buon lavoro. Jason prese mentalmente nota di far fare al ragazzo un
corso di preparazione intensivo.
Il suo auricolare emise un bip e la comunicazione fu
aperta.
-Comando, qui postazione uno-bravo.
-Vi ricevo, uno-bravo.
-Ho acquisito il bersaglio signore. Confermo
l’avvistamento come positivo.
-Ricevuto uno-bravo. Tenetevi pronti.
-Si, signore. Chiudo.
Sentendo le parole di Jason il ragazzo si era completamente
calmato. Il comandante lo guardò un attimo, sembrava trasformato. Dunque il suo
problema di concentrazione era presente solo durante l’attesa. Probabilmente lo
avevano scelto per le doti di combattimento in azione. Sorrise, sarebbe stato
facile correggerlo. In fondo poteva averlo giudicato male.
Azionando di nuovo la rice-trasmittente Jason cominciò
ad informare le varie squadre.
-Squadra Alpha. Squadra Charlie. Entrate in azione.
Ci fu una breve scarica elettrostatica e poi la
risposta.
-Entriamo in azione.
Era una voce piuttosto profonda quella che gli
rispose. Jason riconobbe Richard, comandante della squadra Alpha.
-Comando ricevuto.
L’altra era la voce di una donna. Vivien, la francese
al comando della squadra Charlie.
-Confermato.
Non si sono
trovate tracce di Amethist Tisred in alcun archivio per le adozioni. E’
possibile che in seguito all’incidente stradale sia morta e poiché nessuno è
andato a reclamare la salma è possibile che sia stata inumata in un qualche
cimitero pubblico con una lapide senza
nome.
“E’ impossibile”. Semplicemente Buffy non ci credeva.
Sua sorella non poteva essere morta. L’articolo che Willow aveva trovato diceva
che la bambina era sopravvissuta all’incidente, come lo era lei. E fino ad ora
si era rivelato una fonte attendibile.
Attaccata ad uno dei sostegni freddi e grigi della
metropolitana, cercando di non cadere, Buffy rifletteva sui pochi fatti di cui
era a conoscenza riguardo al sorella. Si chiedeva perché di lei non ci fosse
alcuna traccia. C’erano solo due possibili soluzioni, un errore nella macchina
della burocrazia, oppure qualcuno aveva interesse a far passare la faccenda
sotto silenzio. Avrebbero potuto usare la ragazza per ricattarla, ma era
assurdo, fino ad una paio di mesi prima non sapeva neanche di essere stata
adottata.
L’ipotesi più probabile era quindi un errore non
voluto della burocrazia. E per riuscire a scoprire la verità aveva solo due
fonti. E l’una era in contrasto con l’altra. Dunque una delle due doveva avere
torto. Doveva solo scoprire quale. Come era facile da capire.
La metropolitana si fermò e le porte si aprirono con
un sibilo per poi andare a sbattere contro i vagoni. Buffy scese dal treno e si
avviò per le scale. Una folata di vento la fece rabbrividire per un attimo,
sembrava che la bella giornata stesse per lasciare il posto ad una nuvolosa.
Ancora soprappensiero mentre si allacciava il giacchetto con una mano e
stringeva con forza la cartellina nell’altra, uscì dalla stazione e si diresse
verso il proprio albergo poco distante.
Era quasi l’una quando attraversò l’atrio per poi
fermarsi davanti all’addetto. Si fece consegnare le chiavi della stanza e
chiese al giovane ed anonimo impiegato castano se c’erano messaggi per lei. Le
fu risposto negativamente.
Magdalene riprovò. Nulla. Faith non rispondeva.
Era la seconda chiamata. Prima il cellulare era
spento, ora squillava a vuoto.
Che fine aveva fatto la sua cacciatrice?
Fu tentata di chiamare Giles per mandare l’altra cacciatrice
a controllare se Faith si trovava veramente a Sunnydale, dove il suo cellulare
era stato rintracciato dai tecnici. Ma Travers aveva ragione, non poteva
fidarsi delle due cacciatrici. Non completamente almeno. Incerta sul da farsi
si fermò per riflettere qualche minuto. Poi rialzò il ricevitore e fece un
numero interno.
-Questo è l’ufficio del signor Jason. Con chi parlo?
-Sono Miss Marlin. Devo parlare con Jason.
La voce della segretaria dall’altro capo divenne quasi
mielosa.
-Mi dispiace signora, il signor Jason è partito.
-Per dove?
Marlin voleva essere sicura che non fosse via per
missioni di routine. Voleva la conferma che Travers non la stesse ingannando.
C’era sempre quella possibilità.
-Non glielo posso dire signora. E’ una missione di livello
cinque.
La segretaria aveva detto più di quello che doveva. Ma
aveva fatto bene a non farle perdere tempo, forse sapeva che in caso contrario
si sarebbe ritrovata dimenticata in un archivio polveroso. Per anni, se non per
una vita. Magdalene chiuse il ricevitore senza salutare per poi comporre un
altro numero, quello di Travers.
-Ufficio del signor Travers, mi dica?
-Sono Marlin c’è il signor Travers? E’ urgente.
-Mi dispiace signora, non c’è.
Magdalene non si scomodò a chiedere dove fosse andato.
Non glielo avrebbe detto comunque. La segretaria di Travers era una vecchia
arpia fedele solo a lui. Almeno ora sapeva che questa non era una farsa di
Quentin recitata apposta per lei.
Delaware,
in un ufficio del Centro.
C’era un ostacolo ai suoi piani. Una persona sola che
gli avrebbe impedito di raggiungere
Così gli rimaneva una sola soluzione.
Prese dei dischetti su cui erano state copiate
registrazioni vecchie di anni e le mise in un’anonima busta gialla. Gli era
costato molto tempo e fatica arrivare a quelle registrazioni. Non c’era dubbio,
Miss Parker non ci sarebbe mai potuta arrivare da sola, benché fosse convinta
del contrario, aveva ben pochi mezzi a disposizione. Lei continuava a cercare
da anni quello che lui aveva trovato in pochi mesi.
Con un grosso pennarello nero scrisse l’indirizzo,
senza specificare il mittente. Che quel pacco provenisse dal Centro era un
motivo sufficiente per aprirlo per chi doveva riceverlo.
Lyle mise la busta tra le decine di altri che dovevano
essere spediti.
Presto sarebbe diventato di nuovo orfano.
Il telefono cominciò a squillare nuovamente. Faith lo
prese dalla tasca interna dal giubbotto di pelle e vide che era nuovamente
Marlin. Si aspettava una sua seconda chiamata. Quando il suo cellulare aveva
squillato per la prima volta, lo aveva appena riacceso dopo il volo
trans-continentale e si trovava ancora all’aeroporto di Londra. Non aveva
potuto rispondere, c’era pericolo che Magdalene, insospettita dal fatto che il
telefono fosse stato spento per così tante ore, facesse analizzare il nastro e
capisse che lei si trovava in Inghilterra e non a Sunnydale.
Per evitare che la sua copertura saltasse Faith aveva
avvertito Miss Parker che c’era una difficoltà, che si doveva sbrigare a
trovare un posto sicuro per ricevere una chiamata, spiegandole poi
dettagliatamente il suo problema. La figlia di Catherine l’aveva guardata per
un istante, pensierosa, per poi annuire.
Senza stupirsi delle richieste che le erano state
fatte e senza chiedere spiegazioni aggiuntive, Miss Parker aveva trovato in
fretta una soluzione.
Meno di dieci minuti dopo erano in un abitacolo,
insonorizzato o quasi, di una berlina blu che si muoveva in circolo attorno ad
un quartiere poco trafficato di Londra. Faith non poté fare a meno di osservare che la donna al volante dell’auto
sembrava non avere nessuna difficoltà a guidare a sinistra né ad avere il
cambio spostato, come se viaggiasse spesso per il mondo.
Faith fece scattare l’apertura del cellulare per
rispondere alla chiamata.
-Cosa succede Marlin?
-Dove sei?
Faith rispose alla domanda con voce annoiata.
-A Sunnydale, dove posso essere?
-Perché prima il cellulare era spento e poi non hai
risposto?
-Non sapevo di essere una sorvegliata speciale Marlin.
Quello che ho fatto prima ed il perché non ho risposto non ti riguardano.
Magdalene sembrò soddisfatta dalla risposta e cambiò
argomento. Faith si rilassò un po’ contro il sedile di pelle, aveva superato la
prima prova.
-Ho un lavoro per te.
Faith poteva non accettare, ma sarebbe stato
rischioso, ci sarebbero state troppo domande. Probabilmente avrebbe dovuto
rischiare, ma avrebbe deciso soltanto dopo qualche altra informazione.
-Di che si tratta?
Magdalene le spiegò tutto dettagliatamente. Mentre la
informava Faith trovò un modo per risolvere il non molto trascurabile problema
di essere in due posti contemporaneamente. Nel suo piano non c’era solo
un’incognita, ce ne erano praticamente infinite e tutte avrebbero giocato a suo
sfavore. Ma non aveva molta altra scelta del resto, non con il poco tempo a
disposizione per pensare ad una soluzione. Uno dei problemi maggiori sarebbe
stata la stretta finestra di azione che avrebbe avuto, ma con un po’ di fortuna
ce la poteva fare.
-Va bene, accetto. Dei termini di pagamento parleremo
dopo.
Chiuse il cellulare e guardò per qualche istante attraverso
il finestrino i palazzi di Londra.
-Possiamo anche andare.
Miss Parker guidò per un po’ in silenzio.
-Come fai a sapere che non rintracceranno la chiamata?
Da dietro agli occhiali da sole, indossati anche se il
tempo era nuvoloso, Faith rispose permettendosi di sorridere.
-L’hanno già rintracciata.
Miss Parker continuò a guidare aspettando il resto
della spiegazione. Avevano lasciato il quartiere poco trafficato ed ora erano
in fila ad un semaforo, i clacson delle auto attorno a loro.
-A Sunnydale c’è l’apparecchio telefonico che loro
hanno rintracciato. Il cellulare che loro chiamano è fisicamente in California,
ma, tramite una simpatica scatolina ed un paio di cavi, di cui non so il
funzionamento e non mi interessa, la chiamata è trasmessa al telefono che ho
con me e che loro non possono rintracciare.
Trascorsero un altro paio di minuti in silenzio
durante i quali Miss Parker imboccò l’autostrada che portava ad ovest. Con aria
stanca, reprimendo a fatica la voglia di sbadigliare, Faith accese lo stereo
dell’auto, sintonizzandolo su una stazione di musica rock, poi, preso di nuovo
il cellulare, compose un numero pregando mentalmente che rispondessero
dall’altra parte.
La cornetta fu alzata dopo qualche squillo.
-Con chi parlo?
-Liz? Sono Faith, senti, ho bisogno di un favore e
penso sia qualcosa che interessi anche te…
Los
Angeles, in una camera d’albergo.
Sdraiata sul proprio letto, la giacca buttata
disordinatamente su una sedia, stava ricontrollando tutto l’incartamento. Buffy
cercava qualcosa di sospetto, un qualcuno che potesse avercela con la madre, od
il padre, tanto da creare problemi alle figlie. Il padre! Amethist aveva un
padre diverso dal suo, se ne era quasi dimenticata. Che fosse andata a
riprenderla? Improbabile, chiunque fosse quell’uomo non aveva neanche
riconosciuto la paternità alla nascita della bambina.
Dopo altre due ore di studio guardò la radiosveglia
sul comodino e vide che erano quasi le quattro. Si alzò dalla scomoda posizione
cercando di non stropicciare nessuno dei fogli sparsi per il letto. Doveva
ammetterlo, era una persona davvero disordinata. Si stiracchiò la schiena con
pigrizia, si sentiva tutta dolorante, e si trovò a sbadigliare. Una doccia le
avrebbe fatto bene.
Con i capelli ancora umidi ma la testa finalmente un
po’ chiara, Buffy sollevò il telefono e compose il numero di Willow. Parlando
con lei avrebbe forse trovato una soluzione alla sua situazione. L’amica
rispose al primo squillo. “Strano per Will, probabilmente era preoccupata ed
aspettava una mia telefonata”.
-Chi parla?
-Willow? Ciao sono io.
-Buffy, finalmente hai chiamato. Non ti sei fatta
sentire da ieri sera, da quando sei arrivata. Ma sei impazzita? Vuoi farmi morire di infarto a
soli venti anni?
La cacciatrice sorrise sentendo il disappunto
scherzoso, ma non troppo, nella voce dell’amica.
-Diventeresti famosa, un vero caso per la medicina
moderna. “Giovane in buona salute, morta per infarto all’età di venti anni”.
-Grazie del pensiero, ma se proprio devo, credo di
voler scegliere un’altra maniera per diventare famosa nel campo scientifico.
Risero insieme per qualche istante.
-Ma non credere che questa battuta mi calmi. Allora,
cosa è successo Buffy?
La cacciatrice non aveva voglia di rivelarle tutto,
non si sentiva ancora pronta dividere tutto quello che aveva scoperto con
altri, ma aveva bisogno di una mano. Così cominciò a raccontare.
-Quindi ora il problema è sapere che fine ha fatto tua
sorella.
-Esatto, e non so da dove cominciare.
Ci fu un lungo silenzio tra le due.
-Cosa vuoi fare ora?
-Proprio non lo so Will. Ho appena “ritrovato” mia
madre, non so se sono pronta a cercare mia sorella, sono stanca. Molto stanca.
Lo era davvero. Buffy non se ne era resa conto fino a
quando non lo aveva detto, ma ora si accorgeva di essere sfinita. Già sostenere
quella conversazione era un sforzo mentale non indifferente.
-Buffy torna a Sunnydale. Ci sarà tempo per cercare
tua sorella. Non ti preoccupare.
-Non so Will, ho paura che sparisca. Ho paura di non
vederla mai. Ed è la mia unica famiglia.
La strega sentiva una sorta di terrore nella voce di
Buffy, e non era mai accaduto. Willow sapeva che per, quanto forte come
cacciatrice, personalmente, in tutto ciò che riguardava le emozioni, Buffy era
fragile come un cristallo. Ma la sua amica non lo aveva mai mostrato, mai così
apertamente.
-Buffy, ascoltami. Ora tu prenoti un biglietto di
ritorno per Sunnydale, per oggi stesso. Poi prepari i bagagli e vai a prendere
il pullman. In viaggio ti fai un paio di ore di dormita ed io ti aspetto alla
stazione quando arrivi. Chiaro?
Avrebbe potuto dire di no.
-D’accordo, sarò lì per le nove.
Miss Parker parcheggiò la berlina grigia di fronte all’imponente
villa, o forse era un palazzo?, tra altre due macchine. Spense il motore e
rimase per un attimo ancora dietro il volante cercando di ricordare
perfettamente tutto quello che Faith le aveva spiegato sul concilio e sugli
stessi osservatori, informazioni da cui dipendeva la sua stessa vita, e
raccogliendo le sue energie per affrontare tutto quello che avrebbe trovato.
Afferrò la ventiquattrore che aveva acquistato e fatto
un respiro profondo per scacciare inquietudine e secondi pensieri, aprì lo
sportello scendendo dall’auto. Con cura meticolosa si sistemò la giacca del
vestito che indossava e si incamminò a passo deciso verso l’ingresso del
monumentale edificio, che, lo doveva ammettere, era davvero bello.
Il portone di legno era aperto, come Faith le aveva
accennato nella camera di motel dove si erano fermate prime per prepararsi.
Senza rallentare il passo e dimostrando una sicurezza che non possedeva, superò
il posto di guardia alla sua sinistra senza degnare di uno sguardo gli uomini
che sedevano dietro la scrivania, impegnati a guardare i monitor della
sicurezza. Molte telecamere erano state piazzate nel parco che circondava la
villa e lungo tutto il perimetro dell’edificio stesso. Ogni ingresso era
sorvegliato.
Resistendo alla tentazione di voltare la testa per
studiare meglio l’androne che stava attraversando, limitandosi a valutare con
gli occhi le altre, indaffarate, persone che le passavano accanto cercando di
individuare in anticipo eventuali pericoli, si diresse subito verso la biblioteca.
Imboccò il primo corridoio sulla destra dell’ingresso,
percorrendolo, si accorse che i rumori di voci e di passi divenivano sempre più
lontani e discreti, fino a quando raggiunse un secondo portone di legno
intarsiato, accolta da un silenzio quasi completo.
Miss Parker si rilassò appena, aveva trovato la
biblioteca senza perdersi o fare brutti incontri. Si girò e si diresse verso il
bancone dove si trovavano tre bibliotecari intenti chi nel classificare libri,
chi nel riportare dati nel sistema informatico.
Si avvicinò al bancone ed attese in silenzio che
qualcuno venisse a parlare con lei. Faith le aveva spiegato che gli osservatori
anche se in genere educati, sono decisamente pieni di sé, soprattutto i più
giovani. Si sentivano come appartenenti ad una qualche segreta ed importante
casta e si comportavano di conseguenza. Faith era stata addirittura cristallina
su questo punto, chiarendole che per gli osservatori nessuno era pari a loro e
che la cosa che loro veneravano di più era la conoscenza. Per natura Miss
Parker non avrebbe faticato a comportasi in maniera arrogante e presuntuosa.
La più giovane dei tre, lasciando perdere il computer,
le si avvicinò dopo pochi secondi. Bisbigliando le chiese cosa volesse.
-Mi servono tute le informazioni disponibili su
Catherine Parker.
La ragazza ritornò al computer e digitò il nome da
ricercare sulla tastiera. Al comparire della schermata successiva rimase un po’
sorpresa, o così sembrò a Miss Parker che la guardò interrogativamente. La giovane accortasi
dell’espressione della donna, ricompose il suo volto in una severa maschera,
come scacciando una fastidiosa emozione che l’avesse assalita inaspettatamente.
Fece stampare un foglio dalla silenziosa stampante
laser praticamente invisibile al di sotto del piano della scrivania e lo porse
a Miss Parker, senza sorridere e senza provare ad essere gentile. Non che prima
si fosse mostrata espansiva, ma almeno si degnava di fingere di essere educata.
-Questo è tutto quello che abbiamo in archivio su
Catherine Parker. -Probabilmente aveva dovuto lavorare per anni prima di
riuscire a rendere la sua voce così atona, mortificante ed insignificante
insieme. Era un lavoro ben fatto. Fece una breve pausa per respirare attraverso
i denti praticamente digrignati, se quello era il termine giusto, prendendo
appena una morso d’aria. - Le ricordo che i Diari degli Osservatori sono libri
di consultazione e non possono essere dati in prestito. E’ pregata di non
rimanere nella sala di lettura riservata ai dirigenti del consiglio. Faccia attenzione
a non rovinare i libri, si tratta di preziosi manoscritti.
Miss Parker ebbe la certezza che quell’ultima frase,
in quel luogo, fosse una pesante forma di insulto. Si chiese quale fosse, se ci
fosse stato, il giusto modo per ribattere. Quasi propensa a rispondere
all’impiegata qualcosa sulla falsa riga di “Sono un’Osservatrice”, le fu
risparmiata la scelta. La ragazza, senza degnarla di una seconda occhiata, né
dandole possibilità di replica, si era voltata ed era tornata al proprio
lavoro.
Nel parco del palazzo che ospitava il Concilio degli
osservatori si trovavano alcuni dei più vecchi e maestosi alberi dell’intera
Cornovaglia. Molti amanti della natura avrebbero dato il braccio destro per
poter passeggiare fra quelle meraviglie.
In cima ad uno di essi, una semplice ombra fra tante,
impossibile da distinguere per un osservatore casuale e difficile da scorgere a
qualcuno che non sapesse esattamente dove cercare, c’era Faith. La cacciatrice
indossava una tuta da commando nera completa di passamontagna, che la rendeva
irriconoscibile e praticamente invisibile nella penombra creata dal fogliame.
Tranquillamente appostata e perfettamente immobile
alla biforcazione di uno dei più grandi e frondosi rami dell’albero su cui si
trovava, Faith aspettava pazientemente il contatto radio di Miss Parker, che avrebbe segnalato il
raggiungimento del primo obbiettivo della missione.
Il ruolo della cacciatrice in questa operazione era di
semplice supporto. Una volta che Parker fosse riuscita a trovare quello che
cercava e si fosse allontanata dall’edificio, lei sarebbe penetrata
all’interno, dove avrebbe distrutto tutti i nastri della sorveglianza e creato
abbastanza caos da rendere difficile identificare sia lei che Miss Parker.
Sarebbe stata una missione semplice se non per alcune
pesanti limitazioni. Primo, nessuno doveva lontanamente sospettare che lei
fosse una cacciatrice. Anche possedendo un alibi come il suo, sarebbe bastato
un solo sospetto per farla finire in un vicolo con un proiettile alla nuca, e
nessuno lo avrebbe rimpianto. Perciò non avrebbe potuto usare le sue “facoltà”
speciali. Secondo, non sapeva dove si trovasse la sala di controllo e l’avrebbe
dovuta rintracciare in fretta, prima che l’allarme fosse scattato. Non voleva
tutto l’esercito della sicurezza sulle sue tracce. E quelle era un’importante
incognita. L’ultima condizione, facoltativa, era limitare le perdite degli
avversari, cercare di non lasciare troppi cadaveri sul campo, non voleva creare
martiri da vendicare ne avere un esercito rabbioso sulle proprie tracce. Il suo
scopo era indebolirli tanto da non far loro commettere mosse azzardate, tipo
organizzare un inseguimento.
Sorvegliare quel posto si stava rivelando dannatamente
noioso. Uno sguardo d’insieme all’intero campo visivo, smettere di respirare
per un secondo in modo da poter sentire il minimo rumore proveniente dalle sue
spalle, controllare che le telecamere compissero il loro regolare giro senza
fermarsi per inquadrare determinati punti più a lungo del previsto, una veloce
occhiata al prato che si stendeva poco dinanzi a lei ed infine una minuziosa
perlustrazione degli alberi dal bosco.
Il tutto ripetuto infinite volte.
Era una bella giornata, soleggiata come poche in
Cornovaglia, e questo dava un altro vantaggio a Faith, il contrasto luce-ombra
sarebbe risultato più netto rendendola completamente invisibile. Era già
appostata da cinque minuti quando Miss Parker attivò la propria
ricetrasmittente.
La prima parte della missione era andata a buon fine.
Passarono altri minuti ed il tempo, inteso come un succedersi di secondi,
cominciò a perdere significato diventando una semplice ripetizione degli
accurati schemi di sorveglianza. La cacciatrice continuava a tenere sotto
controllo tutto il suo campo visivo senza notare alcuna anomalia né ricevendo
alcun allarme da parte di Miss Parker.
Eppure Faith sentiva uno strano presentimento di
pericolo. Aveva la netta impressione che questa volta i guai sarebbero venuti a
cercare lei e non il contrario. Come sempre, dando ascolto al suo istinto, che
l’aveva già salvata innumerevoli volte, fece alcuni preparativi: slacciò il
fodero del suo coltello da lancio e controllò caricatori e silenziatori di
entrambe le Beretta lasciando una delle fondine di sicurezza aperta.
Avviandosi lungo l’ampio corridoio per raggiungere la
sala di lettura riservata ai dirigenti del consiglio, Miss Parker continuò a
chiedersi il perché della reazione della ragazza all’ingresso. Cosa c’era di
tanto speciale nella schermata relativa a Catherine? Sulla lista che le aveva
dato apparivano solo tre testi, tutti segnati come reperibili nella sala
vecchia, quella dove si stava dirigendo, e Miss Parker non poté fare a meno di
chiedersi se ci fossero altre informazioni sulla madre, magari classificate top
secret o qualcosa del genere.
Che la ragazza si fosse accorta che lei non era
un’osservatrice? No, altrimenti avrebbe chiamato le guardie della sicurezza che
aveva visto all’ingresso. E non lo aveva fatto. Oppure avrebbe fatto scattare
un allarme e lei si sarebbe trovata circondata da decine di persone.
Miss Parker, guardandosi intorno con attenzione,
prestando particolare cura nell’individuare persone “sospette”, vide sul fondo
del corridoio alla sua destra, lontano, delle porte con la targhetta “bagni”. “…Vasta biblioteca pavimentata e rifinita in
marmo con servizi annessi…” pensò ironicamente mentre si dirigeva da quella
parte.
Entrò nel bagno delle signore, una piccola stanzetta
rifinita, anche questa, in marmo rosa con gusto ed eleganza. Di certo gli
osservatori non si facevano mancare nulla, “Ma dove prendono i soldi?”, ignorò
la domanda che le era appena venuta in mente, non era un impiegato delle tasse
venuto per un controllo della dichiarazione dei redditi, e queste erano cose
che non la riguardavano.
Imbrigliando i suoi pensieri a forza, concentrandoli
soltanto sul lavoro che stava per fare, cominciò a controllare la stanza in
modo da notare eventuali telecamere o microfoni. Non ne trovò. Sicura che non
la osservassero tirò fuori dalla ventiquattrore una piccola ricetrasmittente
che si fissò all’orecchio appuntandosi il microfono al bavero della giacca, per
poi sintonizzarla sulla frequenza che avevano scelto prima insieme a Faith.
Avevano deciso di mantenere il silenzio radio, da rompere solo in caso di
emergenza. Per la natura stessa del piano, ognuna aveva la propria missione e
non poteva contare sull’aiuto dell’altra.
Praticamente loro erano ai due estremi dell’edificio,
su piani diversi, sarebbe stato laborioso raggiungersi a vicenda, considerando
che definire le mappe che avevano del posto incomplete e frammentarie, era
essere ottimisti.
Con la ricetrasmittente accesa, appena fastidiosa a
causa del leggero ronzio di sottofondo del canale, Miss Parker raggiunse la
sala contenente i libri. Ammirò, anche se non era una studiosa, le due vaste
collezioni di libri della stanza. Lungo gli scaffali, altissimi e lunghissimi,
dall’aria molto antica, come il resto del palazzo, mancavano diversi volumi,
finestrelle scure tra dorsetti di pelle e caratteri dorati.
Parker pregò che quelli che cercava fossero ancora in
quella sala. In caso contrario avrebbe dovuto sprecare tempo prezioso per
trovare quei libri. Perché lei li avrebbe trovati anche a costo di cercare tra
tutti i tomi che gli studiosi stavano consultando al momento, in quella
biblioteca, arrivando, se necessario, a strapparglieli con la forza.
Ma era stata fortunata. I testi che comparivano sulla
lista erano lì. Manovrando con attenzione la scala di legno dai larghi pioli
(per una volta non dall’aspetto antico ma piuttosto nuovo e dall’aria
robusta…), facendola scorrere senza rumore lungo gli appositi binari di ottone,
collezionò tutti e tre i libri in pochi minuti. Nelle copertine di pelle erano
davvero belli, ma anche pesanti, come si accorse mentre li trasportava verso un
posticino tranquillo, lontano da quella lussuosa sala.
Si sedé in una comoda poltrona imbottita e prese il
primo dei tre, rilegato in pelle rossa “Cronaca degli Osservatori 1950-
Cominciò a sfogliarne le pagine, perdendosi tra i
lunghi elenchi di demoni, osservatori addestrati e deceduti, azioni decise dal
concilio e gesta di cacciatrici.
Il capo si accomodò sulla poltrona di pelle nera ed
alzò una specie di lama rituale dorata per poi poggiarla, sguainata, di fronte
a sé, con la lama rivolta verso il centro del tavolo attorno al quale i suoi
associati, in doppio petto scuro e cravatta, sedevano su comode poltrone. Sarebbe
potuta sembrare la riunione dei manager di una qualsiasi multinazionale. Ma non
era esattamente così. Inizialmente questa era stata una setta, una setta
religiosa orientale, anche se ora era aperta a tutti quelli che venivano
ritenuti “adatti”.
Il precedente ordine religioso era diventato un club
esclusivo in cui potevano entrare solo persone influenti, allo scopo di
diventarlo di più, di spalleggiarsi a vicenda, di raggiungere posti sempre più
importanti e soprattutto di coprire i mezzi illegali con cui ci arrivavano.
Giocavano con regole tutte loro. L’omicidio non era
troppo, ed alcuni membri erano sospettati di cannibalismo. Nessuno dei loro
compagni se ne era mai accertato, né aveva voluto farlo, del resto anche questa
“pratica” era accettata in questo “club”. Per dirla tutta, i membri di questa
setta, una volta almeno, erano tutti cannibali. La tradizione si era persa col
trascorrere del tempo, era diventata meno frequente, poi rara, ed infine era
caduta nell’oblio.
Non erano tantissimi quelli che potevano sedere
attorno a quel tavolo, saranno stati una quarantina, ma erano potenti, molto
potenti.
Quella di oggi era una delle annuali riunioni plenarie
e mancavano solo due membri, trattenuti da altri inderogabili impegni.
Sarebbero stati aggiornati delle decisioni prese successivamente. Si trattava
di un raduno segreto, nessun esterno sapeva che quella riunione era stata
fissata, né perché, i membri erano ufficialmente a dei congressi fasulli
assieme ai loro normali colleghi.
L’incontro era stato organizzato in una delle tante
sale da conferenza della capitale americana, anonima come le migliaia di altre,
per le nove di sera. Sarebbe stata una riunione importante, si dovevano
discutere degli argomenti di particolare importanza, si doveva decidere che
interventi programmare per l’anno successivo.
In ogni caso sarebbe stata la loro ultima riunione.
La porta della stanza si aprì. Il capo, un uomo smilzo
sulla quarantina, capelli lunghi, scuri, si limitò ad alzare un sopracciglio
all’inaspettata interruzione. Non sembrava eccessivamente seccato od altro,
probabilmente pensava che uno degli altri due membri fosse riuscito a liberarsi
ed ad arrivare alla riunione in tempo.
Invece, nell’ampia ed elegante sala, entrò una donna
castana avvolta in un lungo cappotto crema completamente sbottonato. Un’aurea
di serenità si irradiava da lei, quasi conoscesse la vera pace interiore.
Sembrava un angelo, un’apparizione divina che non apparteneva a quel mondo
terreno.
Furono pensieri che attraversarono la mente di molti
degli uomini presenti in quella stanza. Questo almeno fino al momento, un
istante dopo il suo ingresso, in cui lei estrasse due pistole dalle fondine
fissate alle sue anche.
Estrarle e cominciare a sparare fu un unico, elegante,
gesto. Eterea, continuava a sembrare un angelo.
Un angelo della morte.
Molti non fecero in tempo a reagire.
Su trenta colpi esplosi dalle due Berette
Mentre la donna cambiava rapidamente i caricatori
delle armi ormai scariche, sempre con gesti lenti, eppure dolcemente fluenti,
il panico scoppiò, dilagando nella sala.
Il silenzio di pochi istanti prima si trasformò in
caos.
Le comode poltroncine furono rovesciate ed i
sopravvissuti si alzarono, urlando in preda al panico. Non sapendo dove andare
scapparono lontano da quella donna, da quella portatrice di morte, cercando di
sfuggire alle pallottole, accalcandosi contro i vetri panoramici della sala
alla ricerca di un’uscita secondaria, che non esisteva, o nascondendosi tra i
corpi senza vita sotto il tavolo.
La donna, che non sembrava neanche respirare, bloccava
l’unica via di fuga, la maestosa porta di legno a doppia anta e dalle maniglie
di ottone dorato alle sue spalle. Un istante dopo, le pistole ricaricate e
nuovamente puntate, ricominciò a sparare.
In pochi si resero conto che quella stanza stava per
diventare un mattatoio, che stavano per morire, non pensavano, non potevano
farlo con l’orrore che li circondava, e cercavano inutilmente, senza
riflettere, un riparo dai proiettili mentre i morti aumentavano sinistramente.
Le loro menti sconvolte dalla paura non si
soffermarono a chiedersi chi fosse quella sconosciuta, né perché li avesse
attaccati in questo modo, né come avesse fatto a sapere della loro riunione, né
come avesse superato il servizio di sicurezza dell’edificio. Nessuna, tranne
una.
I loro istinti primordiali si erano risvegliati e li
dominavano, cancellando completamente la loro razionalità. Più forte
dell’istinto di sopravvivenza era la paura ciò che li guidava ora,
trasformandoli in esseri senza pensiero, per ironia in prede ancora più facili
da cacciare. Da abbattere.
L’unico a rimanere tranquillo in mezzo alla baraonda,
agli urli terrorizzati ed ai gemiti di chi era già stato colpito, fu il loro
capo. Rimase seduto immobile ad osservare la morte dei suoi soci mentre si
chiedeva chi fosse quella donna e perché fosse lì. No, lui non aveva paura, ed
aveva ragione a non provarla. Lui non poteva morire.
Sorrise a vedere l’ultimo degli altri cadere per non
rialzarsi, mentre una piccola parte della sua mente si chiedeva, quasi
oziosamente, perché la donna non gli avesse ancora sparato. Era un bersaglio
facile, eppure non era stata sfiorato da neanche un proiettile. Si rispose che
forse le serviva vivo.
La donna smise di sparare e si avvicinò all’uomo rimanendo
in silenzio. La sua camminata, come tutti i suoi altri gesti, era elegante
quanto letale. La stanza, dopo il rumore delle urla di dolore e delle sedie che
si rompevano, accompagnati dalle esplosioni soffocate dei proiettili, sembrava
come rimbombare ai passi leggeri dell’assassina.
C’era troppo silenzio. L’uomo cominciò quasi a
preoccuparsi, una sensazione di rovina imminente dilagò nella sua mente assieme
a della paura. Era tanto che non provava paura.
Raggiunto il tavolo di legno al centro della stanza,
la donna posò le due pistole lontano dalla portata dell’unico superstite per
poi squadrarlo da capo a piedi, studiandolo attentamente, minuziosamente, con i
suoi occhi che sembravano vedere l’anima. Il disprezzo che provava era evidente
sul suo volto.
-Così tu saresti il capo di questa setta?
Lo disse con sufficienza.
-Si. Cosa vuoi da me? Tu non puoi uccidermi. Nessuno
può farlo. Non hai potere su di me.
Le rispose tronfio e strafottente. Stupore e
sbalordimento nel volto e nella voce di lei, evidentemente falsi. Lui se ne
rese conto e la paura incorporea divenne una morsa allo stomaco.
-Cosa sei? Un immortale?
Il ghigno di lui si fece più evidente. Si rilassò e il
terrore quasi scomparve. Aveva vinto. Quella donna castana non poteva fargli
nulla. Non poteva sapere che quello che aveva detto era vero. Lui era un
immortale. Era nato nel 1920 ed ora, dopo più di settanta anni, ne dimostrava
solo quaranta, l’età in cui l’avevano “ucciso” per la prima volta.
Improvvisamente, in un solo attimo, qualsiasi emozione
scomparve dal volto di lei. Semplicemente, come cancellate, mai esistite, tutte
le emozioni, compreso il disprezzo di poco prima, non erano più.
Quel volto era tornato ad essere di nuovo la fredda
efficiente maschera che indossava quando era entrata. Ignorando le pistole che
aveva di fronte, la donna estrasse una lunga spada dal cappotto crema.
Con un gesto raffinato e perfetto, affinato in secoli
di esperienza, tagliò di netto la testa dell’uomo che la fissava terrorizzato,
le pupille sbarrate, ora che aveva capito che lei conosceva il segreto.
Che lo conosceva davvero, che quello sbalordimento era
falso, ma perché si trattava di una caricatura di una reazione superata, non di
incredulità al fatto.
La testa si staccò dal collo per poi cadere a terra,
il rumore attutito dalla moquette, gli occhi ancora spalancati. La donna non la
degnò di un solo sguardo.
Liz, con un fazzoletto preso da uno dei corpi, pulì la
spada dal sangue che l’aveva macchiata per poi riporla all’interno del
cappotto, scuotendo la testa, delusa. Si aspettava un vero combattimento.
Era raro avere informazioni su un altro immortale. In
genere conducevano vite appartate. Che gli immortali facessero sfoggio delle
loro spade, che per tradizione e non solo adoperavano, o del fatto che avevano
vissuto per secoli, era insolito, quasi paradossale.
E questa volta che aveva avuto una soffiata sulla
presenza certa di uno di loro…
“Che
idiozia. Scopri di essere immortale, qualcuno ti dice che l’unico modo per
ucciderti è tagliarti la testa e tu cosa fai? Te ne vai a spasso disarmato,
aspettando pazientemente che il primo che passi, che conosca la tua vera
natura, ti ammazzi. Quelli che sono nati nel novecento sono proprio stupidi.
Non si sono mai chiesti perché noi “antichi” abbiamo perso tutto questo tempo
per imparare la scherma? Giusto per onorare una stupida tradizione? Secondo
loro come abbiamo fatto a sopravvivere per secoli a nostri simili ed a demoni
di varia natura? L’idiozia sta dilagando. Quello stupido si meritava di morire.
Un vero peccato però, speravo in un buon combattimento.”
Il tecnico nella sala controllo cominciò a cercare una
frequenza libera su cui trasmettere con la squadra di sorveglianza che stava
per montare in servizio. Il loro addetto alle comunicazione attendeva,
impaziente ma rassegnato, oltre la porta a vetri che isolava il centro
controllo dalle altre stanze.
Il protocollo di sicurezza lo obbligava a scegliere
ogni volta una frequenza diversa su cui trasmettere, in modo da rendere più
difficili le già improbabili intercettazioni. Anche ritenendo del tutto inutile
la procedura, Matt la eseguiva sempre con il massimo scrupolo per il solo fatto
che faceva parte del protocollo. Così gli era stato insegnato e così faceva.
Sempre attenersi al protocollo.
Oggi aveva deciso di adoperare una delle frequenze
meno utilizzate in assoluto, quelle quasi al limite dello spettro. Di tanto in
tanto lo faceva, più che altro per noia, che per rendere più difficili le
intercettazioni. Usare quelle o qualsiasi altra era fondamentalmente uguale.
Saltando di canale in canale gli sembrò di notarne uno
già usato. Incuriosito, controllò quale squadra lo stesse usando, il tecnico
del precedente turno non lo aveva avvertito della scelta, ne l’aveva annotata
sul blocco di verifica. Non che dovesse farlo, ma in genere scelte simili si
riferivano giusto per fare due chiacchiere. Forse James era semplicemente stato
troppo stanco per ricordarsene, o per voler parlare. Dio sapeva se quei turni
da otto ore erano massacranti. Facendo volare le mani sulla tastiera grazie
alla sua esperienza, Matt stava per essere nominato capo tecnico del turno di
notte, fece rapidi controlli.
Nessuna squadra stava usando il canale.
Eppure il segnale delle due trasmittenti sintonizzate
proveniva dall’interno dell’edificio. Che si trattasse di un collegamento non
autorizzato? Era assurdo solo ipotizzarlo, non ci sarebbero stati motivi per
fare una cosa simile.
Rimaneva quindi una sola possibilità.
Faith si sentiva leggermente nervosa, aspettandosi
qualcosa quando nulla accadeva da più di un’ora, continuando ad essere
costretta alla quasi completa immobilità senza null’altro da fare che
continuare a sorvegliare la zona circostante.
Sarebbe stato il momento ideale per accendersi una
sigaretta se non fosse stato per tre ottimi motivi: Primo, fumare l’avrebbe
distratta; secondo, lei non fumava; terzo, c’erano dei simpatici commando che
si dirigevano verso di lei. E non sembravano avere intenzioni pacifiche.
Li individuò non appena entrarono nel suo campo
visivo. Di tanto in tanto tra i rami e le foglie del bosco che la circondava
vedeva delle macchie nere che non erano affatto ombre. Contò due gruppi di
persone, in totale cinque uomini, che cercavano di accerchiarla, evidentemente
per spingerla verso il palazzo stesso, dove, con ogni probabilità, la stavano
aspettando altri addetti alla sicurezza.
Rimanendo un attimo ancora in cima all’albero, Faith
li studiò per qualche secondo mentre decideva quale dei due gruppi attaccare
per primo. In capo a dieci secondi si sarebbero trovati a meno di cinquanta
metri da lei. Si stavano muovendo molto bene e velocemente, senza provocare
ancora alcun rumore percettibile. Con un po’ di fortuna avrebbero anche potuto
coglierla di sorpresa.
Non era una semplice perlustrazione, quegli uomini si
muovevano guardinghi attenti a coprirsi sempre a vicenda, senza mai distrarsi,
in attesa di uno scontro che dovevano immaginare essere imminente. Erano a
caccia, indubbiamente erano a caccia, peccato per loro che oggi Faith non
avesse voglia di giocare alla preda.
La cacciatrice, anche se felice che ci fosse
finalmente qualcosa da fare, non poté fare a meno di notare che entrambe le due
squadre sembravano sapere dove si trovava lei, con una buona approssimazione.
Le si stavano dirigendo direttamente contro, e non aveva l’aria di essere una
cosa casuale.
Dovevano averla rintracciata. E c’era un unico modo
per cui potevano averlo fatto, la trasmittente.
Quando aveva deciso di portarla Faith sapeva che
sarebbe stato un possibile pericolo ma aveva sperato nella sua buona stella.
Che evidentemente oggi si era eclissata.
Senza perdere tempo ad imprecare contro la sfortuna,
la cacciatrice decise di andare incontro al gruppo più numeroso, quello che si
stava avvicinando da destra. Tolti loro avrebbe sistemato gli ultimi due con
calma.
Scese con un salto dall’albero e scomparve nel
sottobosco, mimetizzandosi fra le ombre, cominciando a dirigersi verso di loro
lungo un leggero arco in modo da raggiungerli ad un fianco e coglierli di
sorpresa.
Le bastò poco meno di un minuto, in quella che poteva
essere detta una corsa leggera, alla massima velocità che Faith poteva
raggiungere senza fare il benché minimo rumore, per raggiungere i commando,
certa di non essere stata individuata.
Prima ancora di vederli li sentì. Per quanto fossero
bravi, i loro stivali, calpestando le foglie secche e gli arbusti sparsi al
suolo, producevano un rumore ben riconoscibile. Faith, nascosta nell’ombra di
uno dei tronchi appena dietro la prima fila di alberi rispetto al sentiero che
stavano percorrendo, li osservò da vicino per qualche secondo, studiando una
tattica efficace per toglierli di mezzo tutti e tre senza dare loro la
possibilità di richiamare l’attenzione degli altri due. Possibilmente avrebbe
evitato di ucciderli. Stavano solo facendo il loro lavoro in fondo e dalla loro
morte sarebbero venuti solo guai.
I commando si muovevano con tranquilla attenzione, i
mitra stretti nelle mani, l’indice pronto sul grilletto. Erano disposti in una
formazione a cuneo, la punta in avanti, ad aprire la strada. Un buona
disposizione per evitare di essere colti di sorpresa. Sarebbe stato difficile
toglierli di mezzo tutti senza dar loro la possibilità di dare l’allarme. Con
una scrollata di spalle mentale Faith uscì dal cono d’ombra in cui era
appostata. Inutile pensare a come sarebbe potuto essere altrimenti, aveva
quelle carte e avrebbe giocato con quelle al meglio. Come sempre.
Senza fare rumore, sfilò il coltello da lancio dalla
custodia che portava fissata alla coscia sinistra. Lo prese per la lama,
soppesandolo inconsciamente mentre cambiava la presa delle dita, abituandosi al
peso e alla posizione del centro di equilibrio, era una buona arma,
perfettamente bilanciata, l’acciaio tagliente come un rasoio. Le bastarono
pochi istanti e fu pronta a lanciarlo con precisione millimetrica, come se quel
coltello le appartenesse da sempre.
Tenendosi pronta a tirarlo, impugnò con la sinistra
una delle pistole. Poi continuò ad avvicinarsi ai commando da dietro, con passi
felpati, dirigendosi verso quello sulla sua destra, il più vicino a lei della
coppia in retroguardia.
Era arrivata alla fine della vita della madre. Una
riga. Morta durante l’incarico più prestigioso che poteva ottenere. Da quello
che aveva potuto leggere finora era chiaro che la madre era stata praticamente
esiliata a Boston a causa di una lotta di potere. Da quanto aveva letto, dopo
alcuni tranquilli anni passati alla sezione ricerca e sviluppo, Catherine era
stata trasferita alla branca psicologica dell’addestramento. Lì si era opposta
a dei progetti molto importanti, sostenuti dall’allora vicedirettore ai
progetti speciali Travers, come riportava una nota di una sua denuncia. Pochi
mesi dopo fu accusata di abuso di potere. Era stata messa sotto processo,
minacciata di radiazione dall’ordine degli osservatori.
Durante il procedimento, Marlin, supervisore della
zona americana, l’aveva voluta come sua diretta collaboratrice nella zona di
Boston. Una specie di esilio. E lì in qualche modo era riuscita dopo anni di
impeccabile lavoro, cadute tutte le accuse nel dimenticatoio, ad essere
assegnata all’addestramento di una cacciatrice.
Poi c’era stata la sua morte.
Miss Parker chiuse il libro e fissò il vuoto per
qualche secondo. Poi aprì il secondo, l’Indice dei Diari degli Osservatori. Lo
scorse velocemente più per non tralasciare nulla, che sperando veramente di
trovare qualcosa. Arrivata al nome di Catherine Parker notò un’incongruenza.
C’erano segnati due Diari a suo nome. A fianco del secondo una nota che diceva
“scomparso”.
Incuriosita Miss Parker si alzò dalla sedia e tornò
nella sala privata. Salì sulla scala, che era rimasta dove l’aveva lasciata lei
prima, e notò che sullo scaffale lo spazio vuoto per il secondo diario della
madre non era stato lasciato. Scomparso significava perso, distrutto,
inesistente o cosa?
Scese dalla scala a pioli, dirigendosi di nuovo verso
il tavolo dove aveva lasciato libri e valigetta. Ora tutto quello di cui aveva
bisogno era una fotocopiatrice. Avrebbe fatto copie delle pagine essenziali dei
volumi consultati per poi rimetterli a posto.
Aveva notato una fotocopiatrice una in una piccola
stanzetta sulla destra, poco oltre la macchinetta del caffè dove era andata un
mezz’ora prima. L’apparecchiatura era perfettamente funzionante come aveva
constatato.
In quel momento, mentre raccoglieva in fretta le sue
cose Miss Parker vide con la coda dell’occhio un uomo vestito di scuro, ma non
in giacca e cravatta, avvicinarsi verso di lei. Merda, dovevano averla
scoperta. Quello che si stava avvicinando aveva tutta l’aria dell’addetto alla
sicurezza. Fingendo di non averlo notato Parker continuò a sistemare le proprie
carte all’interno della ventiquattrore, chiudendola poi con uno scatto secco
delle due serrature gemelle quando ormai l’altro era praticamente arrivato.
L’uomo si fermò di fronte a lei studiandola appena per
un secondo.
-Mi segua.
-Scusi, cosa sta succedendo? Non capisco cosa possa
volere da me.
Chiese ingenuamente l’americana. L’altro rispose con
tono stanco.
-Mi segua, è un ordine.
Accennando ad un si con la testa, Miss Parker afferrò
la maniglia della valigetta. L’uomo fece per voltarsi per farle strada.
A metà della torsione fu colpito violentemente dallo
spigolo in acciaio lucido della ventiquattro ore, appena sotto il mento. La
testa gli scattò all’indietro sbilanciandolo ed intorpidendone le reazioni.
Parker, approfittando del vantaggio, gli diede un calcio allo stomaco,
facendolo piegare dal dolore, per poi colpirlo una seconda volta alla testa,
alla tempia, facendolo svenire.
Respirando affannosamente e sorvegliando la guardia
stesa a terra, Miss Parker attivò la ricetrasmittente per comunicare le novità
a Faith.
-Copertura saltata.
La risposta fu immediata, di sottofondo alle parole
calme della cacciatrice però, Parker poteva anche sentire i rumori di lotta.
-Trasmissione radio compromessa e localizzata. Ci
vediamo al punto di raccolta, chiudo.
Merda, questo non se lo erano aspettate. Non avevano
immaginato che rintracciassero tutti i segnali radio della zona. Con un moto di
stizza Miss Parker si tolse l’apparecchiatura e la gettò a terra,
schiacciandola con il tacco della scarpa.
Poi, afferrata la valigetta e i due libri più
interessanti si chinò sulla guardia svenuta. Lo perquisì rapidamente prendendo
a “prestito” la pistola dell’uomo. Riposta l’arma nella cintura dei pantaloni
si allontanò dalla guardia verso la
fotocopiatrice cominciando a pensare ad un altro piano.
La soluzione di dividere la propria squadra in due
gruppi in modo da accerchiare gli intrusi, ed evitarne infiltrazioni o fughe,
era stata la migliore risposta, dal punto di vista tattico, che Regan potesse
adottare.
I suoi uomini conoscevano il terreno ed avevano dalla
loro il fattore sorpresa, inoltre lui era stato chiaro sul fatto di mantenere
formazioni difensive fino al raggiungimento del contatto con gli avversari.
Lo stesso Regan, in squadra con Michel, il nuovo
acquisto del suo gruppo, si stava avvicinando all’obbiettivo cautamente.
Camminavano affiancati ma separati da un paio di metri, comunque sempre in
contatto visivo, una delle migliori formazioni difensive.
Eppure l’ex seal non si sentiva a proprio agio a
camminare in quel boschetto, che pure aveva attraversato, di pattuglia o non,
decine se non centinaia di volte. Gli alberi alti e frondosi, ed il rado
sottobosco, tanto dissimile a quello delle molte giungle che aveva visto,
sempre così tranquillo, era inquietante. Come se ci fosse qualcosa di diverso.
Qualcosa che non capiva, che lo metteva a disagio.
Continuando a guidare l’avanzata con movimenti agili,
affinati ed ormai automatici dopo tanti anni di addestramenti e scontri,
esaminando il terreno circostante di riflesso, lasciando che le informazioni
filtrassero liberamente attraverso i suoi nervi, continuando a seguire il corso
dei suoi pensieri senza paura di essere sorpreso.
Regan stava cercando di razionalizzare le proprie
paure, di capire cosa lo stesse terrorizzando. No, niente lo terrorizzava.
Niente lo terrorizzava. Ed allora cos’era quel brivido lungo la schiena? Lui
non era terrificato, aveva paura, si, ma c’era sicuramente un motivo, e la
paura ti aiuta a sopravvivere, se la sai usare.
Le ombre. Quelle pozze scure nelle quali non riusciva
a vedere praticamente nulla. La sua vista non riusciva ad abituarsi a quella
penombra, non con quel sole accecante che aveva deciso di splendere oggi. Erano
così simili.
Così simili al buio di quella notte.
Quando non riusciva a vedere niente, non vedeva
niente, riusciva solo a sentire. Sentire rumori che non c’erano, di cose che
non erano mai esistite. E che avevano ucciso otto dei suoi dieci compagni.
Regan fece un respiro profondo. Doveva calmarsi. Non
era più lì. Quello era un altro luogo, in un altro tempo. Lontano da lì. Di
diecimila miglia e dieci anni. Si immobilizzò per un istante ad ascoltare il
fruscio sommesso della trasmittente posizionata nel suo orecchio, gli era
sembrato di sentire un clic nella trasmissione. Non ci sarebbe dovuto essere.
Aveva ordinato il silenzio radio fino a che la prima squadra non avesse
stabilito un contatto con il nemico.
Scrollò mentalmente le spalle e proseguì a camminare.
I suoi pensieri si fecero silenziosi e lui ricadde in uno stato di passiva
vigilanza.
Un rumore alla sua sinistra.
Rapido, senza pensarci, Regan si accucciò e puntò il
suo mitra verso l’origine di quel suono, che individuò in una pozza di ombra a
meno di due metri da lui. Un rumore di legno spezzato. Non c’era niente. Non
aveva visto niente. Neanche un riflesso od un movimento. Forse era stato un
ramoscello calpestato, oppure un rametto rotto da uno dei tanti scoiattoli del
parco.
Si rialzò e ricominciò a camminare. Rilasciò per un
istante l’indice della mano destra dal grilletto. Si sentiva le dita irrigidite
ed il palmo sudato all’interno del guanto che portava. Si girò a guardare il
suo compagno.
Il ragazzo si muoveva bene, attento e preciso. Stava
imparando rapidamente.
Un altro rumore, più lontano stavolta. Quasi dritto
davanti a lui ma oltre la diretta visuale. Un controllo.
Niente.
Era stato così anche quella volta. Falsi allarmi,
decine di falsi allarmi. Aveva visto, sentito, i suoi compagni irrigidirsi alla
ricerca di un bersaglio, senza mai trovare niente. Era come dare la caccia alle
ombre. Forse era stato dare la caccia ad Ombre.
Poi uno di loro era caduto. Un coltello alla gola.
Morto all’istante. Si erano innervositi. Nessuno aveva visto né sentito niente.
E questo non era concepibile, al di là della morte stessa del loro capo
squadra, un veterano con più di quindici anni di esperienza.
Quella notte, quella notte aveva provato il terrore
puro, per la prima ed unica volta nella sua vita. No, non unica. Anche oggi era
terrorizzato.
Quasi come se fosse un osservatore esterno si rese
conto del suo respiro alterato, veloce e superficiale, il battito cardiaco che
gli rimbombava nelle orecchie come un tamburo, il suo sguardo che si muoveva
frenetico lungo tutto l’arco del suo orizzonte, non più metodico. Doveva
calmarsi. Un respiro profondo, poi un altro. Andava meglio.
Si girò per guardare in faccia il francese che oggi, oggi, non allora, non c’era più allora, faceva squadra con lui. Voleva vedere un
volto amico, occhi rassicuranti che conosceva.
Il ragazzo era in una di quelle zone d’ombra. Un
attimo e ne sarebbe uscito. Le fronde degli alberi cominciarono a muoversi a
causa di una leggera brezza. Un raggio di sole penetrò fra lo schermo di foglie
e lo accecò completamente per un istante.
Troppa luce, ed il risultato era uguale a come se non
ce ne fosse.
I suoi occhi lavorarono freneticamente per rimettersi
a fuoco, per notare la sagoma familiare uscire da quella zona d’ombra.
Due.
Erano due le sagome.
Ne rimase una sola, l’altra era scomparsa. Uno scherzo
della vista, probabilmente aveva visto sfocato per un attimo e gli era sembrato
di scorgere due figure al posto di una.
Eppure qualcosa non andava. Quella sagoma era troppo
esile e bassa per essere quella di Michel.
Regan strinse il grilletto pronto a sparare.
Ma il suo mitra non fece mai fuoco.
Il seal era a terra, senza vita, ucciso all’istante,
dal proiettile di pistola che lo aveva colpito al centro della fronte.
Aveva finito di fare le fotocopie della Cronaca in
tempo record, le mancavano quelle del Diario. Miss Parker prese il libro tra le
mani e cominciò a sfogliarlo rapidamente, alla ricerca di ciò che le
interessava. Prima non aveva avuto tempo di controllarlo, né di leggerlo, di
scegliere quali parte fotocopiare, ed ora avrebbe dovuto fare tutto di corsa.
Guardò di nuovo il suo orologio e poi oltre la porta lasciata aperta. Erano già
passati tre minuti da quando aveva steso la guardia. I suoi compari non
dovevano essere lontani. Doveva sbrigarsi, ed ora che non aveva neanche più il
contatto con Faith, non poteva che contare su se stessa. Non che la cosa la
disturbasse, ma la verità era che si trovava in serio pericolo e lei si voleva
togliere da quella situazione il più in fretta possibile.
Sfogliando le pagine del Diario si accorse che erano
state scritte a mano. La calligrafia era ordinata e minuta, a tratti difficile
da leggere a causa della grandezza ma sempre elegante. Quando la riconobbe ebbe
un tuffo al cuore.
Quelle pagine erano state scritte tutte dalla madre.
Naturalmente non era di per sé sorprendente, era il
suo diario, ma ultimamente Parker aveva cominciato a sentire di nuovo la
mancanza della madre e si accorse che per lei, avere qualcosa scritto dalla
madre, valeva molto.
Quel libro valeva molto.
E sarebbe stata pronta a pagare molto per averlo.
Ancora indecisa sul da farsi Miss Parker sentì il
rumore di una serie passi provenire dal fondo del corridoio. Qualcuno stava
correndo nella sua direzione. Senza pensare, Parker estrasse la pistola e si
appiattì contro la parete, vicino alla porta, l’indice della mano destra sul
grilletto.
I passi, avvicinandosi, rallentavano. Ora la persona
in corridoio stava camminando lentamente, probabilmente con circospezione. Miss Parker trattenne il fiato mentre faceva
scattare la sicura della pistola. A chiunque fosse nel corridoio occorsero
pochi altri secondi per raggiungere la stanza della fotocopiatrice e superarla
senza degnarla di un’occhiata.
Troncando a metà il sospiro di sollievo, il cuore di
Miss Parker prese a battere come un tamburo, mentre la donna si accorgeva di
aver lasciato la fotocopiatrice accesa. E l’infernale macchina aveva appena
deciso di lanciare lunghi e striduli bip per segnalare chissà cosa. Sembrava
una bomba ad orologeria sul punto di esplodere.
L’effetto, per quanto riguardava la salute di Miss
Parker, era lo stesso.
I passi, che avevano appena superato la stanzetta, si
fermarono un istante, poi tornarono indietro.
Un attimo dopo una figura scura superò la porta
puntando quella che aveva tutta l’aria di essere una pistola, verso la fotocopiatrice.
Gli striduli bip continuavano ad intervalli regolari, attirando l’attenzione
del nuovo arrivato sulla macchina stessa e sui libri poggiati lì sopra.
Parker non poteva permettersi che l’altro si muovesse
ed agire di conseguenza alle azioni dell’individuo, non aveva tempo. Imprecando
tra sé per la sfortuna che le era capitata tra capo e collo, ma naturalmente l’operazione non poteva
filare liscia, sarebbe stato troppo bello, fece l’unica cosa possibile
nella situazione. Anticipò le reazioni della guardia.
Aspettò un altro attimo che l’uomo, alto e massiccio,
la superasse completamente, dandole le spalle, per poi sparargli un singolo
colpo alla scapola destra. Il rumore dello sparo si propagò dalla piccola
saletta all’immensa biblioteca dando vita ad interminabili echi. “Addio al silenzio ed alla speranza di non
essere rintracciabile” sibilò nella sua mente Parker.
Sentendo il dolore quasi prima di rendersi conto del
fatto che gli avessero sparato, la guardia si strinse la spalla ferita,
lasciando cadere a terra, di riflesso, la pistola. Compiendo quasi senza
pensare un giro su di sé, si trovò ad affrontare faccia a faccia Parker, che
aveva ancora la pistola puntata contro di lui.
La donna lo squadrò freddamente prima di ordinargli di
mettersi faccia al muro. L’addetto alla sorveglianza parve pensarci per un po’
prima di acconsentire. Aveva velocemente stimato che a causa della distanza
dall’arma che lo minacciava ed il fatto che era ferito, ritrovandosi un braccio
inutilizzabile, non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se avesse
reagito.
Una volta che l’uomo fu faccia al muro con entrambe le
mani in vista, Parker gli si avvicinò quanto bastava per dargli un deciso colpo
in testa con il calcio della pistola, senza correre rischi inutili perdendo tempo
a cercare qualcosa per immobilizzarlo. L’altro cadde a terra svenuto.
Il tempo.
Era quello il fattore critico di Parker.
Certo, Faith avrebbe attirato su di sé la maggior
parte delle guardie, ma la maggior parte non sono tutte, e Parker doveva ancora
trovare un modo per uscire di qui. Passare dall’ingresso principale non sarebbe
stato salutare, doveva trovare un metodo alternativo. Un palazzo grande come
questo doveva avere uscite secondarie. In sottofondo si sentivano ancora i
fastidiosi bip della fotocopiatrice, ma il rumore non era registrato
coscientemente dall’americana.
Dando le spalle alla guardia svenuta, la donna
raccolse la pistola a terra, dello stesso tipo che aveva lei, e ne sfilò
rapidamente il caricatore, forse un maggior numero di colpi a disposizione le
avrebbe fatto comodo dopo, poi la gettò con noncuranza dall’altra parte della
stanza. Stridendo lungo il pavimento di marmo l’arma si fermò contro la parete
con un clangore metallico.
In un solo attimo Parker fu alla fotocopiatrice. Spense
l’interruttore generale facendola finalmente tacere, poi raccolse velocemente i
fogli stampati infilandoli nella sua valigetta assieme al Diario della madre,
abbandonando le Cronache sul piano.
Aveva appena deciso di non lasciarsi niente di
importante dietro, ed al diavolo le precauzioni che avevano deciso di seguire
assieme a Faith.
Avrebbe affrontato le conseguenze dopo.
Con la valigetta stretta contro di sé e la pistola
nascosta dietro, pronta ad essere usata di nuovo, Parker cominciò a correre
lungo il corridoio alla ricerca di un’uscita.
Il tempo scorreva.
I sei uomini in nero si avvicinarono silenziosi ma
rapidi all’imponente edificio. Era giorno avanzato e la speranza di passare
inosservati nulla. Il mitra, una versione compatta del famoso uzi, stretto tra
le mani guantate di nero ed il pesante zaino sulle spalle, corsero tenendosi
bassi verso le posizioni loro assegnate alla base dell’edificio, cercando di
rimanere il meno possibile allo scoperto.
Il tutto si risolse in meno di quindici secondi.
Raggiunto per primo il vicino all’angolo dell’hotel,
con un rapido sguardo lungo la base dell’edificio, il comandante segnalò a
gesti che la via era libera. Nessuna presenza ostile in vista e nessuna
segnalazione dalla squadra di copertura, appostata sui tetti delle costruzioni
vicine. Senza necessità di altri ordini i cinque che lo seguivano si divisero,
andando a posizionare i propri zaini lungo le due facciate che erano state loro
assegnate. All’altra metà dell’hotel ci avrebbe pensato la squadra Charlie.
Completato il lavoro, rimasero alcuni secondi presso
gli zaini, accucciandosi alla base del muro, il mitra a coprire l’area dinanzi
a loro. Non ci furono attacchi. Segnalarono l’ok a Richard, che si limitò ad
annuire, azionando la trasmittente che portava all’orecchio, senza smettere di
guardarsi attorno.
-Squadra Alpha. Completata fase uno. Permesso di
ritiro.
Il click del cambio di trasmettitore e la risposta.
-Alpha, ricevuto. Confermo ritiro.
Di nuovo a gesti Richard richiamò i compagni, che
ripiegarono ordinatamente, coprendosi a vicenda, verso il proprio minivan nero,
parcheggiato dietro uno degli edifici adiacenti. Fu una corsa breve, altri
quindici secondi allo scoperto attraverso il piazzale.
Per tutta l’azione non erano occorsi più di due
minuti.
Al riparo del muro vicino al quale era parcheggiato il
loro automezzo fu ristabilita la comunicazione con il controllo.
-Squadra Alpha in posizione.
-Ricevuto Alpha. Fase due.
Richard si appiattì contro il muro di mattoni, era
caldo dopo la lunga esposizione al sole, mentre sentiva le cariche esplosive
piazzate dai suoi uomini brillare. Dieci esplosioni quasi contemporanee. Lo
spostamento d’aria fece suonare alcuni allarmi delle auto in sosta nelle vicine
strade e ruppe i vetri degli appartamenti adiacenti all’hotel. Una volta posati
schegge e pezzi di calcinacci, la squadra uscì dal riparo per tornare vicino
all’edificio.
Era uno spettacolo terrificante e bellissimo. Alcune
pareti dell’hotel erano come scomparse, lasciando vasti spazi vuoti, neri,
altre erano in parte crollate sollevando una polvere grigia mista a detriti che
si andava mischiando con le prime volute di fumo causate dagli incendi
scoppiati.
Gli uomini in nero formarono, assieme ai colleghi
della squadra Charlie, uno stretto cordone attorno all’edificio, in modo da non
far scappare nessuno.
Tra le volute di fumo e le fiamme si materializzò una
figura. Avvolta in una pesante coperta dalle tinte scure, correva verso
l’uscita, la cui porta era stata scardinata dalla forza dell’esplosione.
La cortina grigia e quel plaid inzuppato di acqua
impedivano di riconoscerla in alcuna maniera, anche se si stava avvicinando
velocemente.
Ma i commando del concilio non erano qui per
riconoscere, erano venuti per uccidere.
Aprirono il fuoco delle loro mitragliette uzi contro
il superstite. Le armi crepitarono sinistramente nelle mani che le tenevano
ferme nonostante i tentativi di sfuggire alla presa. Bastò una breve raffica,
dalla durata di non più di due secondi, per far svanire nuovamente la figura
nell’edificio invaso dalle fiamme.
Ad un gesto di Vivien i suoi uomini cessarono il
fuoco, lasciando che le canne delle mitragliatrici continuassero a puntare
verso il portone. Non sembravano mostrare segni di esitazione nello sparare
contro individui non identificati.
E del resto c’era solo lui, il loro bersaglio, in
quell’Hotel, che era la sua casa.
Appena aveva visto il familiare lampo uscire delle
canne delle mitragliatrici Angel si era gettato fuori dalla linea di tiro,
andandosi a riparare in una delle sale al piano terra, ormai completamente
invasa dalle fiamme. Le pallottole lo superarono senza fare danno e si persero
lungo il corridoio.
Angel non poteva negare che il suo, oggi, fosse stato un
brusco risveglio. Aveva improvvisamente spalancato gli occhi, ritrovandosi a
fissare un soffitto che aveva riconosciuto, era sdraiato nel proprio letto, ed
il sonno era scomparso. Aveva avvertito che c’era qualcosa che non andava, che
qualcosa stava per accadere, ne era stato certo. E quello che era accaduto
pochi minuti dopo aveva dato conforma al suo istinto. Oh, lui non era
certamente un veggente come Drusilla, né possedeva le premonizioni di Cordelia,
ma non rimani vivo per più di due secoli senza riuscire a percepire che un
pericolo imminente ti sta per colpire.
Ad Angel, una volta sveglio, era servito un istante
per alzarsi e vestirsi e soltanto un altro attimo per realizzare che era ancora
giorno inoltrato.
Fu in quel momento, quando si stava già muovendo per
la stanza buia alla ricerca della fonte del disturbo, che erano avvenute le
esplosioni. Qualunque fosse la natura degli ordigni fatta brillare, Angel
sapeva solo che erano potenti. L’intero Hyperion aveva tremato e lui non si
sarebbe stupito di apprendere che almeno alcune sezioni di muro erano crollate.
Investito dalla paura Angel avrebbe voluto solamente
fuggire, ma il rigido autocontrollo che esercitava da tanto tempo su se stesso
glielo aveva impedito. Rimase calmo, finchè l’odore di fumo e di bruciato che
gli era appena arrivato alle narici, minacciò di farlo sommergere da un terrore
atavico. Senza riflettere, aveva tolto velocemente una delle coperte dal suo
letto (le teneva più che altro per figura, visto che in realtà non gli
servivano) ed era corso in bagno per zupparla d’acqua assieme ai suoi vestiti.
Soltanto una volta che fu avvolto nel plaid nero uscì
dalla sua camera per scendere al piano terra, per tentare di uscire da
quell’inferno di fiamme che era ora l’albergo. Era corso lungo i corridoio
rischiarati da quella sinistra luce rossiccia, che proiettava strane ombre
lungo le pareti, mentre il calore aumentava rapidamente e l’aria si scaldava e
riempiva di scintille, rendendosi tossica, quasi irrespirabile. Poi aveva fatto
le scale, cercando affannosamente di raggiungere l’ingresso, continuandosi a
tenersi basso ed allungando per quanto possibile la falcata.
Mentre intravedeva la momentanea salvezza attraverso
il fumo, oltre la porta non c’erano le fiamme, ma lo aspettava il sole, Angel
era stato salutato da quella scarica improvvisa di proiettili.
Ora era costretto in quella stanza, in cui il calore
stava raggiungendo livelli insopportabili, a causa di quei commando appostati
poco fuori l’ingresso. Erano ancora lì,
pronti, li sentiva. Doveva assolutamente trovare un’altra uscita. Non poteva
uscire da quell’ingresso, se colpito da troppi proiettili sarebbe stato
rallentato per poi morire a causa del sole.
Con la paura tenuta a bada ai confini del cervello,
Angel stava faticosamente vagliando tutte le possibilità che gli rimanevano, e
tra queste c’era il suicidio, per nulla al mondo sarebbe morto bruciato dalle
fiamme.
In quell’istante, una parte del tetto, rosa dal fuoco,
crollò, alzando nubi di cenere e scintille che si sparsero per tutta la stanza.
Superare le telecamere a circuito chiuso che
sorvegliavano i vari ingressi senza farsi notare, era stato più facile del
previsto. Il sistema di sicurezza non era poi così infallibile come le era
sembrato. A Faith erano bastati pochi minuti per uscire dal boschetto, armata
anche di una mitraglietta presa alle guardie, e raggiungere uno dei corridoi
interni.
Superata la più vicina porta di servizio, lasciata
aperta per incuria di qualcuno, la richiuse alle proprie spalle facendo
scattare la serratura e poi si diresse verso il fondo del corridoio dove si
trovava. Raggiunse una biforcazione e si orientò in base alle informazioni che
possedeva.
Sapeva che doveva esserci un ascensore in fondo al
corridoio, quello davanti a lei che andava verso l’ala nord dell’edificio, che
l’avrebbe portata al livello uno. Dove si trovava la sala di controllo, al
centro esatto della struttura.
Avere queste informazioni era stato relativamente
facile. Era bastato un braccio dislocato per far parlare la giovane guardia che
aveva stordito. Il ragazzo non avrà avuto una ventina d’anni, e non erano stati
venti anni vissuti come i suoi. Si trattava dell’unico sopravvissuto di quelli
che formavano la seconda squadra che aveva affrontato. L’altro, evidentemente
più pericoloso, giaceva morto nel bosco, erano bastati pochi istanti a Faith
per renderlo inoffensivo.
E la vista del corpo aveva aiutato a convincere il
ragazzo a collaborare più in fretta.
Una volta ottenute le informazioni, Faith non l’aveva
ucciso. Si era limitata a stordirlo nuovamente, a togliergli la
radiotrasmittente e a legarlo, come i due più fortunati colleghi dell’altro
gruppo che erano andati a cercarla. Dei cinque commando che l’avevano attaccata
ne erano sopravvissuti tre, tutti erano al momento legati e privi di
conoscenza. Non l’avrebbero infastidita.
Appena Faith toccò il pulsante di chiamata sul
pannello nero inserito nella parete, le porte dell’ascensore si aprirono, le
due lucidi ante di acciaio riflettevano distorta la figura nera che era la
cacciatrice e la mitraglietta che lei teneva puntata verso l’interno del vano.
Che era vuoto, come aveva detto il ragazzo.
Faith entrò nel piccolo ascensore dagli eleganti
pannelli di legno scuro. Premé il pulsante del primo piano accostandosi il più
possibile alla parte vicino ai comandi, prendendo mentalmente nota della
posizione della botola sul soffitto. Il ragazzo le aveva detto che sarebbero
passati probabilmente dieci minuti prima che qualcuno si chiedesse che fine
avesse fatto la sua squadra. Faith non aveva creduto a questa informazione, non
del tutto almeno, cinque minuti erano una stima molto più realistica del tempo
che sarebbe passato prima che fosse dato l’allarme, anche se sperava che la sua
buona stella si decidesse a mettersi a splendere.
L’ascensore si fermò e le porte si aprirono su un
altro corridoio vuoto. Sembrava che il Concilio fosse deserto. Si era
immaginata una scena da ufficio con uomini in giacca e cravatta che indaffarati
si muovevano tra scrivanie e telefoni squillanti. Ma non era così. Almeno non
in questa ala.
Meglio per lei, il suo compito sarebbe stato più
facile. Uscì dall’ascensore e si avviò a piccola corsa lungo il corridoio,
anche questo era coperto a metà altezza da pannelli di legno scuri che davano
si all’ambiente un tocco raffinato, ma lo rendevano quasi angosciante per la
cupezza.
Faith teneva il mitra puntato davanti a sé mentre
procedeva velocemente, facendo attenzione a cogliere il minimo movimento delle
porte od il più piccolo rumore. Intanto cercava di escogitare un buon sistema
per accedere alla sala controllo.
Il ragazzo le aveva spiegato che era difesa da vetri
antiproiettile ed antisfondamento, praticamente a prova di bomba. Quella sala
era stata progettata per essere isolata, imprendibile, visto che da lì si
comandava tutto. Per questo era senza finestre ed aveva un unico accesso.
E quella porta si poteva aprire solo dall’interno.
Comandata da uno dei tecnici.
E Faith aveva poco tempo e nessun esplosivo per
entrare lì dentro, eppure era essenziale.
Doveva trovare un altro modo. Svoltò nel corridoio che
si apriva alla sua sinistra. Le indicazioni che aveva erano estremamente
precise ed il suo senso dell’orientamento faceva il resto.
Se c’era una cosa che Faith sapeva fare era
orientarsi, una dote innata, che da quando era diventata cacciatrice era
soltanto migliorata, raggiungendo praticamente la perfezione. Era impossibile
che si perdesse in un percorso simile.
Superò altre porte chiuse su una parate e sull’altra.
Tutte uniformemente marroni, con maniglie dorate e targhette anch’esse dorate.
Probabilmente si trattava di uffici, che altro potevano essere? Pregando che
nessuno uscisse in tempo per vederla e sorprenderla alle spalle, Faith continuò
la sua avanzata allungando il passo. Doveva sbrigarsi non sapendo in quale
situazione si trovasse Miss Parker.
Le pareti stavano diventando di un colore sempre più
chiaro, una tinta vicino al crema. I pannelli di legno erano scomparsi, facendo
sembrare questo corridoio molto più luminoso del precedente, anche se
l’illuminazione era fornita da lunghe lampade alogene dal colore azzurrognolo.
Pareti crema su cui due ombre nere risaltarono
improvvisamente.
I due agenti del servizio di sicurezza stavano facendo
il loro solito giro di pattuglia, nel solito e familiare silenzio, quando
appena svoltato un angolo cieco si ritrovarono davanti a qualcuno che veniva
loro incontro correndo.
I loro riflessi furono più veloci dei pensieri. Qui
non doveva esserci nessuno, era una zona ad accesso limitato. Tanto meno doveva
esserci qualcuno armato di mitra e dal volto coperto. Senza neanche rendersene
conto, entrambi cominciarono a sparare un battito di cuore dopo aver registrato
la presenza di quella figura.
Faith non li aveva sentiti arrivare. Il rumore dei
suoi passi, anche se attutito dalla moquette, aveva coperto il loro.
Probabilmente indossavano scarpe scelte proprio perché non facevano alcun
rumore. La sua concentrazione era calata per un istante, mentre cercava la soluzione
al suo problema strategico, ed aveva commesso un errore. Loro non ne commisero
alcuno.
Spararono immediatamente due brevi raffiche con i loro
mitra silenziati. Faith riuscì a schivare senza troppi problemi la prima
sventagliata di pallottole buttandosi immediatamente alla sua destra, anche se
uno dei proiettili la colpì alla spalla sinistra.
Una donna sulla fine dei trenta, elegante e distinta
nel pull-over nero e pantaloni panna che portava sotto il lungo cappotto di
pelle, camminava facendo risuonare arrogantemente i suoi tacchi lungo il
corridoio deserto. Si dirigeva a passo rapido verso una delle uscite secondarie
dell’edificio, praticamente adiacente al parcheggio esterno.
Nell’atrio, vicino alla porta, si trovava un piccolo
gabbiotto da dove una guardia sorvegliava il via vai delle persone, e che, per
una volta, non sembrava guardare annoiata un qualche programma alla televisione
che poggiata su un ripiano.
Ignorando ostentatamente la guardia, come facevano
tutti gli osservatori dall’alto del loro sapere, la donna, i cui capelli neri
coprivano parte del viso, lasciando in ombra il resto dei lineamenti, uscì alla
luce pomeridiana senza fermarsi né rallentare.
Aveva una mano stretta attorno alla maniglia della
valigetta di pelle marrone che portava ed un seconda, in tasca, attorno
all’impugnatura di una pistola che non le apparteneva.
Miss Parker scese le scalette in fretta, dirigendosi
verso la sua berlina, parcheggiata poco distante, socchiudendo gli occhi alla
luce improvvisa del sole, accecante dopo il lungo soggiorno all’interno
dell’edificio.
Non sapendo se la sorveglianza era riuscita ad avere
una sua descrizione, per quanto sommaria, per evitare rischi, appena trovato un
ufficio abitato da una simpatica inglese, che sembrava portare la sua stessa
taglia, aveva deciso di entrare e procedere ad un opportuno cambio d’abito. Non
del tutto consenziente.
Così, mentre attraversava con i suoi nuovi vestiti i
lunghi corridoi su cui si affacciavano infiniti uffici, aveva assunto
quell’atteggiamento che le aveva fatto guadagnare il nomignolo, affatto
affettuoso, di regina dei ghiacci, che da sempre teneva lontano inopportuni
scocciatori.
Durante tuta la sua camminata alla ricerca di
un’uscita non aveva attirato nessuno sguardo indagatore, né fastidiose intromissioni.
Sapeva dove andare, e sapeva come far sembrarlo.
Soltanto ora, mentre sedeva dietro il volante ed
avviava il motore dell’auto, si permise di ammettere che il piano sembrava aver
funzionato. Lei era fuori da quell’edificio con tutti i documenti che aveva
potuto trovare.
E tutti estremamente utili.
L’unica domanda rimasta in sospeso era se anche Faith
fosse riuscita a portare a termine la sua parte, già difficile (praticamente
impossibile), in seguito a come si erano evoluti i fatti.
Se la cacciatrice avesse fallito sarebbero stati guai
per Miss Parker. La sorveglianza non ci avrebbe messo molto a rintracciarla.
Ed avere un’altra organizzazione segreta nella tua
vita, ed una che vuole la tua morte, non aumenta le tue possibilità di arrivare
all’età pensionabile.
Percorse il lungo viale alberato che attraversava il
parco per poi superare il cancello esterno, preoccupata da questi pensieri.
Il dolore fu un’improvvisa esplosione lungo i suoi
nervi, l’impatto la sbilanciò appena mentre le sue spalle ruotarono
leggermente. Ignorandolo del tutto Faith si proiettò con un ulteriore scatto in
avanti per chiudere la distanza di due metri che la separava dagli uomini della
sicurezza.
Correndo alzò la propria arma e rispose al fuoco. Uno
dei due cadde a terra, due pallottole conficcate nella testa, prendere la mira
a quella distanza era una sciocchezza, bastava tener conto della rapidità di
spostamento ed il gioco era fatto.
L’altro fu colpito ad un braccio appena prima che
riuscisse a sparare ancora. Istintivamente si portò l’altra mano sulla ferita
sanguinante. E quello fu il suo errore.
Faith, ignorando la mitraglietta, a questo punto
solamente ingombrante, la lasciò penzolare attaccata alla cinghia che si era
assicurata, e colpì la guardia ancora in piedi, ormai a poco più di venti
centimetri da lei, con un pugno al volto che gli c’entrò il naso,
spaccandoglielo.
Il sangue si sparse sul volto dell’uomo e lui portò
immediatamente entrambe le mani a coprire il setto nasale fratturato tentando
di tamponare le narici, mentre emetteva un urlo strozzato di dolore e sorpresa.
Il dolore lo intontì, rendendolo incapace di reagire
abbastanza in fretta. Faith, senza dargli un istante per riprendersi, lo colpì
con un ginocchiata all’addome ed il trentenne si piegò su se stesso. Fu spinto
a terra dalla successiva gomitata sulla schiena. Non tentò di rialzarsi,
limitandosi a gemere pietosamente accanto al compagno morto.
Cinque lunghi secondi ed era tutto finito.
Faith respirò a fondo e controllò per prima cosa la
sua spalla sinistra. Passò le dita dove aveva sentito l’urto. Sentiva il punto
esatto pulsare furiosamente, ma sapeva che quello non era il dolore di una
ferita da arma da fuoco.
Con indice e medio toccò il metallo della cartuccia
senza sentire il sangue caldo e vischioso. Il giubbotto antiproiettile aveva
fermato la pallottola. Un campanello di allarme suonò improvvisamente nel suo
cervello. I gemiti erano scomparsi improvvisamente, sostituiti da laboriosi
respiri. Faith si girò su se stessa e sparò una breve raffica al sopravvissuto,
che era riuscito a mettersi in ginocchio e ad impugnare nuovamente il mitra.
Morto, l’uomo ricadde indietro, l’indice a pochi
millimetri dal grilletto dell’arma, puntata fino ad un attimo prima, contro di
lei.
In sala controllo, Matt cominciò a sorvegliare con più
attenzione gli schermi relativi alle uscite secondarie. Aveva avvertito la
squadra dell’ala est di dove aveva rintracciato una delle due fonti di segnali
radio, ed aveva segnalato al posto di controllo più vicino alla biblioteca di
andare a controllare la seconda.
Pochi minuti dopo aveva perso il segnale radio. La
trasmissione era stata criptata, e criptata bene, ed a parte fruscii senza
significato non aveva potuto sentire alcuna conversazione. Una volta perduto
aveva subito provato a rintracciare di nuovo il segnale, ma non c’era riuscito.
Dovevano aver chiuso la comunicazione, o perché si erano accorti di essere
stati intercettati o perché le spie erano già state catturate. Per ricevere
conferma ad una delle sue ipotesi, aveva chiamato l’operativo che era stato
mandato in biblioteca, ma l’uomo non aveva risposto alla propria radio.
Dopo due o tre tentativi falliti Matt aveva avvertito
un secondo uomo di andare a controllare. In caso una delle spie fosse sfuggita
alla cattura. Non aveva motivo di credere che la squadra est si fosse fatta
scappare l’obbiettivo assegnato, senza almeno un contatto visivo. Aveva bisogno
della descrizione fisica dei soggetti per evitare che uscissero dal perimetro
controllato indisturbati.
In attesa del rapporto del secondo operativo, Matt
continuò a controllare le schermate video del parcheggio ed alcune di quelle
delle uscite secondarie, cercando qualcuno di sospetto, senza però trovarne.
Circa un minuto dopo ricevé il rapporto del secondo
operativo andato in biblioteca. Aveva ritrovato il collega svenuto ed ora
procedeva alla ricerca dell’individuo. Il collega, ancora privo di sensi, non
aveva potuto dare una descrizione dell’individuo; sarebbe stata una caccia ai
fantasmi, ma l’uomo, uno dei più esperti, aveva deciso comunque di fare un
tentativo.
Imprecando tra sé, Matt, una volta chiuso il
collegamento, continuò a pensare che da qualche parte doveva pur esserci un
filmato della gente che cercavano. Doveva soltanto aspettare che l’operativo
trovato svenuto riprendesse i sensi e poi avrebbe avuto tutte le risposte che
cercava.
Avrebbe solo dovuto aspettare.
Non poteva fare altro.
Innervosito guardò l’orologio, erano passati più di tre
minuti dalla prima intercettazione del segnale radio e non aveva ancora
ricevuto il rapporto della squadra est. Provare a chiamarli non gli saltò
nemmeno in mente, quella era la squadra comandata da Regan, e quell’uomo aveva
un odio per tutto ciò che era tecnologico ed un odio speciale per lo stesso
Matt.
Entrambi cercavano sempre di non finire negli stessi
turni di sorveglianza per evitare di incontrarsi o parlarsi. Meno si sentivano
più erano felici. Era una cosa risaputa.
Cancellata la preoccupazione per il ritardo del
rapporto della squadra di Regan, Matt tornò a pensare a come avere un profilo
della gente infiltrata. Probabilmente i filmati dell’ingresso avevano la sua
risposta, ma quale delle decine di persone entrate da quella mattina, era quella
che cercava lui? Non poteva saperlo.
Frustrato, si appoggiò sconsolato sullo schienale
della sua sedia girevole, abbandonandosi con tutto il peso del corpo. La
poltrona cominciò a girarsi verso la porta a vetri. Lì stava ancora aspettando
l’addetto alle comunicazioni della squadra che doveva montare il prossimo turno
di guardia. E la giovane donna bruna stava cominciando a diventare nervosa a
causa della lunga attesa. Matt poteva vedere il suo piede battere nervosamente
a terra.
Facendole cenno di essere paziente per ancora qualche
secondo, il tecnico scelse velocemente una delle frequenze e l’annotò su un
taccuino che aveva vicino al computer. Poi lasciò la sua consolle per andare ad
aprire la porta a vetri in modo da comunicare la scelta del canale all’addetta.
Mentre si avvicinava all’ingresso Matt era certo di
star dimenticando qualcosa di importante.
Doveva essere qualcosa a riguardo le spie che si erano
infiltrate.
Non riusciva a capire la strana sensazione che
provava. Sapeva che c’era qualcosa appena al limite della sua coscienza che era
molto importante ricordare.
Ma cosa?
Le due porte si aprirono, scivolando silenziosamente
lungo le scanalature fino a sparire nelle pareti stesse, frusciando appena.
Matt si vide riflesso per un attimo dalla vetrata, riconobbe il suo profilo
spigoloso e fu tentato di sorridere come faceva sempre, i riflessi distorti
erano una cosa che lo divertiva fin da piccolo. Ma nella mente del tecnico
qualcosa continuava ad agitarsi per essere
ricordato.
Ma cosa era?
Mentre superava la soglia della sala di controllo, la
bocca già aperta per parlare, l’uomo si accorse di una massa scura ad una delle
due estremità del corridoio. Girò la testa verso destra e mise a fuoco l’ombra
al limite del suo campo visivo.
Ma che cosa era?
Capì e ricordò contemporaneamente.
L’addetto alle comunicazioni!
L’addetto alle comunicazioni della squadra che doveva
montare il turno, prima era un ragazzo, non l’attraente bruna che gli stava di
fronte. Il massiccio ragazzo che ora era steso a terra in fondo al corridoio.
Incosciente o morto?
No, non doveva pensare a quello…dare l’allarme… si,
dare l’allarme… però… lenti i suoi riflessi… lunghissimo il tempo per girare la
testa…
Matt si voltò verso la falsa addetta alla sicurezza,
stupito più che spaventato, la bocca aperta in una smorfia di sorpresa, ancora
non capiva, non riusciva a collegare (eppure era la cosa che la sua mente
logica faceva meglio…), e la vide sorridere.
Poi diventò tutto nero.
Di Sogni e di Segreti Parte IV
Silea
In mezzo all’Atlantico, su di un
aereo privato.
Jason sedeva con
il resto della squadra nella carlinga dell’aereo. Non era eccessivamente stanco
e si poteva ritenere soddisfatto della missione.
L’edificio,
l’hotel Hyperion, se non sbagliava, era crollato dieci minuti dopo lo scoppio
delle bombe incendiarie. Era una vecchia costruzione e c’era voluto poco per
farla diventare un ammasso fumante di macerie che avevano continuato a bruciare
per le successive sei ore.
All’arrivo dei
pompieri i suoi uomini si erano nascosti, continuando a sorvegliare quelle
rovine. Non ne era uscito nessuno. La durata dell’incendio ed il crollo, oltre
alle alte temperature raggiunte all’interno dell’edificio, rendevano chiare le
possibilità di sopravvivenza di chiunque fosse stato nell’hotel.
Al notte
precedente Jason aveva fatto fare un’accurata ispezione della rete fognaria,
alla ricerca di passaggi ed ingressi. Non ne erano stati trovati. In pratica in
quell’edificio non esistevano neanche le cantine, che del resto dovevano essere
andate distrutte nel crollo.
Ciò che più gli
faceva piacere della missione era il fatto di non aver perso un solo uomo.
Odiava perdere qualcuno ai suoi ordini. Il suo compito era riportare a casa
quella gente viva. Se un piano significava la morte della sua squadra, quello
era un piano cattivo. Se ci fossero stati dei morti, la responsabilità sarebbe
stata solo sua.
Abbandonando la
linea di pensieri, Jason si alzò per andare al telefono satellitare che si
trovava nell’altro scomparto. Era ora di fare il rapporto. Compose il numero
diretto dell’ufficio che cercava ed attese mentre il telefono squillava.
-Pronto?
La voce si
sentiva perfettamente, non c’erano interferenze, si trattava di una
comunicazione satellitare. Jason parlò liberamente sapendo che il collegamento
era protetto.
-Signore, sono
Jason.
-E’ un piacere
sentirla Jason. Quale è l’esito della missione?
-La missione è
stata un successo, signore.
-Gli uomini?
Era questo che
Jason più apprezzava del proprio comandante, si interessava degli uomini, al
contrario di Travers, che vedeva tutti come pedine.
-Tutti salvi
signore. Nessun ferito.
-Ha svolto un
ottimo lavoro Jason. I miei complimenti.
-Grazie signor
Miller.
Delaware, Il Centro. Il giorno
successivo.
Il signor Parker sedeva
alla sua scrivania lavorando su un voluminoso plico di fogli. Erano giorni
frenetici all’interno del Centro. Stava
organizzando gli ultimi dettagli del suo piano per prendere il potere, cercando
gli ultimi alleati e controllando il nemico.
Fortunatamente
sembrava che Jarod si fosse preso una “vacanza”. Da qualche tempo non cercava
più di ostacolare le sue operazioni. Una fortuna insperata. Per questo colpo di
potere, a cui si preparava da più di dieci anni, aveva bisogno di tranquillità.
Sentì le porte
del suo ufficio aprirsi e chiudersi mentre qualcuno, non annunciato, né atteso,
entrava. Alzò lo sguardo e riconobbe la figlia. Aveva uno sguardo furibondo, la
mandibola era tesa, il suo corpo emanava rabbia.
Senza molto
interesse il padre si chiese che cosa era accaduto, sperando ancora una volta
che Jarod non c’entrasse. Con un po’ di fortuna si trattava probabilmente
dell’ultimo scontro tra lei e il fratello Lyle. Le sorrise, di quel suo sorriso
così caratteristico, che molti avrebbero detto carico di affetto.
Molti.
-Buon giorno
Angelo, che cosa è successo?
Lei non rispose e
questo turbò il padre. Non si mise a passeggiare avanti ed indietro per
l’ufficio come suo solito. Era rimasta immobile a qualche passo dalla sua
scrivania.
Il signor Parker
sentì che c’era qualcosa di diverso in lei, la guardò più attentamente e gli
sembrò persa nei propri pensieri. Mentre la osservava lei parve arrivare ad una
decisione dentro di sé, ed in una frazione di secondo lei cambiò.
Per la prima
volta il signor Parker ebbe paura di lei. Per la prima volta si chiese se
quella era davvero sua figlia. Fredda e distante lo guardava.
Era
definitivamente pericolosa.
Quando arrivò a
quella conclusione una Smith&Wesson
Pulsavano di una
ritrovata vita che vi scorreva dietro e della sete di vendetta che li animava.
Il signor Parker
cominciò a sudare freddo mentre tentava di rimanere immobile e si aggrappava
alla propria clinica lucidità per non cadere preda del terrore che cercava di
impadronirsi di lui. Non aveva neanche bisogno di simulare sorpresa per la
reazioni della figlia ad uno dei tanti fatti accaduti (di cui lui aveva finto
ignoranza), come aveva fatto molte altre volte, ora era tutto vero. Tentò di
deglutire nervosamente, ritrovandosi senza saliva. Ancora pochi attimi e
ritrovò la parola.
-Angelo, cosa
stai facendo?
Non ebbe
risposta. Non lasciò che il silenzio regnasse nuovamente, continuò.
-Angelo abbassa
quell’arma. Che cosa vuoi fare? Qui non c’è nessuno di cui temere. E’ un posto
sicuro questo, Angelo. Abbassa la pistola, non ce ne è bisogno. Non vedi? Ci
sono solo io. Mi riconosci? Sono tuo padre.
Miss Parker lo
fissò negli occhi. Da quando era entrata nella stanza non aveva mai staccato lo
sguardo dal volto di lui né aveva mai battuto le palpebre. Per la prima volta
in quelle iridi dalle pupille un po’ dilatate, c’era paura e lei si rese conto
che non era simulata, non questa volta. Le sarebbe bastata una leggera
pressione dell’indice e sarebbe tutto finito. Bugie, menzogne, dubbi e tanti
segreti di cui non voleva venire a conoscenza.
Un semplice
scatto del grilletto, il colpo, poi tutto finito.
Trattenne il
fiato.
Poi abbassò
l’arma.
Il signor Parker
si rilassò ed un sorriso gli affiorò sulle labbra, inconsapevolmente, reazione
allo stress nervoso appena provato.
Guardò la donna
davanti a lui (perché ormai era cresciuta) ancora un istante, lungo un secolo,
quasi un’eternità.
Abbassò poi lo sguardo
al petto e vide dove la pallottola era entrata. Il sangue cominciava a
macchiare la sua giacca panna, fatta su misura da un sarto italiano.
Gli sembrò che il
tempo rallentasse, si dilatasse, per poi fermarsi in un solo istante. La
piccola macchia scarlatta così evidente sul tessuto chiaro. Il signor Parker se
ne sentì attratto, e, curioso di sentirla, avrebbe voluto allungare le dita per
toccare quel liquido caldo.
Invece le dita
della sua mano destra lasciarono la presa della penna con cui stava scrivendo
poco prima. Fu il rumore della stilografica blu notte, dal pennino d’oro
massiccio (regalo di Natale della figlia), sul lucido legno della scrivania a
rompere l’incanto.
Il busto, non più
sorretto dalla forza muscolare e sbilanciato dal peso della testa, si piegò e
dopo aver urtato il piano della scrivania fece scivolare indietro la poltrona
di pelle. Come accartocciandosi su se stesso il signor Parker cadde da essa.
Le forze lo
abbandonarono e con esse la vita.
Prima che il
corpo raggiungesse terra era già morto.
La pistola si era
rialzata un attimo dopo essersi abbassata, in un unico, fluido, movimento.
Senza aver detto
una parola da quando era entrata in quell’ufficio, trenta secondi prima, Miss
Parker inserì la sicura e rimise nella fondina
Un padre che
aveva amato, un genitore che aveva aiutato a sopravvivere, ricevendo in cambio
solo indifferenza e delusioni. L’unica persona a cui lei avesse mai dato il
potere di decidere, il potere di usarla.
Il padre in cui
aveva fiducia.
L’uomo che le
aveva mentito per così tanti anni.
L’uomo che le
aveva tolto la madre e l’unico amore, facendone ricadere la colpa su altri ed
utilizzando la sua sete di vendetta per i propri scopi.
Allontanandosi da
quell’ufficio, mentre gli uomini della sicurezza la superavano indifferenti,
sorrise.
Un sorriso
triste.
Era finita con il
passato.
Ora ci sarebbe stato
il presente.
Da qualche parte negli U.S.A. .
Nella piccola
sala c’erano tre uomini seduti intorno ad un tavolo basso, occupati a giocare a
carte. Uno di loro stava fumando, con evidente piacere, un piccolo sigaro
marrone, divertendosi a formare piccoli sbuffi di fumo bianco che si perdevano
nell’aria.
La porta che dava
su un corridoio nero come la pece si aprì. Senza mostrare sorpresa, i tre si
girarono giusto in tempo per vedere la sagoma del loro capo illuminata dalla
luce. Come sempre l’uomo era in giacca scura e cravatta, del tutto indifferente
a ciò che lo circondava.
Quell’uomo si
comportava allo stesso modo in un museo nazionale, una cattedrale ed una bisca
clandestina. Era una di quelle figure epiche del proprio campo, su di lui
giravano molte storie. E quelle di cui un uomo perbene potesse andare fiero non
erano ancora state raccontate, sempre ammesso che esistessero. Qualcuno lo
avrebbe definito un “insensibile bastardo”.
L’unica cosa non
confermata era il “bastardo”.
Era da sempre
insensibile.
Li salutò con un
cenno del capo appena accennato e l’uomo con il sigaro si sbrigò ad alzarsi
dalla sedia per andargli incontro. Non si strinsero la mano.
-Ha fatto presto
ad arrivare, signore.
Non era rispetto
quello nella voce, era deferenza. Il potere di quell’uomo non era da
rispettare, era da temere.
-Si, ci ho messo
poco. Dov’è?
L’uomo più
giovane gli fece segno di seguirlo mentre faceva cadere un po’ di cenere dalla
punta del sigaro. Si sarebbe potuto immaginare che il passaggio interno fosse
in un seminterrato, visto che le uniche finestre erano dei lucernari posti
vicino al soffitto. Arrivarono davanti ad una porta dopo aver percorso un
corridoio malamente illuminato e dai muri spesso scrostati quando non avevano
ceduto. L’intera costruzione cadeva letteralmente a pezzi, e non molti si
sarebbe stupiti se uno dei piani rimasti sarebbe crollato, ma, isolata ed
abbandonata come era, si adattava ai loro scopi.
La porta davanti
a cui si erano fermati, notò con piacere il nuovo arrivato, era stata rinforzata.
Probabilmente l’unica cosa sicura dell’intero edificio. Si aprì senza
protestare per immetterli in una minuscola saletta. O per meglio descriverla,
in una cella. Solide pareti di mattoni, nessuna finestra ed un corpo in un
angolo. Immobile.
Senza
avvicinarsi, l’uomo in giacca e cravatta lo studiò per un attimo.
La figura era
alta, slanciata, dalla pelle bianchissima e i capelli ossigenati. Metà del
volto persa nel buio, ma i lineamenti che si intravedevano erano come
ricordava, puliti, quasi eleganti.
Si, era lui, non
aveva dubbi.
-Si è mai
svegliato dal suo “arrivo”?
-No signore, lo
teniamo sotto sedativi.
Era meno
pericoloso, non voleva che si liberasse e gli creasse problemi. Da
quell’esperimento con
-Cessate la
somministrazione ed avvertitemi quando si sveglia.
Lui e quel
vampiro avevano un affare da discutere.
-Come vuole
signor Travers.
Delaware, a poche miglia dal Centro,
casa di Lyle.
Lyle aprì la
porta ma non accese le luci come era sua abitudine, si sentiva euforico,
nonostante il suo dialogo con la dolce sorellina, così dolce che immaginava che
lei lo amasse tanto da sognare ogni notte di ucciderlo.
Lyle non credeva
però che avrebbe mai messo in pratica questi suoi propositi, nonostante sua
sorella avesse ucciso personalmente il loro così detto padre, a sangue freddo
nel suo ufficio, per poi uscirne tranquillamente come se niente fosse successo.
C’era dal morire
dal ridere al pensiero che poi, con la pistola ancora calda nella fondina, era
entrata nel suo di ufficio, per minacciarlo. Gli aveva detto che la doveva
lasciare in pace. Lyle non aveva creduto che Miss Parker sarebbe stata in grado
di farlo ed invece...
Non avrebbe più
dovuto sottovalutarla, quella che era entrata nel suo ufficio non era
Durante il
tragitto dal Centro al suo nuovo appartamento (aveva cambiato residenza dopo
aver scoperto che qualcuno era entrato nella sua vecchia abitazione), aveva già
cominciato a far progetti su come eliminare la sorella.
Domattina stessa
avrebbe assoldato un killer professionista, aveva già i contatti, perché era
questa la vera debolezza di Miss Parker, non possedeva un braccio armato a cui
fare affidamento. Poteva crearlo, era vero, ma non in meno di ventiquattro ore.
E questo
progettare l’omicidio della sorella senza dover pensare a come rendere il padre
neutrale o alla possibile reazione punitiva della Torre, che non esisteva, come
aveva dimostrato il gesto, lasciato impunito, della stessa Miss Parker, lo
rendeva felice.
Era bella questa
nuova sensazione di potere, come testimoniava il sorriso sulle sue labbra.
Morta anche la
sorella, lui, Lyle, avrebbe avuto nelle mani tutto il potere della famiglia
Parker, senza che nessuno sospettasse che lui fosse dietro l’omicidio del
padre, anzi lo avrebbero visto come il suo vendicatore, una prova aggiuntiva
della sua forza.
Improvvisamente si
immobilizzò. Una mano, spuntata dal nulla, lui non aveva sentito niente e
l’allarme non era scattato, gli stringeva il collo mentre un coltello era
puntato alla sua gola. Lyle non riusciva ad immaginare chi ci fosse dietro a
quel coltello.
Di certo non qualcuno
del Centro, loro usavano armi da fuoco, escluse rapidamente anche avversari del
suo passato. Il suo indirizzo era riservato, neanche al Centro sapevano dove
abitava, e nella nuova casa aveva aumentato la misure di sicurezza in modo da
renderla inespugnabile.
L’unica
possibilità era che fosse un killer a pagamento, ed uno estremamente abile,
dato che, senza allentare la presa, per non dargli alcuna possibilità di
divincolarsi, con il coltello gelido sempre a contatto con la delicata pelle
del suo collo, gli tolse la pistola dalla fondina, togliendogli la sua sola
arma e rendendolo così innocuo.
E Lyle non ci
mise molto a ricordare le ultime parole della sorella. “Capirai” aveva detto.
-Buonasera mister
Lyle.
Era una voce
femminile, ma la forza che dimostrava il suo aggressore era impressionante.
Lyle non aveva possibilità di uscire da quella presa.
E così Miss
Parker lo possedeva quel braccio armato, ed aveva fatto anche la prima mossa.
Ormai aveva la prova che quella donna era davvero sua sorella.
Era spietata come
lui. Lo era diventata. Lyle scosse mentalmente la testa, ancora un po’ e le
sarebbe pure risultata simpatica mentre aveva un carnefice assoldato da Miss
Parker alle spalle.
-Chi sei?
L’altra rise,
divertita.
-Chi sono? La tua
ombra.
Lyle mantenne il
sangue freddo. Rise.
-Ah, davvero?
Riuscì a dirlo con in tono di sfida. Il coltello fu
premuto sulla carne quanto bastava a farne uscire del sangue. L’acciaio era
decisamente freddo. Lyle non poté fare a meno di rabbrividire.
-Non mi provocare
Lyle, non mi dare un motivo in più per ucciderti, anche se pensandoci… non ne
ho bisogno… so abbastanza cose di te per sapere che se ti uccido sarò un passo
più vicina alla santificazione che alla dannazione.
-Se mi uccidi
avrai tutto il Centro ed alcuni miei amici sulle tue tracce, sarai cacciata
come un animale fino alla tua morte.
Era una minaccia
vuota, ma lui sapeva bluffare. Magari era soltanto un’esterna che non sapeva
come funzionava.
-Credi di
spaventarmi? Se muori al Centro faranno una festa. Altro che rimpiangerti. Se
non hanno mosso un dito per tuo padre, perché lo dovrebbero fare per te? Certo
potresti aspettarti aiuto da altri… - ci fu una pausa, come se l’aggressore
stesse riflettendo. -Per quanto riguarda i tuoi amici cannibali. – Lyle si irrigidì
a queste ultime parole. Credeva che quello fosse un segreto. Ne era certo, come
del fatto che la sua casa fosse sicura. L’altra si accorse della sua reazione e
continuò con voce divertita. –Non avrai creduto che il tuo essere parte di
questa piccola associazione neanche un po’ segreta, mi fosse oscuro, vero?
Comunque loro… tendono ad essere morti. Credo che tu sia l’unico superstite o
quasi della setta, forse ce n’è un altro nel mondo, ma non ci scommetterei. Ma
se vuoi seguire i tuoi “fratelli” nella
tomba basta che lo domandi cortesemente.
Ora Lyle aveva
paura. Quella donna aveva fatto il vuoto attorno a lui. Non rimaneva che
trattare.
-Cosa vuoi?
-Bene, vedo che
hai ricominciato a ragionare. E’ molto semplice. Basta che tu faccia quello che
ti ha chiesto molto gentilmente Miss Parker.
-E perchè dovrei
farlo?
-Semplice, tu
vuoi vivere. Fai qualcosa di sospetto, e ti assicuro che ho le mie fonti per
venire a saperlo, e ti ritroverai a pregare di essere ucciso. Non sei affatto
irraggiungibile come pensi Lyle. Ti sono arrivata vicina oggi e lo posso fare
quando voglio.
-Senti,
ragioniamo… Tu sei un ottimo elemento, me lo hai appena dimostrato. Passa a
lavorare per me. Qualsiasi sia la cifra che ti ha offerto Parker la raddoppio.
-Pessimo
tentativo Lyle. Dopo che ho accettato un lavoro, io lo porto sempre a termine.
Sai anche tu cosa succede ai mercenari che non lo fanno, o che si vendono al
miglior offerente. E poi tu non mi piaci come datore di lavoro. Quindi le
contrattazioni sono chiuse. Ricorda le mie parole, non ci sono seconde
possibilità.
Lyle sentì un
colpo in testa e cadde a terra svenuto.
New York, in una stazione di
pullman.
Era quasi
mezzanotte quando l’ultimo autobus da Albany arrivò. Era in ritardo di quasi un’ora.
Non scesero tantissime persone e la maggior parte di loro era più stanca che
arrabbiata a causa dei contrattempi che avevano provocato il ritardo. Erano
partiti dalla capitale dello stato poco dopo il tramonto ed avevano tutti
sonno, pochi di loro erano riusciti a dormire veramente lungo il viaggio a
causa di un autista a dir poco incompetente.
Ci fu il solito
caos vicino agli sportelli del bagagliaio nel ritirare le borse. Una trentina
di persone che si affollava attorno al conducente alla ricerca della propria
valigia, a volte spintonandosi per cercare di afferrare qualche secondo prima
il proprio bagaglio ed allontanarsi prima degli altri.
Un po’ distante
da loro, eppure lontano anni luce nel modo di comportarsi distaccato che aveva,
si trovava un uomo alto, dai capelli scuri ed il fisico imponente, anche lui appena sceso dal pullman, che si
muoveva rigidamente, come se fosse stato ferito di recente alla schiena.
Sembrava solo, senza nessuno che lo fosse venuto a prendere alla stazione.
L’uomo, sempre
muovendosi rigidamente, facendo attenzione a non ruotare il busto, spostò
nervosamente la piccola borsa di pelle marrone che teneva sulla spalla destra,
in una posizione tale da non toccare le ferite non completamente rimarginate,
poi si avvicinò ad uno dei telefoni pubblici posti in fila al termine delle
banchine.
Mentre alzava la
cornetta la stazione degli autobus cominciava a svuotarsi velocemente. Alla
gente non piaceva rimanere di notte in quel quartiere per più del tempo
necessario.
Il pullman ripartì
per andare a raggiungere il deposito notturno, alcune delle macchine nel
parcheggio avviarono i motori e si allontanarono, lasciandolo deserto. Nella
sala d’aspetto interna rimasero solo una decina di persone, alcune delle quali
con un aspetto non propriamente raccomandabile, abiti sgualciti e capelli
aggrovigliati.
Ben presto l’uomo
rimase solo sulla banchina, immerso nei suoi pensieri, la cornetta del telefono
ancora in mano, le dita dell’altra a pochi centimetri dalla tastiera.
Era stato un
viaggio massacrante e lui non mangiava da non ricordava più quanto tempo. Non
poteva andare avanti così ancora per molto senza crollare. Le ferite gli
avevano fatto perdere molto sangue e lui si sentiva molto stanco, pronto a
cadere in uno stato quasi letargico.
Ignorando la
spinta della fame e la palpebre sempre più pesanti, inserì delle monete nel
telefono coperto di graffiti e compose un numero a memoria.
Rispose una voce
femminile assonnata.
-Chi parla?
-Eliza? Sono a
New York.
La voce
dall’altra parte era già sveglia quando parlò nuovamente.
-Dimmi
precisamente dove Angel, che ti vengo a prendere. Credo che abbiamo molto di
cui parlare.
Il vampiro diede
l’indirizzo preciso per poi attaccare ed andare a sedersi su una panchina per
riposarsi. Le gambe e le braccia facevano molto male, e lui avrebbe dato tutto
per poter chiudere gli occhi e dormine un paio di ore, ma non era sicuro farlo
lì.
“Ora abbiamo molto di cui parlare. Sicuramente abbiamo
di che parlare molto più di prima Eliza.”
Cornovaglia, villa di Marlin. Due
giorni dopo.
Marlin era seduta
dietro la scrivania dello studio alla sua villa, lavorando. Oggi non era andata
alla sede del concilio. In seguito a quello che era successo negli ultimi giorni
ed alle telefonate che aveva ricevuto, aveva deciso di non farsi vedere.
Aveva bisogno di
tempo per pensare, e la sua casa era il posto migliore per farlo. Del resto non
doveva essere presente fisicamente in quel palazzo isolato in mezzo al nulla per
svolgere il suo lavoro. Avrebbe potuto trovarsi all’altro capo del mondo e
sarebbe stata in grado di svolgere senza problemi le proprie attività,
esattamente come se si fosse trovata seduta all’elegante scrittoio di ebano nel
proprio ufficio.
Andava lì ogni
giorno semplicemente perché così poteva tenere sotto controllo fisicamente i
suoi avversari, capire se era in arrivo qualche problema dal semplice mutare
dei loro comportamenti, e ricordare a loro in ogni istante che lei esisteva,
che lei era potente, che lei era pericolosa e che era lì grazie a nessuno oltre
a se stessa.
Provava un
piacere immenso a passare davanti alle porte aperte di quegli uffici e vedere
le loro espressioni falsamente cordiali, obbligarli a salutarla con un rispetto
che non provavano, sapere che la odiavano ma che soprattutto la invidiavano,
perché era arrivata più in alto di loro, e che non potevano fare niente per
toglierla da lì.
Avevano cercato
di ostacolarla, di bloccarla. In tutti i modi possibili. Senza mai riuscirci.
All’inizio non era stato così, per molti anni l’avevano sottovalutata,
arrivando a considerarla già spacciata quando si era messa contro Travers,
sfidandolo apertamente.
Aspettavano solo
che lei mollasse, i loro melliflui sorriseti stampati sul volto mentre conversavano.
Erano certi che avrebbe ceduto o che avrebbe accettato un qualche incarico di
poco conto e grande tradizione che le avrebbero offerto come contentino, oh, ne
erano così certi.
Perché nessuno
l’aveva aiutata, l’avevano lasciata sola, quando aveva più bisogno di aiuto,
quando era stata più esposta. Ad un passo dall’orlo del precipizio.
Lei lo aveva
guardato a lungo quell’abisso mentre continuava a camminarne sul ciglio,
rifiutandosi di lasciarsi cadere. Per ritrovarsi là sotto l’avrebbero dovuta
spingere, lei non avrebbe fatto il loro lavoro.
E loro avevano
deciso semplicemente di aspettare.
Sapevano che, con
suo padre morto, non aveva nessun familiare stretto disposto ad aiutarla nella
posizione in cui si era messa, che non aveva amici su cui contare, né alleati
che la potessero sostenere nella risalita.
I pochi amici che
aveva avuto, che non erano mai stati amici, si erano allontanati da lei
immediatamente, appena saputo cosa era successo, od appena si erano resi conto
che i dirigenti anziani la volevano escludere dai giochi di potere.
Lei non si era
lamentata, non aveva mai mollato, continuando a lottare, anche quando sapeva di
essere completamente isolata, e non si era mai presa la briga di informare chi
l’aveva sottovalutata che sbagliava a farlo.
Niente inutili
minacce.
A lei andava bene
così.
Che la
ignorassero pure, ma a proprio rischio.
Marlin posò la
stilografica, dal pennino d’oro, nell’elegante portapenne che si trovava
accanto ai rapporti che aveva appena finito di scrivere, anche loro ordinatamente
impilati. Si rilassò contro lo schienale della comoda poltrona per lasciarsi
cullare ancora un po’ dai ricordi.
Quella situazione
di virtuale abbandono era durata anni, finché qualcuno non aveva ritenuto che
era diventata troppo pericolosa per essere ignorata ancora.
Per la posizione
che era riuscita a raggiungere nonostante il fatto che nessuno l’aiutasse. Per
il suo ingente patrimonio che si era andato moltiplicando grazie ai suoi
investimenti. Per il cognome che portava, per quello che quel nome di famiglia
rappresentava e che loro non potevano avere.
Marlin.
La famiglia era
da generazioni all’interno del concilio, osservatori per tradizione come i
Travers, una “casata” rispettata, ma mai potente. Mai veramente, soprattutto
negli ultimi decenni. Nobili decaduti, li avevano definiti.
Un nome che non
significava niente.
Nessuno dei
Marlin era mai arrivato tra i dirigenti di livello superiore, tra i dieci
osservatori più importanti. Da quasi un secolo riuscivano a mala pena ad avere
ancora una voce in assemblea. Erano stati ostacolati dalle altre famiglie per
via di vecchie rivalità, odiati perché erano da più tempo parte di quel mondo,
perché erano ricchi, e nessuno era riuscito a farcela con quell’opposizione.
Tranne lei.
E secondo alcuni
sembrava addirittura in grado di prendere il controllo del consiglio, un
giorno.
Marlin fece
ruotare la poltrona fino a fermarla quando si trovò di fronte alla finestra
panoramica del suo studio.
Il suo sguardo si
perse verso l’orizzonte mentre abbandonava i ricordi per cominciare a
riflettere sugli ultimi fatti accaduti.
Sembrava andare
tutto bene. Il suo uomo, Matt Grennig, era stato nominato secondo in comando
alle comunicazioni. Come promesso, Travers aveva appoggiato la sua candidatura
di fronte a Miller, anche se “in absentia”.
La seconda
squadra speciale era in attesa che lei nominasse un nuovo comandante, come era
stata informata tramite lettera ufficiale firmata dallo stesso direttore dei
progetti speciali. Domani avrebbe esaminato i vari candidati.
Od almeno
sembrava andare tutto bene prima di tre giorni fa.
Marlin si mise a
fissare il sole, il cui disco da giallo stava diventando rossiccio. Bastarono
pochi secondi perché macchie colorate apparissero nel suo campo visivo,
sembravano danzare mentre muoveva gli occhi.
Tre giorni prima,
era mancata improvvisamente la luce nella sede del concilio. Non era mai
accaduto prima. Gli allarmi si erano messi a suonare frenetici, i monitor di
sorveglianza non ricevevano più immagini.
In dieci secondi
l’ordinata sede degli osservatori si era trasformata in un caos di gente
urlante, che cercava di raggiungere le uscite, mentre notizie contrastanti di
assalti al palazzo erano smentite e diffuse. Le squadre di sorveglianza
correvano nei corridoi per andare a presidiare i punti nevralgici della
struttura, mentre si cercava di capire cosa fosse successo.
Un agente,
completamente vestito di nero con mitra a tracolla, si era posizionato davanti
alla porta del suo ufficio, pregandola di rimanere all’interno, in attesa che la
crisi si risolvesse.
Le luci di
emergenza, neon azzurrognoli posizionate ad intervalli regolari, si erano
accese, ed illuminavano i corridoi, proiettando incerte ombre sulle pareti
solitamente piene di luce.
Dieci minuti dopo
l’allarme era rientrato. Le sirene si erano spente e le comunicazioni minime
erano state ristabilite. La gente era tornata lentamente nei propri uffici,
cercando di non pensare a quello che era successo mentre chiedevano di essere
informati di cosa era successo.
Un minuto dopo la
guardia si era allontanata dalla sua porta dicendole che era tutto a posto.
Marlin aveva
avuto giusto il tempo di rimettere la pistola che aveva sistemato sullo
scrittoio nel cassetto dove la teneva, prima che Miller entrasse come una furia
nel suo ufficio, seguito da due guardie del corpo, spalancando la porta con una
pedata, facendola andare a sbattere contro la parete.
Il capo del
concilio aveva voluto una spiegazione. L’aveva pretesa.
Una spiegazione
che Marlin non aveva e non era tenuta ad avere. Lei non era il capo della
sicurezza. Miller non si sarebbe dovuto rivolgere a lei ma a Travers.
Lo sapeva anche
il primo osservatore tutto questo, ma sembrava che il suo collega fosse
sparito, e poiché Jason era in missione da qualche parte nel mondo per conto
dello stesso Miller, come capro espiatorio rimaneva solo lei. Un ruolo che lei
non aveva intenzione di ricoprire, e l’unico modo per non farlo era risolvere
la crisi.
Per questo motivo
Magdalene non aveva potuto sapere di più sull’assenza di Quentin o fare ricerche
approfittando del caos che ancora dilagava e che aveva interrotto
l’applicazione del protocollo per qualche minuto. Si era dovuta impegnare per
trovare i responsabili dell’accaduto e dare una parvenza di ordine a quel caos.
Miller le aveva dato pieni poteri.
Così era stata
lei ha trovare la sala controllo devastata e le registrazioni distrutte,
assieme a diversi tecnici privi di sensi. La squadra della sicurezza che aveva
mandato a perlustrare l’intero complesso aveva fatto il suo rapporto mezz’ora dopo.
C’erano stati cinque morti tra cui il caposquadra Regan e due operativi.
Marlin si era
messa a raccogliere meticolosamente tutte le informazioni disponibili e si era
cominciata a fare un’idea di quello che era successo. I commando che avevano
attaccato il concilio dovevano essere stati almeno due, probabilmente tre o
quattro, e nessuno era in grado di darne una descrizione esatta. Le uniche cose
scomparse erano state le registrazioni della sicurezza, distrutte o trafugate,
ed uno dei Diari degli Osservatori.
Quello di
Catherine Parker.
Marlin aveva
avuto paura che Faith fosse stata l’artefice del piano d’attacco, nonché uno
dei commando. Perciò aveva cominciato ad indagare con più attenzione in quella
direzione ma nessuno era stato in grado di riconoscerla e nessuno aveva notato
strani “poteri” riguardo agli assalitori.
Momentaneamente
soddisfatta dal fatto che apparentemente Faith non c’entrasse niente
nell’attacco, e non potesse essere ricollegata ad esso, Marlin aveva
riorganizzato le squadre di sorveglianza e provveduto alle mille piccole
incombenze necessarie a far funzionare di nuovo quel posto.
Suo personale
piacere era stato esiliare il tecnico delle comunicazioni che aveva aperto la
sala controllo, in un oscuro avamposto in piena Africa. Che marcisse pure lì
per il resto della sua vita.
Preparato a sua
volta un rapporto dell’incidente, le cui lacune erano a dir poco abissali ma
che era comunque il più esauriente che si potesse ottenere in così poco tempo,
Magdalene aveva ritagliato un quarto d’ora di tempo per cercare di rintracciare
Quentin, ora che disponeva di pieni poteri.
Nonostante questo
non era riuscita a rintracciarlo. Tutto quello che aveva saputo era che Travers
non si trovava in missione per conto del concilio, ma che era ufficialmente
sparito. Probabilmente per provvedere a suoi personali, ed illeciti, affari
personali. La cosa non l’aveva stupita, molti osservatori conducevano affari
privati non del tutto legali, quello che interessava Magdalene era sapere che
tipo di affari illeciti Quentin stava portando avanti.
Marlin chiuse un
attimo gli occhi per far sparire le ultime macchie colorate che si agitavano
ancora, mentre girava la poltrona nuovamente verso lo scrittoio, per finire di
controllare gli ultimi rapporti della giornata.
Da quando aveva
cercato di rintracciarlo senza successo, Magdalene, aveva avuto la certezza che
Quentin non era stato sincero con lei per quanto riguardava i motivi che lo
avevano spinto a cercare quell’accordo, e che quello che sapeva lei poteva non
essere la verità o solo un parte di essa.
Così, nei giorni
precedenti Magdalene aveva fatto anche un paio di chiamate in America, a gente
al di fuori del concilio, che gli doveva dei favori, per un motivo o per un
altro.
I suoi
informatori le avevano comunicato in fretta che nessuna squadra speciale era
mai arrivata a Boston e che si, c’erano stai disordini tra i demoni
ultimamente, ma erano giusto regolamenti di conti tra due clan di demoni
Kralesh. Così il motivo d’intervento di Travers si era dimostrato una scusa.
Marlin aveva
fiducia che avrebbe trovato la soluzione al mistero “Travers”, ma per oggi,
come ieri, sarebbe rimasta a casa, a svolgere il suo normale lavoro, sperando
comunque di trovare notizie utili o riceverne da alcuni informatori che aveva
contattato discretamente.
Inoltre, lei non
voleva trovarsi a portata dell’ira di Miller quando sarebbe scoppiata. Lo
conosceva da abbastanza tempo da sapere che sarebbe accaduto presto. Più
salutare di rimanere alla villa sarebbe stato allontanarsi dall’Inghilterra e
rendersi a sua volta irreperibile, come Travers, ma Magdalene sapeva anche che
Miller non avrebbe mai osato minacciarla quando si trovava a casa propria.
Perciò, al momento, lì era al sicuro come dall’altra parte del mondo.
Che gli altri dirigenti
del consiglio se la sbrigassero da soli con un Miller in cerca di teste. Era
impensabile per lui che qualcuno entrasse nella sede del concilio rubasse
qualcosa e se ne andasse indisturbato, dopo aver distrutto le registrazioni
della sicurezza. Naturalmente avrebbe anche usato questa scusa per far saltare
teste “scomode” senza destare sospetti.
Magdalene guardò
l’orologio, erano quasi le sei. L’orario per cui aveva fissato l’appuntamento
con la cacciatrice.
Lo stesso giorno
dell’attacco Faith le aveva telefonato per comunicarle che il lavoro a
Washington era stato portato a termine senza problemi. La seconda prova che
Faith non c’entrava niente con il furto, almeno non fisicamente.
Quando rialzò lo
sguardo, pochi secondi dopo, trovò davanti Faith a sé, comodamente seduta
nella poltroncina davanti alla sua
scrivania. Come sempre era vestita di scuro, una tonalità di blu notte, ma con
pantaloni eleganti e maglione a collo alto. Per una volta sembrava aver lasciato
da parte pantaloni di pelle nera e jeans.
-Buonasera Mars.
In fondo
l’osservatrice non era stupita dell’entrata ad effetto della sua ospite. Se la
aspettava. Anche se non capiva se la cacciatrice continuasse a presentarsi con
questo genere di entrate perché le considerava un gioco divertente o perché in
questo modo dimostrava di poter entrare quando voleva nella sua casa.
-Buonasera a lei
Marlin.
Facendo ruotare
la propria poltrona Magdalene si alzò ed andò verso la finestra dando
volutamente le spalle all’ospite. Controllare i lineamenti del volto non era un
problema per lei ma voleva vedere se la mancanza di contatto visivo diretto con
un interlocutore innervosiva Faith. Anche se si erano già incontrate e
Magdalene aveva studiato a lungo tutto quello che il concilio aveva sulla
cacciatrice, si era trattenuta dal formulare alcun giudizio definitivo su di
lei, in attesa di avere altri elementi.
-Immagino che lei
non sappia dell’esistenza di porte e di persone addette a farle strada verso il
mio studio, dopo averla annunciata.
-Oh, non si
preoccupi, ne conosco l’esistenza ma ho pensato di risparmiare loro fatica. Del
resto come mi sarei dovuta presentare? “Sono Faith Mars, omicida su
commissione”. Suona un po’ male non trova? Oppure avrei dovuto dire “Faith, la
cacciatrice di vampiri rinnegata ed ora carnefice di demoni”?
Stranamente,
Magdalene apprezzava il sarcasmo della ragazza. Attualmente le piaceva, ma
decise di rispondere seriamente, mentre prendeva nota del fatto che la ragazza
le aveva risposto a tono, dandole naturalmente del lei come la stessa Marlin
aveva appena fatto.
-Sarebbe bastato
il suo nome.
Faith guardò
negli occhi Marlin, che si era girata per andare verso un mobile che si trovava
dietro di lei. L’osservatrice la superò uscendo dal suo campo visivo, ma la
cacciatrice non si voltò. Sapeva che Magdalene la stava valutando, come la
prima volta che si erano parlate.
Faith era andata
ad affrontare questo incontro con solo due cose in mente. Non fidarsi mai di
Magdalene, e non dimostrare alcuna vera debolezza.
Dalla prima volta
che si era incontrata con Marlin aveva subito provato un’innata simpatia, una
profonda voglia di stringere amicizia con la donna, oltre che averla come
alleata.
Sapeva
inconsciamente che lei e l’osservatrice si somigliavano per molti versi.
Entrambe aveva avvertito questa somiglianza dalla prima volta che si erano
incontrate. E sapeva altrettanto bene che fare amicizia con quella donna era
impossibile da tanto tempo. Oltre ad essere mortalmente pericoloso.
Così il suo
desiderio sarebbe rimasto solo un desiderio, ed ogni giudizio su quella donna
sarebbe stato puramente razionale. Altrimenti non sarebbe stato difficile che,
un giorno di questi, un osservatore annotasse la misteriosa ed improvvisa morte
di un’altra cacciatrice, senza alcun vero motivo alle spalle.
-Cosa vuoi
Marlin? Non mi hai fatto fare un volo di più di otto ore per dirmi come
presentarmi ai tuoi domestici.
Ora che si erano
“salutate” potevano passare ad argomenti più seri. Perdere tempo non era mai
stata una cosa che Faith gradisse. E giocare con parole e titoli non lo aveva
mai amato. Lei era convinta che bisognasse chiamare le cose con il proprio
nome, il resto era fiato sprecato.
L’osservatrice
annuì anche se la cacciatrice non poteva vederla. Si aspettava che fosse la
ragazza a chiedere di venire subito al dunque. Aprendo lo sportello del mobile
dei liquori le chiese cosa volesse.
-Quello che
prendi tu.
Magdalene versò
due bicchieri di scotch liscio e ne porse uno a Faith mentre proseguiva per
andarsi a sedere alla propria poltrona.
-E se ti avessi
chiamato qui per farti i complimenti per l’ottimo lavoro svolto?
La mora inarcò un
sopracciglio guardando l’altra senza la minima considerazione per ciò che aveva
detto.
-Se dicessi una
cosa simile non ti crederei per un solo momento. Mi hai offerto un lavoro. L’ho
accettato. L’ho svolto. Mi hai pagato. Questo è tutto. Se sono qui è per un
altro motivo.
Sorseggiando il
suo scotch Magdalene stava pensando a come decine di persone facevano a credere
che quella davanti a lei non fosse altro che un macellaio. Se così fosse stato
molto probabilmente le cose per Marlin sarebbero state molto più facili ora.
-Ti voglio
proporre di entrare a tutti gli effetti nel concilio. Come capo di una delle
squadre speciali.
-Intendi una di
quelle unità che mi hanno dato la caccia, senza successo, per svariato tempo?
-Si. Una di
quelle.
-No.
Magdalene se lo
era aspettato. Ma sperava che almeno prima Faith si sarebbe informata un po’ di
più. E sperava che quelle informazioni l’avrebbero incuriosita abbastanza da farle
accettare l’incarico che intendeva davvero offrirle.
A Magdalene
serviva un’altra alleata interna al concilio. Ed era a questo che mirava. Far
entrare definitivamente Faith all’interno del concilio degli osservatori.
Sapeva che era pericoloso dare alcun potere a quella ragazza, “no”, si corresse, “quella che mi siede davanti è decisamente una donna, ed una donna
intelligente e decisa”, un punto interrogativo su cui Marlin correva il
rischio di scommettere.
Perché era quella
la verità. Lei non conosceva Faith, né le vere intenzioni della ragazza, e per
questo motivo non avrebbe saputo prevederne il comportamento in futuro. Ma
aveva bisogno di un’alleata nella guerra che conduceva. Era rischioso, ma non
sapendo esattamente quale fosse la mossa che Quentin stava portando avanti in
quel momento, doveva rischiare e legare a sé in maniera più stretta almeno una
delle cacciatrici. Perché almeno in questo Travers aveva avuto ragione. Quelle
cacciatrici non erano fedeli a lei.
Segretamente
contava sul fatto che le informazioni sottratte al concilio qualche giorno
prima arrivassero per vie traverse, di cui immaginava l’esistenza, alla
cacciatrice. Sempre che la mora non fosse stata l’artefice del furto e avesse
già letto una copia di quei libri. La fissò per un attimo studiandola.
La guardò negli
occhi e Faith le restituì lo sguardo sostenendolo senza esitazione. In quegli
occhi non c’era paura, non c’era malizia, né altro che Magdalene potesse
riconoscere. Continuando il contatto visivo Marlin fece una domanda, tanto per
valutare le reazioni della ragazza.
-So che ci sei tu
dietro al furto al concilio.
Era un bluff, lo
sapeva. Ma le conveniva giocarlo.
Faith la fissò
senza tradire la minima reazione a parte un sogghigno ironico e l’inarcarsi del
sopracciglio. Una luce sardonica le si accese negli occhi mentre rispondeva a
tono all’affermazione dell’osservatrice.
-Davvero? Ci
sarei io dietro il furto di cosa? –Tutti sapevano che la sede del concilio era
stata violata. Fingere di non sapere nulla sarebbe stato come ammettere di
essere colpevole. –Illuminami. Cosa avrei dovuto rubare? Meglio, cosa avrei
fatto rubare?
-I diari della
tua osservatrice.
-Parker?
-Ne hai avute
altre?
-Una un po’
illegale e psicotica. Ma non me ne sono mai lamentata. Comunque avrei rubato
quei libri. E per trovarci cosa?
-Magari delle
risposte alle tue domande.
Gli occhi di
Magdalene si erano accesi di una luce, Faith l’avrebbe detta “viva” per la
prima volta da quando l’aveva conosciuta, mentre la incalzava con queste
domande. Marlin non aveva l’aria di una che cedesse tanto facilmente, una volta
trovata una pista che la convinceva. Stava facendo di tutto per farle ammettere
qualcosa o farla contraddire. E presto o tardi ci sarebbe riuscita. Faith
sapeva che doveva far trapelare qualcosa, qualcosa non necessariamente vero,
per chiudere la conversazione.
-Le risposte alle
mie domande non sono in quei diari. Altrimenti non sarebbero rimasti qui dentro
così a lungo.
Mentre lo diceva
aveva continuato a fissare negli occhi Magdalene. No, non stava mentendo,
intendeva ogni parola di quello che aveva detto. Ma non era neanche tutta la
verità.
Rimasero così a
fissarsi per qualche altro secondo. Poi Faith sorrise, la maschera gelida tornò
ad essere un semplice volto dai lineamenti sereni. Magdalene si rilassò contro
lo schienale della poltrona, non si era accorta di aver irrigidito i muscoli,
ma quello scontro le era piaciuto. “Si,
Catherine aveva ragione su questa ragazza.”
Aeroporto di Sunnydale. Il giorno
successivo.
L’aeroporto era
poco distante dalla cittadina, forse dieci minuti in macchina, e piccolo come
la stessa Sunnydale. Ad una sola pista, veniva utilizzato principalmente come
raccordo con l’aeroporto internazionale di Los Angeles, o come punto di
partenza per charter.
I tavoli dell’unica
tavola calda aperta non-stop, erano affollati di passeggeri appena arrivati da
Chigaco e da altri che aspettavano la chiamata del loro volo, chi impaziente,
chi annoiato. Il vocio contenuto del locale era un piacevole ronzio di
sottofondo a cui si mischiavano il rumore di posate e tazze che sbattevano. Ad
uno dei tavolini sedeva Tara, sola, senza un evidente bagaglio a parte la sua
borsa.
L’altoparlante
comunicò l’avvenuto atterraggio del volo proveniente da New York, i cui
passeggeri sarebbero usciti dal cancello 3. Tara prese distrattamente il
segnalibro che aveva poggiato a fianco e lo inserì nel libro che stava
leggendo, per poi chiuderlo e sistemarlo meticolosamente sul piano di plastica
del tavolo.
La bionda prese
fra le mani la tazza di tè, che aveva lasciato freddare negli ultimi minuti,
cominciando a sorseggiarla mentre osservava con più attenzione la folla che la
circondava. C’erano un paio di famiglie con bagagli al seguito che superarono
la tavola calda senza entrarci, un indaffarato uomo d’affari con la cravatta
allentata che imprecando si stava dirigendo verso l’uscita, urtando altre
persone nella fretta di raggiungerla. La moltitudine di normali uomini e donne
che passano in un aeroporto od una stazione, ognuno preso nella propria vita.
-E’ molto che
aspetti?
Chiese Faith
mentre si sedeva sulla panca dall’altro lato del tavolo, buttando la borsa nera
che portava a tracolla, tutto il suo bagaglio, per terra, posizionandola fra le
sue gambe.
-Una ventina di
minuti.
-Mi dispiace che
il volo abbia fatto tardi.
Tara si limitò a
scrollare le spalle indicando il libro con un gesto della mano. Non era mai
stata una persona impaziente. Fissò negli occhi la cacciatrice e si sorprese
nel trovarla stanca, ma del resto negli ultimi giorni aveva viaggiato molto e
doveva ancora abituarsi al nuovo fuso orario.
-Tutto bene?
Il tono di voce
era cortese e tranquillo, Tara non aveva bisogno di una lunga ed articolata
risposta.
-Volo piacevole e
viaggio proficuo.
La cameriera si
avvicinò chiedendo cosa volessero. Faith ordinò un panino ed un caffè mentre
con lo sguardo controllava discretamente gli altri clienti della tavola calda.
Non trovò alcun individuo sospetto ma aspettò che la cameriera si allontanasse
per ricominciare a parlare.
-Ho un nuovo
lavoro. Per certi aspetti migliore di quello precedente, forse più pericoloso a
lungo termine. Poi ti spiego meglio.
Tara annuì senza
fare domande. La loro amicizia funzionava anche per questo, perché nessuna
delle due metteva pressione sull’altra facendo domande inutili o irritanti. In
un certi aspetti lei e Faith erano molto simili, molto più di quanto tanti
riuscissero a capire.
-Qui come va? Ci
sono apocalissi questa settimana?
Il tono era
leggero e così quello della risposta.
-Niente del
genere. Un demone acquatico, di cui non ti dico neanche il nome tanto non lo
riusciresti a pronunciare.
Faith fece finta
di rabbuiarsi, offesa, per poi sorridere apertamente.
-Hai
perfettamente ragione, anche se sono molto più brava di B con i nomi.
La cameriera
tornò portando quello che Faith aveva ordinato. Poco elegantemente la
cacciatrice si buttò sul panino, finendolo in meno di un minuto.
-Immagino ti
abbiano già detto che sei un pozzo senza fondo.
La mora annuì
mentre cominciava a sorseggiare la tazza di caffè con più lentezza.
-E’ la verità, ma
del resto sugli aerei si mangia da schifo. Lo dovresti sapere.
Chiacchierarono
del più e del meno per qualche altro minuto mentre entrambe finivano le loro
tazze. Faith aggiornò Tara sulle ultime novità, confermando che il tempo in
Inghilterra continuava a fare schifo. Finito il caffè, senza smettere di
parlare la mora estrasse il portafoglio e lasciò venti dollari sul tavolo, più
che abbastanza per pagare il suo conto e quello di Tara. Poi si alzò dal
tavolo, rimettendosi in spalla la sacca nera.
-Ho la moto
parcheggiata nel deposito sorvegliato. Ti do un passaggio a casa. Oppure puoi
fermarti a cenare da me anche se sono le – Faith guardò l’orologio facendo un
rapido calcolo, l’orario che segnava era ancora quello di Londra. –undici di
sera. E’ una vita che non ceniamo assieme.
Vedendo l’aria
scettica di Tara, Faith continuò a parlare.
-Per quanto
riguarda la moto ho un casco in più, non ti preoccupare. E per la cena ho
qualcosa di commestibile in casa. Niente hamburger promesso.
La strega annuì,
un po’ più convinta dall’idea, si alzò
dal tavolo prendendo il libro sbrigandosi a raggiungere la cacciatrice che era
già uscita dal locale.
“La fiducia può ucciderti o renderti libero.”
Il cimitero era silenzioso come sempre. Un timido sole si affacciava
appena dalle nubi che coprivano l’azzurro del cielo.
Una figura, alta e slanciata, avvolta in un lungo cappotto nero che arrivava
oltre le sue ginocchia, stava in piedi davanti ad una lapide, raccolta in
silenzio. Stivali dal tacco alto calpestavano l’erba verde tenendosi a
rispettosa distanza da dove era stata sepolta la bara due anni prima.
Come apparsa dal nulla, una seconda figura, più bassa della prima ed
avvolta in un giubbotto di pelle marrone, logoro dall’uso e troppo grande per
lei, si affiancò davanti alla lapide in marmo bianco. Sopra era inciso, con
eleganti lettere dorate, “Catherine
Parker. La migliore delle osservatrici, l’unica madre conosciuta.”
Rimasero entrambe in silenzio per alcuni minuti, l’una con i capelli
neri sciolti sulle spalle, l’altra che li aveva legati con una pratica coda. In
silenzio, perse nei loro ricordi e nelle loro paure.
Faith tolse le mani dalle tasche
del giaccone, e, inginocchiandosi, pose una rosa bianca sulla tomba. Si rialzò,
pulendosi inutilmente i jeans neri sulle ginocchia, in un gesto nervoso,
soltanto per occupare le mani, che poi infilò in tasca.
-Erano le sue preferite.
La voce dell’altra, quando rispose, era profonda e commossa, flebile,
quasi un sussurro.
-Lo so.
Rimasero ancora in silenzio. In lontananza il rumore delle auto, quasi
coperto dalle fronde degli alberi mosse dal vento leggero. Faith, le mani
ancora in tasca, stringeva tra le dita il braccialetto d’argento che le aveva
regalato Catherine e che ora, per rispetto e perché si sentiva in colpa,
ingiustificata colpa, non portava più.
-Non so neanche più se crederci o no. E’ già capitato due volte.
Un’altra tomba e un’altra morte. Non posso crederci, non so neanche se voglio crederci. –Ci fu una pausa mentre
Miss Parker si spostava rabbiosamente i capelli dagli occhi.- E’ davvero in
quella bara?
-Si, è lì. Questa volta è davvero finita.
L’aveva vista morire con i suoi occhi, e non aveva potuto fare niente.
Non doveva aspettare i suoi incubi per rivivere quello che era successo. Era
sempre lì, appena oltre l’orlo della sua coscienza, in attesa.
Passò altro tempo.
-La tua copia del diario è nella macchina assieme alle fotocopie che ho
fatto degli altri volumi. –un cenno affermativo di Faith. -Intendi dare la
caccia a chi è stato?
-No, non ora. Forse mai… - “…Fa
già parte del passato?…” -Tu che farai?
-Quello che ormai faccio da anni. Sopravvivrò ed aspetterò. Magari un
giorno andrò a caccia del colpevole o ti aiuterò ad ammazzarlo. Ma non ora.
Faith annuì. Entrambe avevano altre cose da fare. Erano sorti nuovi
problemi. Entrambe dovevano portare avanti le loro vite e per molto tempo non
avrebbero avuto tempo da investire per quel lavoro.
Tutte e due si erano trovate nella necessità di rompere vecchi equilibri
per riuscire ad andare avanti, senza morire od essere escluse da quello che era
una parte essenziale della loro vita. Avevano avuto bisogno dell’aiuto
dell’altra per farlo. Per quello avevano lavorato insieme. Interessi comuni e
fiducia.
Sapevano che si potevano fidare dell’altra sia per i rapporti che
avevano avuto con Catherine, sia perché le loro vite erano completamente
separate, nessun conflitto di interesse.
Avevano deciso di allearsi per qualche giorno. Uno scambio equo.
Soltanto per il tempo necessario a bloccare i progetti egemonici di Mister
Parker e Lyle, il tempo di costringere Marlin a fare una mossa.
Solo qualche giorno.
Non altro, non ora.
Fu Miss Parker a parlare mentre si allontanava.
-Sai, la vendetta… non avrebbe voluto.
Faith rispose in un sussurro, guardando la lapide.
-Lo so.
Fine