DI SOGNI E SEGRETI

By Silea

 

 

Cross-over con Jarod il Camaleonte (o se preferite The Pretender), i cui fatti sono seguiti fedelmente fino alla fine della quarta stagione (escluso il ritrovamento del fratello di Jarod e Miss Parker che non è avvenuto…). Per seguire la storia non è comunque necessario aver seguito questo telefilm…

Disclaimer: personaggi, situazioni ed eventi coperti da copyright sono proprietà degli aventi diritto, ed usati senza il loro consenso per scopi privi di lucro.

 

 

PARTE I

 

Prologo

 

 

U.S.A. Da qualche parte lungo la costa occidentale.

 

 

 

La donna bruna si muoveva con cautela, la pistola puntata davanti a sé. Uscita dal retro di casa sua, appena certa che qualcuno sorvegliava la villetta dal fondo della strada, sfruttando la sua conoscenza dei dintorni, si era allontanata, invisibile all’osservatore. Non le piaceva affatto che gente sconosciuta arrivasse e la mettesse sotto vigilanza.

Non le sarebbe piaciuto in un giorno qualunque, in questo, era proprio un errore da non commettere. Tanto peggio per chiunque fosse. Avrebbe subito le conseguenze delle sue azioni e il suo sfogo.

Era furibonda ma ancora lucida. Non le sembrava giusto.

Prima di quella telefonata, ieri sera, andava tutto bene, tutto era come sempre. Poi, una sola, singola, chiamata le aveva stravolto la vita, di nuovo. Aveva passato al notte in bianco, pensando, bevendo, ricordando. Poi, sfinita si era addormentata per qualche ora. Affacciarsi alla finestra era stata una delle prime cose che aveva fatto appena sveglia. Era diventata sospettosa, quasi paranoica, lo sapeva, ma con la vita che conduceva era una scelta obbligata.

Stava compiendo un ampio giro parabolico per evitare che chi la stava spiando si accorgesse della sua contromossa e si preparasse a riceverla. Lo sconosciuto aveva parcheggiato una berlina grigia piuttosto anonima sul ciglio della strada, non si era mosso da dentro l’abitacolo da oltre tre ore, da quando era arrivato, solo una vaga ombra sul parabrezza ne segnalava la presenza all’interno dell’auto.

La donna, muovendosi silenziosamente si avvicinò facendo attenzione a non pestare foglie e ramoscelli creando rumore sufficiente a farla scoprire. Si stava accostando lateralmente al veicolo, in modo da non apparire in nessuno degli specchietti del conducente.

Con un ultimo passo, scattò per arrivare improvvisamente all’altezza del finestrino anteriore, apparendo inaspettata nel campo visivo di lui, immobilizzandosi per tenere sotto tiro lo sconosciuto. Le gambe leggermente flesse, le braccia ben tese davanti a sé, gli occhi alla ricerca dello sconosciuto. Era certa di coglierlo di sorpresa.

Sbagliava.

La sconosciuta, perché c’era una ragazza all’interno della berlina, a sua volta aveva un’arma puntata contro di lei. Si era formata una situazione di stallo. La donna, imprecando tra sé per aver perso il fattore sorpresa, decise di controllare con attenzione tutta la scena. Non voleva altre sorprese.

 Il finestrino della berlina, era abbassato, per cogliere anche il minimo rumore. La donna si diede della sciocca, non aveva pensato ad una possibilità del genere, mossa astuta da parte dell’avversaria. Eppure la bruna era certa di essersi mossa senza produrre alcun suono udibile ad orecchio umano. Doveva aver pur fatto qualche errore, però, forse un riflesso su un vetro od altro. Come aveva ipotizzato c’era una sola persona nella macchina e il fatto che non fosse scesa indicava che si era accorta di lei da pochissimo. Non aveva avuto tempo per preparasi in altro modo. Non era poi in una situazione così svantaggiosa.

Represse la rabbia, il dolore dentro di sé, per lasciare il posto alla sola lucidità. Strinse un po’ più saldamente la sua Smitt&Wesson e continuò a tenere sotto tiro la sua avversaria.

La ragazza sembrava tranquilla, come se si fosse già trovata in situazioni simili. Era una professionista. Indossava occhiali da sole dalle lenti a goccia, e, da quel che poteva vedere, aveva una specie di giubbotto di pelle nero e sotto una qualche camicia, anche questa nera. “Deve essere una persona molto allegra” pensò la donna. Come lei era bruna, i capelli le ricadevano sulle spalle, sciolti.

La donna non perdeva di vista l’indice dell’altra, immobile sul grilletto, sembrava scolpito nel marmo, non un tremore. Ragazza o no, decise, al minimo movimento avrebbe sparato, non per uccidere forse, lei non era un killer, ma avrebbe sparato. Proprio la ragazza, stanca di aspettare, anche se erano passati solo pochi secondi, parlò per prima.

-Hai qualche idea per uscire da questa situazione di stallo, entrambe ancora con la loro pelle?

Sembrava che la circostanza la divertisse, una specie di sorriso ironico si era formato sulle sue labbra.

 

 

 

Libro I

 

 

 

 

“Chi vive più vite, muore più morti.”

 

 

 

 

Parla Faith:

 

 

 

“Vuoi credermi un mostro? Qualcuno che vive solo per vedere scorrere il sangue della sua prossima, innocente, vittima? Un’aberrazione della natura? Libera di farlo. Nessuno te lo impedisce. Ma sappi, anche se non ti interessa, che non ho mai provato gioia nell’uccidere un essere umano.

Ed io, Buffy, posso dire di non aver mai ucciso per noia.

Tu puoi fare altrettanto?”

 

 

 

 

Sunnydale.

 

 

 

Scese dal pullman sbadigliando, con la schiena indolenzita dal lungo viaggio, la ferita le faceva veramente male ma la ignorò, caricandosi sulla spalla la borsa nera e avviandosi verso casa. Dopo un viaggio durato più di dodici ore era stanca ed irrigidita. Rinunciò a chiamare un taxi, anche perché non ce ne erano nei paraggi, e si avviò a piedi a casa sua. Una passeggiata le avrebbe fatto bene e visto che il sole non era ancora tramontato non doveva preoccuparsi neanche dei vampiri.

Faith si allontanò lentamente bilanciando meglio il carico sulle spalle così che i punti non le tirassero la ferita, recente ricordo del suo ultimo lavoro.

Era stata una missione davvero massacrante. Sette dei più lunghi giorni della sua vita. Quel dannato vampiro francese, vecchio più di trecento anni, le aveva fatto sputare l’anima prima che ne avesse ragione. Marlin le aveva detto che era un osso duro ma lei non aveva creduto così tanto. Non avrebbe più sottovalutato l’opinione della donna.

Aveva dovuto girare la metà dei bassifondi parigini prima di poterlo trovare. L’altra metà l’aveva visitata per trovare un po’ di “oggettistica utile” alle sue esigenze, era stato difficile visto che non conosceva né i luoghi, né i contatti per procurarsela, ma ci era riuscita, anche grazie ad una quantità rilevante di denaro.

Inoltre, considerando che non sapeva neanche il francese e che aveva dovuto portare un “traduttore” con sé, un demone di non si ricordava quale razza che aveva vissuto un po’ in America ( e che era sfortunatamente incappato nella sua spada quando aveva tentato di venderla al suo nemico), era stata fortunata a trovarlo in così breve tempo.

Appena finito il lavoro aveva lasciato la stanza di motel, identica a tutte le altre (quanto odiava quei posti, troppi ricordi…), per prendere il primo volo per tornare a casa. Il viaggio era durato qualcosa come dodici ore tra aereo, coincidenze aeroportuali e pullman, con cui aveva coperto gli ultimi chilometri.

La schiena se la era ferita proprio nell’ultimo scontro con Jean-Luis, quando lui, con ormai solo quattro dei suoi tirapiedi, si era rifugiato in una villetta poco fuori Parigi, dopo che lei gli aveva accuratamente fatto perdere tutti gli alleati, fatto aumentare i nemici, scavando una baratro in cui lui era caduto. Era pericoloso andare a caccia di una preda ferita. Si era rivelato tale quando una spada di quasi un metro le aveva squarciato la schiena, recidendo un buon numero di fasci di muscoli e sfiorandole la spina dorsale.

Era stato decisamente doloroso. In quel momento lei aveva perso ogni lucidità avventandosi contro quel vampiro che l’aveva ferita con tutta la rabbia che provava, ed era molta. Si era fermata solo quando attorno a lei aleggiava semplice polvere. Non le era piaciuto perdere così il controllo di se stessa ma non aveva potuto evitarlo, per fortuna le era andata bene.

Era uscita da quella casa sanguinando abbondantemente nonostante i suoi tentativi di fermare l’emorragia. Cacciatrice o no, si era dovuta recare da un dottore, che aveva fatto decisamente poche domande, era conosciuto per quello, che dietro pagamento le aveva applicato una stretta fasciatura. Dopo un iniezione di antidolorifici era tornata in albergo per fare le valigie.

Per lei Parigi non sarebbe stata salutare per un po’ di tempo. Presto si sarebbero accorti che era una doppiogiochista e si sarebbero arrabbiati non poco, aveva messo in giro un po’ di voci false per arrivare a Jean-Luis, già i residenti non avevano gradito la sua presenza e lei, senza contatti sicuri, rischiava molto a rimanere.

Faith si guardò attorno, era quasi arrivata a casa.

Casa, gustò quella parola. Erano passato più di un mese da quando era tornata a Sunnydale e finalmente sentiva di essersi riuscita a ricostruire una casa. Un posto dove lei si sentisse al sicuro, un posto a cui ritornare la sera. Un posto solo suo.

La luce stava diminuendo. Pochi minuti ed il sole sarebbe tramontato. Passeggiando immersa nei propri pensieri non si era accorta di una figura familiare sull’altro marciapiede. Le ci volle un secondo per riconoscerla. Tara stava camminando lentamente appesantita da alcune buste di carta. Era da quel giorno nel negozio di alimentari che non la vedeva, quasi un mese rifletté, sembrava stesse proprio tornando dalla spesa.

Faith si chiese se doveva lasciarla andare senza neanche salutarla o fermarsi ed aiutarla. Se fosse stata qualsiasi altra persona, Buffy in testa, l’avrebbe ignorata, fingendo di non vederla, ma la bionda non aveva mai fatto niente per ferirla in nessun modo. E lei, se poteva, aiutava sempre la gente. Non era un insensibile. A quel pensiero un sorriso triste e tirato le si disegnò sulle labbra. Pensò un attimo ancora su cosa fare. Tara stava tornando a piedi verso il campus e non ci sarebbe arrivata se non dopo il tramonto del sole.

Prendendo finalmente una decisione Faith la chiamò. Tara si girò riconoscendo la bruna ed attraversò la strada.

-C-ciao Faith.

-Ciao Tara. E’ un po’ che non ci vediamo, eh? –questa conversazione la stava già mettendo in imbarazzo, pessima cosa. Era molto che non parlava con qualcuno.

-Si, q-quasi un mese. –Poi notando la borsa, le chiese se era appena tornata da un viaggio.

-Si, torno proprio ora. –ci fu un attimo di silenzio, poi Faith decise di offrire aiuto alla ragazza. Da Catherine e Eliza non aveva imparato solo ad usare un’arma. Ed, al contrario di quello che poteva sembrare, lei era una persona educata. Era educata con le persone che rispettava  (cosa quasi unica) o che comunque le ispiravano fiducia (cosa decisamente molto rara). –Senti casa mia è qui vicino. Se vuoi puoi salire un attimo, prendiamo un caffè, poi ti chiamo un taxi così torni al campus senza problemi…

Tara ci pensò per qualche attimo e poi accettò, stupendo non poco Faith. Le persone che avrebbe accettato di andare a casa sua conoscendola, si contava sulla punta delle dita della mano di uno storpio, come i suoi amici del resto.

Ripresero a camminare e qualche minuto dopo entrarono nello stabile e raggiunsero l’attico, dove la bruna era tornata ad abitare. Faith era stanca, sia del viaggio sia a causa della ferita, ma non lo voleva dare a vedere, cercava di comportarsi e muoversi in maniera normale. Cercò a lungo le chiavi in tasca prima di trovarle, quando ci riuscì aprì la porta ed invitò Tara ad entrare.

La cacciatrice l’aiutò a posare le buste vicino alla porta per poi pregarla di accomodarsi sul divano mentre lei le portava qualcosa da bere. La voce della bionda la raggiunse in cucina mentre metteva su caffè e tè.

-Se p-posso chiedertelo, dove sei a-andata?

-Parigi, per lavoro.

Cominciarono a parlare del più e del meno, con naturalezza, come se si conoscessero da tempo. Si scambiarono racconti e aneddoti della loro vita, mentre entrambe si chiedevano come fosse possibile che loro, restie a parlare di se stesse persino alle persone di cui si fidavano, tanto da rimanere degli enigmi per chi le conosceva, si trovassero così a proprio agio con l’altra. Forse era proprio per quello. Nessuna delle due era invadente nei confronti dell’altra, rispettando gli spazi personali, i silenzi.

Faith tornò poco dopo in salone e porse una tazza di caffè a Tara che lo accettò volentieri.

Tara si stava accorgendo di come Faith fosse diversa da come gli altri la dipingevano. Tutt’altro che esuberante ed esibizionista. Almeno dopo che la conoscevi. La bruna le aveva chiesto di non dire agli altri che lei era qui. Le aveva spiegato che Buffy lo sapeva, e che se qualcuno doveva dire della sua presenza lì agli altri, sarebbe dovuta essere l’altra cacciatrice. Le aveva consigliato di non entrare in una discussione con Willow su di lei, sapeva cosa la rossa pensava e non voleva il loro rapporto rovinato a causa sua. Poi cambiando argomento Faith continuò a parlare.

-Come vanno le cose qui a Sunnydale? Qualche cattivone da sconfiggere?

-No, è tutto relativamente t-tranquillo. Un paio di teste calde che cercano di f-formare qualcosa di più di un gruppo di sbandati, ma niente che Buffy non possa sistemare da sola.

-Meglio così. Meno apocalissi ci sono, meglio mi sento.

Da quando avevano incominciato a lavorare entrambe per il consiglio le cacciatrici avevano fatto una tregua. O meglio, gli era stato ordinato di non ostacolarsi a vicenda e di smettere di tentare di uccidersi.

Loro si erano adeguate. Ed a Faith non dispiaceva che Buffy l’avesse finalmente piantata con il desiderio di ucciderla. Non era piacevole sapere che c’era qualcuno che voleva la tua pelle. Ogni tanto si incontravano di notte mentre facevano la ronda, ed avevano quasi smesso anche di stuzzicarsi verbalmente. Tra loro non c’era fiducia, né correva buon sangue, ma si rispettavano e l’ascia di guerra era stata seppellita.

Risultato più che soddisfacente per entrambe.

Sorridendo appena al pensiero Faith si mise a sedere sul divano. Il movimento le procurò una fitta di dolore lungo tutta la spina dorsale, più forte nel punto in cui un vampiro l’aveva colpita con la spada.

La fitta distorse il suo sorriso in una smorfia di dolore. Faith cominciò a sentire la maglietta azzurra che indossava appena bagnata, probabilmente la ferita si era riaperta. Sarebbe stato un problema risistemare la fasciatura da sola. Domattina sarebbe andata da qualcuno in grado di sistemarla per bene.

Tara, alla vista della smorfia di dolore della cacciatrice e del leggero ansimo che le era sfuggito aveva capito che Faith si era ferita durante il suo viaggio di “lavoro”. Si alzò dal divano per andare ad aiutarla ad rialzarsi. Colse di sorpresa la bruna, che però non protestò, rivolgendo completamente la sua concentrazione nel movimento, facendo attenzione a non farsi più male. Di nuovo in piedi, la schiena eretta, la ferita non le faceva più male.

-Cosa ti è successo?

-Niente.

Aveva risposto prima ancora di pensare. Forza dell’abitudine.

Ma non aveva considerato la testardaggine di chi le stava di fronte.

-Faith. Mentirmi è inutile. So che stai provando dolore. E’ evidente.

Faith la guardò un attimo negli occhi, stupita. Poi ripensò al loro primo incontro nel negozio di alimentari e capì che c’era qualcosa che non conosceva di Tara. Le avrebbe chiesto spiegazioni più tardi, ora era il suo turno di fornirle.

-Una ferita alla schiena, un vampiro che voleva mostrarmi quanto affilato fosse la sua spada da macellaio.

Faith poteva sentire il cotone umido, ormai quasi bagnato, aderire di più alla sua pelle. Stava perdendo del sangue, molto sangue. Fece finta di niente, cercando di distrarre Tara dandole il proprio cellulare, non quello che usava con il concilio ma un altro, per chiamare il taxi, dicendole che si stava facendo tardi.

Tara continuò a fissarla immobile, ignorando il cellulare che l’altra le porgeva mentre continuava a darle le spalle con ancora la giacca nera addosso. Attese un secondo che Faith si girasse ma la cacciatrice non lo fece. Decise di costringere l’altra a girarsi.

-Fammi vedere la schiena. –Lo disse con voce piatta e decisa, sorprendendo comunque la bruna, concentrata nella respirazione, nel tentativo di ignorare il dolore.

Faith si girò di scatto verso Tara. Poi rendendosi conto che in fondo non c’erano altri che potessero aiutarla fino alla mattina successiva e che il suo istinto le diceva di fidarsi della bionda, cedé ma non prima di un ultimo tentativo di rifiuto.

-Senti, non è niente. Te lo ho detto, qualche momento ed andrà a posto da solo non ti preoccupare.

-Allora fammi vedere la schiena se non è niente.

-Ne sei sicura? Non è che per caso ti imbarazza o ti infastidisce? Io in fondo sto bene. Davvero.

-Non è un problema per me Faith. Lo ho già fatto altre volte.

Alla fine, dopo alcuni istanti di riflessione Faith annuì. Muovendosi un po’ troppo rigidamente per una cacciatrice andò in bagno a prendere la cassetta del pronto soccorso. Cassetta tanto fornita da fare invidia ai paramedici di una qualsiasi autoambulanza.

 

 

Chigaco, ufficio servizi sociali.

 

 

 

Adam Green stava rovistando nella sua scrivania alla ricerca di una pratica, che ricordava di aver messo proprio in quel cassetto. Non c’era più. “Dannazione!” dove poteva essere andata a finire? Certo, lui non era il massimo dell’ordine, come si poteva notare dal caos che regnava sulla sua scrivania. Pratiche ammucchiate in pile che sfidavano leggi di gravità, penne e matite perse tra i fogli e mai più trovate, foglietti di vari colori attaccati con puntine che gli ricordavano i vari appuntamenti ed impegni presi, ai quali si presentava, se si presentava, con una mezz’ora di ritardo, minimo. Sopra tutto questo era poggiata, in bilico, la tazza di caffè fumante che si era appena versato.

L’uomo sulla quarantacinquina continuò a cercare la pratica dimentico di tutto il resto. Aveva una giornata veramente piena. Doveva andare in mattinata a casa di tre famiglie che avevano chiesto vari assegni di sovvenzione statale, poi doveva tornare in ufficio per la riunione giornaliera, per poi correre a casa, cambiarsi e raggiungere il tribunale e testimoniare in una causa su abbandono di minore.

Una giornata decisamente piena.

Dopo cinque minuti di intense ricerche trovò la pratica dispersa. Era macchiata di caffè sulla facciata, ma andava bene. Soddisfatto di sé la posò sul piano della scrivania e prese in mano la tazza ancora calda.

Sorseggiava l’espresso, assorto nei propri pensieri, quando qualche educato colpo di tosse lo richiamò alla realtà. Fissò per qualche secondo la ragazza che gli stava davanti, poi la riconobbe. Era già venuta un mese prima e “Dannazione!” si era dimenticato di cercare la pratica della sua adozione. Ed oggi proprio non aveva tempo da dedicarle.

-Salve signorina…

-Summers, signor Green.

Lui annuì con il capo mentre cercava una scusa adatta a spiegare che si era dimenticato di fare quella ricerca.

-Senta non ho potuto cercarle quella pratica. Certo, che se potesse passare, che so? Domani? Tra una settimana, forse potrei dargliela…

Buffy lo guardò per un attimo stupita. Il successivo era infuriata. Green ebbe paura di quello sguardo. Strano per uno come lui che passava gran parte delle sue giornate nelle periferie della città.

-Senta lei, Signor Green. Vengo da Los Angeles e no, non posso tornare domani, né tra una settimana. Le ho dato un mese di tempo. Ora voglio quella documentazione.

Adam non se la sentiva di protestare e il discorso della ragazza lasciava poco spazio a scuse. Improvvisamente ebbe un idea.

-Signorina Summers forse ho la soluzione. Oggi sono impegnato ma la posso accompagnare in archivio e forse lì troverà quello che cerca…

Buffy non era nella posizione di scegliere. Accettò la proposta con un cenno del capo.

 

 

 

 

Sunnydale, appartamento di Faith.

 

 

 

 

Faith si rialzò dal letto muovendosi rigidamente, la fasciatura nuova, pulita e ben stretta, il dolore diminuito a livelli ragionevolmente sopportabili.

Tara aveva fatto un lavoro splendido, la cacciatrice doveva ammetterlo, ci sapeva fare. Dopo aver tolte le bende sporche di sangue ed averle pulito la ferita, la bionda le aveva fatto un’iniezione di morfina e rifatto il bendaggio. Faith sapeva che questa bravura dipendeva dall’esperienza, e ce ne era tanta dietro, ma, sebbene fosse curiosa di sapere dove Tara avesse imparato, ricacciò indietro la curiosità e si limitò a ringraziare  a mezza voce la ragazza.

La bruna si sentiva a disagio però. Prima di tutto lei non era abituata a ricevere aiuto, e troppo spesso non sapeva come ringraziare; secondo, la bionda non era obbligata a fare questo per lei, non le doveva niente. Questo lasciava Faith alle prese con il problema di come ringraziare, certa che le parole appena pronunciate non fossero abbastanza. Immersa nei pensieri la cacciatrice si girò per scoprire che Tara le tendeva una giacca di tuta per farla coprire, in silenzio Faith accettò anche l’aiuto nel vestirsi, stupendosi di se stessa.

Anche Tara aveva notato qualcosa durante la medicazione, qualcosa a cui aveva deciso di non accennare. C’erano due cicatrice parallele che correvano sulla schiena di Faith, ancora ben visibili anche se risalivano evidentemente ad almeno dieci anni prima.

Chiudendo la lampo della giacca la bruna si girò cercando le parole giuste per ringraziare ancora la bionda ma qualcosa la trattenne. Non era la sua provata incapacità nell’esprimere emozioni, non questa volta.

Notò lo sguardo della bionda e capì che aveva visto le cicatrici e che aveva capito abbastanza da fare domande, domande le cui risposte avrebbe risvegliato troppi ricordi dolorosi, ma che aveva deciso di rispettare il silenzio di Faith. Fingendo di non vedere.

Lo stesso sguardo che la cacciatrice aveva negli occhi nocciola, senza rendersene conto. Tara poteva leggervi che la sua bravura nel trattare ferite non era passata inosservata, e leggervi che non ci sarebbero state domande. Per rispetto nei suoi confronti, per quello che era adesso.

Nessuna delle due disse niente.

I ringraziamenti furono dimenticati e così le educate risposte che ne sarebbero conseguite, rimase solo il silenzio. Non era un silenzio imbarazzato come pochi minuti prima, quando la cacciatrice non trovava le parole per esprimersi, era un silenzio confortevole, amichevole. Un silenzio che nessuna delle due sentiva il bisogno di riempire con parole.

Faith tornò nel salone e prese il cellulare dal tavolino dove l’aveva lasciato componendo il numero di una compagnia di taxi mentre Tara la seguiva nel soggiorno e si metteva di nuovo a sedere sul divano. La bruna prese gli accordi necessari con l’interlocutrice per poi posare l’apparecchio sul tavolino.

-Arriveranno fra pochi minuti.

La bionda annuì senza dire niente. Faith rimase in silenzio pensando a questo strano incontro e a come la presenza di Tara non la infastidisse o le mettesse soggezione, funzionavano bene insieme. Bene in un modo che Faith aveva perso dieci anni prima. Si chiedeva cosa fare. Stava a lei scegliere se questo sarebbe dovuto restare un episodio isolato o no. Avrebbe potuto proseguire a vivere la sua vita come se questo non fosse mai accaduto, semplicemente rimanendo in silenzio e godendosi questi pochi minuti di amicizia.

In questa atmosfera rilassata Faith si ricordò di una domanda che voleva davvero porre a Tara da quando si erano viste quel giorno al negozio e la bionda l’aveva riconosciuta.

-Hey Tar, -stupì anche sé nel chiamarla con un soprannome. –Ma un mese fa come hai fatto a riconoscermi?

La ragazza seduta sul divano sembrò sorridere divertita.

-Sono una strega.

-Anche Willow lo è, ma non mi ha riconosciuto.

Così non sarebbe bastata la risposta classica per convincere Faith, pensò Tara.

-E’ una cosa della mia famiglia, una specie di dono ereditario, che non si presenta in tutte le generazioni. Credo che la mia bisnonna lo possedesse, comunque è come se noi… difficile spiegarlo a chi non lo possiede… sentissimo l’anima di chi ci sta di fronte, è come un’impronta mentale, simile a quelle digitali. Tutte le persone ne hanno una caratteristica che “emanano”, anche se non è il termine corretto, è una cosa involontaria… come il sudore, quello pure è del tutto “personale”. Così, avendo già incontrato Buffy, anche se non eravamo state presentate, sapevo che quel giorno non potevi essere lei.

-E così il mio piano perfetto è stato rovinato… Dannazione! –mentre lo diceva Faith stava sorridendo, davvero divertita.

Improvvisamente la bruna prese un pezzo di carta da un tavolino e ci scrisse qualcosa sopra, Tara la osservava incuriosita, si chiedeva cosa avesse fatto scattare così Faith.

-Questo è il mio numero di cellulare. Se vuoi puoi chiamarmi, possiamo andarci a prendere un caffè insieme o anche se ti serve un favore. Sai, sono in debito con te per la fasciatura…

La bionda sorrise, poi allungò la mano per prendere il numero di telefono.

-Se mi dai un pezzo di carta ti segno quello del mio dormitorio.

Faith annuì porgendole la penna. In quel momento il taxi suonò il clacson, le due sorrisero ancora, si salutarono e poi Tara uscì dall’appartamento.

 

 

 

 

Miami, studi televisivi Canale 6.

 

 

 

La sala di montaggio era deserta se non per l’ultimo tecnico che si stava attardando a causa di un filmato. Sembrava che qualcosa non lo convincesse, la faccia perplessa, lo sguardo attento, faceva scorrere sempre pochi secondi di filmato ingrandendo le immagini, rallentandole, cercando di far ruotare la visuale grazie alla computer grafica.

L’uomo sospirò massaggiandosi gli occhi con le dita, era stanco, inutile negarlo, stava cercando un appiglio forse davvero inesistente in quel filmato, qualcosa che non ci sarebbe dovuta essere. Qualcosa che sperava non ci fosse.

Eppure quella sensazione che qualcosa gli sfuggisse, qualcosa che era lì, ma che lui non vedeva, non se ne voleva andare.

La porta si spalancò improvvisamente cogliendolo di sorpresa. Impaurito si girò verso l’ombra in contro luce cercando di riconoscere la sagoma. Il corpo teso, pronto a reagire ad una qualsiasi minaccia, dimostrando riflessi acquisiti non propri ad un tecnico del montaggio.

La luce dello studio si accese, abbagliandolo. La guardia notturna lo fissò insospettito un attimo prima di riconoscerlo, era da poco che lavorava lì.

-Ah, è lei. Mi dispiace averla disturbata.

-Non fa nulla, non si preoccupi.

Rispose gentilmente lui, accennando un sorriso ed un gesto con il capo, mentre i battiti del cuore diminuivano di intensità. Si era preso proprio un bello spavento.

La porta si richiuse e la sala ripiombò nella penombra.

Jarod ricominciò a lavorare al filmato.

 

 

 

Cornovaglia, Inghilterra.

 

 

 

Erano quasi le cinque del pomeriggio, ancora pochi minuti di lavoro e poi Travers se ne sarebbe andato a casa, guardando l’orologio a muro del suo ufficio si accorse di essere stanco, gli bruciavano un po’ gli occhi. L’unica cosa che gli rimaneva da fare era controllare i rapporti che provenivano dall’America. Per una volta fu quasi felice che la pila ordinata di cartelle gialle alla sua destra non fosse alta quanto un grattacielo, anzi era di dimensioni quasi normali. Da quando Sunnydale non era più di sua competenza la sua mole di lavoro per l’america settentrionale si era praticamente dimezzata, ma gli dispiaceva. Meno territorio, meno responsabilità, meno potere. Era tutto concatenato.

Il primo rapporto che controllò fu quello relativo alla zona di Boston, era un’abitudine collaudata ormai da anni. In quella città erano accaduti fatti strani in seguito alla chiamata della cacciatrice che poi sarebbe diventata la Rinnegata. Era morta l’osservatrice della stessa prescelta e per alcuni il motivo di tale morte non era mai stato chiarito. Si era proposto a lungo di formare una commissione di inchiesta, ma alla fine, in seguito ad incontri clandestini, scambi di favori, a voci di corridoio sempre più insistenti, alcune delle quali accusavano Travers di far parte di un qualche complotto segreto, non se ne era fatto nulla.

Nonostante fosse passato del tempo Quentin immaginava che quell’episodio potesse aver innescato qualcosa. E proprio nella zona di Boston il capo settore, un uomo di sua fiducia, aveva notato strani movimenti. C’erano stati dei pestaggi e degli omicidi fra le alte sfere della città ma il motivo non era ancora chiaro.

Senza fare rumore Quentin sfogliò le rimanenti cartelle per poi tornare a quella iniziale. Era pensieroso. Quei movimenti potevano essere del tutto normali, un regolamento di conti di scarsa importanza.

Potevano.

 

 

 

Parigi, 1776.

 

 

 

Si sentiva davvero sazio, non si sarebbe mai stancato del sangue, non vi avrebbe mai rinunciato in un’intera eternità, ne era certo. Solo quella notte aveva ucciso due ragazze, giovani, belle e ricche, dicevano di essersi innamorate dello splendido e nobile portoghese conosciuto all’opera, come era stato facile ingannarle.

Ora Angelus passeggiava soddisfatto lungo la Senna guardandone le acque scure, ma non era tranquillo come sembrava, aveva imparato in pochi anni a portare quella maschera di indifferenza. Non voleva ammetterlo, ma era preoccupato ed anche un po’ impaurito, tra i vampiri girava voce che Gregori, uno dei più temuti cacciatori di demoni, fosse in città. Non lo aveva mai visto personalmente ma non ci teneva a conoscerlo. Aveva sentito molte stoie su di lui ed anche se solo la metà di queste era vera, quella era una persona da evitare come la peste. Non si sentiva in grado di battersi con lui ed uscirne vincitore, inoltre come gli aveva insegnato Darla dal primo giorno, evitava sempre un combattimento, a prescindere dall’avversario.

Mentre passeggiava Angelus stava seriamente prendendo in considerazione l’idea di partire. Era rimasto a Parigi per un po’ di tempo ormai e nulla lo tratteneva davvero lì, inoltre non era neanche la prima volta che si fermavano in quella città e perciò l’aveva già esplorata. Era certo che se ne parlava a Darla lei aveva accettato, il loro rapporto stava effettivamente cambiando, non era più un rapporto maestro-allievo, se ne rendevano conto entrambi. Non era una cosa cominciata esattamente ieri, era da diversi anni che sentiva quest’aria di transizione, lui non era più un giovane a cui si doveva insegnare tutto e il suo sire aveva cominciato a trattarlo da pari, la donna si era resa conto della sua crescente forza.

A queste riflessioni si aggiungeva il fatto che a Parigi si trovavano stabili organizzazioni di vampiri delle quali lui non faceva parte e con cui non aveva mai avuto rapporti. Organizzazioni che non facevano caso agli affari di un ospite, al contrario di quelli di un possibile residente, e, quindi, concorrente.

Angelus, inoltre, come tutti  i giovani, aveva voglia di vedere nuovi posti, di uscire dall’Europa ed andare magari in America od in Asia, si era allontanato raramente dal vecchio continente e gli sembrava una buona occasione per farlo. Stava attraversando un periodo strano, si sentiva più solitario del solito, irrequieto e assetato di esplorazioni. Decise che appena a casa avrebbe parlato con Darla, un paio di giorni e sarebbero andati via da qui.

Immerso nelle sue riflessioni, Angelus non si accorse finchè non fu troppo tardi di avere di fronte a sé Gregori, che proveniva dalla direzione opposta, percorrendo il suo stesso marciapiede. La sagoma era ben riconoscibile, quasi una divisa, bassa, tarchiata e tristemente famosa nell’ambiente, inoltre la sua parte demoniaca era facile da “vedere” per un vampiro. Angelus si maledisse per l’avventatezza e si giurò che mai più si sarebbe permesso di trascurare i suoi sensi anche se fosse immerso nelle più lugubri riflessioni od addirittura nel sonno.

Senza prendere in considerazione l’idea di una fuga, improbabile, c’era la Senna lì a fianco ma la corrente era molto forte, o della propria morte, del resto se morivi di cosa ti dovevi preoccupare? Angelus si preparò così allo scontro, felice di essersi già sfamato questa notte, così da non essere assetato di sangue.

 Infilò la mano nella tasca del cappotto, con sé aveva solo uno stiletto, la spada che portava di solito l’aveva lasciata a casa. Con quello solamente doveva combattere contro la famosa ascia dell’altro. Si favoleggiava che Gregori fosse il migliore conoscitore di quell’arma nel mondo e che avesse passato decenni a perfezionarsi. L’unica speranza del vampiro era la sua velocità e la scherma, che conosceva a fondo. Era stata la prima cosa che Darla lo avesse spinto ad imparare.

Eppure, osservando Gregori, ad Angelus non sembrava che il cacciatore stesse per attaccarlo, non gli pareva un predatore che avesse appena raggiunto la vittima tanto inseguita. Che si trattasse di un incontro casuale, uno scherzo della Fortuna? Se così era il vampiro avrebbe avuto dalla sua il fattore sorpresa. Ma questa tranquillità avrebbe anche potuto essere un semplice trucco, un qualcosa recitato per fargli abbassare la guardia, del resto di Gregori e del suo modo di combattere si sapeva ben poco, poco quanto quelli che gli erano sopravvissuti.

Ma si rivelarono considerazioni inutili.

Improvvisamente dieci ombre apparvero nell’ampia e deserta strada e circondarono silenziosamente Gregori, puntandogli contro armi da fuoco, rimanendo a più di due metri da lui immobili come statue.

Il mezzo sangue si immobilizzò al centro del marciapiede senza accennare ad alcuna reazione né preparandosi in alcun modo ad uno scontro. “Un grave errore. Che cosa sta facendo?” non poté trattenersi dal pensare Angelus, mentre si lasciava avvolgere dalle ombre di un androne in modo da essere invisibile dalla strada.

Gli avversari non si studiarono, non ci fu alcuna attesa. Un attimo dopo essere apparso uno dei dieci uomini, evidentemente il capo, fece un passo avanti, la pistola in pugno, mentre i suoi compagni tenevano sotto tiro il mezzo-sangue con dei fucili, le cui canne rilucevano nel buio, riflettendo la luce della luna.

-Sei tu Gregori?

Dall’atteggiamento corporeo Angelus poté capire sia lo stupore dell’accerchiato sia l’orgoglio che questi provava per il suo nome, per la fama a cui era legato.

-Sono io. E vuoi chi sareste, “umani”?

Non era inteso come un insulto, avrebbe potuto usare “diversi” come parola e il significato sarebbe stato lo stesso. La voce era tranquilla, quasi cortese, se una specie di ringhio basso poteva essere definito cortese.

-Sono un inviato del Concilio degli Osservatori. –L’uomo avvolto nel lungo cappotto nero aveva un marcato accento inglese.- Gregori il mezzo-sangue, sei condannato a morte, con sentenza emessa dal Primo Osservatore.

E così si trattava di Osservatori, che ci fosse di mezzo una cacciatrice?

-Potrei sapere di cosa sono accusato?

L’uomo avvolto nel cappotto nero fece fuoco appena la voce dell’altro si spense, seguito di riflesso dagli altri. Dieci colpi messi a segno. Gregori non aveva reagito, intuendone l’inutilità. Poi, l’inglese, estratta una lunga spada, si avvicinò al corpo e lo decapitò.

-No.

Fu quello che disse mentre la testa mozzata rotolava sul selciato ed il sangue usciva copioso dal taglio netto del collo, spandendosi in una macchia oleosa. Avvolti nel silenzio l’inviato e la sua squadra si allontanarono senza dire niente altro.

Angelus, nel proprio nascondiglio tra le ombre dei portoni, aveva assistito alla scena in silenzio, senza capirla veramente. Non si avvicinò al cadavere, né lo spogliò della celebre ascia. Era una persona orgogliosa, non si sarebbe mai abbassato al livello di uno spazzino, né si sarebbe vantato di quella morte.

Mentre si allontanava dal vicolo, muovendosi solo dopo che quegli uomini in nero erano spariti dalla visuale, non poté fare a meno di ragionare su quanto aveva visto, non trovava risposta logica all’unica importante domanda. “Perché il Concilio ha ucciso il suo migliore alleato, migliore persino delle ultime cinque cacciatrici?”.

In realtà non lo riguardava. Si limitò a memorizzare questo fatto mentre decideva di passare altri due mesi a Parigi, fino alla fine della stagione dell’opera.

 

 

Sunnydale, una palestra.

 

 

 

Era molto tardi, erano quasi le undici, orario di chiusura e Faith era rimasta l’unica in palestra. Gli altri clienti se ne erano andati da più di un’ora, più o meno quando lei era arrivata. Non era esattamente uguale alla palestra gestita da Eliza a New York, anzi era esattamente il contrario. Piccola, quasi buia, con lo stucco delle pareti scrostato ed un odore non meglio definito che non era disinfettante né sudore, poco frequentata, ma comunque fornita e soprattutto a quest’ora deserta. A Faith non andava di allenarsi con altre persone, si sentiva di umore decisamente nero e non le andava di contenersi mentre faceva esercizi. Sapeva che se una ragazza come lei avesse sollevato un bilanciare da sessanta chili alla panca orizzontale per fare resistenza, il fatto non sarebbe passato esattamente inosservato.

 Marlin non si era fatta sentire da molti giorni, segno che non c’era alcuna missine importante da svolgere. Non che la bruna si annoiasse a Sunnydale (difficile annoiarsi in un posto simile), e detestasse non rischiare la vita per qualche giorno, più che altro Faith voleva sentirsi impegnata, smettere di pensare. Aveva bisogno di un obbiettivo da conseguire, qualcosa che richiedesse la sua completa concentrazione. Qualcosa che una volta raggiunto la facesse sentire appagata e capace.

Da quando stava cercando di rimettere insieme i cocci della sua vita troppe memorie stavano tornando a galla e troppe domande di cui non conosceva la risposta si formulavano nella sua mente. Faith si era fermata e cercava di ricollegare i fili della sua vita ma questo la riportava a tempi che non erano più. E lei non sapeva neanche se aveva più paura dei ricordi di dolore, di solitudine o di quelli piacevoli, in cui le tornavano in mente momenti felici e sorrisi. Perché poi avrebbe pensato a come era oggi, e avrebbe realizzato cosa le mancava, cosa sognava, quello di cui sentiva il bisogno ma che non ammetteva di provare.

“Eravamo sedute davanti al caminetto acceso, era così che passavamo la maggior parte delle serate, una specie di rito. Fuori aveva appena nevicato, una nevicata ritardataria, quasi fuori stagione, e faceva freddo. Io mi stavo godendo il caldo del fuoco mentre dentro di me rabbrividivo ancora al ricordo di quanto era freddo l’orfanotrofio in cui ero vissuta fino a pochi mesi prima. Seduta sulla poltrona contro cui ero appoggiata c’era Catherine. Portava bene i suoi sessanta anni, od almeno credo che fosse questa la sua età, non me lo ha mai detto e io non ho chiesto. Stavamo chiacchierando di qualcosa che adesso non ricordo. Scoppiammo a ridere, non credo di aver mai riso così tanto nella mia vita quanto nel periodo passato con lei. Poi Catherine si fece silenziosa ed i suoi occhi divennero lontani, si persero per qualche istante per poi ritornare a mettersi fuoco su di me. Mi sorrise. Con quegli occhi che mi guardavano tranquilli, felici.

Gli stessi occhi che mi guardavano senza rimprovero quando Kakistos l’uccise davanti a me.”

Faith smise di colpire il sacco e si tolse le fasciature di protezione alle mani. Non si allenava mai con i guanti. Era inutile, non avrebbe mai combattuto indossandoli. Si andò a cambiare e quando rientrò nella sala principale la catena del sacco cigolava ancora, quasi impercettibile. Con il suo sacco da palestra sulle spalle si allontanò dal corridoio e per la prima volta si chiese dove andasse Catherine quando aveva quello sguardo.

Doveva essere un bel posto.

 

 

 

Miami, studi televisivi Canale 6.

 

 

 

Bloccò improvvisamente le immagini che gli scorrevano davanti. La tazza di caffè nero ferma a mezz’aria, immobile dallo stupore. Ci mancò poco che non cadesse a terra fracassandosi.

Non era possibile, la sua mente si rifiutava di crederci. Era davvero troppo, anche per uno come lui che credeva di aver visto davvero tutto. Che sperava di aver trovato una risposta definitiva, una sola risposta, non era molto quello che chiedeva.

Sbagliava.

Respirò profondamente, accorgendosi di star trattenendo il respiro. Cercò di riflettere lucidamente. Forse se lo stava immaginando, forse vedeva qualcosa che non c’era. Non ci credeva, non realmente, ma semplicemente ci sperava, non voleva che fosse così, non un’altra volta. Si aprivano troppi se. Troppe porte chiuse, troppo dolore. E per una volta non era il suo dolore.

Riguardò per la millesima volta i pochi, ingranditi, fotogrammi in bianco e nero. Li fece scorrere al rallentatore l’ennesima volta. Era proprio come aveva visto. Non sbagliava, sebbene lo volesse davvero con tutto il suo cuore.

Eppure, quell’intuizione, avuta soltanto perché qualcosa gli sembrava strano, qualcosa che gli sembrava troppo semplice, era la verità. Tutto per dei files scomparsi, o meglio, mai esistiti.

Non avrebbe mai immaginato che sarebbe finita così.

E non sapeva cosa sarebbe cominciato.

 

 

 

 

New York, appartamento di Eliza.

 

 

L’appartamento di Eliza poteva essere definito un open-space. Era a dir poco enorme, occupava l’intero attico di un palazzo di cinque piani, e vi si accedeva per l’ascensore o per le meno usate scale di servizio. L’immortale l’aveva comprato qualcosa come trenta anni prima, quando i prezzi di quella zona, ora una delle più ricercate, erano ancora bassi, realizzando una speculazione virtuale di centinaia di migliaia di dollari.

Lo aveva fatto sistemare da diversi anni investendoci un capitale ingente ma creando una vera perla. Era arredato con molto gusto con un mobilio non essenziale ma mai soffocante, in una unica unione dei più svariati stili, creduta così impossibile da non essere mai stata tentata. Un occhio attento si sarebbe stupito di vedervi una divisione spaziale che ricordava la giapponese, un arredamento europeo antico dai legni caldi e richiami architettonici arabo-indiani.

Ma quella casa appariva bellissima anche per chi non conosceva tutto questo.

Faith era seduta su una poltrona di pelle vera posizionata davanti ad un caminetto acceso, persa nei propri pensieri, non triste né felice. Cercava di decidere come affrontare quello che avrebbe scoperto, se avesse scoperto qualcosa, e come parlare all’amica. Sentiva da un po’ che era arrivato il tempo di fare chiarezza. Con la testa appoggiata ad una mano e lo sguardo fisso sulle fiamme, stava aspettando che Eliza tornasse portando i drink che ognuna preferiva.

Quando la cacciatrice era uscita dall’ascensore con quello sguardo, pochi minuti prima, l’immortale l’aveva fatta semplicemente accomodare per poi sparire per andare a recuperare qualcosa di forte. Liz sapeva che quello di cui Faith aveva bisogno di discutere sarebbe stato difficile da affrontare. Era felice che la bruna fosse riuscita a venire da lei per parlare di questo ma era anche preoccupata, ci teneva a quella ragazza così giovane.

Aveva promesso a Catherine che si sarebbe presa cura di lei, e avrebbe mantenuto l’impegno. Aveva una parola sola. Avrebbe aiutato Faith a realizzare qualsiasi cosa volesse, fosse pure una vita “normale”, ma la cacciatrice non le aveva mai chiesto qualcosa di simile. Liz sapeva che quella ragazza aveva molti più problemi di quanto mostrasse, ma non l’avrebbe mai obbligata ad affrontarli prima che fosse pronta. Ed ora era arrivato il momento di parlare di uno di questi.

Eliza tornò nell’ampio salone con due bicchieri con ghiaccio e due bottiglie, una di vodka e l’altra di whisky, entrambe prese dalla sua riserva privata. Le posò sul tavolino tra le due poltrone e riempì i bicchieri per poi porgerne uno a Faith. La bruna sorseggiò la vodka e sorrise.

-Hai sempre la migliore, quando esco di qui, quasi non ho il coraggio di berne altre.

-E’ uno dei privilegi di avere solidi contatti nelle steppe del nord.

Finirono in silenzio il resto dei drink guardando le fiamme e pensando. Se ne versarono un secondo.

-Per quanti anni hai conosciuto Catherine?

Eliza sorseggiò ancora il whisky.

-Ci siamo conosciute nel 62, quando lei era impegnata in un progetto benefico a favore di ragazze malate terminali.

-Sai Liz, conosco così poco di Catherine, del suo passato… so che aveva una figlia e che le mancava ma non conosco altro di lei, se non che era una osservatrice. Non so cosa l’ha fatta diventare la Catherine che conoscevo io.

- La vita di Catherine ha subito, diciamo, una svolta decisiva otto anni dopo che l’ho conosciuta. Io l’ho aiutata a salvarsi e posso dire che la sua era un’esistenza decisamente vissuta. Correva molti pericoli a fare quello che faceva ma li ha sempre corsi, credeva che fosse giusto quello che faceva e lo credo anche io. Sai, ha dovuto abbandonare la figlia per proteggerla. L’ho aiutata a ricostruirsi una vita da zero e poi ad entrare negli osservatori. Oggi mi rendo conto che forse ho fatto male, l’ho messa in pericolo in questo modo, ma lei aveva bisogno di una causa per vivere, ed io le ho offerto un nuovo mondo.

-E così Catherine aveva un’altra vita che l’aspettava.

-No Faith. Lei quella vita non poteva più averla. Ha fatto delle scelte e le ha portate fino in fondo, agendo sempre per il meglio delle sue possibilità. Non è quello che ti ha insegnato? Essere coerenti con le proprie scelte? Anche se magari quelle scelte ti fanno soffrire, o fanno soffrire chi ami? Di scegliere al meglio tra le tue possibilità e smettere di guardare indietro anche se credi di aver sbagliato?

-Si, me l’ha detto molte volte. Ma è difficile chiudere gli occhi davanti ai “se”.

-E’ difficile anche vivere con certi ricordi. Lei si è pentita di alcune scelte, ma ha sempre accettato le conseguenze. Era una guerriera, sai? Raramente nel corso della mia vita ho trovato una persona simile. Non si è mai arresa. E questo le ha procurato molti nemici.

La voce di Eliza era serena, non distaccata, ma non c’era dolore né rimpianto. Essere un’immortale le aveva fatto accettare la morte delle persone che amava da molto tempo. Sapeva che avere rimpianti era inutile, si concentrava sui ricordi piacevoli che aveva.

-Stai cercando di dirmi che Kakistos la stava cercando per altri motivi, oltre perché era la mia osservatrice?

Eliza sorrise sincera ma lo sguardo rimase serio. La ragazza cominciava a capire.

-Non lo hai ancora accettato vero? La sua morte non è stata a causa tua. –Faith fece per protestare. Si sentiva responsabile, si sentiva responsabile per quella morte da due anni. E non era un peso facile da portare. –Rifletti un attimo Faith. Come credi che siano entrati quei vampiri nella casa di Catherine? Lei era una delle migliori osservatrici che ho mai conosciuto, credi che avrebbe invitato dei vampiri in casa propria?

Faith la guardò incapace di comprendere.

-Catherine aveva molti nemici. Passati e presenti. Kakistos è stato mandato ad ucciderla da qualcuno di questi. Ho provato a scoprire chi fosse stato ma non ci sono riuscita. Ho saputo della sua morte solo un anno dopo quello che era successo. –Non spiegò a Faith perché l’avesse saputo così tardi. –Per questo ho perso le tue tracce e non ti ho potuto aiutare. All’epoca Kakistos era già morto e non avevo tracce da seguire. Ma questo non significa che non esistano.

 

 

 

Chigaco, archivi servizi sociali.

 

 

 

L’archivista, un ometto calvo dall’età indefinibile aveva protestato non poco all’idea di far entrare una perfetta estranea in un archivio di stato. Green dall’altro canto aveva “gentilmente” discusso con lui fino ad avere ragione, promettendogli in cambio qualche favore in futuro. L’accordo era stato presto fatto.

L’archivista aveva spiegato il metodo di catalogazione a Buffy ed era sparito dalla vista lasciandola tra due scaffali pieni di documenti a cavarsela da sola.

Da due ore Buffy era sepolta da infinite pratiche polverose e non aveva trovato ancora quella che cercava. Cominciava ad irritarsi, quello non era il suo lavoro in fondo, ma era l’unico modo di arrivare alla verità. Continuò a cercare leggendo le etichette delle pratiche per poi passare alle successive.

Il 1983 sembrava essere stato un anno felice per quanto riguardava le adozioni, il che, tradotto per una città della grandezza di Chigaco, significava migliaia di adozioni. E naturalmente i dati non erano stati informatizzati. Cercò di non pensare alla possibilità che la sua pratica fosse andata smarrita con gli anni.

Per legge tutto quello che lei poteva sapere era il nome della madre o comunque delle persone che l’avevano data in adozione, ma lei sperava di riuscire a capire perché. L’archivista era stato chiaro. Non poteva portare via niente ma poteva fotocopiare tutto quello che voleva, aveva libero accesso alla documentazione, se c’era qualcosa lei lo avrebbe trovato. Era sufficiente.

Ci vollero quattro ore per recuperare la pratica che cercava. Era una cartelletta gialla sporco con una ventina di prestampati dentro, compilati con la scrittura illeggibile di Green ed un’altra decina di persone (e ringraziando il cielo alcune erano più leggibili).

Rimesso tutto a posto (mezz’ora), prese la cartella e la portò sulla scrivania per cominciare a leggerla. Tagliò il filo di canapa che la teneva insieme e la sfogliò. Avrebbe giurato di aver visto alzarsi una nube di polvere mentre l’apriva.

Trovò il suo certificato di adozione, con i nomi di Joyce e del padre, una trafila di documenti per lei inutile e finalmente il certificato di nascita in cui appariva il nome della madre, cancellato in quello che possedeva Joyce, il nome del padre era stato lasciato bianco. Buffy sospettava che questo fosse illegale ma non poteva saperlo con certezza, così lasciò perdere, per ora. Leggendo il foglio di adozione, la copia riservata all’assistente sociale, che lei non avrebbe neanche dovuto vedere, notò la mancanza di tutti i dati riguardo sua madre, non c’era neanche una spiegazione per il suo gesto. Beh l’avrebbe avuta da lei stessa, appena trovata.

Non riuscì comunque a trattenere un sorriso, ora aveva un nome.

Janet Tisred.

 

 

 

 

U.S.A. Da qualche parte lungo la costa occidentale.

 

 

 

Il telefono stava squillando. La donna bruna, vestita con un tailleur blu notte, lo fissò per un attimo indecisa se rispondere o no. Era tardi, quasi le dieci di sera e lei, seduta sul divano sorseggiando un liquore ambrato, voleva soltanto andare a letto e far finire quella giornata che cominciava ad essere troppo lunga. Poche persone osavano telefonarle a quell’ora e quelle poche lei non le ignorava, non poteva permetterselo. Finì il drink in un ultima, lunga, sorsata.

Rispose al settimo od ottavo squillo.

-Pronto?

Non era stata il primo bicchiere della serata, ma la voce era quella di sempre.

-Sempre sola?

Lei sospirò, conosceva quella calme voce maschile, forse troppo per poterle piacere.

-Come se ti riguardasse. Cosa vuoi?

-Quante volte è morta tua madre?

 

 

Di Sogni e di Segreti Parte II

Silea

 

 

Libro II

 

 

 

“Se non ti fidi di nessuno, nessuno potrà deluderti.”

 

 

 

 

Parla Faith:

 

 

 

“Cosa stai cercando di ottenere con questi rozzi, così evidenti, trabocchetti, B? Questi giochi mentali che hai imparato da riviste di infimo ordine o per sentito dire? Speri che io mi metta a spiegare come sono fatta? Che mi metta a raccontare la mia vita? Che risponda alle tue ottuse domande, esponendo così la mia anima?

Solo per farti capire le mie scelte? Solo per farti capire cosa ho passato e perché ho agito come ho fatto, senza che tu voglia comprendere? Così che, se ne avrai voglia, potrai lacerare la mia anima e ridurla a brandelli?”

 

 

 

 

U.S.A. Da qualche parte lungo la costa occidentale.

 

 

 

 

 

Faith, con la sua Glock nera, teneva sotto mira la donna che era apparsa quasi dal nulla dalla fitta boscaglia. Aveva appena sentito, quasi percepito, il rumore che l’altra aveva fatto per avvicinarsi, aveva estratto la pistola più per un riflesso condizionato che pensando ad un vero pericolo. Era mancato veramente poco che la sorprendesse disarmata.

La cacciatrice si rimproverò per essersi lasciata trasportare lontano dai pensieri e non aver prestato la dovuta attenzione a ciò che la circondava. Erano quasi tre ore che guardava quella casa chiedendosi cosa fare, quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Avrebbe voluto avvicinarsi, bussare, aspettare la risposta, parlare, vedere, vivere, ma una strana forza la respingeva da quell’abitazione, la stessa forza che le aveva fatto attraversare gli Stati Uniti per un solo ricordo, solo per poche frasi.

Decise di tralasciare quei pensieri e concentrarsi sul presente. Lasciò che un sorriso ironico le si affacciasse sul volto, ma non raggiunse gli occhi, serie pozze marroni. Parlò con una nota di divertimento nella voce.

-Hai qualche idea per uscire da questa situazione di stallo, entrambe ancora con la loro pelle?

La donna che la teneva sotto tiro la guardava con rabbia, inesplicabile rabbia, rifletté Faith, lei non le aveva fatto niente, e un po’ di sorpresa, ma la Smith&Wesson rimaneva immobile, non accennava ad abbassarsi.

Faith fece silenzio ed osservò meglio la donna sulla trentina che le stava davanti, senza mai allontanare l’indice dal grilletto. Il corpo alto ed atletico era teso, pronto a scattare, le linee del volto decise, incorniciate da capelli neri lunghi sulle spalle.

Il sorriso divertito si gelò sulle labbra quando Faith capì chi le stava di fronte. Parlare divenne incredibilmente difficile, quella che uscì dalle sue labbra sarebbe stata difficilmente potuta credere la sua voce.

-Tu… sei la figlia di Catherine Parker?

La donna non accennò ad abbassare l’arma, né mostrò altre visibili reazioni alla domanda, si limitò a fissarla ancora più duramente per alcuni attimi prima di rispondere.

-Si, sono io. E tu chi saresti?

Era davvero difficile questo per Faith. Davvero molto difficile. Ad ogni istante sembrava che la somiglianza aumentasse. Non c’erano le rughe, i capelli erano neri, ma era identica a lei. La cacciatrice riuscì ritrovare abbastanza controllo di sé per parlare con voce ferma.

-Diciamo che ho conosciuto tua madre.

 

 

 

 

Sunnydale, campus universitario.

 

 

 

Willow rientrò in camera, fu sorpresa di trovarci Buffy che l’aspettava ansiosa passeggiando avanti ed indietro. L’amica sarebbe dovuta tornare solo il giorno successivo, era partita per andare a trovare una zia di Chigaco. La rossa credeva che fosse una scusa campata in aria ma non aveva obiettato. Forse Buffy aveva semplicemente bisogno di stare lontano dalla caccia per un paio di giorni. Ultimamente si comportava in maniera strana con dei comportamenti che uscivano fuori dai suoi abituali schemi, anche se non si trattava più di quell’isolamento forzato che si era imposta qualche settimana prima, senza alcun motivo apparente.

Appena Willow entrò la cacciatrice le si precipitò incontro con in mano un foglietto di carta sgualcito con sopra annotato qualcosa. Gli occhi erano duri, ansiosi e nervosi, non si fermavano un momento correndo dalla mano agli occhi della strega.

-Willow ho bisogno di un favore. Devo trovare una persona.

La rossa guardò l’amica stupita, la cacciatrice non le aveva mai chiesto di usare il computer per problemi personali, non era da lei.

-A cosa ti serve Buffy?

L’altra, per lunghi istanti, rimase in silenzio, come a chiedersi quanto volesse dire. Questo fece male a Willow, sapere che Buffy aveva dei segreti nei suoi confronti, poi pensò che anche lei ne aveva avuti. Erano amiche.

-E’ una cosa personale, molto importante. Non sono ancora pronta per dirtelo, ma ho disperato bisogno di trovare quella persona. E’ importante Wil, ti prego, fidati di me.

Willow non aveva visto Buffy così agitata neanche in caso di un’apocalisse. Annuì alla richiesta dell’amica e si sedé al computer accendendolo. Si collegò ad internet per poi girarsi.

-Cosa sai?

-Solo il nome.

-D’accordo, farò del mio meglio…

 

 

 

Cornovaglia, Inghilterra.

 

 

 

 

Travers stava esaminando alcuni documenti ma non prestava veramente attenzione al suo lavoro, continuava ad osservare il vasto atrio dove decine di persone si muovevano, più o meno silenziose, badando ai fatti propri. Non era costume del concilio fermarsi a parlare durante il lavoro né mostrarsi espansivi oltre la rigida etichetta che regolava i rapporti interpersonali.

Quentin stava aspettando di vedere Magdalene, doveva parlarle e l’ingresso era il terreno più adatto per farlo essendo completamente neutrale.

Come tutte le mattine alle otto e mezza Marlin varcò la doppia porta di vetro che dava sul maestoso atrio del terzo piano e lo attraversò senza salutare nessuno, non la si poteva esattamente definire una persona affettuosa, dirigendosi direttamente nel proprio ufficio.

Si fermò solo quando una figura le ostruì la strada. Era un fatto insolito, in genere le persone cercavano di evitarla. La mise a fuoco, uscendo dai propri pensieri, e riconobbe Travers. Lo guardò un attimo stupita prima di chiedergli cosa volesse, ma solo dopo averlo salutato con educate parole e gelida voce. Il fatto che si odiassero non avrebbe influito sul comportamento che entrambi avrebbero tenuto nei confronti di un altro dirigente del consiglio. Si trattavano in maniera fredda ma educata, in questo senso perfettamente inglesi.

-Buongiorno anche a lei. Miss Marlin dobbiamo parlare.

Era serio, ma lei non ricordava l’ultima volta in cui non lo fosse stato. Lo guardò un attimo ancora prima di rispondere.

-Perché?

-Qualcosa che riguarda entrambi, le cacciatrici ed il passato.

Magdalene non sapeva a cosa si riferisse esattamente ma tutto quello che riguardava quegli argomenti meritava di essere discusso. Lui aveva fatto la prima mossa, venendole a proporre questo incontro, e lei sapeva che non lo avrebbe fatto per cose poco importanti. Accettare era ovvio, il solo problema era nel trovare un luogo adatto, fare quel genere di conversazione in un atrio non era consigliabile.

-Possiamo incontrarci alla biblioteca alle sette di questa sera se per lei va bene Mister Travers.

-Sarò lì.

Detto questo, senza una parola di saluto, si girò per tornare nel proprio ufficio. I pochi che avevano osato fermarsi a guardare i due parlare finsero indifferenza e tornarono al loro lavoro evitando accuratamente di incontrare lo sguardo con altri, ricordandosi improvvisamente di appuntamenti dimenticati e scordandosi anche quello che avevano visto.

 

 

 

 

Sunnydale, campus universitario.

 

 

 

Niente. Dagli archivi statali non risultava che Janet Tisred fosse mai esistita in america o meglio, non quella che cercava Buffy. C’erano state delle omonime, ma abitavano entrambe in Texas e non avevano figli. Buffy le aveva detto che cercava una donna con almeno un figlio.

Willow avrebbe voluto farle delle domande ma si trattenne. Non capiva dove volesse arrivare la sua amica e questo la infastidiva molto. La preoccupava anche. Che nel loro rapporto fosse cambiato qualcosa e lei non se ne era neanche accorta fino a quel momento? Aveva come la sensazione che Buffy non si fidasse più di lei, e questo le dispiaceva. Questo la impauriva.

Volle abbandonare quei pensieri. Lei era la sua migliore amica, punto. Non c’era altro. Probabilmente il suo comportamento era dovuto a una qualche forma di stress post-caccia, o qualcosa di simile, non che esistessero trattati sulla psicologia delle cacciatrici da consultare. Almeno non che lei sapesse.

Questa ondata di pessimismo non era da lei. Colpa della frustrazione crescente che provava. Le sua abilità di hacker non sembravano sufficienti a trovare qualcosa. E questo non si era mai verificato prima.

Insomma, quella ricerca si stava rivelando decisamente frustrante. Aveva controllato nell’archivio delle carte di identità, niente, nel registro delle patenti. Niente. Poi era entrata anche nelle registrazione delle tessere sanitarie. NIENTE. E con il passare del tempo la cacciatrice era sempre più depressa. Eppure doveva risultare qualcosa…

-Hey, Buffy non sai altro di lei? Qualsiasi cosa…

-Non credo… So che era a Chigaco nel 1983, niente di più.

Era un punto di partenza. Willow continuò a cercare.

Nulla. Non risultava nulla negli archivi cittadini, non era segnata nelle liste dei cittadini con diritto al voto. L’abilità di Willow nel trovare le informazioni necessarie attraverso la rete sembrava svanita. Oppure era svanita chiunque stessero cercando.

Rimaneva solo un’ultima possibilità percorribile, altrimenti o chi cercavano non era davvero mai esistito o faceva parte di un qualche servizio segreto e non era igienico entrare in quegli archivi dal proprio computer senza un minimo di preparazione. I giganteschi archivi on-line dei giornali erano la sua ultima risorsa. Fece partire una ricerca incrociata tra giornali nazionali e locali con il nome della donna che cercava e l’anno interessato. Era una possibilità remota ma non le veniva in mente altro.

Dopo quattro ore, passate a fingere di studiare mentre osservava la cacciatrice consumare il pavimento della loro stanza, il computer trovò un riscontro. Era un trafiletto nella cronaca di un giornale locale, poche righe. Willow, sospirando, chiamò Buffy che arrivò di corsa aggrappandosi alla nuova speranza. Si sporse verso lo schermo e vide i caratteri neri sullo sfondo di un grigio sporco, con a fianco una foto in bianco e nero a cui non prestò attenzione.

Lesse velocemente le poche righe.

“Oggi, in un incidente stradale all’uscita dell’autostrada, è morta Janet Tisred, inglese, di trentasei anni. Le modalità dell’incidente non sono ancora chiare alla polizia che farà proseguire le indagini alla ricerca di risposte. La donna, sola, lascia le due figlie una di quasi tre anni, l’altra di pochi mesi.”

-E’ lei.

Fu tutto quello che Buffy riuscì a dire prima di scoppiare in lacrime. Non ricordava quando era stata l’ultima volta che aveva pianto. Che aveva pianto di fronte a qualcuno. Willow non capiva cosa stesse succedendo all’amica, ma si alzò per abbracciarla, tentando di confortarla. Era strano tenere tra le braccia quella ragazza e sentirla singhiozzare. In genere i ruoli erano invertiti.

La donna era una cittadina inglese… ecco perché non risultava, eppure anche se straniera le tasse doveva pagarle ugualmente… a meno di essere una turista. Troppe domande senza risposte. Troppi punti ancora oscuri, come se qualcuno avesse cercato di far sparire tutto ed avesse dimenticato un’unica traccia. Ma che interesse si poteva avere nel far sparire la vita di una donna simile?

 Più tardi, quando avesse capito cosa stesse succedendo all’amica avrebbe provato a trovarne le risposte. Ma, soprattutto, chi era quella donna per Buffy? Perché la sua amica era così sconvolta dalla morte di una sconosciuta, avvenuta quasi venti anni prima?

 

 

 

Delaware, casa di Miss Parker.

 

 

 

Faith entrò nella casa precedendo l’alta bruna che l’accompagnava. Questo non era esattamente un gesto di cortesia da parte della sua ospite, quanto piuttosto una mossa previdente per evitarsi di finire con una pallottola nella schiena. Faith aveva tacitamente accettato questa posizione, relativamente indifesa, per pratici motivi, non certo per bontà d’animo.

Voleva che la donna si fidasse almeno un minimo di lei, ed inoltre, come cacciatrice, aveva ben più di una possibilità di uscire viva da quella situazione, considerando il fatto che l’altra non impugnava la pistola, ma la teneva nella fondina alla cintura. Di certo Faith non era più veloce di un proiettile, ma le bastava esserlo più di chi sparava per sopravvivere.

La cacciatrice superò la soglia ed immediatamente esaminò l’ambiente per riflesso condizionato. Controllò le vie di fuga e di accesso, l’eventuale presenza di altre persone, per poi soffermarsi sul mobilio e quello che i particolari della stanza le potevano rivelare sulla padrona di casa. Conoscere il proprio interlocutore era basilare per quello che voleva dire.

Notò la bottiglia di liquore quasi vuota sul tavolino vicino al divano ed il singolo bicchiere poggiato lì vicino, eppure la donna non sembrava ubriaca, anzi era decisamente lucida. Il resto della stanza era pulito ed in ordine, non riusciva a vedere nulla fuori posto. Se tutto questo le comunicava qualcosa, questo si poteva tradurre in un solo pensiero, “fai attenzione, si tratta di un osso duro e di una donna abituata a comandare”.

Miss Parker richiuse la porta dietro di sé, notando come la sua “ospite” evitasse di fare gesti bruschi e tenesse le mani lontano dalla fondina ascellare dove aveva riposto la sua glock, cominciò a credere che fosse venuta realmente per parlare con lei e non per spiarla per conto del Centro.

-Accomodati pure.

Faith si sedé sul divano ed assunse deliberatamente una posizione rilassata, rilasciando i muscoli delle spalle ma continuando a tenere la schiena ben eretta. Miss Parker rimaneva in piedi ad un paio di metri dal sofà, in posizione dominante, e la fissava negli occhi dall’alto del suo metro e ottanta.

-Cominciamo dall’inizio. Tu chi saresti?

-Faith.

Questo fece alterare Miss Parker. La donna non era certo famosa per la sua pazienza ma oggi era decisamente irritabile, addirittura più del solito. E lei odiava essere presa in giro, perciò quando parlò, per essere più esatti, sibilò con disprezzo, era la regina di ghiaccio di cui, in un posto dove un singolo errore poteva essere pagato con la morte, tutti avevano paura.

-Non hai nemmeno un dannato cognome!

“Certo che se fossi un'altra persona questa donna mi metterebbe un sacro terrore addosso” rifletté Faith “Del resto è la figlia di Catherine e non mi sarei aspettata niente di meno.”. Non si lasciò intimorire, la cacciatrice aveva affrontato troppi altri avversari per aver paura di semplici atteggiamenti.

-Non credo che ti riguardi, non ancora. E il tuo nome sarebbe…

-Miss Parker. Ora voglio sapere dove avresti incontrato mia madre. E fa attenzione a dirmi la verità, perché se non è così, quanto è vero che esiste Dio, ti ammazzo con le mie mani.

Non stava scherzando e lo sapevano entrambe.

-La verità? Sicura di volerla sapere? –ma era una domanda retorica. -Tua madre? Era la mia osservatrice. Abbiamo vissuto insieme per qualcosa come sei mesi.

E Faith le raccontò cosa era successo, chi lei era, le disse del concilio ed infine di come era morta la madre. Miss Parker, mentre il racconto si protraeva, aveva cominciato a passeggiare nervosamente per la stanza, come suo solito. Con l’avanzare del racconto si rabbuiava od illuminava ed il passo subiva leggere modifiche, ma ascoltò tutto in silenzio, senza interrompere o fare commenti.

Nel momento in cui ebbe la certezza che la madre era davvero morta, morta dilaniata, si fermò per girarsi e fissare nuovamente negli occhi Faith.

-E perché tu, prode cacciatrice, non avresti fermato quel vampiro?

Faith avrebbe voluto inghiottire a vuoto mentre i ricordi le tornavano alla mente così facilmente, e con loro i crampi allo stomaco che erano diventati così familiari. Ma la domanda di Miss Parker era legittima e lei si sentiva in dovere di rispondere. Non era vero, come sostenevano molti, che lei non avesse senso dell’onore, semplicemente si limitava a mostrarlo solo alle persone che stimava. E la figlia di Catherine, in quanto tale, era una di queste.

-Quella notte mi assalirono in dieci. Mi pestarono con mazze da baseball e catene, fino a ridurmi ad una maschera di sangue. Fui torturata per qualcosa come dieci ore, alla fine dubitavo di avere delle costole sane. Ogni volta che perdevo i sensi dal dolore, mi risvegliavano, acqua fredda od altri metodi, non ricordo. Mi hanno costretta a vedere Kakistos uccidere la mia osservatrice, che era il mio unico punto di riferimento. Non avevo nulla da guadagnare dalla sua morte. Se avessi potuto fare qualcosa, credimi, l’avrei fatta.

Ci fu silenzio per la prima volta dopo mezzora. Miss Parker aprì il bar e versò del gin da una bottiglia muova, ignorando quella già aperta sul tavolo, in due bicchieri di cristallo senza aggiungere ghiaccio od altro. Uno lo porse a Faith. L’altro, lo scolò lei di un fiato solo.

 

 

 

 

 

Los Angeles.

 

 

 

Angel rientrò nel proprio appartamento alle quattro del mattino circa. Era stanco, era stata una lunga nottata, aveva dato la caccia ad un demone decisamente abile e sfuggente ma che non era un valido guerriero in un corpo a corpo. Lo aveva seguito per tre ore nei peggiori quartieri della città prima di riuscire a raggiungerlo e a finirlo dopo un breve combattimento a mani nude. E così aveva risolto un altro caso.

Chiuse la porta e si tolse la lunga giacca di pelle completamente immerso nei propri pensieri, era stanco e non riusciva a percepire con chiarezza quello che gli stava attorno, gli sembrava che ci fosse qualcosa. Scosse la testa per schiarirsi un po’ le idee e mentre si allungava per appendere il cappotto si rese conto che c’era qualcun altro in quella stessa stanza con lui.

Se ne era accorto con un decimo di secondo di ritardo. Continuandosi a muovere casualmente, come se non si fosse accorto di niente provò ad esaminare meglio la stanza a cui dava le spalle. C’era silenzio, non percepì movimenti e poté solo ipotizzare che l’altro era direttamente dietro di lui.

Riuscì ad individuare l’esatta posizione del potenziale avversario solo con la sua vista acuta da vampiro quando si girò per affrontarlo. Era tranquillamente appoggiato ad una parete vicino ad una finestra ma non nel cono di luce proiettato da essa.

La figura, in leggera contro luce, fece qualche lento passo in avanti e si fermò a due metri da lui.

-Una volta avresti agito in maniera un po’ differente.

Angel non riuscì a riconoscere la voce e si rese conto solo ora che l’altra figura era in realtà una donna avvolta da un ampio soprabito. Come sempre i suoi dubbi non trasparirono in superficie.

-Ad esempio avrei acceso la luce?

-Non fare i tuoi giochini mentali con me Angel, non sono una ragazzina spaventata. Al buio tu vedi molto bene. La luce avvantaggerebbe me.

Lei sorrise e così fece lui accordandogli la vittoria. Poi la donna proseguì.

-Una volta non avresti voltato le spalle ad un avversario.

Sorrise ancora. Si era accorta del suo ritardo nel localizzare la presenza estranea. Angel fece un leggero cenno con il capo, come a dare un assenso.

-Di cosa vuoi parlare?

Non era lì per attaccarlo, altrimenti lo avrebbe già fatto. E sinceramente Angel non aveva la certezza che avrebbe vinto quello scontro. Quella donna non era ciò che appariva e per ora questa era la sua unica certezza.

-Interessi comuni.

Angel la guardò un po’ di traverso, divertito, chiedendosi cosa volesse davvero quella donna mentre cercava di ricordare dove avesse già sentito quella voce profonda e calda. Doveva essere stato molto tempo fa, probabilmente in un’altra lingua.

-Saprai che non sono più quello di una volta.

-E’ per questo che sono qui. Ad Angelus non interesserebbe quello che voglio dirti. Diciamo che lui, che tu, - Sorrisero ancora. - era un po’ più assetato di potere.

-Allora accomodati mentre accendo la luce.

-Adesso come allora non fai domande a cui gli altri potrebbero non rispondere.

La donna si sedé su una poltrona e la luce la illuminò. Angel la fissò negli occhi riconoscendo vagamente la figura familiare del volto, senza però riuscire a collocarla in uno spazio ed un tempo definito. Frustrato, fece mostra del suo migliore sorriso per poi rivolgersi di nuovo a lei, facendo riferimento a ciò che non aveva chiesto.

-Il tuo nome appartiene solo a te. –Rispose educatamente.

La donna sorrise divertita.

-Oggi mi chiamano Eliza, ma tu non mi hai conosciuto con questo nome.

L’immortale continuò a sorridere mentre gli occhi scuri di lui rimanevano impenetrabili come sempre.

 

 

 

Sunnydale.

 

 

 

Spike stava facendo quello che faceva ogni sera da quando quelli dell’Iniziativa gli avevano piantato un chip nel cervello. Beveva.

E oggi aveva abbastanza soldi in tasca da potersi prendere una sbornia colossale. Ne sentiva davvero il bisogno. Sentiva la necessità di staccare per qualche ora dai suoi problemi. E ne aveva la possibilità, avendo per cosi dire “trovato” un centone nella tasca di un altro vampiro che era diventato, Spike era affranto per questo, molto affranto, cenere.

Investì il suo capitale in bourbon, non certo di annata, né tanto meno buono, solamente accettabile da mandare giù ed abbastanza alcolico da stenderlo con poche bottiglie. Prima di mezzanotte era così sbronzo da non ricordarsi neanche più che era un vampiro.

Girovagava per le strade senza fare attenzione a nulla, barcollando e canticchiando vecchie canzoni tra sé. Non si sentiva bene, no, non bene. Ma non sentiva ed era abbastanza.

Infine arrivò ad un punto tale di stanchezza mista sempre allo stordimento dell’alcool per cui anche lui, come tutti gli ubriachi, perse l’equilibrio cadde rovinosamente tra i bidoni di un vicolo dimenticato, scivolando in uno stato di dormi veglia.

 

 

 

 

Sunnydale, campus universitario.

 

 

 

Tra i singhiozzi Buffy le aveva raccontato chi era Janet. Willow era scioccata. Le sembrava così assurdo… Eppure era vero, l’età di Buffy e della bambina più grande coincidevano, i documenti di adozione erano veri. Mentre la rossa controllava i documenti Buffy si era un po’ calmata.

La bionda le aveva chiesto di trovare tutto il possibile sulla madre e magari di rintracciare la sorella più piccola. Non sarebbe stato facile, Willow glielo aveva detto, le aveva anche parlato di apposite agenzie che cercavano di riunire queste famiglie separate.

Ma Buffy era troppo confusa per cercare davvero di trovare una soluzione efficace. Quella mattina non sapeva ancora perché la madre l’avesse data in adozione. Poteva credere quello che voleva, che fosse stata costretta, che fosse stata una libera scelta per darle una vita migliore.

 Ora sapeva la verità. Era morta. E tutta la rabbia che Buffy aveva provato era scomparsa e con essa anche la speranza di ritrovarla.

Non era stata abbandonata. Le sembrava così importante anche se in realtà non cambiava nulla. Ad un tratto le venne voglia di ridere. Di ridere dell’assurdità della situazione. Sua madre era morta quando lei aveva tre anni. Aveva una sorella minore che non aveva mai visto, che per quello che sapeva lei poteva essere già morta, oppure una ricchissima pop-star. Lei Buffy Summers o Tisred era inglese.

Avrebbe riso volentieri, ma si sarebbe trattato di un riso convulso ed isterico.

 

 

 

 

 

Delaware, casa di Miss Parker.

 

 

Ci fu un secondo bicchiere di gin ed altri dieci minuti di silenzio. Poi Miss Parker fece l’ultima domanda a Faith.

-Perché sei qui?

La cacciatrice giocherellava con il bicchiere in mano mentre osservava i riflessi della luce sul cristallo lavorato. Parve non aver sentito la domanda, ma dopo pochi secondi cominciò a parlare.

-Spesso i suoi occhi. –cominciò a bassa voce Faith, come parlando di qualcosa che non sarebbe dovuto essere ascoltato. – diventavano lontani, come se Catherine stesse guardando qualcosa di lontano, di irraggiungibile. Accadeva spesso sai? –La cacciatrice alzò il volto per guardare negli occhi lo specchio della persona di cui stava parlando, le labbra per la prima volta illuminate da un vero sorriso dall’inizio di quella conversazione.- Per qualche attimo, pochi secondi od un minuto, lei semplicemente non era più lì con me. Andava in una qualche posto lontano, che evidentemente rimpiangeva, un posto che la faceva sentire triste e felice insieme. Io non chiedevo mai di quello sguardo. Era la sua vita. Apparteneva solo a lei, io non ne facevo parte. Se avesse voluto me ne avrebbe raccontato lei. Erano ricordi talmente vivi che la attraevano irresistibilmente, ma quando ne riusciva, lo vedevo, ne soffriva. –Faith fece un attimo di pausa e smise di giocare con il bicchiere che posò sul tavolino. Rialzò lo sguardo sul volto di Miss Parker e continuò il suo ultimo racconto. -Un giorno come tanti altri per qualche istante fissò quel qualcosa che poteva vedere solo lei, quel suo mondo, poi si riprese, mi guardò e sorrise. Aveva un bel sorriso. Mi raccontò di te. Per la prima e l’ultima volta ti menzionò. Ma tu eri sempre nei suoi pensieri, lo vedevo, lo potevo sentire. Mi rivolse poche frasi, ma le ricordo ancora a memoria, come se mi avesse parlato pochi minuti fa. “Sai Faith io ho una figlia. E’ una ragazza bellissima, forte, capace, sensibile. Mi manca molto, ma so di non poterla più incontrare. Sai, vorrei che voi due, un giorno, vi conosceste. Vi somigliate molto. Scommetto che andreste d’accordo.”

Ci fu un altro lungo silenzio che nessuna delle due aveva il coraggio di riempire.

-Non sono qui per chiederti perdono, non voglio la tua pietà, non me ne farei nulla. Ma non credere di potermi odiare per quello che è successo a tua madre. Non ne hai diritto né motivo. Sono qui solamente per informarti. Kakistos è morto. E’ stato ucciso davanti ai miei occhi. – “Come Catherine.”-Ma ho motivo di credere che si sia trattato di un omicidio su commissione. Quel vampiro non era lì per caso, sapeva chi cercare e come arrivarci. –Faith si tolse dalla tasca un bigliettino e lo posò sotto al bicchiere, sul tavolino. –Questo è il mio numero di cellulare.

Detto questo si alzò dal divano ed uscì senza alcun gesto di saluto.

 

 

 

 

Los Angeles.

 

 

 

Anche Angel si sedé su una poltrona, quella di fronte alla sua inattesa ospite. Si fissarono per qualche altro istante in silenzio prima di cominciare a parlare. Si stavano studiando apertamente aspettando.

-Dunque “Eliza”, - stressò la parola ad evidenziare l’ironia, non credeva che quello fosse il suo vero nome. -posso dire che tu non sei un umana, che non sei un demone. Quindi mi potresti illuminare sulla tua natura?

Il suo tono era cordiale e sinceramente interessato, amava la cultura, adorava imparare. Quella che gli stava davanti poteva essere o meno un’avversaria, ma certamente lui avrebbe cercato di imparare qualcosa da lei. Forse era questo quello che più gli piaceva dell’immortalità, infinite possibilità di conoscere.

-Sono un’immortale.

Angel la guardò un attimo stupito, il suo sguardo si fece lontano e poi, come se recitasse qualcosa a memoria, appreso tanto tempo prima ma mai dimenticato:

-“Gli immortali sono umani che, in seguito ad una morte violenta, tornano a vivere una vita eterna che può essere spezzata solo con il taglio della testa.” Non ne avevo mai incontrato uno.

-O forse non te ne sei reso mai conto.

Angel non era una persona ottusa e ammetteva con sincerità che non aveva conosciuto ancora tutto quello che c’era nel mondo, anche dopo più di duecento anni di vita. “Ci sono più cose in cielo ed in terra di quante ne dica la tua filosofia, Orazio”. Shakespeare, Amleto.

-E’ possibile. –fece una breve pausa.- Quando ti ho incontrato per la prima volta tu eri già immortale ed io vampiro non è vero? –Gli sembrava di riconoscere qualcosa nella figura davanti a lui.

-Esatto.

-Riconosco il tuo viso ed il tuo odore. Deve essere stato molto tempo fa, quando ero giovane. –Quando era giovane non faceva veramente attenzione a tutto quello che lo circondava, non l’attenzione che avrebbe prestato dopo, era ancora inebriato e ottenebrato dalle nuove possibilità percettive che aveva acquistato. Ricordava vagamente, molto vagamente i tratti di quel volto, ma non significava molto, si incontrano persone molto somiglianti tra loro in decenni di viaggi e spesso si scambiano.

La cosa che lo rendeva quasi certo di averla già incontrata era una specie di “assenza” che provava, come se non la vedesse chiaramente. Per riconoscerla come umana mancava qualcosa e lui non riusciva a capire cosa. Non era come quegli uomini, o donne, che hanno un qualche potere, e tu lo senti, lo avverti. Era l’esatto contrario. Tutto questo era frustrante. Lei sembrava, appariva come… meno evidente. Aveva capito. Era questa la differenza, lei era come un’ombra ai suoi sensi, era per questo che non si era accorto subito della sua presenza nella stanza.

-“Quando ero giovane”…Perché? A soli duecentocinquanta anni ti consideri già vecchio Angel?

La sua voce era ironica nel suo tono basso. Il vampiro sorrise chiedendosi quanti anni avesse davvero quella donna che non ne dimostrava più di trentacinque.

-No, non mi considero vecchio, diciamo maturo. Non credo di essere il più anziano in questa stanza.

Eliza sorrise.

-Probabilmente hai ragione.

-Di  cosa vuoi parlare?

-Sai che cosa è il concilio degli osservatori, Angel?

Lui rispose senza veramente capire a cosa volesse arrivare l’altra.

-Certo che lo so. E’ un’organizzazione che ha il compito di trovare ed addestrare la cacciatrice a compiere il suo sacro dovere di dare la caccia ai vampiri e sterminarli per proteggere l’umanità.

-Non hai risposto alla mia domanda Angel. Non ti ho chiesto chi sia o cosa faccia la cacciatrice. –Lui la osservò un po’ risentito e confuso. –Credi davvero che il concilio si accontenti di guidare una “prescelta” nel suo “sacro dovere”?

-So che il concilio usa anche altri agenti, ma lo fa principalmente per tenere d’occhio la popolazione di demoni in zone lontane dalla cacciatrice.

-Diciamo così Angel. Conosci la verità, frammenti della verità, ma non li hai mai messi insieme. Segui un attimo il mio ragionamento. Quale è il vero scopo del concilio? Spero che non crederai alla favoletta di salvare e proteggere l’umanità.

-Una volta era così.

Lei sorrise triste e divertita.

-Una volta si credeva fosse così. Gli osservatori, o meglio, i loro capi, cercano la sola cosa che accomuna tutti, il potere. Il fatto che non permettano la distruzione del mondo è una conseguenza di questa ricerca. E’ lo stesso motivo per cui le così dette superpotenze non usano le armi più potenti in loro possesso. Si ritroverebbero vittoriose sul nulla.

Angel non era stupito, lo aveva sospettato in un certo senso. Non ne aveva mai avuto la certezza ma non era un’idea così aliena. Questo spiegava molti altri comportamenti del concilio che aveva osservato nella sua vita ma a cui non aveva trovato una ragione valida.

-Non vedo questo cosa abbia a che fare con me. Se c’è qualcuno a cui può interessare ciò, è la cacciatrice, non sono io.

-Se mi fai arrivare al punto… Il potere che cercano al consiglio è il potere sul mondo sotterraneo, quel mondo non pubblicizzato di cui noi facciamo parte. Quello che tu non sai, quello contro cui non ti sei ancora scontrato, è che il concilio non vuole nessun possibile leader che possa, in un futuro, essergli dannoso, sopravviva e prosperi. Vogliono evitare il sorgere di altre organizzazioni che possano detenere il controllo su qualcosa.

-Ed io sarei uno dei possibili capi.

-Esatto, lo sei già stato. E non credere che per il fatto che tu non uccida più esseri umani loro ti appoggeranno o sosterranno. Quando si accorgeranno di te, del fatto che sei vivo e che “lavori” in una città importante come Los Angeles, questo non li fermerà per più di un secondo. Il concilio è un club molto esclusivo, un club in cui solo gli umani possono entrare. Vampiri con l’anima, ed immortali, non vi possono accedere, per loro, noi siamo semplici pedine od ostacoli.

Angel non era stupito, disgustato dal fatto che il concilio si nascondesse sotto il velo del protettore della Luce, ma anche incuriosito.

-E tu come faresti a sapere tutto questo?

-Sono stata un’osservatrice.

 

 

Delaware, casa di Miss Parker. Due ore prima.

 

 

 

Miss Parker si versò un altro bicchiere di gin per finirlo in un solo sorso. Fece per versarsene ancora ma si accorse che la bottiglia era vuota. Si alzò di controvoglia dal divano per andare a procurarsene un’altra. Stava sbagliando a cercare di assimilare le emozioni che la stavano sommergendo in questo modo, lo sapeva bene. Sapeva che non avrebbe risolto nulla e non era un mistero che l’orlo della vera dipendenza dall’alcool era vicino, molto vicino.

Nelle ultime trentasei ore aveva quasi finito la scelta scorta di superalcolici del proprio bar e dormito per non più di quattro ore. E questo aveva lasciato i suoi effetti, come il malditesta che minacciava di farle saltare il cervello, che non aveva aspettato il mattino successivo per presentarsi, e la stanchezza che si sentiva addosso, come se avesse quaranta di febbre.

Gli occhi le bruciavano non solo dalla stanchezza ma anche dalle lacrime che non aveva pianto. Si strinse un po’ di più nella camicia a quadri, il suo ricordo di Thomas, e rabbrividì osservando, senza vederlo, il bicchiere vuoto sul tavolino. La facciata di impassibilità e perfezione era crollata come un castello di carte appena Faith aveva lasciato quel salone, come se la bruna si fosse portata via con sé la sua forza residua, quei nervi incrollabili (creduti da tutti incrollabili) che la sostenevano, lasciando Miss Parker sola come non si era sentita da più di un anno.

Il telefono squillò e le venne voglia di ridere. Era cominciato tutto così meno di ventiquattro ore prima. Poi aveva saputo che sua madre non era morta per mano di Raines, quel colpo sparato a bruciapelo, e aveva ritrovato dentro di sé la forza di sperare che fosse ancora viva. Per poi scoprire da una perfetta sconosciuta che lei era morta per mano di un vampiro, di un vampiro, soltanto tre anni prima a Boston, per più di venti anni creduta morta e onorata e pianta come tale dalla figlia quando non era così.

Sollevò il ricevitore ed indossò di nuovo la maschera di invulnerabilità, quella corazza che la sosteneva e si preparò ad una discussione con chiunque fosse all’altro capo, Jarod, il padre, od anche Sidney. Ora che ci pensava, aveva quasi voglia di parlare con lo psicologo, magari le avrebbe fatto bene, e del resto, per certi versi, Sidney era un padre per lei. Poi scosse la testa e cercò di snebbiarsi un po’ il cervello, ottenendo solo un aumentare delle pulsazione che sembravano volerle spaccare il cranio.

-Parla Miss Parker, chi è?

-Salve piccola Parker.

Le rispose una voce profonda e calda in ucraino che lei non mancò di riconoscere. L’aveva sentita per la prima volta il giorno prima che il padre la  facesse entrare a lavorare nel Centro, le aveva detto di essere una vecchia amica della madre. Miss Parker non le aveva creduto e le aveva quasi sbattuto in faccia il telefono quando la voce le aveva cominciato a raccontare cose che solo Catherine poteva sapere.

In quel momento aveva saputo che si poteva fidare di lei, chiunque fosse in realtà. Durante quella prima telefonata l’aveva messa in guardia contro i pericoli del Centro, senza consigliarle di non entrarci, sapeva che Miss Parker si sentiva obbligata a quel passo.

Quei consigli avevano salvato più di una volta la giovane ventiseienne, che per la prima volta, dopo tanti anni, tornava a camminare lungo quei corridoi bui. Questa voce incorporea l’aveva accompagnata per gli ultimi dieci anni, si fidava completamente di lei, non le aveva mai mentito. Con il passare del tempo, assistendo a sempre più tradimenti e curiosi incidenti,  Parker l’aveva messa alla prova più di una volta, ma la voce si era sempre rivelata sincera.

Così, quella voce che parlava l’ucraino come se fosse la sua lingua madre, era diventato il segreto meglio custodito da Parker, il consigliere che conosceva le risposte, l’unico che gliele dava. A volte si era fermata a pensare a come apparisse quella donna dal dolce accento, ma non aveva mai desiderato incontrarla. Oltre che per ovvi motivi di sicurezza, amava immaginarsi come meglio credeva la sua “fonte”, e così non aveva mai tentato di contattarla. Era sempre l’amica di Catherine a chiamarla quando aveva bisogno.

-E’ un piacere sentirti di nuovo.

Si sentiva rasserenata al solo parlare con lei. Si lasciò cullare da questa sensazione.

-Fa molto piacere sentirti anche a me, giovane Parker. Ma credo che non sia un momento felice per te, è per questo che ho chiamato.

-Sai già tutto, vero?

Miss Parker non era stupita. In qualche modo l’altra sapeva sempre quello che le succedeva. Anzi, spesso sapeva più dei diretti interessati.

-Molto. Hai già incontrato Faith?

-Si, mi ha detto di mia madre, mi ha raccontato di vampiri e cacciatrici. Come se il mondo non fosse brutto a sufficienza. Speravo che almeno i demoni fossero solo leggende, anche se con la gente con cui lavoro ogni giorno avrei dovuto capirlo prima, immagino. Faith è una ragazza strana, credo di potermi fidare di lei, ma sento che è pericolosa.

-Puoi fidarti di lei. La conosco e anche Catherine si fidava di lei.

-La conosci? – per giungere alla conclusione successiva il salto logico era molto breve.- Sapevi che Catherine era ancora viva.

Non c’era bisogno della conferma. Strano, Miss Parker non si sentiva arrabbiata con l’amica, perchè ormai era anche sua amica, forse tutto quell’alcool l’aveva fatta smettere di provare qualsiasi tipo di sentimento. Ma non era vero, si sentiva sola e vuota.

-Si, lo sapevo. Ma se te lo avessi detto l’avrei messa in pericolo, e anche tu saresti finita uccisa. Come ogni figlia non avresti accettato la separazione senza agire, non è da te. Mi ha chiesto lei di badare a te, giovane Parker.

-Aveva scelta?

-No.

La linea suonò di nuovo libera nella cornetta appoggiata all’orecchio di Parker.

La donna posò il ricevitore per poi portare la bottiglia in cucina e buttarla nel cestino. Si massaggiò le tempie riuscendo a calmare appena il malditesta arrivando a mettere due pensieri coerenti in fila. Non aveva fame, ma sapeva che doveva mangiare, così si preparò un po’ di insalata ed una bistecca, limitandosi a bere acqua ed a scioglierci un paio di aspirine. Fu un pasto veloce e silenzioso che consumò preparandosi a quello che avrebbe dovuto affrontare.

Finita la cena ammucchiò i piatti nel lavandino ed andò a farsi una lunga doccia bollente. Quando ne uscì le era passato il malditesta e le era tornata la grinta di sempre. Con i capelli ancora bagnati tornò in salone ed afferrò il telefono.

La prima chiamata fu per Sidney. Gli disse che era stata male tutto il giorno e non aveva avuto voglia di avvertire. Lo psicologo non fece commenti, se non le credeva non glielo fece notare, la conosceva abbastanza da sapere di non fare domande. Fu una conversazione breve, ma si conoscevano da abbastanza tempo da poter saltare i convenevoli. Lei lo avvertì che anche l’indomani mattina sarebbe arrivata con un paio di ore di ritardo.

Poi Miss Parker prese in mano il biglietto bianco, un cartoncino ruvido al tatto con una scritta nera fatta in fretta, su cui era annotato il numero di cellulare di Faith. Lo osservò un attimo, rigirandolo pensierosa tra le dita, poi compose il numero.

 

 

 

 

 

 

Cornovaglia. Inghilterra.

 

 

 

La biblioteca del Concilio degli Osservatori poteva a ben diritto essere definita immensa. Conteneva migliaia di volumi su magia, mitologia, scienza ed arte occulta. Libri che erano stati raccolti in secoli, a costo di enormi sforzi, non solo di natura economica. Tra quegli scaffali ne si potevano trovare alcuni unici, dati per scomparsi o distrutti dal resto del mondo e conservati segretamente lì. Era la biblioteca più vasta sulla materia.

Od almeno, la più vasta raccolta di informazioni conosciuta su quel mondo che non esisteva.

Molti studiosi la ritenevano un vero e proprio santuario, quasi un luogo di culto, e gli immensi saloni, alternativamente illuminati od immersi nella penombra, gli altissimi soffitti, affrescati o dagli splendidi stucchi, assieme ai pavimenti di lucido marmo grigio, non potevano che dare ragione a questa impressione.

E, come in tutte le biblioteche del mondo, vi regnava il silenzio.

Grande ed importante come era, non risultava mai deserta, ci sarebbe sempre stato qualche ricercatore al suo interno, sepolto in mezzo ai libri o nascosto in una sala di lettura appartata, che approfondiva questo fatto o quella magia. Era comunque difficile incontrare dei lettori dopo le cinque, orario in cui i più andavano a casa, ed i saloni erano così vasti da apparire spesso abbandonati.

In una di quelle sale di lettura, quella riservata ai dirigenti del consiglio, e per questo la più lussuosa e confortevole, Magdalene e Travers si erano dati appuntamento. Lì era conservata la copia di tutti i Diari degli Osservatori e le Cronache degli Osservatori. Quella collezione era la vera memoria del consiglio, la memoria ufficiale degli atti compiuti e degli eventi accaduti, e per questo era custodita con la massima cura, in quel luogo dove le tradizioni erano la legge.

Quando entrò, Quentin trovò Marlin ad aspettarlo, assorta nella lettura di un pregiato volume dalla copertina di pelle marrone, un Diario quindi, le Cronache erano contenute in libri dalla copertina di pelle rossa.

Travers si avvicinò in silenzio aspettando che l’altra alzasse lo sguardo dal libro che stava leggendo e prendesse atto della sua presenza. Invece, completamente ignorato, si accomodò nella poltrona di fronte all’unica occupata della sala.

Appena si fu seduto, Magdalene girò con cura una pagina del manoscritto, quasi assaporandone il rumore della carta che si propagava nell’ambiente, e  cominciò a leggere ad alta voce.

-“Oggi davanti alla porta del mio appartamento ho trovato il suo cadavere. Dopo un sommario esame ho notato i segni sul collo, sia lividi che due fori, come di un morso. La Cacciatrice è stata soffocata fino all’incoscienza ed in seguito drenata del suo sangue. Agonizzante è stata portata davanti alla mia casa. Dopo sei mesi dalla chiamata, la Prescelta Cristal Refdor, Cacciatrice giudicata Abile congiuntamente dal suo Osservatore e dall’Inviato del Concilio Hartur Smith, è morta.”-

Marlin chiuse il volume e lo poggiò sul tavolino vicino a lei, dove si trovava la lampada, che con la sua luce, faceva risplendere le lettere dorate incise sulla copertina “Quentin Travers”.

Poi alzò il volto, che non era divertito, che non era vittorioso, che non era né triste né orgoglioso. Non aveva alcuna espressione. Fissò i suoi occhi in quelli di Travers.

-Di cosa mi vuoi parlare?

Chiese Magdalene, con finta non curanza, dopo quasi un minuto di silenzio, lasciando che la sua lettura penetrasse a fondo nell’altro, mettendolo in una posizione psicologia assai svantaggiosa.

-Sai cosa stanno facendo le tue cacciatrici?

La donna rifletté un attimo prima di rispondere, non sapeva dove l’altro volesse arrivare.

-Che cosa ti interessa Travers?

-Credo proprio che la tua cacciatrice preferita, la Rinnegata, si stia divertendo a scavare nel suo passato. E per quanto ne so io, tu non vuoi che quel passato torni a galla.

La voce sibillina di Travers si spense nel silenzio mentre la sua avversaria si rilassava nella poltrona di pelle. Ora sapeva come giocare questa partita.

-E cosa ti ha fatto arrivare alla brillante deduzione?

-A Boston gli esponenti di spicco della comunità demoniaca hanno ricevuto visite poco chiare. In quella zona si sta muovendo qualcosa, ed è qualcosa di non chiaro. Certo potrebbe non essere la Tua cacciatrice ad agire…

-Quentin, non prendiamoci in giro, tu non vuoi che quel passato torni a galla esattamente quanto me. Cosa ci guadagno se tengo occupata la mia cacciatrice per una settimana, in maniera tale che tu possa prendere le tue contromisure?

Quentin era certo che si sarebbe arrivati ad un accordo, ora era il momento di fare l’offerta, un’offerta generosa ma non il massimo delle sue possibilità. Era sempre stato bravo a mercanteggiare.

-Ti cedo il controllo della squadra speciale Bravo, a cui si deve nominare un nuovo comandante. L’altro è morto la scorsa settimana in azione.

Chi deteneva davvero il controllo di una squadra del consiglio era proprio il comandante della squadra stessa. Per tradizione a loro era data una  ampia indipendenza, sia per quanto riguardava l’addestramento che per la direzione delle missioni. Avere il controllo di una squadra, ma il comandante di questa avverso, era quasi più dannoso di non averla affatto.

-Ho due cacciatrici ai miei ordini, cosa vuoi che mi interessi una manciata di uomini in più?

Rispose sorridendo la sua interlocutrice, sorridendo in maniere sincera ma calcolatrice.

-Lo sai anche tu che non puoi conquistare il mondo con due soldati, per quanto bravi. Gli eroi non compongono gli eserciti. E del resto puoi mettere la mano sul fuoco per la loro fedeltà?

Le fece osservare mellifluo Travers. Magdalene fece un attimo di silenzio e lo sguardo si fece lontano.

-Voglio il tuo appoggio affinché una persona di mia fiducia diventi vice capo delle comunicazioni. –L’altro stava per scuotere il capo ed interromperla ma lei lo ignorò continuando a parlare.- Non dire di no…In questa storia tu ci guadagni più me, il passato, quel passato, per te è molto più pericoloso…

-Intendi qualcosa che io non conosco?

-No, niente del genere- Magdalene sorrise a Quentin, rispondendo ironicamente alla domanda falsamente ingenua di lui.- Una qualche missione da far compiere alla cacciatrice la troverò. Tu ti occuperai della distruzione delle prove che tanto ti affliggono.

Travers rifletté sulla proposta, il prezzo era alto, ma la posta in gioco era ben più importante, anche se Magdalene non lo sapeva.

-D’accordo, accetto.

 

 

 

 

Los Angeles.

 

 

 

Angel distese le dita della mano destra sul bracciolo della poltrona e le osservò per un istante. Affusolate, quasi longilinee, alcuni avrebbero detto perfette, dalla carnagione appena troppo pallida per essere umana. Il punto, dove prima il demone lo aveva artigliato, ora era perfettamente rimarginato, come se lì non ci fosse mai stata una profonda ferita che aveva lacerato i tendini di indice e medio, rendendoli inutilizzabili per lunghe ore.

-Per ricapitolare. Tu sei un’ex osservatrice, anche se tu stessa hai detto che gli immortali non possono esserlo, ed in questo modo hai appreso molto sul concilio, su quali sono i suoi meccanismi ed i suoi scopi. Quindi sei venuta qui, da dovunque tu abiti, che per quanto ne so io può essere anche la Finlandia, e mi hai dettagliatamente informato che il concilio, in un vicino futuro, potrebbe volere la mia pelle perchè il vero scopo degli osservatori è il potere. Detenere il potere sul mondo “paranormale”, e che questo loro scopo è un segreto ben custodito. E tutto questo per quale motivo? Ti sei data al volontariato? Hai fondato un’organizzazione umanitaria?

La sua voce era gelida ed ironica quanto quella che gli rispose calma e rilassata.

-No, Angel. Non ho intenzione di diventare la paladina degli oppressi al momento. Sono qui, (e per chiarezza non vengo dalla Finlandia, lì fa troppo freddo per i miei gusti), per offrirti un’alleanza. Niente di più. Ti ho informato ed ora, a tua discrezione, puoi accettare o rifiutare. Non credere che io e te siamo gli unici qui fuori che non desiderano uccidere esseri umani giusto per scacciare la noia o anelano la distruzione del mondo. Ce ne sono altri, molti altri. Alcuni che vivono da millenni, indisturbati o quasi, ma soprattutto ignorati dal concilio. Io sto semplicemente cercando di creare una rete di contatti in modo che ci possiamo aiutare a vicenda in caso di bisogno. So che sei forte, ma non credo che tu ti ritenga onnipotente.

-E perché io dovrei credere che tutto questo funziona?

Angel muoveva leggermente indice e medio godendosi la ritrovata mobilità e cercando un po’ di sfogo fisico all’accumulo di idee e pensieri. La sua mente lavorava a tutta forza, ripercorrendo tutto quello che gli era stato detto, cercando sia conferme dalla sua memoria e dalla sua intuizione, sia pecche al quadro che gli era stato dipinto davanti.

-Forse perché mantiene in vita me ed i miei alleati da almeno cinquecento anni.

Eliza sorrise divertita dall’istantaneo sguardo di sorpresa che attraversò gli occhi scuri di Angel, un lampo che sarebbe sfuggito ai più. Gli occhi tornarono in una frazione di secondo quelle pozze scure immobili che erano prima.

-Allora perché non mi hai contattato prima?

-Credi forse che il tuo numero si trovasse su un elenco telefonico? Sei sparito per più di un secolo e prima, lasciatelo dire, non avevi esattamente la reputazione della persona di cui ci si potesse fidare. Sei stato creduto morto dalla tua stessa famiglia ed io non avevo motivo per cercarti e sapere esattamente se tu lo fossi veramente o no. Poi sei “risorto” e mi sono tenuta informata, tutto qui. –Dal comportamento sarebbe sembrata irritata, ma Angel non credeva lo fosse davvero. La donna si muoveva quasi a scatti, mostrava atteggiamenti più aggressivi e sicuri di sé, la voce era un’ottava più alta di prima, ma qualcosa diceva al vampiro che era questa la vera Eliza. Chiunque fosse in realtà. La osservò alzarsi e allontanarsi a passi misurati e rapidi verso la porta. –Quello che avevo da dirti te lo ho detto, sono venuta qui per parlare, nulla di più, perciò ora me ne vado.

Alzò il bavero del cappotto nero e posò un biglietto da visita sul mobile che le era al fianco, poi si girò per parlargli ancora.

-Questo è il mio numero, se vuoi chiamarmi. Altrimenti, addio.

Le linee del volto, la carnagione chiara e gli occhi di una dolce tonalità di verde, le parole che ricalcavano quelle dette molti anni prima permisero finalmente ad Angel di riconoscerla. Una sala da ballo alla metà dell’ottocento, note di Strauss nell’aria, un valzer ballato con grazie ed eleganza, vestiti ricchi e multicolori, gioielli che brillavano come stelle, qualcosa di inafferrabile che lo aveva attratto.

-Arrivederci Alexandra.

Fu tutto quello che le rispose parlando in ucraino mentre lei usciva dalla stanza.

 

 

 

Cornovaglia, Inghilterra.

 

 

 

Jason si trovava nella palestra del concilio, nella parte dedicata alle arti marziali, nel seminterrato del palazzo. Con lui, divisi in diversi gruppi di allenamento, c’erano una ventina di persone che si stava addestrando ai combattimenti corpo a corpo nel silenzio generale, interrotto solo dalla voce dei vari istruttori. Tutti facevano parte delle squadre operative del consiglio, quell’esercito privato che veniva mantenuto ed addestrato a livelli di massima efficienza e che rappresentava una delle voci più costose del bilancio del Concilio degli osservatori.

Tutti questi militari erano pagati profumatamente e forniti delle migliori attrezzature. In genere erano ex combattenti delle forze speciali degli eserciti dei paesi di origine, che per caso erano venuti a conoscenza dell’esistenza dei demoni, o che erano reclutati in base alle elevate capacità dimostrate nel proprio corpo. Per questo nel gruppo si potevano trovare gente delle più svariate nazionalità.

 Jason, maestro indiscusso nei combattimenti ravvicinati, esperto in diverse forme di arti marziali, si occupava personalmente della preparazione dei comandanti delle squadre. Quella sera stava lavorando con tre dei migliori.

Improvvisamente uno degli inservienti lo raggiunse, fermandosi rispettosamente a qualche metro, attendendo che potesse interrompere la lezione in corso. Seppure un po’ contrariato dall’interruzione, come si poteva notare dal sopracciglio destro leggermente alzato, Jason si avvicinò rapidamente al messaggero, il quale gli comunicò che era atteso al telefono. Si trattava di un codice con priorità assoluta. Scusandosi con gli altri si allontanò per andare a rispondere.

-Jason.

-Massima urgenza, livello di sicurezza cinque, interno ed esterno. Prepari tre squadre. Le migliori tre squadre che ha. Armamento pesante, si tratta di una missione ad alto rischio. Tra un’ora la voglio sulla pista di decollo. L’attende una missione negli Stati Uniti. Ulteriori informazioni le saranno fornite in seguito, durante il volo o subito dopo.

-Come desidera signore.

Jason appese il ricevitore e si diresse in palestra, dove diede l’ordine ai suoi uomini.

 

Sunnydale.

 

 

 

Erano immagini confuse. Si sovrapponevano per poi dividersi sfocate, fluttuanti. Ombre nere che si aggiravano davanti ai suoi occhi semi aperti. Sagome umanoidi che non riconosceva, ma che risaltavano sullo sfondo lampanti, come se fossero l’unica cosa importante che lo circondava, eppure gli odori acri che a zaffate gli arrivavano dalla sua destra erano forti, quasi fastidiosi.

La mente ottenebrata di Spike cominciò a farsi domande cercando risposte che non arrivavano, “perché quelle figure risaltano? Perché sento tanto forte il calore proveniente da loro?” Non capiva, ma nel suo stato non se ne fece un problema.

Le sagome si avvicinarono e lo circondarono. A Spike sembrò che dovesse ricordare qualcosa circa uomini, “ma sono uomini?”, che vestiti di nero si avvicinavano a lui. Ma ancora una volta le risposte non arrivarono. C’era qualcosa da sapere…

Ai suoi sensi, che rispondevano in modo strano, “Allucinazioni causate dalla sbronza?”, arrivarono voci. Le parole erano confuse ma gli sembrava inglese anche se non afferrava il senso delle frasi. Parole separate, nomi improbabili. Riconobbe però che uno di loro parlava con accento inglese. La cosa lo tranquillizzò. Il pericolo non gli sembrava provenisse dalla sua madre patria…

“Pericolo? Quale pericolo?”

Lui non era in pericolo… però… non ricordava…

 

 

 

Los Angeles.

 

 

 

La ragazza bionda entrò nell’ufficio e si tolse gli occhiali da sole. Si guardò intorno e poi si diresse verso la segretaria occupata con il telefono. Rimase in pedi davanti all’imponente scrivania aspettando che la cinquantenne dai capelli grigi finisse la conversazione, ci volle qualche minuto. Ansiosa, la ragazza si mise a giocare con la stanghetta degli occhiali mentre studiava minuziosamente l’arredamento della sala, evitando gli occhi dei presenti, come se temesse di essere seguita.

La donna riattaccò la cornetta e squadrò la ventenne che le stava di fronte, era bassa, il volto piacevole e i capelli biondi raccolti. Le parlò con accondiscendenza.

-Desidera?

La ragazza sorpresa dal tono si bloccò e guardò un attimo, di sfuggita, gli occhi dell’altra prima di rispondere.

-Ho un appuntamento con la signorina Gerew.

-Le dispiace darmi il suo nome?

-Sono Elizabeth Summers.

La segretaria controllò su una pagina fitta di scritti e poi annuì soddisfatta.

-La signorina Gerew l’attende. La seconda porta a sinistra.

Buffy annuì ed entrò nell’ufficio ampio e ben arredato dopo aver bussato alla porta di legno massiccio. L’accolse un’attiva donna sulla quarantina, castana, dagli zigomi sfuggenti e gli occhi verdi, impeccabilmente vestita. Una donna in carriera, decisa ed intelligente.

-Signorina Summers, in cosa posso aiutarla?

-So che la sua agenzia investigativa ha anche un affiliato in Inghilterra.

-Si, è vero.

La donna la guardò incuriosita, non sapeva proprio cosa volesse questa cliente e non se lo riusciva ad immaginare.

-Ho bisogno di trovare tutte le informazioni possibili su una persona, una cittadina inglese.

-Sa che ci potrebbero essere dei problemi, no? E sarà costoso… le ricerche possono costare anche mille dollari mensili…

La donna la squadrava scettica, non credeva che una ragazza di quell’età se lo potesse permettere. Buffy lo capì e si affrettò a precisare, ancora un po’ nervosa, non voleva affidarsi ad un’agenzia investigativa, ma del resto, di inglesi, lei conosceva solo il signor Giles ed il consiglio degli osservatori, che era da evitare, meno sapevano di questa storia meglio era.

-Posso pagare non si preoccupi, inoltre quella donna era mia madre e credo di avere diritto di sapere su di lei. Lei è morta molti anni fa ed io sono stata data in adozione, voglio sapere chi era suo marito, se ne avuto uno, chi frequentava, se ci sono parenti in vita…

Per Gerew ora la situazione era molto più chiara. Si permise il lusso di sorridere sinceramente e Buffy non poté fare a meno di notare che se voleva quella donna poteva essere veramente affascinante.

-Forse possiamo riuscirci… mi lasci una delega firmata, la fotocopia dei documenti di adozione e tutto quello che possiede su sua madre. Metterò a lavorare sul caso un investigatore oggi stesso. Per quanto riguarda la parcella…

-Mille dollari mensili e tremila alla consegna delle informazioni, pagabili in due mesi.

La donna sorrise compiaciuta per la prima volta da quando Buffy era entrata nell’ufficio, la  sua cliente ci aveva messo poco a capire come funzionava. La cifra che aveva detto era assolutamente soddisfacente tanto che non c’era praticamente più da discutere. Si alzò e porse la mano alla cacciatrice.

-Allora siamo d’accordo, la informerò settimanalmente sui progressi. Lasci un recapito telefonico alla mia segretaria. Avvertirò la signora Wilson di preparare una delega ed un fascicolo a suo nome, si ricordi di faxare al più presto il resto dei documenti.

 

 

 

 

Di Sogni e di Segreti Parte III

Silea

 

 

Libro III

 

 

“Il presente sarebbe pieno di avvenire se già il passato non ci proiettasse un’ombra.”

 

 

 

Parla Faith:

 

 

“Uccidere un essere umano, credere di aver ucciso un essere umano, sentirti responsabile, ti cambia, i parametri non sono più uguali, le cose che accadono sembrano fuori scala, come se non le capissi. I tuoi punti fermi spariscono e tu sei sola, in balia degli eventi, delle persone… e se non riesci a ritrovare un equilibrio sei finita… e lo ricerchi il tuo equilibrio, e gli sacrifichi quello che è necessario… Un semplice gesto e  sono cambiate così tante cose…

Cosa credi Buffy? Che quando ti senti responsabile di un omicidio rimane tutto uguale? Come ti sei sentita dopo aver ucciso il tuo primo vampiro? Era tutto uguale?

E quello che avevi fatto ti avevano insegnato che era giusto…”

 

 

New York, aeroporto J.F. Kennedy.

 

 

 

Faith era seduta su uno sgabello di uno dei tanti affollati ed anonimi bar dell’aeroporto, aspettando la chiamata del suo volo all’interfono. All’interno del locale la gente continuava a vivere la propria vita come ogni giorno, ognuno immerso nella propria esistenza.

La cacciatrice prese in mano il long-drink che aveva ordinato per poi dare le spalle al bancone ed sprofondarsi in uno dei suoi passatempi preferiti, qualcosa che le portava gioia ma altrettanta, se non di più, tristezza. Come sempre diede un’occhiata nel complesso dell’ambiente circostante alla ricerca di qualcosa che stonasse. Era stata una delle prime lezioni che aveva appreso dalla sua maestra, al contrario di quello che tutti fanno, ovvero osservare e ricordare essenzialmente particolari, qualcuno nella sua posizione che avesse voluto vivere, avrebbe dovuto fare attenzione al complesso e da quello risalire al diverso, non al particolare.

Questo esercizio, come lo chiamava, era diventato usale per lei, un radicato riflesso, come il controllare le vie di accesso di ogni locale in cui entrava. Ormai era nella sua natura farlo.

Il passatempo in cui cercava ora di perdersi, non era che una distorsione di questo riflesso, un adattamento non pericoloso ed innato nell’uomo. Invece di cercare il diverso, si limitava ad osservare le persone, cercando di indovinare e immaginare una vita per ognuno di loro, con gioie e dolori. Era un gioco semplice, che facevano molti bambini nel mondo, ma rimaneva uno dei migliori sistemi che Faith conosceva per rilassarsi. Falliva solo quando la bruna si trovava ad invidiare agli altri la vita che vivevano e che lei non possedeva.

Fu quello che successe oggi.

Ad un tavolo nell’angolo in fondo del locale, vicino alla vetrata che dava sull’ingresso, sedeva una famiglia di quattro persone, i genitori con i loro figli. Data la mole dei bagagli era probabile che stessero per partire per le vacanze. Faith li osservò ridere e scherzare mentre mangiavano dei panini. La loro felicità era evidente.

Ignorando quella specie di gelo che si sentì nascere nell’anima, se avesse creduto all’anima, Faith si concentrò sul proprio drink, finendolo in due lunghe sorsate, per poi girarsi ed ordinare al barman una vodka doppia con ghiaccio. Appena le servirono il liquore lo buttò giù di un fiato solo e lasciati abbastanza soldi sul bancone si alzò per andarsene dal locale.

Fuori dalla bolgia infernale che quel bar era diventato per via dell’ora, rifletté, vedendo che il suo orologio faceva quasi l’una, ora di pranzo, Faith si allontanò quanto bastava per mischiarsi nella folla circostante e calmarsi. Non le succedeva spesso di cadere in quei pensieri, ma quando accadeva era difficile ignorarli.

Il suo aereo era alla due, quindi la chiamata per il volo non ci sarebbe stata prima di mezz’ora. Tutto quello che doveva fare Faith era trovare un modo per occupare quel tempo. Di andare per negozi non se ne parlava, non le era mai piaciuto. Il suo lettore cd era nel borsone nero che aveva già depositato al check-in, quindi niente musica. Con sé aveva solo il portafoglio ed il suo cellulare. Escluse il portafoglio, non voleva ubriacarsi e non aveva fame. Rimaneva il telefono. Lo tirò fuori dalla tasca. Era quello personale, quello la cui esistenza non era nota al concilio.

Compose un numero quasi prima di essersene resa conto.

Il numero della camera di Tara. Il telefono squillò un paio di volte prima che qualcuno alzasse la cornetta.

-Pronto? Qui Tara Maclay, con chi parlo?

Faith non rispose. Ci fu qualche secondo di silenzio e la cacciatrice fu certa che da un istante all’altro Tara avrebbe chiuso la comunicazione pensando ad uno stupido scherzo. Come avrebbero fatto tutti.

-Faith, sei tu?

Va bene, questo non se lo era proprio aspettato. Che fosse un altro dei poteri di Tara? “Si certo, ora è capace di riconoscere anche chi sta dall’altra parte del telefono. All’inferno, è più probabile che abbia un apparecchio su cui appare il numero che ha chiamato.”

-Faith…

Non era una voce irritata, non era neanche incuriosita né impietosita. Era la solita voce calma e tranquilla, quasi sussurrata La cacciatrice fece un respiro profondo prima di rispondere.

-Ciao Tara, si, sono io.

-Ciao Faith, mi fa piacere che hai chiamato.

Che ci fosse sollievo dall’altra parte? No, probabilmente la bruna si stava sbagliando. Ricadde il silenzio tra di loro, nessuna delle due riusciva ad aprire un argomento. Passarono altri lunghi istanti.

-C’è un sacco di confusione in sottofondo. Dove sei?

Faith fu colpita da due cose, la gentilezza del tono con cui era stata formulata la domanda, ed il fatto che Tara non avesse balbettato dall’inizio della loro conversazione.

-Mi trovo all’aeroporto Kennedy. –si sentì rispondere la cacciatrice.- Sto per partire per una missione.

-Capisco. Ti serve aiuto Faith? Posso raggiungerti in poche ore, se hai tempo di aspettarmi.

Ok, questo non era normale. Ricapitolando: lei aveva chiamato Tara che, al posto di sbatterle il telefono in faccia di fronte al suo silenzio, come avrebbero fatto tutti, si era informata gentilmente su cosa stesse accadendo (e Faith aveva risposto sinceramente alle sue domande, cosa più unica che rara), e dopo aveva spontaneamente offerto il suo aiuto per un problema di cui neanche conosceva l’entità. La cosa cominciava ad apparire decisamene surreale.

-No, non ho bisogno di nessun aiuto, non ti preoccupare. Volevo sentire un’amica. –Faith si chiese se un demone non stesse controllando le sue funzioni cerebrali, in particolar modo la connessione cervello-corde vocali. Lei non aveva mai avuto intenzione di dire quell’ultima frase. Non era da lei. Faith era una persona solitaria, indipendente, che non aveva bisogno dell’aiuto di nessuno, tanto meno di una compagnia che fosse qualcosa di più che fisica.

-…erite?

La cacciatrice non era riuscita a sentire la prima parte della domanda, perciò, per quanto le scocciasse, dov’è chiedere a Tara di ripetere la domanda. Odiava apparire poco meno che “perfetta”.

-Dicevo, come vanno le tue ferite?

-Vanno molto bene, si stanno rimarginando in fretta ed i punti non mi danno fastidio.

Non era del tutto vero. A meno di quarantotto ore dall’applicazione dei punti, le ferite si stavano chiudendo bene, ma sentiva la schiena indolenzita e di certo non avrebbe potuto affrontare nessun combattimento senza che queste si riaprissero.

E di questo lei non poteva essere certa. Per precauzione si era portata dietro degli antidolorifici, per ogni evenienza, giusto in caso limite. Quella che aveva progettato era poco più di una missione di ricognizione, con rischi vicino allo zero, ma era meglio non rischiare.

Lei e Tara continuarono a fare conversazione per qualche minuto e Faith, non sapendo ancora una volta come, si ritrovò a parlare di Willow. Ed a parlarne bene.

Lo ammetteva, aveva odiato quella ragazza e lo aveva fatto per motivi personali che non avrebbe spiegato al primo venuto. Ma no, nonostante quello che avesse detto, non l’aveva mai disprezzata, mai veramente. Presa in giro, insultata, minacciata, ma mai disprezzata. Ed ora Tara stava riuscendo a farle dire cosa veramente pensava della rossa. Del fatto che in un certo senso la rispettasse.

La connessione cervello-bocca era decisamente in potere di un qualche demone, decise Faith.

Questa conversazione continuò con i racconti, da parte di entrambe, di episodi relativi al passato che coinvolgevano proprio Willow. Faith si scoprì a ridere. Lo aveva fatto poco negli ultimi mesi, da quando si era risvegliata dal coma. Ed anche prima accadeva raramente che ridesse sinceramente come stava facendo ora.

In maniera naturale, come se fosse sempre successo, come se fosse una formula provata, Tara l’aveva fatta tornare di buon umore.

Fu dopo oltre venti minuti di conversazione che Faith chiuse il cellulare. Giusto in tempo per sentire la chiamata del suo volo.

Al check-in si incontrò con Miss Parker, come stabilito.

 

 

 

Los Angeles.

 

 

Era tornata di nuovo in quell’ufficio ampio, illuminata dal finestrone alle spalle della sua interlocutrice. Questa volta la segretaria si era comportata un po’ più civilmente con lei informandola subito che la stavano aspettando.

In effetti quando era entrata nell’ufficio la signora Gerew l’attendeva in piedi dietro alla sua scrivania, sulla quale era posato, in bella vista, un plico, pronta a stringerle la mano.

La stretta era salda ma non eccessivamente forte. Piacevole, come lo era stata l’ultima volta.

-Allora signorina Summers, le ricerche sono state completate con successo. Il saldo finale è di tremila duecento dollari, ci sono state alcune spese.

Gerew la guardava un po’ inquieta, quasi sospettosa. Senza battere ciglio, Buffy tirò fuori due mazzette di contanti, tenuti assieme dalle fascette di una nota banca, e li posò davanti a lei sul ripiano della scrivania della detective.

Avrebbe potuto pagare con un assegno, ed il libretto lo aveva portato con sé, caso mai le spese sostenute fossero state eccessive, ma Buffy sapeva che i contanti facevano un altro effetto durante quel genere di trattative, come dimostrò il sorriso che apparve sulle labbra dell’altra.

C’erano voluti pochi giorni per avere le informazioni. Il prezzo così alto era per la maggior parte a causa del premio di fine contratto. Come aveva immaginato Buffy, persone dell’ambiente, con i contati nei luoghi giusti, avrebbero trovato tutto quello che le serviva in poco tempo.

Gerew le consegnò la voluminosa cartelletta rossa. Buffy non l’aprì, riservandosi tutto il tempo per quando fosse stata sola. Non perché non si fidasse dell’altra, che probabilmente conosceva già l’intera pratica, semplicemente perché voleva avere il tempo di studiarla con calma.

-C’è tutto?

La donna dall’altra parte della scrivania la osservò divertita.

-Mi pare ovvio. Non è possibile trovare niente altro su sua madre, tutto quello che c’era in un qualsiasi archivio inglese od americano è lì. La sua famiglia, dove abitano quelli ancora in vita. Cosa ha fatto da giovane, con chi è stata sposata. Il certificato della sua nascita ed anche le registrazioni ospedaliere che aveva sotto l’altro nome.

Buffy annuì seria.

-Il saldo avverrà entro il mese prossimo.

-Perfetto, è stato un piacere lavorare con lei Miss Summers, o dovrei dire in altro modo?

Gerew le strinse di nuovo la mano mentre Buffy le sorrideva tirata.

Cortesemente l’investigatrice l’accompagnò fino alla porta del suo ufficio.

 

 

 

-Signore gli uomini sono in posizione. L’edificio è circondato.

Jason annuì prendendo atto del rapporto. Erano atterrati in una pista fuori mano, quasi segreta, alle porte di Los Angeles poche ore prima. Informate le squadre della missione, precisando i parametri di sicurezza e l’identità del bersaglio, durante il volo, aveva fornito i particolari dell’azione durante il trasporto verso la città, all’interno di tre piccoli minivan neri.

Ora tutti gli uomini erano al loro posto e quella che le informazioni davano come attuale residenza del bersaglio, un hotel, era sorvegliata in modo tale che nessuno potesse uscire od entrare senza che loro ne venissero a conoscenza.

L’uomo seduto al suo fianco, al volante del minivan dai vetri oscurati, si agitò impercettibilmente. Era un giovane sulla ventina che probabilmente era alla sua prima missione. Per questo era stato trattenuto sul furgone, sarebbe entrato in azione solo se indispensabile. Girò la testa verso di lui e lo guardò con rispetto, paura ed eccitazione al pensiero dell’azione che si stava per svolgere davanti ai loro occhi.

-Quando darà l’ordine di attacco signore?

Seccato Jason alzò un sopraciglio, gli altri militari erano abbastanza disciplinati da attendere i suoi ordini nelle loro posizioni, senza muoversi né fare sciocche domande. Ma questa era una situazione buona come un’altra per insegnare qualcosa.

-Aspetto un contatto visivo confermato.

Le informazioni che aveva, dicevano che il soggetto aveva passato la notte in quello stesso edificio. Si trattava di informazioni attendibili, era vero, ma lui non voleva correre il rischio di scoprirsi prima di aver avuto la certezza che il suo bersaglio fosse ancora lì dentro. Quello a cui dava la caccia era un bersaglio pericoloso, ed avrebbe avuto una sola possibilità di finirlo con scarse perdite di uomini.

Sperare in una seconda occasione non era intelligente.

 

 

 

 

Appena uscita dall’ufficio di investigazione Buffy decise di non prendere subito la metropolitana per tornare al proprio albergo ma di fare prima qualche passo a piedi per pensare. In fondo Los Angeles le mancava. Soprattutto la gente. I milioni di persone che sai che vivono vicino a te. Le migliaia di persone che camminano sui marciapiedi affollati ogni giorno ad ogni ora.

Dove viveva ora i marciapiedi non erano mai affollati. E le luci notturne, le insegne dei locali aperti tutta la notte, che illuminavano la città quasi a giorno. Dove viveva ora c’era solo il buio della notte.

Da quando si era trasferita a Sunnydale, o meglio da quando era diventata Cacciatrice, aveva perso quel senso di “comunità” (forse era meglio dire normalità) che aveva accompagnato la sua crescita. Quell’essere una fra tante. Un po’ le dispiaceva.

Ma del resto ormai la sua vita era cambiata, anche se non era dipeso da lei, e dubitava che sarebbe riuscita a tornare quella di una volta. E comunque anche se voleva non lo avrebbe potuto fare. Quindi era meglio abbandonare quel sogno. Tanto era irrealizzabile.

Camminando lungo il marciapiede si accorse di essere arrivata ad un incrocio. Riemerse dai propri pensieri scacciando quella strana tristezza che cercava di invaderla, per guardarsi attorno. Non si era persa, ma voleva sapere che tipi di locali c’erano da quelle parti, inoltre cominciava ad avere fame nonostante fosse solo mattina inoltrata e lei avesse fatto colazione.

Sull’altro lato della strada notò una tavola calda. Era affollata, sebbene non fosse un’ora di punta, segno evidente che lì si mangiava in maniera decente. Decise di fermarsi per uno spuntino.

Seduta comodamente al primo tavolo trovato libero, mentre aspettava che le portassero il caffè e le ciambelle ordinate, Buffy cominciò a sfogliare la documentazione che le avevano consegnato poco prima. Una cinquantina di fogli dal valore di tremila duecento dollari. Ma erano il passato che stava cercando ed il prezzo non le sembrava eccessivamente spropositato.

Cominciò dall’inizio. La nascita di sua madre, documentata dall’atto di nascita ed anche da quella che sembrava una foto presa ancora in ospedale. Le scuole che aveva frequentato, era una donna molto intelligente, tanto da guadagnarsi una borsa di studio per una prestigiosa università. La morte dei suoi genitori, avvenuta quando aveva venticinque anni. Il matrimonio con un tale Frederick Welay, la nascita della prima figlia (Buffy stessa, le avevano dato il nome di Anne, ora capiva il perché del suo secondo nome). La morte improvvisa del marito un anno dopo. Il trasferimento negli U.S.A. per lavoro. L’atto di nascita della sorella, di cui però non era specificato il padre, aveva un bel nome la bambina, particolare (Amethist). La morte della madre per incidente stradale. Dove era stata sepolta.

Ormai Buffy era arrivata alla terza tazza di caffè e alla quinta ciambella per un totale di due ore di lettura. Rimaneva un ultimo foglio. “Probabilmente a quale famiglia è stata affidata mia sorella (però mi fa strano pensare che ho una sorella) o soltanto sapere se è stata affidata ad un qualche istituto prima di essere adottata.”.

Il foglio invece era completamente bianco se non per poche righe scritte a macchina.

 

 

 

Seduto nell’abitacolo, praticamente immobile da diverse ore, Jason prestava attenzione solo alle comunicazioni fra le varie squadre. Ad intervalli regolari, tutti dovevano riportare la loro posizione e lo stato della zona sorvegliata. Era una misura di sicurezza precauzionale. Almeno sperava che si dimostrasse precauzionale.

Il giovane che gli stava accanto cominciava ad essere nervoso. Pochi minuti prima aveva estratto un pacchetto di sigarette da una delle tasche, e sebbene non ne avesse accesa nessuna, batteva ritmicamente il filtro arancione di una sul volante. Chiunque l’avesse addestrato non aveva fatto un buon lavoro. Jason prese mentalmente nota di far fare al ragazzo un corso di preparazione intensivo.

Il suo auricolare emise un bip e la comunicazione fu aperta.

-Comando, qui postazione uno-bravo.

-Vi ricevo, uno-bravo.

-Ho acquisito il bersaglio signore. Confermo l’avvistamento come positivo.

-Ricevuto uno-bravo. Tenetevi pronti.

-Si, signore. Chiudo.

Sentendo le parole di Jason il ragazzo si era completamente calmato. Il comandante lo guardò un attimo, sembrava trasformato. Dunque il suo problema di concentrazione era presente solo durante l’attesa. Probabilmente lo avevano scelto per le doti di combattimento in azione. Sorrise, sarebbe stato facile correggerlo. In fondo poteva averlo giudicato male.

Azionando di nuovo la rice-trasmittente Jason cominciò ad informare le varie squadre.

-Squadra Alpha. Squadra Charlie. Entrate in azione.

Ci fu una breve scarica elettrostatica e poi la risposta.

-Entriamo in azione.

Era una voce piuttosto profonda quella che gli rispose. Jason riconobbe Richard, comandante della squadra Alpha.

-Comando ricevuto.

L’altra era la voce di una donna. Vivien, la francese al comando della squadra Charlie.

-Confermato.

 

 

 

Non si sono trovate tracce di Amethist Tisred in alcun archivio per le adozioni. E’ possibile che in seguito all’incidente stradale sia morta e poiché nessuno è andato a reclamare la salma è possibile che sia stata inumata in un qualche cimitero pubblico con una lapide senza  nome.

“E’ impossibile”. Semplicemente Buffy non ci credeva. Sua sorella non poteva essere morta. L’articolo che Willow aveva trovato diceva che la bambina era sopravvissuta all’incidente, come lo era lei. E fino ad ora si era rivelato una fonte attendibile.

Attaccata ad uno dei sostegni freddi e grigi della metropolitana, cercando di non cadere, Buffy rifletteva sui pochi fatti di cui era a conoscenza riguardo al sorella. Si chiedeva perché di lei non ci fosse alcuna traccia. C’erano solo due possibili soluzioni, un errore nella macchina della burocrazia, oppure qualcuno aveva interesse a far passare la faccenda sotto silenzio. Avrebbero potuto usare la ragazza per ricattarla, ma era assurdo, fino ad una paio di mesi prima non sapeva neanche di essere stata adottata.

L’ipotesi più probabile era quindi un errore non voluto della burocrazia. E per riuscire a scoprire la verità aveva solo due fonti. E l’una era in contrasto con l’altra. Dunque una delle due doveva avere torto. Doveva solo scoprire quale. Come era facile da capire.

La metropolitana si fermò e le porte si aprirono con un sibilo per poi andare a sbattere contro i vagoni. Buffy scese dal treno e si avviò per le scale. Una folata di vento la fece rabbrividire per un attimo, sembrava che la bella giornata stesse per lasciare il posto ad una nuvolosa. Ancora soprappensiero mentre si allacciava il giacchetto con una mano e stringeva con forza la cartellina nell’altra, uscì dalla stazione e si diresse verso il proprio albergo poco distante.

Era quasi l’una quando attraversò l’atrio per poi fermarsi davanti all’addetto. Si fece consegnare le chiavi della stanza e chiese al giovane ed anonimo impiegato castano se c’erano messaggi per lei. Le fu risposto negativamente.

 

 

 

Cornovaglia Inghilterra.

 

 

 

Magdalene riprovò. Nulla. Faith non rispondeva.

Era la seconda chiamata. Prima il cellulare era spento, ora squillava a vuoto.

Che fine aveva fatto la sua cacciatrice?

Fu tentata di chiamare Giles per mandare l’altra cacciatrice a controllare se Faith si trovava veramente a Sunnydale, dove il suo cellulare era stato rintracciato dai tecnici. Ma Travers aveva ragione, non poteva fidarsi delle due cacciatrici. Non completamente almeno. Incerta sul da farsi si fermò per riflettere qualche minuto. Poi rialzò il ricevitore e fece un numero interno.

-Questo è l’ufficio del signor Jason. Con chi parlo?

-Sono Miss Marlin. Devo parlare con Jason.

La voce della segretaria dall’altro capo divenne quasi mielosa.

-Mi dispiace signora, il signor Jason è partito.

-Per dove?

Marlin voleva essere sicura che non fosse via per missioni di routine. Voleva la conferma che Travers non la stesse ingannando. C’era sempre quella possibilità.

-Non glielo posso dire signora. E’ una missione di livello cinque.

La segretaria aveva detto più di quello che doveva. Ma aveva fatto bene a non farle perdere tempo, forse sapeva che in caso contrario si sarebbe ritrovata dimenticata in un archivio polveroso. Per anni, se non per una vita. Magdalene chiuse il ricevitore senza salutare per poi comporre un altro numero, quello di Travers.

-Ufficio del signor Travers, mi dica?

-Sono Marlin c’è il signor Travers? E’ urgente.

-Mi dispiace signora, non c’è.

Magdalene non si scomodò a chiedere dove fosse andato. Non glielo avrebbe detto comunque. La segretaria di Travers era una vecchia arpia fedele solo a lui. Almeno ora sapeva che questa non era una farsa di Quentin recitata apposta per lei.

 

 

 

 

Delaware, in un ufficio del Centro.

 

 

 

C’era un ostacolo ai suoi piani. Una persona sola che gli avrebbe impedito di raggiungere la Torre. E lui non sapeva come liberarsene. Avrebbe potuto ucciderlo ma sarebbe stato chiaro il mandante dell’omicidio. E questo lo avrebbe danneggiato.

Così gli rimaneva una sola soluzione.

Prese dei dischetti su cui erano state copiate registrazioni vecchie di anni e le mise in un’anonima busta gialla. Gli era costato molto tempo e fatica arrivare a quelle registrazioni. Non c’era dubbio, Miss Parker non ci sarebbe mai potuta arrivare da sola, benché fosse convinta del contrario, aveva ben pochi mezzi a disposizione. Lei continuava a cercare da anni quello che lui aveva trovato in pochi mesi.

Con un grosso pennarello nero scrisse l’indirizzo, senza specificare il mittente. Che quel pacco provenisse dal Centro era un motivo sufficiente per aprirlo per chi doveva riceverlo.

Lyle mise la busta tra le decine di altri che dovevano essere spediti.

Presto sarebbe diventato di nuovo orfano.

 

 

 

Londra, Inghilterra.

 

 

 

Il telefono cominciò a squillare nuovamente. Faith lo prese dalla tasca interna dal giubbotto di pelle e vide che era nuovamente Marlin. Si aspettava una sua seconda chiamata. Quando il suo cellulare aveva squillato per la prima volta, lo aveva appena riacceso dopo il volo trans-continentale e si trovava ancora all’aeroporto di Londra. Non aveva potuto rispondere, c’era pericolo che Magdalene, insospettita dal fatto che il telefono fosse stato spento per così tante ore, facesse analizzare il nastro e capisse che lei si trovava in Inghilterra e non a Sunnydale.

Per evitare che la sua copertura saltasse Faith aveva avvertito Miss Parker che c’era una difficoltà, che si doveva sbrigare a trovare un posto sicuro per ricevere una chiamata, spiegandole poi dettagliatamente il suo problema. La figlia di Catherine l’aveva guardata per un istante, pensierosa, per poi annuire.

Senza stupirsi delle richieste che le erano state fatte e senza chiedere spiegazioni aggiuntive, Miss Parker aveva trovato in fretta una soluzione.

Meno di dieci minuti dopo erano in un abitacolo, insonorizzato o quasi, di una berlina blu che si muoveva in circolo attorno ad un quartiere poco trafficato di Londra. Faith non poté fare a meno di  osservare che la donna al volante dell’auto sembrava non avere nessuna difficoltà a guidare a sinistra né ad avere il cambio spostato, come se viaggiasse spesso per il mondo.

Faith fece scattare l’apertura del cellulare per rispondere alla chiamata.

-Cosa succede Marlin?

-Dove sei?

Faith rispose alla domanda con voce annoiata.

-A Sunnydale, dove posso essere?

-Perché prima il cellulare era spento e poi non hai risposto?

-Non sapevo di essere una sorvegliata speciale Marlin. Quello che ho fatto prima ed il perché non ho risposto non ti riguardano.

Magdalene sembrò soddisfatta dalla risposta e cambiò argomento. Faith si rilassò un po’ contro il sedile di pelle, aveva superato la prima prova.

-Ho un lavoro per te.

Faith poteva non accettare, ma sarebbe stato rischioso, ci sarebbero state troppo domande. Probabilmente avrebbe dovuto rischiare, ma avrebbe deciso soltanto dopo qualche altra informazione.

-Di che si tratta?

Magdalene le spiegò tutto dettagliatamente. Mentre la informava Faith trovò un modo per risolvere il non molto trascurabile problema di essere in due posti contemporaneamente. Nel suo piano non c’era solo un’incognita, ce ne erano praticamente infinite e tutte avrebbero giocato a suo sfavore. Ma non aveva molta altra scelta del resto, non con il poco tempo a disposizione per pensare ad una soluzione. Uno dei problemi maggiori sarebbe stata la stretta finestra di azione che avrebbe avuto, ma con un po’ di fortuna ce la poteva fare.

-Va bene, accetto. Dei termini di pagamento parleremo dopo.

Chiuse il cellulare e guardò per qualche istante attraverso il finestrino i palazzi di Londra.

-Possiamo anche andare.

Miss Parker guidò per un po’ in silenzio.

-Come fai a sapere che non rintracceranno la chiamata?

Da dietro agli occhiali da sole, indossati anche se il tempo era nuvoloso, Faith rispose permettendosi di sorridere.

-L’hanno già rintracciata.

Miss Parker continuò a guidare aspettando il resto della spiegazione. Avevano lasciato il quartiere poco trafficato ed ora erano in fila ad un semaforo, i clacson delle auto attorno a loro.

-A Sunnydale c’è l’apparecchio telefonico che loro hanno rintracciato. Il cellulare che loro chiamano è fisicamente in California, ma, tramite una simpatica scatolina ed un paio di cavi, di cui non so il funzionamento e non mi interessa, la chiamata è trasmessa al telefono che ho con me e che loro non possono rintracciare.

Trascorsero un altro paio di minuti in silenzio durante i quali Miss Parker imboccò l’autostrada che portava ad ovest. Con aria stanca, reprimendo a fatica la voglia di sbadigliare, Faith accese lo stereo dell’auto, sintonizzandolo su una stazione di musica rock, poi, preso di nuovo il cellulare, compose un numero pregando mentalmente che rispondessero dall’altra parte.

La cornetta fu alzata dopo qualche squillo.

-Con chi parlo?

-Liz? Sono Faith, senti, ho bisogno di un favore e penso sia qualcosa che interessi anche te…

 

 

 

Los Angeles, in una camera d’albergo.

 

 

 

Sdraiata sul proprio letto, la giacca buttata disordinatamente su una sedia, stava ricontrollando tutto l’incartamento. Buffy cercava qualcosa di sospetto, un qualcuno che potesse avercela con la madre, od il padre, tanto da creare problemi alle figlie. Il padre! Amethist aveva un padre diverso dal suo, se ne era quasi dimenticata. Che fosse andata a riprenderla? Improbabile, chiunque fosse quell’uomo non aveva neanche riconosciuto la paternità alla nascita della bambina.

Dopo altre due ore di studio guardò la radiosveglia sul comodino e vide che erano quasi le quattro. Si alzò dalla scomoda posizione cercando di non stropicciare nessuno dei fogli sparsi per il letto. Doveva ammetterlo, era una persona davvero disordinata. Si stiracchiò la schiena con pigrizia, si sentiva tutta dolorante, e si trovò a sbadigliare. Una doccia le avrebbe fatto bene.

Con i capelli ancora umidi ma la testa finalmente un po’ chiara, Buffy sollevò il telefono e compose il numero di Willow. Parlando con lei avrebbe forse trovato una soluzione alla sua situazione. L’amica rispose al primo squillo. “Strano per Will, probabilmente era preoccupata ed aspettava una mia telefonata”.

-Chi parla?

-Willow? Ciao sono io.

-Buffy, finalmente hai chiamato. Non ti sei fatta sentire da ieri sera, da quando sei arrivata. Ma  sei impazzita? Vuoi farmi morire di infarto a soli venti anni?

La cacciatrice sorrise sentendo il disappunto scherzoso, ma non troppo, nella voce dell’amica.

-Diventeresti famosa, un vero caso per la medicina moderna. “Giovane in buona salute, morta per infarto all’età di venti anni”.

-Grazie del pensiero, ma se proprio devo, credo di voler scegliere un’altra maniera per diventare famosa nel campo scientifico.

Risero insieme per qualche istante.

-Ma non credere che questa battuta mi calmi. Allora, cosa è successo Buffy?

La cacciatrice non aveva voglia di rivelarle tutto, non si sentiva ancora pronta dividere tutto quello che aveva scoperto con altri, ma aveva bisogno di una mano. Così cominciò a raccontare.

-Quindi ora il problema è sapere che fine ha fatto tua sorella.

-Esatto, e non so da dove cominciare.

Ci fu un lungo silenzio tra le due.

-Cosa vuoi fare ora?

-Proprio non lo so Will. Ho appena “ritrovato” mia madre, non so se sono pronta a cercare mia sorella, sono stanca. Molto stanca.

Lo era davvero. Buffy non se ne era resa conto fino a quando non lo aveva detto, ma ora si accorgeva di essere sfinita. Già sostenere quella conversazione era un sforzo mentale non indifferente.

-Buffy torna a Sunnydale. Ci sarà tempo per cercare tua sorella. Non ti preoccupare.

-Non so Will, ho paura che sparisca. Ho paura di non vederla mai. Ed è la mia unica famiglia.

La strega sentiva una sorta di terrore nella voce di Buffy, e non era mai accaduto. Willow sapeva che per, quanto forte come cacciatrice, personalmente, in tutto ciò che riguardava le emozioni, Buffy era fragile come un cristallo. Ma la sua amica non lo aveva mai mostrato, mai così apertamente.

-Buffy, ascoltami. Ora tu prenoti un biglietto di ritorno per Sunnydale, per oggi stesso. Poi prepari i bagagli e vai a prendere il pullman. In viaggio ti fai un paio di ore di dormita ed io ti aspetto alla stazione quando arrivi. Chiaro?

Avrebbe potuto dire di no.

-D’accordo, sarò lì per le nove.

 

 

 

Inghilterra, Cornovaglia.

 

 

 

Miss Parker parcheggiò la berlina grigia di fronte all’imponente villa, o forse era un palazzo?, tra altre due macchine. Spense il motore e rimase per un attimo ancora dietro il volante cercando di ricordare perfettamente tutto quello che Faith le aveva spiegato sul concilio e sugli stessi osservatori, informazioni da cui dipendeva la sua stessa vita, e raccogliendo le sue energie per affrontare tutto quello che avrebbe trovato.

Afferrò la ventiquattrore che aveva acquistato e fatto un respiro profondo per scacciare inquietudine e secondi pensieri, aprì lo sportello scendendo dall’auto. Con cura meticolosa si sistemò la giacca del vestito che indossava e si incamminò a passo deciso verso l’ingresso del monumentale edificio, che, lo doveva ammettere, era davvero bello.

Il portone di legno era aperto, come Faith le aveva accennato nella camera di motel dove si erano fermate prime per prepararsi. Senza rallentare il passo e dimostrando una sicurezza che non possedeva, superò il posto di guardia alla sua sinistra senza degnare di uno sguardo gli uomini che sedevano dietro la scrivania, impegnati a guardare i monitor della sicurezza. Molte telecamere erano state piazzate nel parco che circondava la villa e lungo tutto il perimetro dell’edificio stesso. Ogni ingresso era sorvegliato.

Resistendo alla tentazione di voltare la testa per studiare meglio l’androne che stava attraversando, limitandosi a valutare con gli occhi le altre, indaffarate, persone che le passavano accanto cercando di individuare in anticipo eventuali pericoli, si diresse subito verso la biblioteca.

Imboccò il primo corridoio sulla destra dell’ingresso, percorrendolo, si accorse che i rumori di voci e di passi divenivano sempre più lontani e discreti, fino a quando raggiunse un secondo portone di legno intarsiato, accolta da un silenzio quasi completo.

Miss Parker si rilassò appena, aveva trovato la biblioteca senza perdersi o fare brutti incontri. Si girò e si diresse verso il bancone dove si trovavano tre bibliotecari intenti chi nel classificare libri, chi nel riportare dati nel sistema informatico.

Si avvicinò al bancone ed attese in silenzio che qualcuno venisse a parlare con lei. Faith le aveva spiegato che gli osservatori anche se in genere educati, sono decisamente pieni di sé, soprattutto i più giovani. Si sentivano come appartenenti ad una qualche segreta ed importante casta e si comportavano di conseguenza. Faith era stata addirittura cristallina su questo punto, chiarendole che per gli osservatori nessuno era pari a loro e che la cosa che loro veneravano di più era la conoscenza. Per natura Miss Parker non avrebbe faticato a comportasi in maniera arrogante e presuntuosa.

La più giovane dei tre, lasciando perdere il computer, le si avvicinò dopo pochi secondi. Bisbigliando le chiese cosa volesse.

-Mi servono tute le informazioni disponibili su Catherine Parker.

La ragazza ritornò al computer e digitò il nome da ricercare sulla tastiera. Al comparire della schermata successiva rimase un po’ sorpresa, o così sembrò a Miss Parker che la guardò  interrogativamente. La giovane accortasi dell’espressione della donna, ricompose il suo volto in una severa maschera, come scacciando una fastidiosa emozione che l’avesse assalita inaspettatamente.

Fece stampare un foglio dalla silenziosa stampante laser praticamente invisibile al di sotto del piano della scrivania e lo porse a Miss Parker, senza sorridere e senza provare ad essere gentile. Non che prima si fosse mostrata espansiva, ma almeno si degnava di fingere di essere educata.

-Questo è tutto quello che abbiamo in archivio su Catherine Parker. -Probabilmente aveva dovuto lavorare per anni prima di riuscire a rendere la sua voce così atona, mortificante ed insignificante insieme. Era un lavoro ben fatto. Fece una breve pausa per respirare attraverso i denti praticamente digrignati, se quello era il termine giusto, prendendo appena una morso d’aria. - Le ricordo che i Diari degli Osservatori sono libri di consultazione e non possono essere dati in prestito. E’ pregata di non rimanere nella sala di lettura riservata ai dirigenti del consiglio. Faccia attenzione a non rovinare i libri, si tratta di preziosi manoscritti.

Miss Parker ebbe la certezza che quell’ultima frase, in quel luogo, fosse una pesante forma di insulto. Si chiese quale fosse, se ci fosse stato, il giusto modo per ribattere. Quasi propensa a rispondere all’impiegata qualcosa sulla falsa riga di “Sono un’Osservatrice”, le fu risparmiata la scelta. La ragazza, senza degnarla di una seconda occhiata, né dandole possibilità di replica, si era voltata ed era tornata al proprio lavoro.

 

 

 

Nel parco del palazzo che ospitava il Concilio degli osservatori si trovavano alcuni dei più vecchi e maestosi alberi dell’intera Cornovaglia. Molti amanti della natura avrebbero dato il braccio destro per poter passeggiare fra quelle meraviglie.

In cima ad uno di essi, una semplice ombra fra tante, impossibile da distinguere per un osservatore casuale e difficile da scorgere a qualcuno che non sapesse esattamente dove cercare, c’era Faith. La cacciatrice indossava una tuta da commando nera completa di passamontagna, che la rendeva irriconoscibile e praticamente invisibile nella penombra creata dal fogliame.

Tranquillamente appostata e perfettamente immobile alla biforcazione di uno dei più grandi e frondosi rami dell’albero su cui si trovava, Faith aspettava pazientemente il contatto radio di  Miss Parker, che avrebbe segnalato il raggiungimento del primo obbiettivo della missione.

Il ruolo della cacciatrice in questa operazione era di semplice supporto. Una volta che Parker fosse riuscita a trovare quello che cercava e si fosse allontanata dall’edificio, lei sarebbe penetrata all’interno, dove avrebbe distrutto tutti i nastri della sorveglianza e creato abbastanza caos da rendere difficile identificare sia lei che Miss Parker.

Sarebbe stata una missione semplice se non per alcune pesanti limitazioni. Primo, nessuno doveva lontanamente sospettare che lei fosse una cacciatrice. Anche possedendo un alibi come il suo, sarebbe bastato un solo sospetto per farla finire in un vicolo con un proiettile alla nuca, e nessuno lo avrebbe rimpianto. Perciò non avrebbe potuto usare le sue “facoltà” speciali. Secondo, non sapeva dove si trovasse la sala di controllo e l’avrebbe dovuta rintracciare in fretta, prima che l’allarme fosse scattato. Non voleva tutto l’esercito della sicurezza sulle sue tracce. E quelle era un’importante incognita. L’ultima condizione, facoltativa, era limitare le perdite degli avversari, cercare di non lasciare troppi cadaveri sul campo, non voleva creare martiri da vendicare ne avere un esercito rabbioso sulle proprie tracce. Il suo scopo era indebolirli tanto da non far loro commettere mosse azzardate, tipo organizzare un inseguimento.

Sorvegliare quel posto si stava rivelando dannatamente noioso. Uno sguardo d’insieme all’intero campo visivo, smettere di respirare per un secondo in modo da poter sentire il minimo rumore proveniente dalle sue spalle, controllare che le telecamere compissero il loro regolare giro senza fermarsi per inquadrare determinati punti più a lungo del previsto, una veloce occhiata al prato che si stendeva poco dinanzi a lei ed infine una minuziosa perlustrazione degli alberi dal bosco.

Il tutto ripetuto infinite volte.

Era una bella giornata, soleggiata come poche in Cornovaglia, e questo dava un altro vantaggio a Faith, il contrasto luce-ombra sarebbe risultato più netto rendendola completamente invisibile. Era già appostata da cinque minuti quando Miss Parker attivò la propria ricetrasmittente.

La prima parte della missione era andata a buon fine. Passarono altri minuti ed il tempo, inteso come un succedersi di secondi, cominciò a perdere significato diventando una semplice ripetizione degli accurati schemi di sorveglianza. La cacciatrice continuava a tenere sotto controllo tutto il suo campo visivo senza notare alcuna anomalia né ricevendo alcun allarme da parte di Miss Parker.

Eppure Faith sentiva uno strano presentimento di pericolo. Aveva la netta impressione che questa volta i guai sarebbero venuti a cercare lei e non il contrario. Come sempre, dando ascolto al suo istinto, che l’aveva già salvata innumerevoli volte, fece alcuni preparativi: slacciò il fodero del suo coltello da lancio e controllò caricatori e silenziatori di entrambe le Beretta lasciando una delle fondine di sicurezza aperta.

 

 

 

 

Avviandosi lungo l’ampio corridoio per raggiungere la sala di lettura riservata ai dirigenti del consiglio, Miss Parker continuò a chiedersi il perché della reazione della ragazza all’ingresso. Cosa c’era di tanto speciale nella schermata relativa a Catherine? Sulla lista che le aveva dato apparivano solo tre testi, tutti segnati come reperibili nella sala vecchia, quella dove si stava dirigendo, e Miss Parker non poté fare a meno di chiedersi se ci fossero altre informazioni sulla madre, magari classificate top secret o qualcosa del genere.

Che la ragazza si fosse accorta che lei non era un’osservatrice? No, altrimenti avrebbe chiamato le guardie della sicurezza che aveva visto all’ingresso. E non lo aveva fatto. Oppure avrebbe fatto scattare un allarme e lei si sarebbe trovata circondata da decine di persone.

Miss Parker, guardandosi intorno con attenzione, prestando particolare cura nell’individuare persone “sospette”, vide sul fondo del corridoio alla sua destra, lontano, delle porte con la targhetta “bagni”. “…Vasta biblioteca pavimentata e rifinita in marmo con servizi annessi…” pensò ironicamente mentre si dirigeva da quella parte.

Entrò nel bagno delle signore, una piccola stanzetta rifinita, anche questa, in marmo rosa con gusto ed eleganza. Di certo gli osservatori non si facevano mancare nulla, “Ma dove prendono i soldi?”, ignorò la domanda che le era appena venuta in mente, non era un impiegato delle tasse venuto per un controllo della dichiarazione dei redditi, e queste erano cose che non la riguardavano.

Imbrigliando i suoi pensieri a forza, concentrandoli soltanto sul lavoro che stava per fare, cominciò a controllare la stanza in modo da notare eventuali telecamere o microfoni. Non ne trovò. Sicura che non la osservassero tirò fuori dalla ventiquattrore una piccola ricetrasmittente che si fissò all’orecchio appuntandosi il microfono al bavero della giacca, per poi sintonizzarla sulla frequenza che avevano scelto prima insieme a Faith. Avevano deciso di mantenere il silenzio radio, da rompere solo in caso di emergenza. Per la natura stessa del piano, ognuna aveva la propria missione e non poteva contare sull’aiuto dell’altra.

Praticamente loro erano ai due estremi dell’edificio, su piani diversi, sarebbe stato laborioso raggiungersi a vicenda, considerando che definire le mappe che avevano del posto incomplete e frammentarie, era essere ottimisti.

Con la ricetrasmittente accesa, appena fastidiosa a causa del leggero ronzio di sottofondo del canale, Miss Parker raggiunse la sala contenente i libri. Ammirò, anche se non era una studiosa, le due vaste collezioni di libri della stanza. Lungo gli scaffali, altissimi e lunghissimi, dall’aria molto antica, come il resto del palazzo, mancavano diversi volumi, finestrelle scure tra dorsetti di pelle e caratteri dorati.

Parker pregò che quelli che cercava fossero ancora in quella sala. In caso contrario avrebbe dovuto sprecare tempo prezioso per trovare quei libri. Perché lei li avrebbe trovati anche a costo di cercare tra tutti i tomi che gli studiosi stavano consultando al momento, in quella biblioteca, arrivando, se necessario, a strapparglieli con la forza.

Ma era stata fortunata. I testi che comparivano sulla lista erano lì. Manovrando con attenzione la scala di legno dai larghi pioli (per una volta non dall’aspetto antico ma piuttosto nuovo e dall’aria robusta…), facendola scorrere senza rumore lungo gli appositi binari di ottone, collezionò tutti e tre i libri in pochi minuti. Nelle copertine di pelle erano davvero belli, ma anche pesanti, come si accorse mentre li trasportava verso un posticino tranquillo, lontano da quella lussuosa sala.

Si sedé in una comoda poltrona imbottita e prese il primo dei tre, rilegato in pelle rossa “Cronaca degli Osservatori 1950-2000”. A quel che diceva il titolo quella raccolta doveva ancora essere completata.

Cominciò a sfogliarne le pagine, perdendosi tra i lunghi elenchi di demoni, osservatori addestrati e deceduti, azioni decise dal concilio e gesta di cacciatrici.

 

 

 

 

 

Washington, U.S.A.

 

 

 

 

Il capo si accomodò sulla poltrona di pelle nera ed alzò una specie di lama rituale dorata per poi poggiarla, sguainata, di fronte a sé, con la lama rivolta verso il centro del tavolo attorno al quale i suoi associati, in doppio petto scuro e cravatta, sedevano su comode poltrone. Sarebbe potuta sembrare la riunione dei manager di una qualsiasi multinazionale. Ma non era esattamente così. Inizialmente questa era stata una setta, una setta religiosa orientale, anche se ora era aperta a tutti quelli che venivano ritenuti “adatti”.

Il precedente ordine religioso era diventato un club esclusivo in cui potevano entrare solo persone influenti, allo scopo di diventarlo di più, di spalleggiarsi a vicenda, di raggiungere posti sempre più importanti e soprattutto di coprire i mezzi illegali con cui ci arrivavano.

Giocavano con regole tutte loro. L’omicidio non era troppo, ed alcuni membri erano sospettati di cannibalismo. Nessuno dei loro compagni se ne era mai accertato, né aveva voluto farlo, del resto anche questa “pratica” era accettata in questo “club”. Per dirla tutta, i membri di questa setta, una volta almeno, erano tutti cannibali. La tradizione si era persa col trascorrere del tempo, era diventata meno frequente, poi rara, ed infine era caduta nell’oblio.

Non erano tantissimi quelli che potevano sedere attorno a quel tavolo, saranno stati una quarantina, ma erano potenti, molto potenti.

Quella di oggi era una delle annuali riunioni plenarie e mancavano solo due membri, trattenuti da altri inderogabili impegni. Sarebbero stati aggiornati delle decisioni prese successivamente. Si trattava di un raduno segreto, nessun esterno sapeva che quella riunione era stata fissata, né perché, i membri erano ufficialmente a dei congressi fasulli assieme ai loro normali colleghi.

L’incontro era stato organizzato in una delle tante sale da conferenza della capitale americana, anonima come le migliaia di altre, per le nove di sera. Sarebbe stata una riunione importante, si dovevano discutere degli argomenti di particolare importanza, si doveva decidere che interventi programmare per l’anno successivo.

In ogni caso sarebbe stata la loro ultima riunione.

La porta della stanza si aprì. Il capo, un uomo smilzo sulla quarantina, capelli lunghi, scuri, si limitò ad alzare un sopracciglio all’inaspettata interruzione. Non sembrava eccessivamente seccato od altro, probabilmente pensava che uno degli altri due membri fosse riuscito a liberarsi ed ad arrivare alla riunione in tempo.

Invece, nell’ampia ed elegante sala, entrò una donna castana avvolta in un lungo cappotto crema completamente sbottonato. Un’aurea di serenità si irradiava da lei, quasi conoscesse la vera pace interiore. Sembrava un angelo, un’apparizione divina che non apparteneva a quel mondo terreno.

Furono pensieri che attraversarono la mente di molti degli uomini presenti in quella stanza. Questo almeno fino al momento, un istante dopo il suo ingresso, in cui lei estrasse due pistole dalle fondine fissate alle sue anche.

Estrarle e cominciare a sparare fu un unico, elegante, gesto. Eterea, continuava a sembrare un angelo.

Un angelo della morte.

Molti non fecero in tempo a reagire.

Su trenta colpi esplosi dalle due Berette 92F ne andarono a segno ventitré, con altrettanti morti. I corpi si inarcavano, poi cadevano, senza rumore mentre i silenziatori delle pistole sembravano assorbire completamente, facendolo scomparire come mai esistito, l’orrore causato dalla morte.

Mentre la donna cambiava rapidamente i caricatori delle armi ormai scariche, sempre con gesti lenti, eppure dolcemente fluenti, il panico scoppiò, dilagando nella sala.

Il silenzio di pochi istanti prima si trasformò in caos.

Le comode poltroncine furono rovesciate ed i sopravvissuti si alzarono, urlando in preda al panico. Non sapendo dove andare scapparono lontano da quella donna, da quella portatrice di morte, cercando di sfuggire alle pallottole, accalcandosi contro i vetri panoramici della sala alla ricerca di un’uscita secondaria, che non esisteva, o nascondendosi tra i corpi senza vita sotto il tavolo.

La donna, che non sembrava neanche respirare, bloccava l’unica via di fuga, la maestosa porta di legno a doppia anta e dalle maniglie di ottone dorato alle sue spalle. Un istante dopo, le pistole ricaricate e nuovamente puntate, ricominciò a sparare.

In pochi si resero conto che quella stanza stava per diventare un mattatoio, che stavano per morire, non pensavano, non potevano farlo con l’orrore che li circondava, e cercavano inutilmente, senza riflettere, un riparo dai proiettili mentre i morti aumentavano sinistramente.

Le loro menti sconvolte dalla paura non si soffermarono a chiedersi chi fosse quella sconosciuta, né perché li avesse attaccati in questo modo, né come avesse fatto a sapere della loro riunione, né come avesse superato il servizio di sicurezza dell’edificio. Nessuna, tranne una.

I loro istinti primordiali si erano risvegliati e li dominavano, cancellando completamente la loro razionalità. Più forte dell’istinto di sopravvivenza era la paura ciò che li guidava ora, trasformandoli in esseri senza pensiero, per ironia in prede ancora più facili da cacciare. Da abbattere.

L’unico a rimanere tranquillo in mezzo alla baraonda, agli urli terrorizzati ed ai gemiti di chi era già stato colpito, fu il loro capo. Rimase seduto immobile ad osservare la morte dei suoi soci mentre si chiedeva chi fosse quella donna e perché fosse lì. No, lui non aveva paura, ed aveva ragione a non provarla. Lui non poteva morire.

Sorrise a vedere l’ultimo degli altri cadere per non rialzarsi, mentre una piccola parte della sua mente si chiedeva, quasi oziosamente, perché la donna non gli avesse ancora sparato. Era un bersaglio facile, eppure non era stata sfiorato da neanche un proiettile. Si rispose che forse le serviva vivo.

La donna smise di sparare e si avvicinò all’uomo rimanendo in silenzio. La sua camminata, come tutti i suoi altri gesti, era elegante quanto letale. La stanza, dopo il rumore delle urla di dolore e delle sedie che si rompevano, accompagnati dalle esplosioni soffocate dei proiettili, sembrava come rimbombare ai passi leggeri dell’assassina.

C’era troppo silenzio. L’uomo cominciò quasi a preoccuparsi, una sensazione di rovina imminente dilagò nella sua mente assieme a della paura. Era tanto che non provava paura.

Raggiunto il tavolo di legno al centro della stanza, la donna posò le due pistole lontano dalla portata dell’unico superstite per poi squadrarlo da capo a piedi, studiandolo attentamente, minuziosamente, con i suoi occhi che sembravano vedere l’anima. Il disprezzo che provava era evidente sul suo volto.

-Così tu saresti il capo di questa setta?

Lo disse con sufficienza.

-Si. Cosa vuoi da me? Tu non puoi uccidermi. Nessuno può farlo. Non hai potere su di me.

Le rispose tronfio e strafottente. Stupore e sbalordimento nel volto e nella voce di lei, evidentemente falsi. Lui se ne rese conto e la paura incorporea divenne una morsa allo stomaco.

-Cosa sei? Un immortale?

Il ghigno di lui si fece più evidente. Si rilassò e il terrore quasi scomparve. Aveva vinto. Quella donna castana non poteva fargli nulla. Non poteva sapere che quello che aveva detto era vero. Lui era un immortale. Era nato nel 1920 ed ora, dopo più di settanta anni, ne dimostrava solo quaranta, l’età in cui l’avevano “ucciso” per la prima volta.

Improvvisamente, in un solo attimo, qualsiasi emozione scomparve dal volto di lei. Semplicemente, come cancellate, mai esistite, tutte le emozioni, compreso il disprezzo di poco prima, non erano più.

Quel volto era tornato ad essere di nuovo la fredda efficiente maschera che indossava quando era entrata. Ignorando le pistole che aveva di fronte, la donna estrasse una lunga spada dal cappotto crema.

Con un gesto raffinato e perfetto, affinato in secoli di esperienza, tagliò di netto la testa dell’uomo che la fissava terrorizzato, le pupille sbarrate, ora che aveva capito che lei conosceva il segreto.

Che lo conosceva davvero, che quello sbalordimento era falso, ma perché si trattava di una caricatura di una reazione superata, non di incredulità al fatto.

La testa si staccò dal collo per poi cadere a terra, il rumore attutito dalla moquette, gli occhi ancora spalancati. La donna non la degnò di un solo sguardo.

Liz, con un fazzoletto preso da uno dei corpi, pulì la spada dal sangue che l’aveva macchiata per poi riporla all’interno del cappotto, scuotendo la testa, delusa. Si aspettava un vero combattimento.

Era raro avere informazioni su un altro immortale. In genere conducevano vite appartate. Che gli immortali facessero sfoggio delle loro spade, che per tradizione e non solo adoperavano, o del fatto che avevano vissuto per secoli, era insolito, quasi paradossale.

E questa volta che aveva avuto una soffiata sulla presenza certa di uno di loro…

“Che idiozia. Scopri di essere immortale, qualcuno ti dice che l’unico modo per ucciderti è tagliarti la testa e tu cosa fai? Te ne vai a spasso disarmato, aspettando pazientemente che il primo che passi, che conosca la tua vera natura, ti ammazzi. Quelli che sono nati nel novecento sono proprio stupidi. Non si sono mai chiesti perché noi “antichi” abbiamo perso tutto questo tempo per imparare la scherma? Giusto per onorare una stupida tradizione? Secondo loro come abbiamo fatto a sopravvivere per secoli a nostri simili ed a demoni di varia natura? L’idiozia sta dilagando. Quello stupido si meritava di morire. Un vero peccato però, speravo in un buon combattimento.”

 

 

 

Inghilterra, Cornovaglia.

 

 

Il tecnico nella sala controllo cominciò a cercare una frequenza libera su cui trasmettere con la squadra di sorveglianza che stava per montare in servizio. Il loro addetto alle comunicazione attendeva, impaziente ma rassegnato, oltre la porta a vetri che isolava il centro controllo dalle altre stanze.

Il protocollo di sicurezza lo obbligava a scegliere ogni volta una frequenza diversa su cui trasmettere, in modo da rendere più difficili le già improbabili intercettazioni. Anche ritenendo del tutto inutile la procedura, Matt la eseguiva sempre con il massimo scrupolo per il solo fatto che faceva parte del protocollo. Così gli era stato insegnato e così faceva. Sempre attenersi al protocollo.

Oggi aveva deciso di adoperare una delle frequenze meno utilizzate in assoluto, quelle quasi al limite dello spettro. Di tanto in tanto lo faceva, più che altro per noia, che per rendere più difficili le intercettazioni. Usare quelle o qualsiasi altra era fondamentalmente uguale.

Saltando di canale in canale gli sembrò di notarne uno già usato. Incuriosito, controllò quale squadra lo stesse usando, il tecnico del precedente turno non lo aveva avvertito della scelta, ne l’aveva annotata sul blocco di verifica. Non che dovesse farlo, ma in genere scelte simili si riferivano giusto per fare due chiacchiere. Forse James era semplicemente stato troppo stanco per ricordarsene, o per voler parlare. Dio sapeva se quei turni da otto ore erano massacranti. Facendo volare le mani sulla tastiera grazie alla sua esperienza, Matt stava per essere nominato capo tecnico del turno di notte, fece rapidi controlli.

Nessuna squadra stava usando il canale.

Eppure il segnale delle due trasmittenti sintonizzate proveniva dall’interno dell’edificio. Che si trattasse di un collegamento non autorizzato? Era assurdo solo ipotizzarlo, non ci sarebbero stati motivi per fare una cosa simile.

Rimaneva quindi una sola possibilità.

 

 

 

Faith si sentiva leggermente nervosa, aspettandosi qualcosa quando nulla accadeva da più di un’ora, continuando ad essere costretta alla quasi completa immobilità senza null’altro da fare che continuare a sorvegliare la zona circostante.

Sarebbe stato il momento ideale per accendersi una sigaretta se non fosse stato per tre ottimi motivi: Primo, fumare l’avrebbe distratta; secondo, lei non fumava; terzo, c’erano dei simpatici commando che si dirigevano verso di lei. E non sembravano avere intenzioni pacifiche.

Li individuò non appena entrarono nel suo campo visivo. Di tanto in tanto tra i rami e le foglie del bosco che la circondava vedeva delle macchie nere che non erano affatto ombre. Contò due gruppi di persone, in totale cinque uomini, che cercavano di accerchiarla, evidentemente per spingerla verso il palazzo stesso, dove, con ogni probabilità, la stavano aspettando altri addetti alla sicurezza.

Rimanendo un attimo ancora in cima all’albero, Faith li studiò per qualche secondo mentre decideva quale dei due gruppi attaccare per primo. In capo a dieci secondi si sarebbero trovati a meno di cinquanta metri da lei. Si stavano muovendo molto bene e velocemente, senza provocare ancora alcun rumore percettibile. Con un po’ di fortuna avrebbero anche potuto coglierla di sorpresa.

Non era una semplice perlustrazione, quegli uomini si muovevano guardinghi attenti a coprirsi sempre a vicenda, senza mai distrarsi, in attesa di uno scontro che dovevano immaginare essere imminente. Erano a caccia, indubbiamente erano a caccia, peccato per loro che oggi Faith non avesse voglia di giocare alla preda.

La cacciatrice, anche se felice che ci fosse finalmente qualcosa da fare, non poté fare a meno di notare che entrambe le due squadre sembravano sapere dove si trovava lei, con una buona approssimazione. Le si stavano dirigendo direttamente contro, e non aveva l’aria di essere una cosa casuale.

Dovevano averla rintracciata. E c’era un unico modo per cui potevano averlo fatto, la trasmittente.

Quando aveva deciso di portarla Faith sapeva che sarebbe stato un possibile pericolo ma aveva sperato nella sua buona stella. Che evidentemente oggi si era eclissata.

Senza perdere tempo ad imprecare contro la sfortuna, la cacciatrice decise di andare incontro al gruppo più numeroso, quello che si stava avvicinando da destra. Tolti loro avrebbe sistemato gli ultimi due con calma.

Scese con un salto dall’albero e scomparve nel sottobosco, mimetizzandosi fra le ombre, cominciando a dirigersi verso di loro lungo un leggero arco in modo da raggiungerli ad un fianco e coglierli di sorpresa.

Le bastò poco meno di un minuto, in quella che poteva essere detta una corsa leggera, alla massima velocità che Faith poteva raggiungere senza fare il benché minimo rumore, per raggiungere i commando, certa di non essere stata individuata.

Prima ancora di vederli li sentì. Per quanto fossero bravi, i loro stivali, calpestando le foglie secche e gli arbusti sparsi al suolo, producevano un rumore ben riconoscibile. Faith, nascosta nell’ombra di uno dei tronchi appena dietro la prima fila di alberi rispetto al sentiero che stavano percorrendo, li osservò da vicino per qualche secondo, studiando una tattica efficace per toglierli di mezzo tutti e tre senza dare loro la possibilità di richiamare l’attenzione degli altri due. Possibilmente avrebbe evitato di ucciderli. Stavano solo facendo il loro lavoro in fondo e dalla loro morte sarebbero venuti solo guai.

I commando si muovevano con tranquilla attenzione, i mitra stretti nelle mani, l’indice pronto sul grilletto. Erano disposti in una formazione a cuneo, la punta in avanti, ad aprire la strada. Un buona disposizione per evitare di essere colti di sorpresa. Sarebbe stato difficile toglierli di mezzo tutti senza dar loro la possibilità di dare l’allarme. Con una scrollata di spalle mentale Faith uscì dal cono d’ombra in cui era appostata. Inutile pensare a come sarebbe potuto essere altrimenti, aveva quelle carte e avrebbe giocato con quelle al meglio. Come sempre.

Senza fare rumore, sfilò il coltello da lancio dalla custodia che portava fissata alla coscia sinistra. Lo prese per la lama, soppesandolo inconsciamente mentre cambiava la presa delle dita, abituandosi al peso e alla posizione del centro di equilibrio, era una buona arma, perfettamente bilanciata, l’acciaio tagliente come un rasoio. Le bastarono pochi istanti e fu pronta a lanciarlo con precisione millimetrica, come se quel coltello le appartenesse da sempre.

Tenendosi pronta a tirarlo, impugnò con la sinistra una delle pistole. Poi continuò ad avvicinarsi ai commando da dietro, con passi felpati, dirigendosi verso quello sulla sua destra, il più vicino a lei della coppia in retroguardia.

 

 

 

 

Era arrivata alla fine della vita della madre. Una riga. Morta durante l’incarico più prestigioso che poteva ottenere. Da quello che aveva potuto leggere finora era chiaro che la madre era stata praticamente esiliata a Boston a causa di una lotta di potere. Da quanto aveva letto, dopo alcuni tranquilli anni passati alla sezione ricerca e sviluppo, Catherine era stata trasferita alla branca psicologica dell’addestramento. Lì si era opposta a dei progetti molto importanti, sostenuti dall’allora vicedirettore ai progetti speciali Travers, come riportava una nota di una sua denuncia. Pochi mesi dopo fu accusata di abuso di potere. Era stata messa sotto processo, minacciata di radiazione dall’ordine degli osservatori.

Durante il procedimento, Marlin, supervisore della zona americana, l’aveva voluta come sua diretta collaboratrice nella zona di Boston. Una specie di esilio. E lì in qualche modo era riuscita dopo anni di impeccabile lavoro, cadute tutte le accuse nel dimenticatoio, ad essere assegnata all’addestramento di una cacciatrice.

Poi c’era stata la sua morte.

Miss Parker chiuse il libro e fissò il vuoto per qualche secondo. Poi aprì il secondo, l’Indice dei Diari degli Osservatori. Lo scorse velocemente più per non tralasciare nulla, che sperando veramente di trovare qualcosa. Arrivata al nome di Catherine Parker notò un’incongruenza. C’erano segnati due Diari a suo nome. A fianco del secondo una nota che diceva “scomparso”.

Incuriosita Miss Parker si alzò dalla sedia e tornò nella sala privata. Salì sulla scala, che era rimasta dove l’aveva lasciata lei prima, e notò che sullo scaffale lo spazio vuoto per il secondo diario della madre non era stato lasciato. Scomparso significava perso, distrutto, inesistente o cosa?

Scese dalla scala a pioli, dirigendosi di nuovo verso il tavolo dove aveva lasciato libri e valigetta. Ora tutto quello di cui aveva bisogno era una fotocopiatrice. Avrebbe fatto copie delle pagine essenziali dei volumi consultati per poi rimetterli a posto.

Aveva notato una fotocopiatrice una in una piccola stanzetta sulla destra, poco oltre la macchinetta del caffè dove era andata un mezz’ora prima. L’apparecchiatura era perfettamente funzionante come aveva constatato.

In quel momento, mentre raccoglieva in fretta le sue cose Miss Parker vide con la coda dell’occhio un uomo vestito di scuro, ma non in giacca e cravatta, avvicinarsi verso di lei. Merda, dovevano averla scoperta. Quello che si stava avvicinando aveva tutta l’aria dell’addetto alla sicurezza. Fingendo di non averlo notato Parker continuò a sistemare le proprie carte all’interno della ventiquattrore, chiudendola poi con uno scatto secco delle due serrature gemelle quando ormai l’altro era praticamente arrivato.

L’uomo si fermò di fronte a lei studiandola appena per un secondo.

-Mi segua.

-Scusi, cosa sta succedendo? Non capisco cosa possa volere da me.

Chiese ingenuamente l’americana. L’altro rispose con tono stanco.

-Mi segua, è un ordine.

Accennando ad un si con la testa, Miss Parker afferrò la maniglia della valigetta. L’uomo fece per voltarsi per farle strada.

A metà della torsione fu colpito violentemente dallo spigolo in acciaio lucido della ventiquattro ore, appena sotto il mento. La testa gli scattò all’indietro sbilanciandolo ed intorpidendone le reazioni. Parker, approfittando del vantaggio, gli diede un calcio allo stomaco, facendolo piegare dal dolore, per poi colpirlo una seconda volta alla testa, alla tempia, facendolo svenire.

Respirando affannosamente e sorvegliando la guardia stesa a terra, Miss Parker attivò la ricetrasmittente per comunicare le novità a Faith.

-Copertura saltata.

La risposta fu immediata, di sottofondo alle parole calme della cacciatrice però, Parker poteva anche sentire i rumori di lotta.

-Trasmissione radio compromessa e localizzata. Ci vediamo al punto di raccolta, chiudo.

Merda, questo non se lo erano aspettate. Non avevano immaginato che rintracciassero tutti i segnali radio della zona. Con un moto di stizza Miss Parker si tolse l’apparecchiatura e la gettò a terra, schiacciandola con il tacco della scarpa.

Poi, afferrata la valigetta e i due libri più interessanti si chinò sulla guardia svenuta. Lo perquisì rapidamente prendendo a “prestito” la pistola dell’uomo. Riposta l’arma nella cintura dei pantaloni si allontanò dalla guardia verso la  fotocopiatrice cominciando a pensare ad un altro piano.

 

 

 

La soluzione di dividere la propria squadra in due gruppi in modo da accerchiare gli intrusi, ed evitarne infiltrazioni o fughe, era stata la migliore risposta, dal punto di vista tattico, che Regan potesse adottare.

I suoi uomini conoscevano il terreno ed avevano dalla loro il fattore sorpresa, inoltre lui era stato chiaro sul fatto di mantenere formazioni difensive fino al raggiungimento del contatto con gli avversari.

Lo stesso Regan, in squadra con Michel, il nuovo acquisto del suo gruppo, si stava avvicinando all’obbiettivo cautamente. Camminavano affiancati ma separati da un paio di metri, comunque sempre in contatto visivo, una delle migliori formazioni difensive.

Eppure l’ex seal non si sentiva a proprio agio a camminare in quel boschetto, che pure aveva attraversato, di pattuglia o non, decine se non centinaia di volte. Gli alberi alti e frondosi, ed il rado sottobosco, tanto dissimile a quello delle molte giungle che aveva visto, sempre così tranquillo, era inquietante. Come se ci fosse qualcosa di diverso. Qualcosa che non capiva, che lo metteva a disagio.

Continuando a guidare l’avanzata con movimenti agili, affinati ed ormai automatici dopo tanti anni di addestramenti e scontri, esaminando il terreno circostante di riflesso, lasciando che le informazioni filtrassero liberamente attraverso i suoi nervi, continuando a seguire il corso dei suoi pensieri senza paura di essere sorpreso.

Regan stava cercando di razionalizzare le proprie paure, di capire cosa lo stesse terrorizzando. No, niente lo terrorizzava. Niente lo terrorizzava. Ed allora cos’era quel brivido lungo la schiena? Lui non era terrificato, aveva paura, si, ma c’era sicuramente un motivo, e la paura ti aiuta a sopravvivere, se la sai usare.

Le ombre. Quelle pozze scure nelle quali non riusciva a vedere praticamente nulla. La sua vista non riusciva ad abituarsi a quella penombra, non con quel sole accecante che aveva deciso di splendere oggi. Erano così simili.

Così simili al buio di quella notte.

Quando non riusciva a vedere niente, non vedeva niente, riusciva solo a sentire. Sentire rumori che non c’erano, di cose che non erano mai esistite. E che avevano ucciso otto dei suoi dieci compagni.

Regan fece un respiro profondo. Doveva calmarsi. Non era più lì. Quello era un altro luogo, in un altro tempo. Lontano da lì. Di diecimila miglia e dieci anni. Si immobilizzò per un istante ad ascoltare il fruscio sommesso della trasmittente posizionata nel suo orecchio, gli era sembrato di sentire un clic nella trasmissione. Non ci sarebbe dovuto essere. Aveva ordinato il silenzio radio fino a che la prima squadra non avesse stabilito un contatto con il nemico.

Scrollò mentalmente le spalle e proseguì a camminare. I suoi pensieri si fecero silenziosi e lui ricadde in uno stato di passiva vigilanza.

Un rumore alla sua sinistra.

Rapido, senza pensarci, Regan si accucciò e puntò il suo mitra verso l’origine di quel suono, che individuò in una pozza di ombra a meno di due metri da lui. Un rumore di legno spezzato. Non c’era niente. Non aveva visto niente. Neanche un riflesso od un movimento. Forse era stato un ramoscello calpestato, oppure un rametto rotto da uno dei tanti scoiattoli del parco.

Si rialzò e ricominciò a camminare. Rilasciò per un istante l’indice della mano destra dal grilletto. Si sentiva le dita irrigidite ed il palmo sudato all’interno del guanto che portava. Si girò a guardare il suo compagno.

Il ragazzo si muoveva bene, attento e preciso. Stava imparando rapidamente.

Un altro rumore, più lontano stavolta. Quasi dritto davanti a lui ma oltre la diretta visuale. Un controllo.

Niente.

Era stato così anche quella volta. Falsi allarmi, decine di falsi allarmi. Aveva visto, sentito, i suoi compagni irrigidirsi alla ricerca di un bersaglio, senza mai trovare niente. Era come dare la caccia alle ombre. Forse era stato dare la caccia ad Ombre.

Poi uno di loro era caduto. Un coltello alla gola. Morto all’istante. Si erano innervositi. Nessuno aveva visto né sentito niente. E questo non era concepibile, al di là della morte stessa del loro capo squadra, un veterano con più di quindici anni di esperienza.

Quella notte, quella notte aveva provato il terrore puro, per la prima ed unica volta nella sua vita. No, non unica. Anche oggi era terrorizzato.

Quasi come se fosse un osservatore esterno si rese conto del suo respiro alterato, veloce e superficiale, il battito cardiaco che gli rimbombava nelle orecchie come un tamburo, il suo sguardo che si muoveva frenetico lungo tutto l’arco del suo orizzonte, non più metodico. Doveva calmarsi. Un respiro profondo, poi un altro. Andava meglio.

Si girò per guardare in faccia il francese che oggi, oggi, non allora, non c’era più allora, faceva squadra con lui. Voleva vedere un volto amico, occhi rassicuranti che conosceva.

Il ragazzo era in una di quelle zone d’ombra. Un attimo e ne sarebbe uscito. Le fronde degli alberi cominciarono a muoversi a causa di una leggera brezza. Un raggio di sole penetrò fra lo schermo di foglie e lo accecò completamente per un istante.

Troppa luce, ed il risultato era uguale a come se non ce ne fosse.

I suoi occhi lavorarono freneticamente per rimettersi a fuoco, per notare la sagoma familiare uscire da quella zona d’ombra.

Due.

Erano due le sagome.

Ne rimase una sola, l’altra era scomparsa. Uno scherzo della vista, probabilmente aveva visto sfocato per un attimo e gli era sembrato di scorgere due figure al posto di una.

Eppure qualcosa non andava. Quella sagoma era troppo esile e bassa per essere quella di Michel.

Regan strinse il grilletto pronto a sparare.

Ma il suo mitra non fece mai fuoco.

Il seal era a terra, senza vita, ucciso all’istante, dal proiettile di pistola che lo aveva colpito al centro della fronte.

 

 

 

Aveva finito di fare le fotocopie della Cronaca in tempo record, le mancavano quelle del Diario. Miss Parker prese il libro tra le mani e cominciò a sfogliarlo rapidamente, alla ricerca di ciò che le interessava. Prima non aveva avuto tempo di controllarlo, né di leggerlo, di scegliere quali parte fotocopiare, ed ora avrebbe dovuto fare tutto di corsa. Guardò di nuovo il suo orologio e poi oltre la porta lasciata aperta. Erano già passati tre minuti da quando aveva steso la guardia. I suoi compari non dovevano essere lontani. Doveva sbrigarsi, ed ora che non aveva neanche più il contatto con Faith, non poteva che contare su se stessa. Non che la cosa la disturbasse, ma la verità era che si trovava in serio pericolo e lei si voleva togliere da quella situazione il più in fretta possibile.

Sfogliando le pagine del Diario si accorse che erano state scritte a mano. La calligrafia era ordinata e minuta, a tratti difficile da leggere a causa della grandezza ma sempre elegante. Quando la riconobbe ebbe un tuffo al cuore.

Quelle pagine erano state scritte tutte dalla madre.

Naturalmente non era di per sé sorprendente, era il suo diario, ma ultimamente Parker aveva cominciato a sentire di nuovo la mancanza della madre e si accorse che per lei, avere qualcosa scritto dalla madre, valeva molto.

Quel libro valeva molto.

E sarebbe stata pronta a pagare molto per averlo.

Ancora indecisa sul da farsi Miss Parker sentì il rumore di una serie passi provenire dal fondo del corridoio. Qualcuno stava correndo nella sua direzione. Senza pensare, Parker estrasse la pistola e si appiattì contro la parete, vicino alla porta, l’indice della mano destra sul grilletto.

I passi, avvicinandosi, rallentavano. Ora la persona in corridoio stava camminando lentamente, probabilmente con circospezione.  Miss Parker trattenne il fiato mentre faceva scattare la sicura della pistola. A chiunque fosse nel corridoio occorsero pochi altri secondi per raggiungere la stanza della fotocopiatrice e superarla senza degnarla di un’occhiata.

Troncando a metà il sospiro di sollievo, il cuore di Miss Parker prese a battere come un tamburo, mentre la donna si accorgeva di aver lasciato la fotocopiatrice accesa. E l’infernale macchina aveva appena deciso di lanciare lunghi e striduli bip per segnalare chissà cosa. Sembrava una bomba ad orologeria sul punto di esplodere.

L’effetto, per quanto riguardava la salute di Miss Parker, era lo stesso.

I passi, che avevano appena superato la stanzetta, si fermarono un istante, poi tornarono indietro.

Un attimo dopo una figura scura superò la porta puntando quella che aveva tutta l’aria di essere una pistola, verso la fotocopiatrice. Gli striduli bip continuavano ad intervalli regolari, attirando l’attenzione del nuovo arrivato sulla macchina stessa e sui libri poggiati lì sopra.

Parker non poteva permettersi che l’altro si muovesse ed agire di conseguenza alle azioni dell’individuo, non aveva tempo. Imprecando tra sé per la sfortuna che le era capitata tra capo e collo, ma naturalmente l’operazione non poteva filare liscia, sarebbe stato troppo bello, fece l’unica cosa possibile nella situazione. Anticipò le reazioni della guardia.

Aspettò un altro attimo che l’uomo, alto e massiccio, la superasse completamente, dandole le spalle, per poi sparargli un singolo colpo alla scapola destra. Il rumore dello sparo si propagò dalla piccola saletta all’immensa biblioteca dando vita ad interminabili echi. “Addio al silenzio ed alla speranza di non essere rintracciabile” sibilò nella sua mente Parker.

Sentendo il dolore quasi prima di rendersi conto del fatto che gli avessero sparato, la guardia si strinse la spalla ferita, lasciando cadere a terra, di riflesso, la pistola. Compiendo quasi senza pensare un giro su di sé, si trovò ad affrontare faccia a faccia Parker, che aveva ancora la pistola puntata contro di lui.

La donna lo squadrò freddamente prima di ordinargli di mettersi faccia al muro. L’addetto alla sorveglianza parve pensarci per un po’ prima di acconsentire. Aveva velocemente stimato che a causa della distanza dall’arma che lo minacciava ed il fatto che era ferito, ritrovandosi un braccio inutilizzabile, non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se avesse reagito.

Una volta che l’uomo fu faccia al muro con entrambe le mani in vista, Parker gli si avvicinò quanto bastava per dargli un deciso colpo in testa con il calcio della pistola, senza correre rischi inutili perdendo tempo a cercare qualcosa per immobilizzarlo. L’altro cadde a terra svenuto.

Il tempo.

Era quello il fattore critico di Parker.

Certo, Faith avrebbe attirato su di sé la maggior parte delle guardie, ma la maggior parte non sono tutte, e Parker doveva ancora trovare un modo per uscire di qui. Passare dall’ingresso principale non sarebbe stato salutare, doveva trovare un metodo alternativo. Un palazzo grande come questo doveva avere uscite secondarie. In sottofondo si sentivano ancora i fastidiosi bip della fotocopiatrice, ma il rumore non era registrato coscientemente dall’americana.

Dando le spalle alla guardia svenuta, la donna raccolse la pistola a terra, dello stesso tipo che aveva lei, e ne sfilò rapidamente il caricatore, forse un maggior numero di colpi a disposizione le avrebbe fatto comodo dopo, poi la gettò con noncuranza dall’altra parte della stanza. Stridendo lungo il pavimento di marmo l’arma si fermò contro la parete con un clangore metallico.

In un solo attimo Parker fu alla fotocopiatrice. Spense l’interruttore generale facendola finalmente tacere, poi raccolse velocemente i fogli stampati infilandoli nella sua valigetta assieme al Diario della madre, abbandonando le Cronache sul piano.

Aveva appena deciso di non lasciarsi niente di importante dietro, ed al diavolo le precauzioni che avevano deciso di seguire assieme a Faith.

Avrebbe affrontato le conseguenze dopo.

Con la valigetta stretta contro di sé e la pistola nascosta dietro, pronta ad essere usata di nuovo, Parker cominciò a correre lungo il corridoio alla ricerca di un’uscita.

Il tempo scorreva.

 

 

Los Angeles.

 

 

 

I sei uomini in nero si avvicinarono silenziosi ma rapidi all’imponente edificio. Era giorno avanzato e la speranza di passare inosservati nulla. Il mitra, una versione compatta del famoso uzi, stretto tra le mani guantate di nero ed il pesante zaino sulle spalle, corsero tenendosi bassi verso le posizioni loro assegnate alla base dell’edificio, cercando di rimanere il meno possibile allo scoperto.

Il tutto si risolse in meno di quindici secondi.

Raggiunto per primo il vicino all’angolo dell’hotel, con un rapido sguardo lungo la base dell’edificio, il comandante segnalò a gesti che la via era libera. Nessuna presenza ostile in vista e nessuna segnalazione dalla squadra di copertura, appostata sui tetti delle costruzioni vicine. Senza necessità di altri ordini i cinque che lo seguivano si divisero, andando a posizionare i propri zaini lungo le due facciate che erano state loro assegnate. All’altra metà dell’hotel ci avrebbe pensato la squadra Charlie.

Completato il lavoro, rimasero alcuni secondi presso gli zaini, accucciandosi alla base del muro, il mitra a coprire l’area dinanzi a loro. Non ci furono attacchi. Segnalarono l’ok a Richard, che si limitò ad annuire, azionando la trasmittente che portava all’orecchio, senza smettere di guardarsi attorno.

-Squadra Alpha. Completata fase uno. Permesso di ritiro.

Il click del cambio di trasmettitore e la risposta.

-Alpha, ricevuto. Confermo ritiro.

Di nuovo a gesti Richard richiamò i compagni, che ripiegarono ordinatamente, coprendosi a vicenda, verso il proprio minivan nero, parcheggiato dietro uno degli edifici adiacenti. Fu una corsa breve, altri quindici secondi allo scoperto attraverso il piazzale.

Per tutta l’azione non erano occorsi più di due minuti.

Al riparo del muro vicino al quale era parcheggiato il loro automezzo fu ristabilita la comunicazione con il controllo.

-Squadra Alpha in posizione.

-Ricevuto Alpha. Fase due.

Richard si appiattì contro il muro di mattoni, era caldo dopo la lunga esposizione al sole, mentre sentiva le cariche esplosive piazzate dai suoi uomini brillare. Dieci esplosioni quasi contemporanee. Lo spostamento d’aria fece suonare alcuni allarmi delle auto in sosta nelle vicine strade e ruppe i vetri degli appartamenti adiacenti all’hotel. Una volta posati schegge e pezzi di calcinacci, la squadra uscì dal riparo per tornare vicino all’edificio.

Era uno spettacolo terrificante e bellissimo. Alcune pareti dell’hotel erano come scomparse, lasciando vasti spazi vuoti, neri, altre erano in parte crollate sollevando una polvere grigia mista a detriti che si andava mischiando con le prime volute di fumo causate dagli incendi scoppiati.

Gli uomini in nero formarono, assieme ai colleghi della squadra Charlie, uno stretto cordone attorno all’edificio, in modo da non far scappare nessuno.

 

 

 

Tra le volute di fumo e le fiamme si materializzò una figura. Avvolta in una pesante coperta dalle tinte scure, correva verso l’uscita, la cui porta era stata scardinata dalla forza dell’esplosione.

La cortina grigia e quel plaid inzuppato di acqua impedivano di riconoscerla in alcuna maniera, anche se si stava avvicinando velocemente.

Ma i commando del concilio non erano qui per riconoscere, erano venuti per uccidere.

Aprirono il fuoco delle loro mitragliette uzi contro il superstite. Le armi crepitarono sinistramente nelle mani che le tenevano ferme nonostante i tentativi di sfuggire alla presa. Bastò una breve raffica, dalla durata di non più di due secondi, per far svanire nuovamente la figura nell’edificio invaso dalle fiamme.

Ad un gesto di Vivien i suoi uomini cessarono il fuoco, lasciando che le canne delle mitragliatrici continuassero a puntare verso il portone. Non sembravano mostrare segni di esitazione nello sparare contro individui non identificati.

E del resto c’era solo lui, il loro bersaglio, in quell’Hotel, che era la sua casa.

 

 

 

Appena aveva visto il familiare lampo uscire delle canne delle mitragliatrici Angel si era gettato fuori dalla linea di tiro, andandosi a riparare in una delle sale al piano terra, ormai completamente invasa dalle fiamme. Le pallottole lo superarono senza fare danno e si persero lungo il corridoio.

Angel non poteva negare che il suo, oggi, fosse stato un brusco risveglio. Aveva improvvisamente spalancato gli occhi, ritrovandosi a fissare un soffitto che aveva riconosciuto, era sdraiato nel proprio letto, ed il sonno era scomparso. Aveva avvertito che c’era qualcosa che non andava, che qualcosa stava per accadere, ne era stato certo. E quello che era accaduto pochi minuti dopo aveva dato conforma al suo istinto. Oh, lui non era certamente un veggente come Drusilla, né possedeva le premonizioni di Cordelia, ma non rimani vivo per più di due secoli senza riuscire a percepire che un pericolo imminente ti sta per colpire.

Ad Angel, una volta sveglio, era servito un istante per alzarsi e vestirsi e soltanto un altro attimo per realizzare che era ancora giorno inoltrato.

Fu in quel momento, quando si stava già muovendo per la stanza buia alla ricerca della fonte del disturbo, che erano avvenute le esplosioni. Qualunque fosse la natura degli ordigni fatta brillare, Angel sapeva solo che erano potenti. L’intero Hyperion aveva tremato e lui non si sarebbe stupito di apprendere che almeno alcune sezioni di muro erano crollate.

Investito dalla paura Angel avrebbe voluto solamente fuggire, ma il rigido autocontrollo che esercitava da tanto tempo su se stesso glielo aveva impedito. Rimase calmo, finchè l’odore di fumo e di bruciato che gli era appena arrivato alle narici, minacciò di farlo sommergere da un terrore atavico. Senza riflettere, aveva tolto velocemente una delle coperte dal suo letto (le teneva più che altro per figura, visto che in realtà non gli servivano) ed era corso in bagno per zupparla d’acqua assieme ai suoi vestiti.

Soltanto una volta che fu avvolto nel plaid nero uscì dalla sua camera per scendere al piano terra, per tentare di uscire da quell’inferno di fiamme che era ora l’albergo. Era corso lungo i corridoio rischiarati da quella sinistra luce rossiccia, che proiettava strane ombre lungo le pareti, mentre il calore aumentava rapidamente e l’aria si scaldava e riempiva di scintille, rendendosi tossica, quasi irrespirabile. Poi aveva fatto le scale, cercando affannosamente di raggiungere l’ingresso, continuandosi a tenersi basso ed allungando per quanto possibile la falcata.

Mentre intravedeva la momentanea salvezza attraverso il fumo, oltre la porta non c’erano le fiamme, ma lo aspettava il sole, Angel era stato salutato da quella scarica improvvisa di proiettili.

Ora era costretto in quella stanza, in cui il calore stava raggiungendo livelli insopportabili, a causa di quei commando appostati poco fuori l’ingresso.  Erano ancora lì, pronti, li sentiva. Doveva assolutamente trovare un’altra uscita. Non poteva uscire da quell’ingresso, se colpito da troppi proiettili sarebbe stato rallentato per poi morire a causa del sole.

Con la paura tenuta a bada ai confini del cervello, Angel stava faticosamente vagliando tutte le possibilità che gli rimanevano, e tra queste c’era il suicidio, per nulla al mondo sarebbe morto bruciato dalle fiamme.

In quell’istante, una parte del tetto, rosa dal fuoco, crollò, alzando nubi di cenere e scintille che si sparsero per tutta la stanza.

 

 

 

Inghilterra, Cornovaglia.

 

 

Superare le telecamere a circuito chiuso che sorvegliavano i vari ingressi senza farsi notare, era stato più facile del previsto. Il sistema di sicurezza non era poi così infallibile come le era sembrato. A Faith erano bastati pochi minuti per uscire dal boschetto, armata anche di una mitraglietta presa alle guardie, e raggiungere uno dei corridoi interni.

Superata la più vicina porta di servizio, lasciata aperta per incuria di qualcuno, la richiuse alle proprie spalle facendo scattare la serratura e poi si diresse verso il fondo del corridoio dove si trovava. Raggiunse una biforcazione e si orientò in base alle informazioni che possedeva.

Sapeva che doveva esserci un ascensore in fondo al corridoio, quello davanti a lei che andava verso l’ala nord dell’edificio, che l’avrebbe portata al livello uno. Dove si trovava la sala di controllo, al centro esatto della struttura.

Avere queste informazioni era stato relativamente facile. Era bastato un braccio dislocato per far parlare la giovane guardia che aveva stordito. Il ragazzo non avrà avuto una ventina d’anni, e non erano stati venti anni vissuti come i suoi. Si trattava dell’unico sopravvissuto di quelli che formavano la seconda squadra che aveva affrontato. L’altro, evidentemente più pericoloso, giaceva morto nel bosco, erano bastati pochi istanti a Faith per renderlo inoffensivo.

E la vista del corpo aveva aiutato a convincere il ragazzo a collaborare più in fretta.

Una volta ottenute le informazioni, Faith non l’aveva ucciso. Si era limitata a stordirlo nuovamente, a togliergli la radiotrasmittente e a legarlo, come i due più fortunati colleghi dell’altro gruppo che erano andati a cercarla. Dei cinque commando che l’avevano attaccata ne erano sopravvissuti tre, tutti erano al momento legati e privi di conoscenza. Non l’avrebbero infastidita.

Appena Faith toccò il pulsante di chiamata sul pannello nero inserito nella parete, le porte dell’ascensore si aprirono, le due lucidi ante di acciaio riflettevano distorta la figura nera che era la cacciatrice e la mitraglietta che lei teneva puntata verso l’interno del vano. Che era vuoto, come aveva detto il ragazzo.

Faith entrò nel piccolo ascensore dagli eleganti pannelli di legno scuro. Premé il pulsante del primo piano accostandosi il più possibile alla parte vicino ai comandi, prendendo mentalmente nota della posizione della botola sul soffitto. Il ragazzo le aveva detto che sarebbero passati probabilmente dieci minuti prima che qualcuno si chiedesse che fine avesse fatto la sua squadra. Faith non aveva creduto a questa informazione, non del tutto almeno, cinque minuti erano una stima molto più realistica del tempo che sarebbe passato prima che fosse dato l’allarme, anche se sperava che la sua buona stella si decidesse a mettersi a splendere.

L’ascensore si fermò e le porte si aprirono su un altro corridoio vuoto. Sembrava che il Concilio fosse deserto. Si era immaginata una scena da ufficio con uomini in giacca e cravatta che indaffarati si muovevano tra scrivanie e telefoni squillanti. Ma non era così. Almeno non in questa ala.

Meglio per lei, il suo compito sarebbe stato più facile. Uscì dall’ascensore e si avviò a piccola corsa lungo il corridoio, anche questo era coperto a metà altezza da pannelli di legno scuri che davano si all’ambiente un tocco raffinato, ma lo rendevano quasi angosciante per la cupezza.

Faith teneva il mitra puntato davanti a sé mentre procedeva velocemente, facendo attenzione a cogliere il minimo movimento delle porte od il più piccolo rumore. Intanto cercava di escogitare un buon sistema per accedere alla sala controllo.

Il ragazzo le aveva spiegato che era difesa da vetri antiproiettile ed antisfondamento, praticamente a prova di bomba. Quella sala era stata progettata per essere isolata, imprendibile, visto che da lì si comandava tutto. Per questo era senza finestre ed aveva un unico accesso.

E quella porta si poteva aprire solo dall’interno. Comandata da uno dei tecnici.

E Faith aveva poco tempo e nessun esplosivo per entrare lì dentro, eppure era essenziale.

Doveva trovare un altro modo. Svoltò nel corridoio che si apriva alla sua sinistra. Le indicazioni che aveva erano estremamente precise ed il suo senso dell’orientamento faceva il resto.

Se c’era una cosa che Faith sapeva fare era orientarsi, una dote innata, che da quando era diventata cacciatrice era soltanto migliorata, raggiungendo praticamente la perfezione. Era impossibile che si perdesse in un percorso simile.

Superò altre porte chiuse su una parate e sull’altra. Tutte uniformemente marroni, con maniglie dorate e targhette anch’esse dorate. Probabilmente si trattava di uffici, che altro potevano essere? Pregando che nessuno uscisse in tempo per vederla e sorprenderla alle spalle, Faith continuò la sua avanzata allungando il passo. Doveva sbrigarsi non sapendo in quale situazione si trovasse Miss Parker.

Le pareti stavano diventando di un colore sempre più chiaro, una tinta vicino al crema. I pannelli di legno erano scomparsi, facendo sembrare questo corridoio molto più luminoso del precedente, anche se l’illuminazione era fornita da lunghe lampade alogene dal colore azzurrognolo.

Pareti crema su cui due ombre nere risaltarono improvvisamente.

 

 

 

I due agenti del servizio di sicurezza stavano facendo il loro solito giro di pattuglia, nel solito e familiare silenzio, quando appena svoltato un angolo cieco si ritrovarono davanti a qualcuno che veniva loro incontro correndo.

I loro riflessi furono più veloci dei pensieri. Qui non doveva esserci nessuno, era una zona ad accesso limitato. Tanto meno doveva esserci qualcuno armato di mitra e dal volto coperto. Senza neanche rendersene conto, entrambi cominciarono a sparare un battito di cuore dopo aver registrato la presenza di quella figura.

Faith non li aveva sentiti arrivare. Il rumore dei suoi passi, anche se attutito dalla moquette, aveva coperto il loro. Probabilmente indossavano scarpe scelte proprio perché non facevano alcun rumore. La sua concentrazione era calata per un istante, mentre cercava la soluzione al suo problema strategico, ed aveva commesso un errore. Loro non ne commisero alcuno.

Spararono immediatamente due brevi raffiche con i loro mitra silenziati. Faith riuscì a schivare senza troppi problemi la prima sventagliata di pallottole buttandosi immediatamente alla sua destra, anche se uno dei proiettili la colpì alla spalla sinistra.

 

 

 

Una donna sulla fine dei trenta, elegante e distinta nel pull-over nero e pantaloni panna che portava sotto il lungo cappotto di pelle, camminava facendo risuonare arrogantemente i suoi tacchi lungo il corridoio deserto. Si dirigeva a passo rapido verso una delle uscite secondarie dell’edificio, praticamente adiacente al parcheggio esterno.

Nell’atrio, vicino alla porta, si trovava un piccolo gabbiotto da dove una guardia sorvegliava il via vai delle persone, e che, per una volta, non sembrava guardare annoiata un qualche programma alla televisione che poggiata su un ripiano.

Ignorando ostentatamente la guardia, come facevano tutti gli osservatori dall’alto del loro sapere, la donna, i cui capelli neri coprivano parte del viso, lasciando in ombra il resto dei lineamenti, uscì alla luce pomeridiana senza fermarsi né rallentare.

Aveva una mano stretta attorno alla maniglia della valigetta di pelle marrone che portava ed un seconda, in tasca, attorno all’impugnatura di una pistola che non le apparteneva.

Miss Parker scese le scalette in fretta, dirigendosi verso la sua berlina, parcheggiata poco distante, socchiudendo gli occhi alla luce improvvisa del sole, accecante dopo il lungo soggiorno all’interno dell’edificio.

Non sapendo se la sorveglianza era riuscita ad avere una sua descrizione, per quanto sommaria, per evitare rischi, appena trovato un ufficio abitato da una simpatica inglese, che sembrava portare la sua stessa taglia, aveva deciso di entrare e procedere ad un opportuno cambio d’abito. Non del tutto consenziente.

Così, mentre attraversava con i suoi nuovi vestiti i lunghi corridoi su cui si affacciavano infiniti uffici, aveva assunto quell’atteggiamento che le aveva fatto guadagnare il nomignolo, affatto affettuoso, di regina dei ghiacci, che da sempre teneva lontano inopportuni scocciatori.

Durante tuta la sua camminata alla ricerca di un’uscita non aveva attirato nessuno sguardo indagatore, né fastidiose intromissioni.

Sapeva dove andare, e sapeva come far sembrarlo.

Soltanto ora, mentre sedeva dietro il volante ed avviava il motore dell’auto, si permise di ammettere che il piano sembrava aver funzionato. Lei era fuori da quell’edificio con tutti i documenti che aveva potuto trovare.

E tutti estremamente utili.

L’unica domanda rimasta in sospeso era se anche Faith fosse riuscita a portare a termine la sua parte, già difficile (praticamente impossibile), in seguito a come si erano evoluti i fatti.

Se la cacciatrice avesse fallito sarebbero stati guai per Miss Parker. La sorveglianza non ci avrebbe messo molto a rintracciarla.

Ed avere un’altra organizzazione segreta nella tua vita, ed una che vuole la tua morte, non aumenta le tue possibilità di arrivare all’età pensionabile.

Percorse il lungo viale alberato che attraversava il parco per poi superare il cancello esterno, preoccupata da questi pensieri.

 

 

Il dolore fu un’improvvisa esplosione lungo i suoi nervi, l’impatto la sbilanciò appena mentre le sue spalle ruotarono leggermente. Ignorandolo del tutto Faith si proiettò con un ulteriore scatto in avanti per chiudere la distanza di due metri che la separava dagli uomini della sicurezza.

Correndo alzò la propria arma e rispose al fuoco. Uno dei due cadde a terra, due pallottole conficcate nella testa, prendere la mira a quella distanza era una sciocchezza, bastava tener conto della rapidità di spostamento ed il gioco era fatto.

L’altro fu colpito ad un braccio appena prima che riuscisse a sparare ancora. Istintivamente si portò l’altra mano sulla ferita sanguinante. E quello fu il suo errore.

Faith, ignorando la mitraglietta, a questo punto solamente ingombrante, la lasciò penzolare attaccata alla cinghia che si era assicurata, e colpì la guardia ancora in piedi, ormai a poco più di venti centimetri da lei, con un pugno al volto che gli c’entrò il naso, spaccandoglielo.

Il sangue si sparse sul volto dell’uomo e lui portò immediatamente entrambe le mani a coprire il setto nasale fratturato tentando di tamponare le narici, mentre emetteva un urlo strozzato di dolore e sorpresa.

Il dolore lo intontì, rendendolo incapace di reagire abbastanza in fretta. Faith, senza dargli un istante per riprendersi, lo colpì con un ginocchiata all’addome ed il trentenne si piegò su se stesso. Fu spinto a terra dalla successiva gomitata sulla schiena. Non tentò di rialzarsi, limitandosi a gemere pietosamente accanto al compagno morto.

Cinque lunghi secondi ed era tutto finito.

Faith respirò a fondo e controllò per prima cosa la sua spalla sinistra. Passò le dita dove aveva sentito l’urto. Sentiva il punto esatto pulsare furiosamente, ma sapeva che quello non era il dolore di una ferita da arma da fuoco.

Con indice e medio toccò il metallo della cartuccia senza sentire il sangue caldo e vischioso. Il giubbotto antiproiettile aveva fermato la pallottola. Un campanello di allarme suonò improvvisamente nel suo cervello. I gemiti erano scomparsi improvvisamente, sostituiti da laboriosi respiri. Faith si girò su se stessa e sparò una breve raffica al sopravvissuto, che era riuscito a mettersi in ginocchio e ad impugnare nuovamente il mitra.

Morto, l’uomo ricadde indietro, l’indice a pochi millimetri dal grilletto dell’arma, puntata fino ad un attimo prima, contro di lei.

 

 

 

In sala controllo, Matt cominciò a sorvegliare con più attenzione gli schermi relativi alle uscite secondarie. Aveva avvertito la squadra dell’ala est di dove aveva rintracciato una delle due fonti di segnali radio, ed aveva segnalato al posto di controllo più vicino alla biblioteca di andare a controllare la seconda.

Pochi minuti dopo aveva perso il segnale radio. La trasmissione era stata criptata, e criptata bene, ed a parte fruscii senza significato non aveva potuto sentire alcuna conversazione. Una volta perduto aveva subito provato a rintracciare di nuovo il segnale, ma non c’era riuscito. Dovevano aver chiuso la comunicazione, o perché si erano accorti di essere stati intercettati o perché le spie erano già state catturate. Per ricevere conferma ad una delle sue ipotesi, aveva chiamato l’operativo che era stato mandato in biblioteca, ma l’uomo non aveva risposto alla propria radio.

Dopo due o tre tentativi falliti Matt aveva avvertito un secondo uomo di andare a controllare. In caso una delle spie fosse sfuggita alla cattura. Non aveva motivo di credere che la squadra est si fosse fatta scappare l’obbiettivo assegnato, senza almeno un contatto visivo. Aveva bisogno della descrizione fisica dei soggetti per evitare che uscissero dal perimetro controllato indisturbati.

In attesa del rapporto del secondo operativo, Matt continuò a controllare le schermate video del parcheggio ed alcune di quelle delle uscite secondarie, cercando qualcuno di sospetto, senza però trovarne.

Circa un minuto dopo ricevé il rapporto del secondo operativo andato in biblioteca. Aveva ritrovato il collega svenuto ed ora procedeva alla ricerca dell’individuo. Il collega, ancora privo di sensi, non aveva potuto dare una descrizione dell’individuo; sarebbe stata una caccia ai fantasmi, ma l’uomo, uno dei più esperti, aveva deciso comunque di fare un tentativo.

Imprecando tra sé, Matt, una volta chiuso il collegamento, continuò a pensare che da qualche parte doveva pur esserci un filmato della gente che cercavano. Doveva soltanto aspettare che l’operativo trovato svenuto riprendesse i sensi e poi avrebbe avuto tutte le risposte che cercava.

Avrebbe solo dovuto aspettare.

Non poteva fare altro.

Innervosito guardò l’orologio, erano passati più di tre minuti dalla prima intercettazione del segnale radio e non aveva ancora ricevuto il rapporto della squadra est. Provare a chiamarli non gli saltò nemmeno in mente, quella era la squadra comandata da Regan, e quell’uomo aveva un odio per tutto ciò che era tecnologico ed un odio speciale per lo stesso Matt.

Entrambi cercavano sempre di non finire negli stessi turni di sorveglianza per evitare di incontrarsi o parlarsi. Meno si sentivano più erano felici. Era una cosa risaputa.

Cancellata la preoccupazione per il ritardo del rapporto della squadra di Regan, Matt tornò a pensare a come avere un profilo della gente infiltrata. Probabilmente i filmati dell’ingresso avevano la sua risposta, ma quale delle decine di persone entrate da quella mattina, era quella che cercava lui? Non poteva saperlo.

Frustrato, si appoggiò sconsolato sullo schienale della sua sedia girevole, abbandonandosi con tutto il peso del corpo. La poltrona cominciò a girarsi verso la porta a vetri. Lì stava ancora aspettando l’addetto alle comunicazioni della squadra che doveva montare il prossimo turno di guardia. E la giovane donna bruna stava cominciando a diventare nervosa a causa della lunga attesa. Matt poteva vedere il suo piede battere nervosamente a terra.

Facendole cenno di essere paziente per ancora qualche secondo, il tecnico scelse velocemente una delle frequenze e l’annotò su un taccuino che aveva vicino al computer. Poi lasciò la sua consolle per andare ad aprire la porta a vetri in modo da comunicare la scelta del canale all’addetta.

Mentre si avvicinava all’ingresso Matt era certo di star dimenticando qualcosa di importante.

Doveva essere qualcosa a riguardo le spie che si erano infiltrate.

Non riusciva a capire la strana sensazione che provava. Sapeva che c’era qualcosa appena al limite della sua coscienza che era molto importante ricordare.

Ma cosa?

Le due porte si aprirono, scivolando silenziosamente lungo le scanalature fino a sparire nelle pareti stesse, frusciando appena. Matt si vide riflesso per un attimo dalla vetrata, riconobbe il suo profilo spigoloso e fu tentato di sorridere come faceva sempre, i riflessi distorti erano una cosa che lo divertiva fin da piccolo. Ma nella mente del tecnico qualcosa continuava ad agitarsi per  essere ricordato.

Ma cosa era?

Mentre superava la soglia della sala di controllo, la bocca già aperta per parlare, l’uomo si accorse di una massa scura ad una delle due estremità del corridoio. Girò la testa verso destra e mise a fuoco l’ombra al limite del suo campo visivo.

Ma che cosa era?

Capì e ricordò contemporaneamente.

L’addetto alle comunicazioni!

L’addetto alle comunicazioni della squadra che doveva montare il turno, prima era un ragazzo, non l’attraente bruna che gli stava di fronte. Il massiccio ragazzo che ora era steso a terra in fondo al corridoio. Incosciente o morto?

No, non doveva pensare a quello…dare l’allarme… si, dare l’allarme… però… lenti i suoi riflessi… lunghissimo il tempo per girare la testa…

Matt si voltò verso la falsa addetta alla sicurezza, stupito più che spaventato, la bocca aperta in una smorfia di sorpresa, ancora non capiva, non riusciva a collegare (eppure era la cosa che la sua mente logica faceva meglio…), e la vide sorridere.

Poi diventò tutto nero.

 

 

Di Sogni e di Segreti Parte IV

Silea

 

 

 

In mezzo all’Atlantico, su di un aereo privato.

 

 

 

Jason sedeva con il resto della squadra nella carlinga dell’aereo. Non era eccessivamente stanco e si poteva ritenere soddisfatto della missione.

L’edificio, l’hotel Hyperion, se non sbagliava, era crollato dieci minuti dopo lo scoppio delle bombe incendiarie. Era una vecchia costruzione e c’era voluto poco per farla diventare un ammasso fumante di macerie che avevano continuato a bruciare per le successive sei ore.

All’arrivo dei pompieri i suoi uomini si erano nascosti, continuando a sorvegliare quelle rovine. Non ne era uscito nessuno. La durata dell’incendio ed il crollo, oltre alle alte temperature raggiunte all’interno dell’edificio, rendevano chiare le possibilità di sopravvivenza di chiunque fosse stato nell’hotel.

Al notte precedente Jason aveva fatto fare un’accurata ispezione della rete fognaria, alla ricerca di passaggi ed ingressi. Non ne erano stati trovati. In pratica in quell’edificio non esistevano neanche le cantine, che del resto dovevano essere andate distrutte nel crollo.

Ciò che più gli faceva piacere della missione era il fatto di non aver perso un solo uomo. Odiava perdere qualcuno ai suoi ordini. Il suo compito era riportare a casa quella gente viva. Se un piano significava la morte della sua squadra, quello era un piano cattivo. Se ci fossero stati dei morti, la responsabilità sarebbe stata solo sua.

Abbandonando la linea di pensieri, Jason si alzò per andare al telefono satellitare che si trovava nell’altro scomparto. Era ora di fare il rapporto. Compose il numero diretto dell’ufficio che cercava ed attese mentre il telefono squillava.

-Pronto?

La voce si sentiva perfettamente, non c’erano interferenze, si trattava di una comunicazione satellitare. Jason parlò liberamente sapendo che il collegamento era protetto.

-Signore, sono Jason.

-E’ un piacere sentirla Jason. Quale è l’esito della missione?

-La missione è stata un successo, signore.

-Gli uomini?

Era questo che Jason più apprezzava del proprio comandante, si interessava degli uomini, al contrario di Travers, che vedeva tutti come pedine.

-Tutti salvi signore. Nessun ferito.

-Ha svolto un ottimo lavoro Jason. I miei complimenti.

-Grazie signor Miller.

 

 

 

Delaware, Il Centro. Il giorno successivo.

 

 

 

Il signor Parker sedeva alla sua scrivania lavorando su un voluminoso plico di fogli. Erano giorni frenetici all’interno del Centro.  Stava organizzando gli ultimi dettagli del suo piano per prendere il potere, cercando gli ultimi alleati e controllando il nemico.

La Torre era forte, molto forte, e se non di sconfiggerla sperava almeno di accedervi, non aveva interesse nel distruggerla finché ne avesse fatto parte. Si, avere lo stesso potere di Matumbo gli sarebbe bastato, e non dubitava di ridurre i suoi futuri colleghi a più miti consigli. Sorrise tra sé alla prospettiva mentre esaminava il nuovo progetto che voleva avviare.

Fortunatamente sembrava che Jarod si fosse preso una “vacanza”. Da qualche tempo non cercava più di ostacolare le sue operazioni. Una fortuna insperata. Per questo colpo di potere, a cui si preparava da più di dieci anni, aveva bisogno di tranquillità.

Sentì le porte del suo ufficio aprirsi e chiudersi mentre qualcuno, non annunciato, né atteso, entrava. Alzò lo sguardo e riconobbe la figlia. Aveva uno sguardo furibondo, la mandibola era tesa, il suo corpo emanava rabbia.

Senza molto interesse il padre si chiese che cosa era accaduto, sperando ancora una volta che Jarod non c’entrasse. Con un po’ di fortuna si trattava probabilmente dell’ultimo scontro tra lei e il fratello Lyle. Le sorrise, di quel suo sorriso così caratteristico, che molti avrebbero detto carico di affetto.

Molti.

-Buon giorno Angelo, che cosa è successo?

Lei non rispose e questo turbò il padre. Non si mise a passeggiare avanti ed indietro per l’ufficio come suo solito. Era rimasta immobile a qualche passo dalla sua scrivania.

Il signor Parker sentì che c’era qualcosa di diverso in lei, la guardò più attentamente e gli sembrò persa nei propri pensieri. Mentre la osservava lei parve arrivare ad una decisione dentro di sé, ed in una frazione di secondo lei cambiò.

Per la prima volta il signor Parker ebbe paura di lei. Per la prima volta si chiese se quella era davvero sua figlia. Fredda e distante lo guardava.

Era definitivamente pericolosa.

Quando arrivò a quella conclusione una Smith&Wesson 9 mm era puntata contro di lui. E negli occhi che lo fissavano non c’era più l’affetto, quell’affetto che l’aveva sempre legata a lui. Avrebbe voluto dire, credere, vedere, che quegli occhi, gli occhi di un’estranea, fossero semplicemente vuoti, vitrei, ma non era così.

Pulsavano di una ritrovata vita che vi scorreva dietro e della sete di vendetta che li animava.

Il signor Parker cominciò a sudare freddo mentre tentava di rimanere immobile e si aggrappava alla propria clinica lucidità per non cadere preda del terrore che cercava di impadronirsi di lui. Non aveva neanche bisogno di simulare sorpresa per la reazioni della figlia ad uno dei tanti fatti accaduti (di cui lui aveva finto ignoranza), come aveva fatto molte altre volte, ora era tutto vero. Tentò di deglutire nervosamente, ritrovandosi senza saliva. Ancora pochi attimi e ritrovò la parola.

-Angelo, cosa stai facendo?

Non ebbe risposta. Non lasciò che il silenzio regnasse nuovamente, continuò.

-Angelo abbassa quell’arma. Che cosa vuoi fare? Qui non c’è nessuno di cui temere. E’ un posto sicuro questo, Angelo. Abbassa la pistola, non ce ne è bisogno. Non vedi? Ci sono solo io. Mi riconosci? Sono tuo padre.

Miss Parker lo fissò negli occhi. Da quando era entrata nella stanza non aveva mai staccato lo sguardo dal volto di lui né aveva mai battuto le palpebre. Per la prima volta in quelle iridi dalle pupille un po’ dilatate, c’era paura e lei si rese conto che non era simulata, non questa volta. Le sarebbe bastata una leggera pressione dell’indice e sarebbe tutto finito. Bugie, menzogne, dubbi e tanti segreti di cui non voleva venire a conoscenza.

Un semplice scatto del grilletto, il colpo, poi tutto finito.

Trattenne il fiato.

Poi abbassò l’arma.

Il signor Parker si rilassò ed un sorriso gli affiorò sulle labbra, inconsapevolmente, reazione allo stress nervoso appena provato.

Guardò la donna davanti a lui (perché ormai era cresciuta) ancora un istante, lungo un secolo, quasi un’eternità.

Abbassò poi lo sguardo al petto e vide dove la pallottola era entrata. Il sangue cominciava a macchiare la sua giacca panna, fatta su misura da un sarto italiano.

Gli sembrò che il tempo rallentasse, si dilatasse, per poi fermarsi in un solo istante. La piccola macchia scarlatta così evidente sul tessuto chiaro. Il signor Parker se ne sentì attratto, e, curioso di sentirla, avrebbe voluto allungare le dita per toccare quel liquido caldo.

Invece le dita della sua mano destra lasciarono la presa della penna con cui stava scrivendo poco prima. Fu il rumore della stilografica blu notte, dal pennino d’oro massiccio (regalo di Natale della figlia), sul lucido legno della scrivania a rompere l’incanto.

Il busto, non più sorretto dalla forza muscolare e sbilanciato dal peso della testa, si piegò e dopo aver urtato il piano della scrivania fece scivolare indietro la poltrona di pelle. Come accartocciandosi su se stesso il signor Parker cadde da essa.

Le forze lo abbandonarono e con esse la vita.

Prima che il corpo raggiungesse terra era già morto.

La pistola si era rialzata un attimo dopo essersi abbassata, in un unico, fluido, movimento.

Senza aver detto una parola da quando era entrata in quell’ufficio, trenta secondi prima, Miss Parker inserì la sicura e rimise nella fondina la Smith&Wesson per poi girarsi ed uscire. Senza mai voltarsi indietro, senza mai guardare il cadavere dell’uomo che aveva considerato suo padre per così tanti anni.

Un padre che aveva amato, un genitore che aveva aiutato a sopravvivere, ricevendo in cambio solo indifferenza e delusioni. L’unica persona a cui lei avesse mai dato il potere di decidere, il potere di usarla.

Il padre in cui aveva fiducia.

L’uomo che le aveva mentito per così tanti anni.

L’uomo che le aveva tolto la madre e l’unico amore, facendone ricadere la colpa su altri ed utilizzando la sua sete di vendetta per i propri scopi.

Allontanandosi da quell’ufficio, mentre gli uomini della sicurezza la superavano indifferenti, sorrise.

Un sorriso triste.

Era finita con il passato.

Ora ci sarebbe stato il presente.

 

 

 

Da qualche parte negli U.S.A. .

 

 

 

Nella piccola sala c’erano tre uomini seduti intorno ad un tavolo basso, occupati a giocare a carte. Uno di loro stava fumando, con evidente piacere, un piccolo sigaro marrone, divertendosi a formare piccoli sbuffi di fumo bianco che si perdevano nell’aria.

La porta che dava su un corridoio nero come la pece si aprì. Senza mostrare sorpresa, i tre si girarono giusto in tempo per vedere la sagoma del loro capo illuminata dalla luce. Come sempre l’uomo era in giacca scura e cravatta, del tutto indifferente a ciò che lo circondava.

Quell’uomo si comportava allo stesso modo in un museo nazionale, una cattedrale ed una bisca clandestina. Era una di quelle figure epiche del proprio campo, su di lui giravano molte storie. E quelle di cui un uomo perbene potesse andare fiero non erano ancora state raccontate, sempre ammesso che esistessero. Qualcuno lo avrebbe definito un “insensibile bastardo”.

L’unica cosa non confermata era il “bastardo”.

Era da sempre insensibile.

Li salutò con un cenno del capo appena accennato e l’uomo con il sigaro si sbrigò ad alzarsi dalla sedia per andargli incontro. Non si strinsero la mano.

-Ha fatto presto ad arrivare, signore.

Non era rispetto quello nella voce, era deferenza. Il potere di quell’uomo non era da rispettare, era da temere.

-Si, ci ho messo poco. Dov’è?

L’uomo più giovane gli fece segno di seguirlo mentre faceva cadere un po’ di cenere dalla punta del sigaro. Si sarebbe potuto immaginare che il passaggio interno fosse in un seminterrato, visto che le uniche finestre erano dei lucernari posti vicino al soffitto. Arrivarono davanti ad una porta dopo aver percorso un corridoio malamente illuminato e dai muri spesso scrostati quando non avevano ceduto. L’intera costruzione cadeva letteralmente a pezzi, e non molti si sarebbe stupiti se uno dei piani rimasti sarebbe crollato, ma, isolata ed abbandonata come era, si adattava ai loro scopi.

La porta davanti a cui si erano fermati, notò con piacere il nuovo arrivato, era stata rinforzata. Probabilmente l’unica cosa sicura dell’intero edificio. Si aprì senza protestare per immetterli in una minuscola saletta. O per meglio descriverla, in una cella. Solide pareti di mattoni, nessuna finestra ed un corpo in un angolo. Immobile.

Senza avvicinarsi, l’uomo in giacca e cravatta lo studiò per un attimo.

La figura era alta, slanciata, dalla pelle bianchissima e i capelli ossigenati. Metà del volto persa nel buio, ma i lineamenti che si intravedevano erano come ricordava, puliti, quasi eleganti.

Si, era lui, non aveva dubbi.

-Si è mai svegliato dal suo “arrivo”?

-No signore, lo teniamo sotto sedativi.

Era meno pericoloso, non voleva che si liberasse e gli creasse problemi. Da quell’esperimento con la Summers aveva imparato un po’ di cose… e qualunque cosa si dicesse su quel vampiro era meglio renderlo completamente inoffensivo.

-Cessate la somministrazione ed avvertitemi quando si sveglia.

Lui e quel vampiro avevano un affare da discutere.

-Come vuole signor Travers.

 

 

 

Delaware, a poche miglia dal Centro, casa di Lyle.

 

 

 

 

Lyle aprì la porta ma non accese le luci come era sua abitudine, si sentiva euforico, nonostante il suo dialogo con la dolce sorellina, così dolce che immaginava che lei lo amasse tanto da sognare ogni notte di ucciderlo.

Lyle non credeva però che avrebbe mai messo in pratica questi suoi propositi, nonostante sua sorella avesse ucciso personalmente il loro così detto padre, a sangue freddo nel suo ufficio, per poi uscirne tranquillamente come se niente fosse successo.

C’era dal morire dal ridere al pensiero che poi, con la pistola ancora calda nella fondina, era entrata nel suo di ufficio, per minacciarlo. Gli aveva detto che la doveva lasciare in pace. Lyle non aveva creduto che Miss Parker sarebbe stata in grado di farlo ed invece...

Non avrebbe più dovuto sottovalutarla, quella che era entrata nel suo ufficio non era la Miss Parker che aveva conosciuto negli ultimi anni. Era una nuova persona, una persona che si era accorta di poter uccidere. Lyle l’aveva usata per liberarsi del padre, ma indirettamente aveva creato un’avversaria veramente molto pericolosa, qualcuno che bisognava eliminare il prima possibile.

Durante il tragitto dal Centro al suo nuovo appartamento (aveva cambiato residenza dopo aver scoperto che qualcuno era entrato nella sua vecchia abitazione), aveva già cominciato a far progetti su come eliminare la sorella.

Domattina stessa avrebbe assoldato un killer professionista, aveva già i contatti, perché era questa la vera debolezza di Miss Parker, non possedeva un braccio armato a cui fare affidamento. Poteva crearlo, era vero, ma non in meno di ventiquattro ore.

E questo progettare l’omicidio della sorella senza dover pensare a come rendere il padre neutrale o alla possibile reazione punitiva della Torre, che non esisteva, come aveva dimostrato il gesto, lasciato impunito, della stessa Miss Parker, lo rendeva felice.

Era bella questa nuova sensazione di potere, come testimoniava il sorriso sulle sue labbra.

Morta anche la sorella, lui, Lyle, avrebbe avuto nelle mani tutto il potere della famiglia Parker, senza che nessuno sospettasse che lui fosse dietro l’omicidio del padre, anzi lo avrebbero visto come il suo vendicatore, una prova aggiuntiva della sua forza.

Improvvisamente si immobilizzò. Una mano, spuntata dal nulla, lui non aveva sentito niente e l’allarme non era scattato, gli stringeva il collo mentre un coltello era puntato alla sua gola. Lyle non riusciva ad immaginare chi ci fosse dietro a quel coltello.

Di certo non qualcuno del Centro, loro usavano armi da fuoco, escluse rapidamente anche avversari del suo passato. Il suo indirizzo era riservato, neanche al Centro sapevano dove abitava, e nella nuova casa aveva aumentato la misure di sicurezza in modo da renderla inespugnabile.

L’unica possibilità era che fosse un killer a pagamento, ed uno estremamente abile, dato che, senza allentare la presa, per non dargli alcuna possibilità di divincolarsi, con il coltello gelido sempre a contatto con la delicata pelle del suo collo, gli tolse la pistola dalla fondina, togliendogli la sua sola arma e rendendolo così innocuo.

E Lyle non ci mise molto a ricordare le ultime parole della sorella. “Capirai” aveva detto.

-Buonasera mister Lyle.

Era una voce femminile, ma la forza che dimostrava il suo aggressore era impressionante. Lyle non aveva possibilità di uscire da quella presa.

E così Miss Parker lo possedeva quel braccio armato, ed aveva fatto anche la prima mossa. Ormai aveva la prova che quella donna era davvero sua sorella.

Era spietata come lui. Lo era diventata. Lyle scosse mentalmente la testa, ancora un po’ e le sarebbe pure risultata simpatica mentre aveva un carnefice assoldato da Miss Parker alle spalle.

-Chi sei?

L’altra rise, divertita.

-Chi sono? La tua ombra.

Lyle mantenne il sangue freddo. Rise.

-Ah, davvero?

Riuscì  a dirlo con in tono di sfida. Il coltello fu premuto sulla carne quanto bastava a farne uscire del sangue. L’acciaio era decisamente freddo. Lyle non poté fare a meno di rabbrividire.

-Non mi provocare Lyle, non mi dare un motivo in più per ucciderti, anche se pensandoci… non ne ho bisogno… so abbastanza cose di te per sapere che se ti uccido sarò un passo più vicina alla santificazione che alla dannazione.

-Se mi uccidi avrai tutto il Centro ed alcuni miei amici sulle tue tracce, sarai cacciata come un animale fino alla tua morte.

Era una minaccia vuota, ma lui sapeva bluffare. Magari era soltanto un’esterna che non sapeva come funzionava.

-Credi di spaventarmi? Se muori al Centro faranno una festa. Altro che rimpiangerti. Se non hanno mosso un dito per tuo padre, perché lo dovrebbero fare per te? Certo potresti aspettarti aiuto da altri… - ci fu una pausa, come se l’aggressore stesse riflettendo. -Per quanto riguarda i tuoi amici cannibali. – Lyle si irrigidì a queste ultime parole. Credeva che quello fosse un segreto. Ne era certo, come del fatto che la sua casa fosse sicura. L’altra si accorse della sua reazione e continuò con voce divertita. –Non avrai creduto che il tuo essere parte di questa piccola associazione neanche un po’ segreta, mi fosse oscuro, vero? Comunque loro… tendono ad essere morti. Credo che tu sia l’unico superstite o quasi della setta, forse ce n’è un altro nel mondo, ma non ci scommetterei. Ma se vuoi seguire i tuoi “fratelli” nella tomba basta che lo domandi cortesemente.

Ora Lyle aveva paura. Quella donna aveva fatto il vuoto attorno a lui. Non rimaneva che trattare.

-Cosa vuoi?

-Bene, vedo che hai ricominciato a ragionare. E’ molto semplice. Basta che tu faccia quello che ti ha chiesto molto gentilmente Miss Parker.

-E perchè dovrei farlo?

-Semplice, tu vuoi vivere. Fai qualcosa di sospetto, e ti assicuro che ho le mie fonti per venire a saperlo, e ti ritroverai a pregare di essere ucciso. Non sei affatto irraggiungibile come pensi Lyle. Ti sono arrivata vicina oggi e lo posso fare quando voglio.

-Senti, ragioniamo… Tu sei un ottimo elemento, me lo hai appena dimostrato. Passa a lavorare per me. Qualsiasi sia la cifra che ti ha offerto Parker la raddoppio.

-Pessimo tentativo Lyle. Dopo che ho accettato un lavoro, io lo porto sempre a termine. Sai anche tu cosa succede ai mercenari che non lo fanno, o che si vendono al miglior offerente. E poi tu non mi piaci come datore di lavoro. Quindi le contrattazioni sono chiuse. Ricorda le mie parole, non ci sono seconde possibilità.

Lyle sentì un colpo in testa e cadde a terra svenuto.

 

 

 

 

New York, in una stazione di pullman.

 

 

 

Era quasi mezzanotte quando l’ultimo autobus da Albany arrivò. Era in ritardo di quasi un’ora. Non scesero tantissime persone e la maggior parte di loro era più stanca che arrabbiata a causa dei contrattempi che avevano provocato il ritardo. Erano partiti dalla capitale dello stato poco dopo il tramonto ed avevano tutti sonno, pochi di loro erano riusciti a dormire veramente lungo il viaggio a causa di un autista a dir poco incompetente.

Ci fu il solito caos vicino agli sportelli del bagagliaio nel ritirare le borse. Una trentina di persone che si affollava attorno al conducente alla ricerca della propria valigia, a volte spintonandosi per cercare di afferrare qualche secondo prima il proprio bagaglio ed allontanarsi prima degli altri.

Un po’ distante da loro, eppure lontano anni luce nel modo di comportarsi distaccato che aveva, si trovava un uomo alto, dai capelli scuri ed il fisico imponente,  anche lui appena sceso dal pullman, che si muoveva rigidamente, come se fosse stato ferito di recente alla schiena. Sembrava solo, senza nessuno che lo fosse venuto a prendere alla stazione.

L’uomo, sempre muovendosi rigidamente, facendo attenzione a non ruotare il busto, spostò nervosamente la piccola borsa di pelle marrone che teneva sulla spalla destra, in una posizione tale da non toccare le ferite non completamente rimarginate, poi si avvicinò ad uno dei telefoni pubblici posti in fila al termine delle banchine.

Mentre alzava la cornetta la stazione degli autobus cominciava a svuotarsi velocemente. Alla gente non piaceva rimanere di notte in quel quartiere per più del tempo necessario.

Il pullman ripartì per andare a raggiungere il deposito notturno, alcune delle macchine nel parcheggio avviarono i motori e si allontanarono, lasciandolo deserto. Nella sala d’aspetto interna rimasero solo una decina di persone, alcune delle quali con un aspetto non propriamente raccomandabile, abiti sgualciti e capelli aggrovigliati.

Ben presto l’uomo rimase solo sulla banchina, immerso nei suoi pensieri, la cornetta del telefono ancora in mano, le dita dell’altra a pochi centimetri dalla tastiera.

Era stato un viaggio massacrante e lui non mangiava da non ricordava più quanto tempo. Non poteva andare avanti così ancora per molto senza crollare. Le ferite gli avevano fatto perdere molto sangue e lui si sentiva molto stanco, pronto a cadere in uno stato quasi letargico.

Ignorando la spinta della fame e la palpebre sempre più pesanti, inserì delle monete nel telefono coperto di graffiti e compose un numero a memoria.

Rispose una voce femminile assonnata.

-Chi parla?

-Eliza? Sono a New York.

La voce dall’altra parte era già sveglia quando parlò nuovamente.

-Dimmi precisamente dove Angel, che ti vengo a prendere. Credo che abbiamo molto di cui parlare.

Il vampiro diede l’indirizzo preciso per poi attaccare ed andare a sedersi su una panchina per riposarsi. Le gambe e le braccia facevano molto male, e lui avrebbe dato tutto per poter chiudere gli occhi e dormine un paio di ore, ma non era sicuro farlo lì.

“Ora abbiamo molto di cui parlare. Sicuramente abbiamo di che parlare molto più di prima Eliza.”

 

 

 

Cornovaglia, villa di Marlin. Due giorni dopo. 

 

 

 

Marlin era seduta dietro la scrivania dello studio alla sua villa, lavorando. Oggi non era andata alla sede del concilio. In seguito a quello che era successo negli ultimi giorni ed alle telefonate che aveva ricevuto, aveva deciso di non farsi vedere.

Aveva bisogno di tempo per pensare, e la sua casa era il posto migliore per farlo. Del resto non doveva essere presente fisicamente in quel palazzo isolato in mezzo al nulla per svolgere il suo lavoro. Avrebbe potuto trovarsi all’altro capo del mondo e sarebbe stata in grado di svolgere senza problemi le proprie attività, esattamente come se si fosse trovata seduta all’elegante scrittoio di ebano nel proprio ufficio.

Andava lì ogni giorno semplicemente perché così poteva tenere sotto controllo fisicamente i suoi avversari, capire se era in arrivo qualche problema dal semplice mutare dei loro comportamenti, e ricordare a loro in ogni istante che lei esisteva, che lei era potente, che lei era pericolosa e che era lì grazie a nessuno oltre a se stessa.

Provava un piacere immenso a passare davanti alle porte aperte di quegli uffici e vedere le loro espressioni falsamente cordiali, obbligarli a salutarla con un rispetto che non provavano, sapere che la odiavano ma che soprattutto la invidiavano, perché era arrivata più in alto di loro, e che non potevano fare niente per toglierla da lì.

Avevano cercato di ostacolarla, di bloccarla. In tutti i modi possibili. Senza mai riuscirci. All’inizio non era stato così, per molti anni l’avevano sottovalutata, arrivando a considerarla già spacciata quando si era messa contro Travers, sfidandolo apertamente.

Aspettavano solo che lei mollasse, i loro melliflui sorriseti stampati sul volto mentre conversavano. Erano certi che avrebbe ceduto o che avrebbe accettato un qualche incarico di poco conto e grande tradizione che le avrebbero offerto come contentino, oh, ne erano così certi.

Perché nessuno l’aveva aiutata, l’avevano lasciata sola, quando aveva più bisogno di aiuto, quando era stata più esposta. Ad un passo dall’orlo del precipizio.

Lei lo aveva guardato a lungo quell’abisso mentre continuava a camminarne sul ciglio, rifiutandosi di lasciarsi cadere. Per ritrovarsi là sotto l’avrebbero dovuta spingere, lei non avrebbe fatto il loro lavoro.

E loro avevano deciso semplicemente di aspettare.

Sapevano che, con suo padre morto, non aveva nessun familiare stretto disposto ad aiutarla nella posizione in cui si era messa, che non aveva amici su cui contare, né alleati che la potessero sostenere nella risalita.

I pochi amici che aveva avuto, che non erano mai stati amici, si erano allontanati da lei immediatamente, appena saputo cosa era successo, od appena si erano resi conto che i dirigenti anziani la volevano escludere dai giochi di potere.

Lei non si era lamentata, non aveva mai mollato, continuando a lottare, anche quando sapeva di essere completamente isolata, e non si era mai presa la briga di informare chi l’aveva sottovalutata che sbagliava a farlo.

Niente inutili minacce.

A lei andava bene così.

Che la ignorassero pure, ma a proprio rischio.

Marlin posò la stilografica, dal pennino d’oro, nell’elegante portapenne che si trovava accanto ai rapporti che aveva appena finito di scrivere, anche loro ordinatamente impilati. Si rilassò contro lo schienale della comoda poltrona per lasciarsi cullare ancora un po’ dai ricordi.

Quella situazione di virtuale abbandono era durata anni, finché qualcuno non aveva ritenuto che era diventata troppo pericolosa per essere ignorata ancora.

Per la posizione che era riuscita a raggiungere nonostante il fatto che nessuno l’aiutasse. Per il suo ingente patrimonio che si era andato moltiplicando grazie ai suoi investimenti. Per il cognome che portava, per quello che quel nome di famiglia rappresentava e che loro non potevano avere.

Marlin.

La famiglia era da generazioni all’interno del concilio, osservatori per tradizione come i Travers, una “casata” rispettata, ma mai potente. Mai veramente, soprattutto negli ultimi decenni. Nobili decaduti, li avevano definiti.

Un nome che non significava niente.

Nessuno dei Marlin era mai arrivato tra i dirigenti di livello superiore, tra i dieci osservatori più importanti. Da quasi un secolo riuscivano a mala pena ad avere ancora una voce in assemblea. Erano stati ostacolati dalle altre famiglie per via di vecchie rivalità, odiati perché erano da più tempo parte di quel mondo, perché erano ricchi, e nessuno era riuscito a farcela con quell’opposizione.

Tranne lei.

E secondo alcuni sembrava addirittura in grado di prendere il controllo del consiglio, un giorno.

 

Marlin fece ruotare la poltrona fino a fermarla quando si trovò di fronte alla finestra panoramica del suo studio.

Il suo sguardo si perse verso l’orizzonte mentre abbandonava i ricordi per cominciare a riflettere sugli ultimi fatti accaduti.

Sembrava andare tutto bene. Il suo uomo, Matt Grennig, era stato nominato secondo in comando alle comunicazioni. Come promesso, Travers aveva appoggiato la sua candidatura di fronte a Miller, anche se “in absentia”.

La seconda squadra speciale era in attesa che lei nominasse un nuovo comandante, come era stata informata tramite lettera ufficiale firmata dallo stesso direttore dei progetti speciali. Domani avrebbe esaminato i vari candidati.

Od almeno sembrava andare tutto bene prima di tre giorni fa.

Marlin si mise a fissare il sole, il cui disco da giallo stava diventando rossiccio. Bastarono pochi secondi perché macchie colorate apparissero nel suo campo visivo, sembravano danzare mentre muoveva gli occhi.

Tre giorni prima, era mancata improvvisamente la luce nella sede del concilio. Non era mai accaduto prima. Gli allarmi si erano messi a suonare frenetici, i monitor di sorveglianza non ricevevano più immagini.

In dieci secondi l’ordinata sede degli osservatori si era trasformata in un caos di gente urlante, che cercava di raggiungere le uscite, mentre notizie contrastanti di assalti al palazzo erano smentite e diffuse. Le squadre di sorveglianza correvano nei corridoi per andare a presidiare i punti nevralgici della struttura, mentre si cercava di capire cosa fosse successo.

Un agente, completamente vestito di nero con mitra a tracolla, si era posizionato davanti alla porta del suo ufficio, pregandola di rimanere all’interno, in attesa che la crisi si risolvesse.

Le luci di emergenza, neon azzurrognoli posizionate ad intervalli regolari, si erano accese, ed illuminavano i corridoi, proiettando incerte ombre sulle pareti solitamente piene di luce.

Dieci minuti dopo l’allarme era rientrato. Le sirene si erano spente e le comunicazioni minime erano state ristabilite. La gente era tornata lentamente nei propri uffici, cercando di non pensare a quello che era successo mentre chiedevano di essere informati di cosa era successo.

Un minuto dopo la guardia si era allontanata dalla sua porta dicendole che era tutto a posto.

Marlin aveva avuto giusto il tempo di rimettere la pistola che aveva sistemato sullo scrittoio nel cassetto dove la teneva, prima che Miller entrasse come una furia nel suo ufficio, seguito da due guardie del corpo, spalancando la porta con una pedata, facendola andare a sbattere contro la parete.

Il capo del concilio aveva voluto una spiegazione. L’aveva pretesa.

Una spiegazione che Marlin non aveva e non era tenuta ad avere. Lei non era il capo della sicurezza. Miller non si sarebbe dovuto rivolgere a lei ma a Travers.

Lo sapeva anche il primo osservatore tutto questo, ma sembrava che il suo collega fosse sparito, e poiché Jason era in missione da qualche parte nel mondo per conto dello stesso Miller, come capro espiatorio rimaneva solo lei. Un ruolo che lei non aveva intenzione di ricoprire, e l’unico modo per non farlo era risolvere la crisi.

Per questo motivo Magdalene non aveva potuto sapere di più sull’assenza di Quentin o fare ricerche approfittando del caos che ancora dilagava e che aveva interrotto l’applicazione del protocollo per qualche minuto. Si era dovuta impegnare per trovare i responsabili dell’accaduto e dare una parvenza di ordine a quel caos. Miller le aveva dato pieni poteri.

Così era stata lei ha trovare la sala controllo devastata e le registrazioni distrutte, assieme a diversi tecnici privi di sensi. La squadra della sicurezza che aveva mandato a perlustrare l’intero complesso aveva fatto il suo rapporto mezz’ora dopo. C’erano stati cinque morti tra cui il caposquadra Regan e due operativi.

Marlin si era messa a raccogliere meticolosamente tutte le informazioni disponibili e si era cominciata a fare un’idea di quello che era successo. I commando che avevano attaccato il concilio dovevano essere stati almeno due, probabilmente tre o quattro, e nessuno era in grado di darne una descrizione esatta. Le uniche cose scomparse erano state le registrazioni della sicurezza, distrutte o trafugate, ed uno dei Diari degli Osservatori.

Quello di Catherine Parker.

 

Marlin aveva avuto paura che Faith fosse stata l’artefice del piano d’attacco, nonché uno dei commando. Perciò aveva cominciato ad indagare con più attenzione in quella direzione ma nessuno era stato in grado di riconoscerla e nessuno aveva notato strani “poteri” riguardo agli assalitori.

Momentaneamente soddisfatta dal fatto che apparentemente Faith non c’entrasse niente nell’attacco, e non potesse essere ricollegata ad esso, Marlin aveva riorganizzato le squadre di sorveglianza e provveduto alle mille piccole incombenze necessarie a far funzionare di nuovo quel posto.

Suo personale piacere era stato esiliare il tecnico delle comunicazioni che aveva aperto la sala controllo, in un oscuro avamposto in piena Africa. Che marcisse pure lì per il resto della sua vita.

Preparato a sua volta un rapporto dell’incidente, le cui lacune erano a dir poco abissali ma che era comunque il più esauriente che si potesse ottenere in così poco tempo, Magdalene aveva ritagliato un quarto d’ora di tempo per cercare di rintracciare Quentin, ora che disponeva di pieni poteri.

Nonostante questo non era riuscita a rintracciarlo. Tutto quello che aveva saputo era che Travers non si trovava in missione per conto del concilio, ma che era ufficialmente sparito. Probabilmente per provvedere a suoi personali, ed illeciti, affari personali. La cosa non l’aveva stupita, molti osservatori conducevano affari privati non del tutto legali, quello che interessava Magdalene era sapere che tipo di affari illeciti Quentin stava portando avanti.

Marlin chiuse un attimo gli occhi per far sparire le ultime macchie colorate che si agitavano ancora, mentre girava la poltrona nuovamente verso lo scrittoio, per finire di controllare gli ultimi rapporti della giornata.

Da quando aveva cercato di rintracciarlo senza successo, Magdalene, aveva avuto la certezza che Quentin non era stato sincero con lei per quanto riguardava i motivi che lo avevano spinto a cercare quell’accordo, e che quello che sapeva lei poteva non essere la verità o solo un parte di essa.

Così, nei giorni precedenti Magdalene aveva fatto anche un paio di chiamate in America, a gente al di fuori del concilio, che gli doveva dei favori, per un motivo o per un altro.

I suoi informatori le avevano comunicato in fretta che nessuna squadra speciale era mai arrivata a Boston e che si, c’erano stai disordini tra i demoni ultimamente, ma erano giusto regolamenti di conti tra due clan di demoni Kralesh. Così il motivo d’intervento di Travers si era dimostrato una scusa.

Marlin aveva fiducia che avrebbe trovato la soluzione al mistero “Travers”, ma per oggi, come ieri, sarebbe rimasta a casa, a svolgere il suo normale lavoro, sperando comunque di trovare notizie utili o riceverne da alcuni informatori che aveva contattato discretamente.

Inoltre, lei non voleva trovarsi a portata dell’ira di Miller quando sarebbe scoppiata. Lo conosceva da abbastanza tempo da sapere che sarebbe accaduto presto. Più salutare di rimanere alla villa sarebbe stato allontanarsi dall’Inghilterra e rendersi a sua volta irreperibile, come Travers, ma Magdalene sapeva anche che Miller non avrebbe mai osato minacciarla quando si trovava a casa propria. Perciò, al momento, lì era al sicuro come dall’altra parte del mondo.

Che gli altri dirigenti del consiglio se la sbrigassero da soli con un Miller in cerca di teste. Era impensabile per lui che qualcuno entrasse nella sede del concilio rubasse qualcosa e se ne andasse indisturbato, dopo aver distrutto le registrazioni della sicurezza. Naturalmente avrebbe anche usato questa scusa per far saltare teste “scomode” senza destare sospetti.

Magdalene guardò l’orologio, erano quasi le sei. L’orario per cui aveva fissato l’appuntamento con la cacciatrice.

Lo stesso giorno dell’attacco Faith le aveva telefonato per comunicarle che il lavoro a Washington era stato portato a termine senza problemi. La seconda prova che Faith non c’entrava niente con il furto, almeno non fisicamente.

Quando rialzò lo sguardo, pochi secondi dopo, trovò davanti Faith a sé, comodamente seduta nella  poltroncina davanti alla sua scrivania. Come sempre era vestita di scuro, una tonalità di blu notte, ma con pantaloni eleganti e maglione a collo alto. Per una volta sembrava aver lasciato da parte pantaloni di pelle nera e jeans.

-Buonasera Mars.

In fondo l’osservatrice non era stupita dell’entrata ad effetto della sua ospite. Se la aspettava. Anche se non capiva se la cacciatrice continuasse a presentarsi con questo genere di entrate perché le considerava un gioco divertente o perché in questo modo dimostrava di poter entrare quando voleva nella sua casa.

-Buonasera a lei Marlin.

Facendo ruotare la propria poltrona Magdalene si alzò ed andò verso la finestra dando volutamente le spalle all’ospite. Controllare i lineamenti del volto non era un problema per lei ma voleva vedere se la mancanza di contatto visivo diretto con un interlocutore innervosiva Faith. Anche se si erano già incontrate e Magdalene aveva studiato a lungo tutto quello che il concilio aveva sulla cacciatrice, si era trattenuta dal formulare alcun giudizio definitivo su di lei, in attesa di avere altri elementi.

-Immagino che lei non sappia dell’esistenza di porte e di persone addette a farle strada verso il mio studio, dopo averla annunciata.

-Oh, non si preoccupi, ne conosco l’esistenza ma ho pensato di risparmiare loro fatica. Del resto come mi sarei dovuta presentare? “Sono Faith Mars, omicida su commissione”. Suona un po’ male non trova? Oppure avrei dovuto dire “Faith, la cacciatrice di vampiri rinnegata ed ora carnefice di demoni”?

Stranamente, Magdalene apprezzava il sarcasmo della ragazza. Attualmente le piaceva, ma decise di rispondere seriamente, mentre prendeva nota del fatto che la ragazza le aveva risposto a tono, dandole naturalmente del lei come la stessa Marlin aveva appena fatto.

-Sarebbe bastato il suo nome.

Faith guardò negli occhi Marlin, che si era girata per andare verso un mobile che si trovava dietro di lei. L’osservatrice la superò uscendo dal suo campo visivo, ma la cacciatrice non si voltò. Sapeva che Magdalene la stava valutando, come la prima volta che si erano parlate.

Faith era andata ad affrontare questo incontro con solo due cose in mente. Non fidarsi mai di Magdalene, e non dimostrare alcuna vera debolezza.

Dalla prima volta che si era incontrata con Marlin aveva subito provato un’innata simpatia, una profonda voglia di stringere amicizia con la donna, oltre che averla come alleata.

Sapeva inconsciamente che lei e l’osservatrice si somigliavano per molti versi. Entrambe aveva avvertito questa somiglianza dalla prima volta che si erano incontrate. E sapeva altrettanto bene che fare amicizia con quella donna era impossibile da tanto tempo. Oltre ad essere mortalmente pericoloso.

Così il suo desiderio sarebbe rimasto solo un desiderio, ed ogni giudizio su quella donna sarebbe stato puramente razionale. Altrimenti non sarebbe stato difficile che, un giorno di questi, un osservatore annotasse la misteriosa ed improvvisa morte di un’altra cacciatrice, senza alcun vero motivo alle spalle.

-Cosa vuoi Marlin? Non mi hai fatto fare un volo di più di otto ore per dirmi come presentarmi ai tuoi domestici.

Ora che si erano “salutate” potevano passare ad argomenti più seri. Perdere tempo non era mai stata una cosa che Faith gradisse. E giocare con parole e titoli non lo aveva mai amato. Lei era convinta che bisognasse chiamare le cose con il proprio nome, il resto era fiato sprecato.

L’osservatrice annuì anche se la cacciatrice non poteva vederla. Si aspettava che fosse la ragazza a chiedere di venire subito al dunque. Aprendo lo sportello del mobile dei liquori le chiese cosa volesse.

-Quello che prendi tu.

Magdalene versò due bicchieri di scotch liscio e ne porse uno a Faith mentre proseguiva per andarsi a sedere alla propria poltrona.

-E se ti avessi chiamato qui per farti i complimenti per l’ottimo lavoro svolto?

La mora inarcò un sopracciglio guardando l’altra senza la minima considerazione per ciò che aveva detto.

-Se dicessi una cosa simile non ti crederei per un solo momento. Mi hai offerto un lavoro. L’ho accettato. L’ho svolto. Mi hai pagato. Questo è tutto. Se sono qui è per un altro motivo.

Sorseggiando il suo scotch Magdalene stava pensando a come decine di persone facevano a credere che quella davanti a lei non fosse altro che un macellaio. Se così fosse stato molto probabilmente le cose per Marlin sarebbero state molto più facili ora.

-Ti voglio proporre di entrare a tutti gli effetti nel concilio. Come capo di una delle squadre speciali.

-Intendi una di quelle unità che mi hanno dato la caccia, senza successo, per svariato tempo?

-Si. Una di quelle.

-No.

Magdalene se lo era aspettato. Ma sperava che almeno prima Faith si sarebbe informata un po’ di più. E sperava che quelle informazioni l’avrebbero incuriosita abbastanza da farle accettare l’incarico che intendeva davvero offrirle.

A Magdalene serviva un’altra alleata interna al concilio. Ed era a questo che mirava. Far entrare definitivamente Faith all’interno del concilio degli osservatori. Sapeva che era pericoloso dare alcun potere a quella ragazza, “no”, si corresse, “quella che mi siede davanti è decisamente una donna, ed una donna intelligente e decisa”, un punto interrogativo su cui Marlin correva il rischio di scommettere.

Perché era quella la verità. Lei non conosceva Faith, né le vere intenzioni della ragazza, e per questo motivo non avrebbe saputo prevederne il comportamento in futuro. Ma aveva bisogno di un’alleata nella guerra che conduceva. Era rischioso, ma non sapendo esattamente quale fosse la mossa che Quentin stava portando avanti in quel momento, doveva rischiare e legare a sé in maniera più stretta almeno una delle cacciatrici. Perché almeno in questo Travers aveva avuto ragione. Quelle cacciatrici non erano fedeli a lei.

Segretamente contava sul fatto che le informazioni sottratte al concilio qualche giorno prima arrivassero per vie traverse, di cui immaginava l’esistenza, alla cacciatrice. Sempre che la mora non fosse stata l’artefice del furto e avesse già letto una copia di quei libri. La fissò per un attimo studiandola.

La guardò negli occhi e Faith le restituì lo sguardo sostenendolo senza esitazione. In quegli occhi non c’era paura, non c’era malizia, né altro che Magdalene potesse riconoscere. Continuando il contatto visivo Marlin fece una domanda, tanto per valutare le reazioni della ragazza.

-So che ci sei tu dietro al furto al concilio.

Era un bluff, lo sapeva. Ma le conveniva giocarlo.

Faith la fissò senza tradire la minima reazione a parte un sogghigno ironico e l’inarcarsi del sopracciglio. Una luce sardonica le si accese negli occhi mentre rispondeva a tono all’affermazione dell’osservatrice.

-Davvero? Ci sarei io dietro il furto di cosa? –Tutti sapevano che la sede del concilio era stata violata. Fingere di non sapere nulla sarebbe stato come ammettere di essere colpevole. –Illuminami. Cosa avrei dovuto rubare? Meglio, cosa avrei fatto rubare?

-I diari della tua osservatrice.

-Parker?

-Ne hai avute altre?

-Una un po’ illegale e psicotica. Ma non me ne sono mai lamentata. Comunque avrei rubato quei libri. E per trovarci cosa?

-Magari delle risposte alle tue domande.

Gli occhi di Magdalene si erano accesi di una luce, Faith l’avrebbe detta “viva” per la prima volta da quando l’aveva conosciuta, mentre la incalzava con queste domande. Marlin non aveva l’aria di una che cedesse tanto facilmente, una volta trovata una pista che la convinceva. Stava facendo di tutto per farle ammettere qualcosa o farla contraddire. E presto o tardi ci sarebbe riuscita. Faith sapeva che doveva far trapelare qualcosa, qualcosa non necessariamente vero, per chiudere la conversazione.

-Le risposte alle mie domande non sono in quei diari. Altrimenti non sarebbero rimasti qui dentro così a lungo.

Mentre lo diceva aveva continuato a fissare negli occhi Magdalene. No, non stava mentendo, intendeva ogni parola di quello che aveva detto. Ma non era neanche tutta la verità.

Rimasero così a fissarsi per qualche altro secondo. Poi Faith sorrise, la maschera gelida tornò ad essere un semplice volto dai lineamenti sereni. Magdalene si rilassò contro lo schienale della poltrona, non si era accorta di aver irrigidito i muscoli, ma quello scontro le era piaciuto. “Si, Catherine aveva ragione su questa ragazza.”

 

 

 

Aeroporto di Sunnydale. Il giorno successivo.

 

 

 

L’aeroporto era poco distante dalla cittadina, forse dieci minuti in macchina, e piccolo come la stessa Sunnydale. Ad una sola pista, veniva utilizzato principalmente come raccordo con l’aeroporto internazionale di Los Angeles, o come punto di partenza per charter.

I tavoli dell’unica tavola calda aperta non-stop, erano affollati di passeggeri appena arrivati da Chigaco e da altri che aspettavano la chiamata del loro volo, chi impaziente, chi annoiato. Il vocio contenuto del locale era un piacevole ronzio di sottofondo a cui si mischiavano il rumore di posate e tazze che sbattevano. Ad uno dei tavolini sedeva Tara, sola, senza un evidente bagaglio a parte la sua borsa.

L’altoparlante comunicò l’avvenuto atterraggio del volo proveniente da New York, i cui passeggeri sarebbero usciti dal cancello 3. Tara prese distrattamente il segnalibro che aveva poggiato a fianco e lo inserì nel libro che stava leggendo, per poi chiuderlo e sistemarlo meticolosamente sul piano di plastica del tavolo.

La bionda prese fra le mani la tazza di tè, che aveva lasciato freddare negli ultimi minuti, cominciando a sorseggiarla mentre osservava con più attenzione la folla che la circondava. C’erano un paio di famiglie con bagagli al seguito che superarono la tavola calda senza entrarci, un indaffarato uomo d’affari con la cravatta allentata che imprecando si stava dirigendo verso l’uscita, urtando altre persone nella fretta di raggiungerla. La moltitudine di normali uomini e donne che passano in un aeroporto od una stazione, ognuno preso nella propria vita.

-E’ molto che aspetti?

Chiese Faith mentre si sedeva sulla panca dall’altro lato del tavolo, buttando la borsa nera che portava a tracolla, tutto il suo bagaglio, per terra, posizionandola fra le sue gambe.

-Una ventina di minuti.

-Mi dispiace che il volo abbia fatto tardi.

Tara si limitò a scrollare le spalle indicando il libro con un gesto della mano. Non era mai stata una persona impaziente. Fissò negli occhi la cacciatrice e si sorprese nel trovarla stanca, ma del resto negli ultimi giorni aveva viaggiato molto e doveva ancora abituarsi al nuovo fuso orario.

-Tutto bene?

Il tono di voce era cortese e tranquillo, Tara non aveva bisogno di una lunga ed articolata risposta.

-Volo piacevole e viaggio proficuo.

La cameriera si avvicinò chiedendo cosa volessero. Faith ordinò un panino ed un caffè mentre con lo sguardo controllava discretamente gli altri clienti della tavola calda. Non trovò alcun individuo sospetto ma aspettò che la cameriera si allontanasse per ricominciare a parlare.

-Ho un nuovo lavoro. Per certi aspetti migliore di quello precedente, forse più pericoloso a lungo termine. Poi ti spiego meglio.

Tara annuì senza fare domande. La loro amicizia funzionava anche per questo, perché nessuna delle due metteva pressione sull’altra facendo domande inutili o irritanti. In un certi aspetti lei e Faith erano molto simili, molto più di quanto tanti riuscissero a capire.

-Qui come va? Ci sono apocalissi questa settimana?

Il tono era leggero e così quello della risposta.

-Niente del genere. Un demone acquatico, di cui non ti dico neanche il nome tanto non lo riusciresti a pronunciare.

Faith fece finta di rabbuiarsi, offesa, per poi sorridere apertamente.

-Hai perfettamente ragione, anche se sono molto più brava di B con i nomi.

La cameriera tornò portando quello che Faith aveva ordinato. Poco elegantemente la cacciatrice si buttò sul panino, finendolo in meno di un minuto.

-Immagino ti abbiano già detto che sei un pozzo senza fondo.

La mora annuì mentre cominciava a sorseggiare la tazza di caffè con più lentezza.

-E’ la verità, ma del resto sugli aerei si mangia da schifo. Lo dovresti sapere.

Chiacchierarono del più e del meno per qualche altro minuto mentre entrambe finivano le loro tazze. Faith aggiornò Tara sulle ultime novità, confermando che il tempo in Inghilterra continuava a fare schifo. Finito il caffè, senza smettere di parlare la mora estrasse il portafoglio e lasciò venti dollari sul tavolo, più che abbastanza per pagare il suo conto e quello di Tara. Poi si alzò dal tavolo, rimettendosi in spalla la sacca nera.

-Ho la moto parcheggiata nel deposito sorvegliato. Ti do un passaggio a casa. Oppure puoi fermarti a cenare da me anche se sono le – Faith guardò l’orologio facendo un rapido calcolo, l’orario che segnava era ancora quello di Londra. –undici di sera. E’ una vita che non ceniamo assieme.

Vedendo l’aria scettica di Tara, Faith continuò a parlare.

-Per quanto riguarda la moto ho un casco in più, non ti preoccupare. E per la cena ho qualcosa di commestibile in casa. Niente hamburger promesso.

La strega annuì, un po’ più convinta dall’idea,  si alzò dal tavolo prendendo il libro sbrigandosi a raggiungere la cacciatrice che era già uscita dal locale.

 

 

Epilogo

 

 

 

“La fiducia può ucciderti o renderti libero.”

 

 

 

Boston, in un cimitero poco fuori città, una settimana dopo.

 

 

 

Il cimitero era silenzioso come sempre. Un timido sole si affacciava appena dalle nubi che coprivano l’azzurro del cielo.

Una figura, alta e slanciata, avvolta in un lungo cappotto nero che arrivava oltre le sue ginocchia, stava in piedi davanti ad una lapide, raccolta in silenzio. Stivali dal tacco alto calpestavano l’erba verde tenendosi a rispettosa distanza da dove era stata sepolta la bara due anni prima.

Come apparsa dal nulla, una seconda figura, più bassa della prima ed avvolta in un giubbotto di pelle marrone, logoro dall’uso e troppo grande per lei, si affiancò davanti alla lapide in marmo bianco. Sopra era inciso, con eleganti lettere dorate, “Catherine Parker. La migliore delle osservatrici, l’unica madre conosciuta.”

Rimasero entrambe in silenzio per alcuni minuti, l’una con i capelli neri sciolti sulle spalle, l’altra che li aveva legati con una pratica coda. In silenzio, perse nei loro ricordi e nelle loro paure.

 Faith tolse le mani dalle tasche del giaccone, e, inginocchiandosi, pose una rosa bianca sulla tomba. Si rialzò, pulendosi inutilmente i jeans neri sulle ginocchia, in un gesto nervoso, soltanto per occupare le mani, che poi infilò in tasca.

-Erano le sue preferite.

La voce dell’altra, quando rispose, era profonda e commossa, flebile, quasi un sussurro.

-Lo so.

Rimasero ancora in silenzio. In lontananza il rumore delle auto, quasi coperto dalle fronde degli alberi mosse dal vento leggero. Faith, le mani ancora in tasca, stringeva tra le dita il braccialetto d’argento che le aveva regalato Catherine e che ora, per rispetto e perché si sentiva in colpa, ingiustificata colpa, non portava più.

-Non so neanche più se crederci o no. E’ già capitato due volte. Un’altra tomba e un’altra morte. Non posso crederci, non so neanche se voglio crederci. –Ci fu una pausa mentre Miss Parker si spostava rabbiosamente i capelli dagli occhi.- E’ davvero in quella bara?

-Si, è lì. Questa volta è davvero finita.

L’aveva vista morire con i suoi occhi, e non aveva potuto fare niente. Non doveva aspettare i suoi incubi per rivivere quello che era successo. Era sempre lì, appena oltre l’orlo della sua coscienza, in attesa.

Passò altro tempo.

-La tua copia del diario è nella macchina assieme alle fotocopie che ho fatto degli altri volumi. –un cenno affermativo di Faith. -Intendi dare la caccia a chi è stato?

-No, non ora. Forse mai… - “…Fa già parte del passato?…” -Tu che farai?

-Quello che ormai faccio da anni. Sopravvivrò ed aspetterò. Magari un giorno andrò a caccia del colpevole o ti aiuterò ad ammazzarlo. Ma non ora.

Faith annuì. Entrambe avevano altre cose da fare. Erano sorti nuovi problemi. Entrambe dovevano portare avanti le loro vite e per molto tempo non avrebbero avuto tempo da investire per quel lavoro.

Tutte e due si erano trovate nella necessità di rompere vecchi equilibri per riuscire ad andare avanti, senza morire od essere escluse da quello che era una parte essenziale della loro vita. Avevano avuto bisogno dell’aiuto dell’altra per farlo. Per quello avevano lavorato insieme. Interessi comuni e fiducia.

Sapevano che si potevano fidare dell’altra sia per i rapporti che avevano avuto con Catherine, sia perché le loro vite erano completamente separate, nessun conflitto di interesse.

Avevano deciso di allearsi per qualche giorno. Uno scambio equo. Soltanto per il tempo necessario a bloccare i progetti egemonici di Mister Parker e Lyle, il tempo di costringere Marlin a fare una mossa.

Solo qualche giorno.

Non altro, non ora.

Fu Miss Parker a parlare mentre si allontanava.

-Sai, la vendetta… non avrebbe voluto.

Faith rispose in un sussurro, guardando la lapide.

-Lo so.

 

Fine