ONE STEP CLOSER

by Silea

 

Disclaimer: personaggi, situazioni ed eventi coperti da copyright sono proprietà degli aventi diritto, ed usati senza il loro consenso per scopi privi di lucro.

 

 

PARTE I

 

Prologo

 

Sunnydale Hospital.

 

 

 La stanza era in penombra, il silenzio rotto solo dai discreti bip dei macchinari sempre più deboli ed irregolari.

Il corpo, fino al giorno prima sano e vigoroso, giaceva abbandonato scosso solo da leggeri tremiti. La pelle aveva perso il colore rosato che la caratterizzava, quella leggera doratura dovuta all’abbronzatura, normale in California, per assumere un insano bianco pallido. Era coperta da miriadi di goccioline di sudore causate dall’alta temperatura corporea nonostante tutti gli antipiretici somministrati al paziente.

Il torace si alzava ed abbassava quasi impercettibilmente sotto il lenzuolo bianco, il respiro si faceva sempre più flebile ed irregolare.

Buffy era seduta a fianco del letto in silenzio il volto apparentemente scolpito in fredda, gelida, pietra.

Da quel corpo martoriato provenne un rantolo, un sommesso richiamo. Si avvicinò al letto per sentire meglio stringendo fra le sue le ormai tremanti mani dell’uomo.

-Come ti senti?

Chiese con dolcezza venata da preoccupazione.

-I-io.- la frase fu interrotta da un violento colpo di tosse, per poi riprendere più simile ad un sussurro, costringendo Buffy ad avvicinare l’orecchio alle labbra dell’altro. – Ti…amo…

La cacciatrice strinse con dolcezza la mano del ragazzo, mormorando in risposta.

-Non ti preoccupare Riley. Ti sentirai presto meglio.

Almeno all’ultimo non voleva mentirgli dicendo che l’amava…

 

Boston, in un cimitero poco fuori città, una settimana prima.

 

 

C’era silenzio, molto silenzio.

Camminava con attenzione evitando di fare il minimo rumore. I suoi stivali neri calpestavano l’erba verde quasi con dolcezza dimostrando le riverenza che aveva per quel luogo, riverenza decisamente inusuale per lei.

Il sole era alto, splendeva ma i suoi raggi non riscaldavano la terra. La ragazza, con un lungo cappotto di pelle nera che sfiorava appena  la ghiaia del viottolo, si fermò improvvisamente davanti ad una lapide di marmo bianco, si guardò un attimo attorno, incerta, chiedendosi se qualcuno la stesse seguendo, ma il posto era troppo tranquillo e sereno per permetterle di focalizzarsi su quei pensieri troppo a lungo.

Tolse le mani dalle tasche del lungo giaccone, e, inginocchiandosi, pose una rosa bianca sulla tomba.

-Erano le tue preferite.

La lapide era molto semplice, riportava solo il nome. Catherine Parker. Ed una scritta. La migliore delle osservatrici, l’unica madre conosciuta.

-Sono passati due anni. Due anni per accettare la tua morte. Sono successe tante cose da allora. Neppure il mio cinismo mi ha potuto tenere fuori dai casini in cui mi sono cacciata. Ho fatto tante idiozie che allora sembravano così giuste. Non troppo sbagliate comunque, l’unica scelta possibile.- un timido sorriso le si disegnò sulle labbra coperte da un rossetto scuro che le facevano risaltare sulla pelle bianchissima del viso. Ci fu qualche attimo di silenzio.- L’unica cosa che faceva di questa città la mia casa era la tua presenza. Ora non ci sei più e fa molto freddo. Troppo, anche per me.

 

 

Parte 1

Sunnydale, giorno.

 

 

Era una domenica mattina decisamente assolata. Buffy si stava dirigendo verso casa, erano due settimane che non vedeva la madre e le aveva promesso che avrebbero pranzato insieme.  Da quando si era trasferita al campus la vedeva raramente e sapeva che la donna si sentiva sola in quella grande casa, si sentiva in obbligo di andarla a trovare anche se ultimamente la quarantenne si comportava in maniera un po’ strana. Entrò in casa chiamandola ad alta voce, la trovò in cucina a preparare il pranzo, che, ha giudicare dall’odore, sarebbe stato ottimo. La salutò con un abbraccio ed un bacio per poi sedersi al piano bar e mettersi sfogliare il giornale che la madre comprava ogni mattina.

-Tutto bene con lo studio?

-Si mamma, non ti preoccupare. –Il che detto ad una madre come Joyce era del tutto inutile. Descriverla apprensiva era poco, ed il fatto che lei fosse la sua unica figlia non migliorava la situazione.

-Sono interessanti i corsi di psicologia che frequenti?

-Si molto, anche la nuova professoressa è molto in gamba.

-Nuova professoressa?

Joyce non sapeva niente dell’Iniziativa. –Si, l’altra è… si è trasferita.

Meglio che credesse che almeno una parte della sua vita fosse normale. Si sarebbe tranquillizzata, non aveva mai accettato il suo ruolo di cacciatrice ed il fatto che i demoni popolavano tutta la città. Continuarono a parlare del più e del meno aspettando che il pranzo fosse pronto e apparecchiando la tavola in sala. Mentre serviva a tavola le lasagne Joyce cominciò a parlare con un tono materno amareggiato, fatto apposta per farla sentire in colpa.

-Sei sparita per due settimane. E’ possibile che non mi puoi fare una telefonata in tutto questo tempo?

Gran bella domanda, avrebbe dovuto trovare una buona scusa. Usò la solita.

-E’ stato un periodo impegnativo, ho dovuto dare degli esami e la caccia mi ha assorbito molto… - “Un enorme coso mezzo demone e mezzo cyborg ha tentato di eliminarmi assieme a qualche dozzina di commando dell’esercito, tra cui il mio fidanzato, ha quasi causato la fine del mondo…”

Con un po’ di fortuna Joyce si sarebbe accontentata di questa risposta.

-Del resto di che ti preoccupi? Abbiamo lo stesso sangue nelle vene e a quello che raccontava nonna neanche tu passavi molto spesso a casa quando studiavi…

Guardò la madre e si accorse che era diventata improvvisamente tesa. Chissà cosa aveva detto. “meglio cambiare argomento…”, non voleva scontri familiari oggi.

-Come va il lavoro alla galleria?

-Cosa? No, no, tutto bene non ti preoccupare. Il solito, viaggio spesso per cercare i pezzi che mi servono ma gli affari vanno bene. –“mi sta nascondendo qualcosa, è un po’ di tempo che si comporta in maniera strana” pensò Buffy vedendo che la madre guardava dappertutto tranne che nei suoi occhi.

Era curiosa ma non sapeva che cosa chiedere per sapere cosa stava succedendo, così ignorò la strana reazione della madre per concentrarsi sulla sua bistecca con patate arrosto. Erano davvero buone, alla mensa dell’università si mangiava da schifo.

Forse avrebbe dovuto pranzare più spesso con la madre.

 

 

Boston, in un locale alla periferia della città.

 

 

Il locale era rumoroso ed affollato. La sala, piuttosto bassa, era piena di denso fumo e di vocianti clienti, le pareti, spoglie, se non per le gigantesche casse attaccate  con catene di ferro, ondeggiavano a ritmo della musica rock suonata dalla band sul palco.

Jack tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una banconota da cinque dollari, la posò sul bancone urlando al barista un rum doppio. Un cenno del capo del platinato che stava servendo i drink a due bionde mozzafiato gli assicurò che l’ordine era stato preso.

Si girò verso il suo amico moro poco più alto di lui che stava lì vicino.

-Hai capito Todd? Ho preso quel figlio di puttana per la collottola e gli ho sbattuto quel suo brutto muso da cane contro la parete di quella birreria. Dovevi vedere come ha parlato dopo…

Un sorriso gli illuminò la faccia sfregiata da una cicatrice sulla guancia sinistra. L’altro, evidentemente più giovane, lo guardava pieno di ammirazione, sognando di poter essere tosto come lui.

-Sei troppo forte Jack!

-Lo so. Dovevi esserci per vedere quanto tremava, sembrava un budino!

In quel momento alle sue spalle si avvicinò con passi lenti, studiati, simili a quelli di un felino in caccia, una ragazza bruna, alta, fasciata in pantaloni di pelle nera aderentissimi. Todd la guardò ammiccando, credeva che fosse lì per rallegrare la serata del suo boss, lei gli rispose con un sorriso, sempre più vicina all’uomo.

Improvvisamente, in un attimo, in un battito di ciglia, con un solo braccio prese per il collo Jack facendogli sbattere violentemente la faccia sul bancone del bar. Stupito, ancor prima di poter reagire, Todd si trovò steso a terra a causa di un calcio al torace, boccheggiando per riuscire a inalare un po’ d’aria.

La bruna si rivolse di nuovo verso Jack afferrandolo per i lunghi capelli castani per risollevargli la testa, lo fece girare senza tante cerimonie incollandolo al bancone con un presa di acciaio.

L’uomo poteva sentire tutte e dieci le gelide dita penetrargli nella carne delle braccia impietose del dolore provocato, stringendo sempre più ad ogni istante fino a raggiungere l’osso. Bestemmiò dal dolore.

Attorno, gli altri clienti continuavano a divertirsi indisturbati, ignorando la scena che si stava svolgendo sotto i loro occhi. Volevano vivere ancora per qualche giorno.

La ragazza fissò l’uomo che gli stava davanti con le mani che gli coprivano il volto in atteggiamento difensivo.

-Sono venuta per quelle informazioni…

Gli sibilò lei a meno di un centimetro dall’orecchio.

-Non so niente. -fu la risposta biascicata, coperta dalla musica e distorta dalle mani sopra la bocca.

-Peccato.

Il diretto lo colpì allo stomaco facendolo urlare dal dolore. Le mani si spostarono dal volto insanguinato per raggiungere il ventre.

-Prova a ricordare Jack… è per il tuo bene.

Lui la guardò attraverso gli occhi appannati dal dolore e accecati dall’alcool. Quella ragazza dalla pelle alabastro non scherzava e lui lo sapeva, l’aveva già incontrata, per meglio dire, gli era già sfuggito. Sapeva leggere nello sguardo degli altri, in quello che lo fissava c’era la sua condanna a morte.

-Sunnydale. E’ andato a Sunnydale. Derek ha lasciato la città da un paio di settimane.

-Hai guadagnato un altro giorno.

Fu la constatazione che salutò le sue parole, c’era meno emozione in quelle parole che in un’ordinazione ad un ristorante.

Faith lo lasciò andare dirigendosi silenziosamente, come se niente fosse successo, verso l’uscita.

Todd si alzò dal pavimento, guardando con disprezzo verso Jack, che cercava di tamponare l’uscita del sangue dal naso meglio possibile con le sole mani. Guardò verso la persona che credeva, fino a qualche minuto prima, degna del suo rispetto. Poi si girò a guardare con odio la schiena della bruna che stava uscendo dal locale. Gli aveva distrutto un’illusione.

 

 

 

Sunnydale, notte.

 

 

Buffy camminava tranquillamente con Riley al suo fianco, mano nella mano. Era una serata molto tranquilla come le settimane precedenti. La scomparsa di Adam sembrava avesse fatto sparire tutti i demoni. In quattro giorni aveva ucciso un solo vampiro appena nato. Ed ad essere sinceri questa tranquillità non la disturbava affatto, poteva finalmente dedicarsi ad una vita “normale” come cercare di stare dietro a tutti quegli esami che doveva dare, andare a qualche festa, sopravvivere un’altra settimana. Eppure c’era qualcosa che non quadrava, qualcosa che la rendeva irrequieta, insoddisfatta. Sentiva quasi una minaccia incombente ma Giles le aveva più volte assicurato che non era così.

-A cosa pensi?

La voce di Riley la risvegliò dai suoi pensieri, che riguardavano, come sempre, demoni ed affini.

-Nulla di importante- quante volte aveva sognato dire quella frase intendendo esattamente quello, senza mentire.- Tranne che devo studiare un sacco in questo periodo, mi aspettano tre esami di fine corso.

Rispose con un sorriso sincero. Si sentiva bene con il ragazzo al suo fianco.

-Che ne dici se andiamo nella mia stanza? Tanto mi sembra che i vampiri questa notte non siano molto attivi…

Il sorriso di Buffy si fece più largo. Amava Riley proprio per questo, riusciva a non farla pensare. Era così…giovane, per evitare il termine immaturo, come lei. Ed avevano entrambi voglia di divertirsi.

-E’ un’ottima idea.

 

 

 

Il pullman si fermò nel piazzale deserto, malamente illuminato da qualche lampione, il posto ideale per un agguato, si sarebbe potuto pensare, ma la gente non contempla mai quel genere di possibilità. La sala d’attesa era vuota tranne per l’addetto notturno, decisamente addormentato, che aveva una faccia così bianca da sembrare un vampiro.

Faith fu l’unica a scendere a questa fermata, ritirò il suo bagaglio, una borsa di tela nera anonima. In silenzio, immersa in qualche pensiero, che non le aveva impedito di controllare bene la zona attorno a lei prima di muoversi, si avviò verso la zona del porto dove, lo sapeva, avrebbe potuto trovare un qualche posto adatto a passare la notte. Aveva un amico, l’unico che probabilmente le era rimasto in quella città fra i molti nemici che si era fatta, che sarebbe stato molto felice di rivederla ancora viva e senza pretendere alcuna spiegazione le avrebbe trovato un posto dove passare a notte. Un posto sicuro, doveva muoversi con molta attenzione, non sapeva come spiegarlo, ed in realtà non ce ne era bisogno, ma sapeva che presto qualcuno avrebbe cominciato a cercarla, e non per dirle grazie, inoltre doveva mantenere un profilo basso per non spaventare la sua preda.

Non aveva intenzione di passare il suo tempo a combattere per la sua vita mentre quello che cercava si sarebbe dato alla fuga, rendendosi davvero irreperibile questa volta, averlo ritrovato era stato davvero un colpo di fortuna. Che, lo sapeva, non si sarebbe ripetuto.

Una volta trovato un buco per posare la sua roba, un materasso sarebbe stato un lusso, non una necessità (non aveva mai avuto alte pretese, non ne aveva mai avuto la possibilità) sarebbe andata a cercare informazioni in un paio di locali.

 

 

In un bar del porto.

 

 

 

Erano le quattro del mattino. Il locale doveva essere chiuso. Non le importava. Forzò la porta ed entrò. L’interno era buio e silenzioso, scostò una sedia da un tavolo e si sedette. Posò la borsa sul pavimento ed attese.

Pochi istanti dopo la luce si accese, un uomo sulla trentina, capelli neri  piuttosto lunghi raccolti in una coda si avvicinò al bancone cominciando a risistemare i bicchieri usati dai clienti. Sembrava appena essersi alzato, più probabilmente non era ancora andato a dormire.

-Siamo chiusi.

Lo disse senza neanche alzare la tesata per vedere chi fosse l’ultimo cliente. Non sembrava spaventato dal fatto che avessero dovuto forzare la porta per entrare. Era una sorta di assuefazione al pericolo che si imparava dopo anni di lavoro in posti tanto malfamati.

-Anche per gli amici?

Lui alzò per la prima volta il viso e la vide.

-Faith ma che piacere! Quando sei tornata? Lascia stare, ad occhio e croce da mezzora. Dove eri andata a finire? Ho saputo che appena svegliata dal coma te ne sei andata…

-Diciamo che avevo qualcosa da finire da qualche altra parte.

-Sai che le sibille erano più chiare di te… comunque cosa posso fare per aiutarti?

-C’è lo ho scritto in faccia che mi serve aiuto o cosa?

Scherzò lei, colpita dalla disinteressata offerta di aiuto, sebbene se la aspettasse.

-Diciamo che è l’effetto del borsone nero. Allora?

-Un posto sicuro dove dormire.

Lui annuì e scrisse due indirizzi su un foglietto di carta.

-Scegli quello che vuoi e se ti serve usa anche l’altro.

Lei sorrise, prese il foglietto e lasciò la stanza.

-Mai una volta che dicesse grazie.- mormorò il ragazzo scuotendo rassegnato la testa.

 

 

 

Cornovaglia, Inghilterra.

 

 

-Abbiamo localizzato l’obbiettivo, Signore. Una soffiata di una delle nostre spie.

L’ufficio era cupo, arredato con mobili di legno dalla presenza soffocante. Il cinquantenne dai capelli grigi seduto dietro la pesante scrivania guardò attentamente la giovane donna che gli era davanti.

-Dove si trova?

-E’ diretto a Sunnydale, Signore.

L’uomo rifletté per un istante.

-Chi abbiamo lì in zona?

-Tre operativi a Los Angeles e quattro ombre in città.

-Li voglio tutti impegnati in questa operazione. Devono localizzare con più precisione l’obbiettivo.

-Una volta localizzato cosa faremo Signore?

-Procederete al recupero, Miss Ridely.

-In quali condizioni, Signore? Il soggetto deve essere preso vivo?

-Preferibilmente. Andrete voi stessa sul luogo, il recuperò seguirà il protocollo Gamma. Sarete il coordinatore sul campo, direttamente responsabile dell’operazione.

-Protocollo Gamma, Signore?-chiese stupita la solitamente impassibile operatrice dai lunghi capelli castani.

Le rispose solo lo sguardo di ghiaccio del suo interlocutore. Si ricompose al suo meglio e lasciò l’ufficio quasi sussurrando.

-Come vuole Mister Travers.

 

 

 

In una stanza di un motel alla periferia di Sunnydale.

 

 

Faceva davvero caldo ma lui era abituato a ignorare le condizioni atmosferiche. Aveva un ottimo controllo del proprio corpo, doveva averlo con il lavoro che faceva. Appena entrato posò con cura le buste della spesa. Odiava andare a mangiare in posti affollati come ristoranti e tavole calde. Era un solitario nel lavoro e nella vita. Spesso aveva sospettato di soffrire di una lieve forma di agorafobia, stare in mezzo alle altre persone lo innervosiva molto ma riusciva a contenere questa sensazione sopratutto quando era concentrato su un obiettivo.

Si tolse gli occhiali scuri, li portava anche se non ne aveva bisogno, gli servivano per evitare domande. La colorazione rossa dei suoi occhi era decisamente inusuale. Un punto sfavorevole nel suo lavoro. Aveva faticato molto per rendersi “comune”, c’erano state diverse sedute da un chirurgo plastico e anni di studio.

Si sfilò la giacca chiara che portava per appenderla ordinatamente. Posò la pistola sul vicino comodino ravvivandosi i capelli con la mano. La prima parte del suo piano era andata egregiamente a termine, poteva considerarsi soddisfatto. Ora doveva far semplicemente passare il tempo in attesa dell’occasione propizia. Doveva colpire ancora il suo secondo obbiettivo, il più difficile secondo l’agente che l’aveva contattato.

 

 

 

Sunnydale Hospital.

 

 

Buffy stava prendendo il suo quarto caffè della giornata. Definirlo caffè era decisamente ottimistico, si sarebbe piuttosto dovuto dire acqua calda colorata, ma lei in quelle condizioni non sentiva neanche i sapori. Vicino a lei nella sala d’aspetto c’erano Xander ed Anya che si tenevano silenziosamente per mano, e la madre, chiusi in un ostinato silenzio, sembrava facessero a gara a chi rimaneva per più tempo immobile. Buffy invece aveva scavato un solco nella moquette della sala a furia di andare avanti ed indietro. Erano quattro ore che stavano aspettando fuori dalla stanza di Riley alternandosi al suo capezzale per soli pochi minuti per non affaticarlo, era stato fatto scendere dai piani superiori uno specialista delle malattie infettive che aveva dichiarato sconosciuto ma non contaminante il veleno che aveva colpito Riley .

Willow, Tara e Giles stava facendo delle ricerche sul demone. Se lo erano fatto descrivere. Aveva un aspetto umanoide con i soli occhi rossi a distinguerlo dagli essere umani. Si trattava di un demone sicario che raramente usufruiva di veleni. Doveva essere stato pagato da qualcun altro, era raro che questa specie si muovesse per scopi personali.

In quel momento l’ex bibliotecario li raggiunse nella sala d’aspetto, il suo volto tirato non prometteva niente di buono.

-Che veleno è?

-Si tratta dello Snidered.- una pausa durante la quale si tolse gli occhiali e si sfregò gli occhi.- Mi dispiace Buffy ma è mortale.

-Che significa?

-Non c’è antidoto.

Lei finora aveva coltivato in segreto una speranza. Giles gliela lesse facilmente negli occhi.

-Neanche il tuo sangue può far nulla.

 

 

 

Vicino al porto.

 

 

 

Faith se ne stava sdraiata al buio nel grande locale, una volta era un magazzino, scarsamente arredato. Non riusciva a prendere sonno, come sempre del resto. Quasi una maledizione che la perseguitava.

Si rimise a pensare all’uomo che doveva trovare. Lo aveva visto una volta durante un altro viaggio di affari. Allora era biondo e portava baffi e pizzetto ma dubitava che avesse mantenuto il suo look. Era uno dei migliori killer in circolazione. In realtà non si sapeva neanche se fosse umano o demone. Non che a lei importasse.

Quella volta aveva potuto osservarlo per qualche minuto, lo aveva sentito parlare. Ne aveva visto lo sguardo. L’unica cosa che non si era ancora in grado di cambiare. Poteva riconoscerlo. Doveva fare in fretta però, lui era qui per un lavoro, quello che lei doveva impedire.

Tra qualche ora avrebbe cominciato a cercarlo. Doveva controllare tutti i motel e gli alberghi, pochi per fortuna, poi avrebbe controllato i bar ed i ristoranti. Sentì il sonno sopraggiungere. Anche quella giornata era finita.

 

 

 

Si svegliò di soprassalto respirando affannosamente. Era stato un incubo. Le ci volle quasi un minuto per ritrovare la calma. Non era uno dei suoi soliti incubi che la tormentavano di notte.

Cercò di richiamare alla mente le immagine del sogno prima che sparissero lasciandola solo con questa strana sensazione alla bocca dello stomaco.

Più che immagini però sembravano visioni trasmesse. Come se ciò che avesse sognato non le appartenesse. Desiderò ardentemente che con lei ci fosse ancora Catherine la sua osservatrice.

Deglutì un paio di volte per scacciare i ricordi che la stavano per assalire e tornare a concentrarsi sul sogno.

Era successo qualcosa di veramente spiacevole. Di questo era certa, Non aveva visto vere e proprie figure ma più che altro essenze eteree di persone. Questo era strano, i suoi erano incubi molto reali con immagini e sensazioni molto nitide.

Si ricordava una persona impaurita e rabbiosa, improvvisamente fu certa che fosse Buffy, che sembrava stare al fianco di qualcuno debole e indifeso cercando di confortarlo. Dovevano aver ferito qualcuno dei suoi amici.

Era stata assalita da queste emozioni improvvisamente come se… come se Buffy gliele stesse trasmettendo. Doveva essere stata una cosa del tutto inconscia, non avrebbe mai creduto che Buffy la mettesse a parte consciamente delle sue emozioni (in altri tempi sarebbe stato un errore mortale).

Rimase per un po’ sul letto a pensare osservando il soffitto. Poteva rimanersene lì a non fare niente (rimettersi a dormire non era un opzione, era troppo scossa) oppure andare a scoprire cosa era successo.

 

 

 

Sunnydale Hospital.

 

 

 

Odiava le condutture dell’aria. A differenza di come apparivano nei film erano sempre sporche e pericolanti. Del resto non se ne poteva andare a spasso per il pronto soccorso mentre tutta la scooby-gang (che nome orrendo si erano scelti) stava cercando un colpevole. Non era salutare.

Continuò a strisciare fino a raggiungere la sala medici. Sperava di raccogliere qualche informazione.

Fu fortunata. Tra le grate poteva intravedere due medici che sorseggiavano del caffè intenti in una qualche conversazione. Faith si immobilizzò per ascoltare.

-…il paziente della tre?

-E’ stato avvelenato, non sopravvivrà ancora a lungo. Quella tossina del tutto sconosciuta lo sta praticamente mangiando vivo, credo che lo abbiano capito anche i suoi amici. Hanno delle facce…

-La stessa che avresti tu nelle loro condizioni…

“Così uno degli amici di B sta per lasciarci. Una tossina sconosciuta, deve essere stato in uno scontro. Potrebbe essere stato Derek, mi sembra che abbia usato spesso dei veleni per i suoi lavori, è un esperto. Non posso fare niente, tanto vale tornarmene a casa.

 

 

 

Buffy aprì silenziosamente la porta, per poi andarsi a sedere sulla scomoda ed inospitale sedia di plastica bianca vicino al letto.

Le sembrava di aver già vissuto tutto questo.

Aveva già vissuto tutto questo.

Ricordava il corpo di Angel steso nel suo letto alla mansione, quei raggi rossi che si andavano trasformando in neri espandendosi dalla ferita, inarrestabili, inesorabili. Ricordava il dolore, la paura, la speranza.

Dolore e paura c’erano anche oggi. Diversi, più maturi, in un certo senso più simili a dolori sordi che agli stiletti acuti che le trapassavano il cuore quella prima volta. Era passato un solo anno, ma lei era cambiata moltissimo, forse troppo.

Non c’era la speranza. Non più. Il veleno che avevano usato questa volta era davvero mortale. Nessun antidoto. Giles e Willow stavano ancora cercando ma lei “sentiva” che non c’era rimedio.

Questa volta sarebbe morto.

A lei spettava solo il ruolo di osservatrice. Il ruolo che più odiava tra tutti i possibili. Doveva rimanere lì impotente ad osservarlo morire in un’ora, forse meno, come le avevano detto i medici.

La magia e le arcane alchimie non erano state le sole a fallire. La tanto vantata scienza moderna non aveva potuto fare niente se non assistere al graduale disfacimento degli organi interni ed al progressivo accumulo di sangue nei polmoni, impossibile da drenare. Riley sarebbe morto affogato nel proprio sangue.

La stanza era in penombra, il silenzio rotto solo dai discreti bip dei macchinari sempre più deboli ed irregolari, il condizionatore era al massimo, faceva quasi freddo.

Buffy rabbrividì.

Il corpo, fino al giorno prima sano e vigoroso, giaceva abbandonato scosso solo da leggeri tremiti. La pelle aveva perso il colore rosato che la caratterizzava, quella leggera doratura dovuta all’abbronzatura, normale in California, per assumere un insano bianco pallido. Era coperta da miriadi di goccioline di sudore causate dall’alta temperatura corporea.

Il torace si alzava ed abbassava quasi impercettibilmente sotto il lenzuolo bianco, il respiro si faceva sempre più flebile ed irregolare.

Buffy era seduta a fianco del letto in silenzio il volto apparentemente scolpito in fredda, gelida, pietra.

Da quel corpo martoriato provenne un rantolo, un sommesso richiamo. Si avvicinò al letto per sentire meglio stringendo fra le sue le ormai tremanti mani dell’uomo.

-Come ti senti?

Chiese con dolcezza venata da rabbia ed angoscia.

-I-io.- la frase fu interrotta da un violento colpo di tosse, per poi riprendere più simile ad un sussurro, costringendo Buffy ad avvicinare l’orecchio alle labbra dell’altro. – Ti…amo…

La cacciatrice strinse con dolcezza la mano del ragazzo, mormorando in risposta.

-Non ti preoccupare Riley. Ti sentirai presto meglio.

Almeno all’ultimo non voleva mentirgli dicendo che l’amava. Ora che aveva ammesso anche con se stessa che non era così.

Sentì la mano di lui stringersi impercettibilmente in risposta alle sue assicurazioni. Erano delle bugie dovute a chi era sull’orlo della morte.

Il silenzio fu rotto da un altro violento colpo di tosse. Apparve ancora del sangue sulle labbra e lungo la guancia del commando dell’esercito. La lunga agonia stava per avere termine.

Il respiro che seguì fu un rantolo disperato alla ricerca di ossigeno.

Il bip dei macchinari venne sostituito da un ininterrotto segnale acustico.

Pochi istanti dopo Buffy fu scostata dall’infermiere e dal dottore sopraggiunti in un ultimo disperato tentativo di rianimare quel corpo, che lei già sapeva, senza vita.

Le voci ed i rumori le sembravano così distanti, irreali.

Il dottore con delle piastre in mano urlò.

-Trecento, libera!

Il tentativo di rianimazione durò ancora qualche minuto, poi con una voce priva di ogni inflessione il medico costatò la morte.

-Decesso avvenuto alle ore…

Buffy precipitò nei suoi incubi.

 

 

Los Angeles, aeroporto.

 

 

-Il volo 450 da Londra è appena atterrato all’uscita 22.

Una donna dai lunghi capelli castani vestita con un severo vestito blu notte uscì dal gate cercando tra la folla in attesa il suo contatto. Lo riconobbe facilmente. Alto, biondo, corporatura massiccia vestito completamente di nero, la tipica guardia del corpo.

Le si avvicinò con passo tranquillo.

-Ben arrivata signora Ridely. Gli altri ci stanno aspettando in macchina qui fuori andremo subito a Sunnydale.

-Bene signor…

-Smith. –Rispose lui.

Lei sospirò sconsolata, ci avrebbe scommesso, fantasia zero. Chissà se sceglievano per quel genere di lavoro in base all’assenza di cervello. Già odiava quel posto.

 

 

Sunnydale, notte.

 

 

Era a caccia.

Voleva uccidere.

Doveva uccidere.

Sentiva la sete di vendetta scorrerle prepotente per tutto il corpo.

Doveva togliersi di dosso quel senso di impotenza, quella frustrazione che l’attanagliava. Sapeva che non sarebbero spariti finché non avesse ucciso qualcosa. Qualsiasi cosa.

Aveva bisogno di una preda.

Di una vittima.

Una morte e sarebbe tornata la soddisfazione di sé, il potere…

La sete, desiderio di sangue imperava nella sua mente. Sentiva quasi una voce dentro di lei che chiedeva riparazione. Voleva quei pochi istanti durante il combattimento in cui la coscienza, come era conosciuta da tutti, sparisse per lasciare spazio a quel rassicurante nulla. Aveva la necessità, il disperato, angosciate bisogno di quell’attimo di onnipotenza che dava la vittoria, l’esser sopravvissuti. Rigirava instancabile il paletto nelle sue mani aspettando la sua vittima mentre camminava nel cimitero. Una vittima, niente altro.

Nella cintura portava anche un coltello. Avrebbe fatto soffrire quel demone sicario prima di ucciderlo. Ripeteva senza sosta il suo nome più volte nella mente, instancabile. Karatum. L’assassino. Sarebbe morto. Non le importava il tempo che ci sarebbe voluto. Sarebbe morto.

 

 

 

Faith aveva controllato tutti i motel e i ristoranti della città. Sembrava che nessuno avesse visto  l’uomo che cercava. Era frustante e stancante andarsene in giro senza trovare niente interrogando decine di persone che non avrebbero distinto un cetriolo da un assassino. “Dannazione!” imprecò Faith, “possibile che non lo sentano? L’aura di morte che quell’essere si porta dietro può essere fiutata da un miglio!

Le sue ricerche però non davano frutti. Doveva aver trascurato qualcosa. Cominciò a riesaminare i fatti. Cosa sapeva dell’assassino? Era in circolazione da quasi quindici anni, “un record”, non era mai stato preso, sembrava così sicuro di sé improvvisamente ricordò. Era un solitario. Evitava le persone, probabilmente gli davano fastidio, il perché non le interessava. Lo aveva notato subito nella hall di quell’albergo a Miami. Sembrava quasi ritrarsi quando qualcuno passava vicino al divano dove si era sistemato.

Si diede dell’idiota, aveva perso intere ore a controllare i ristoranti. Non era così che agiva. Probabilmente si faceva da mangiare da solo, quindi doveva trovare il negozio dove aveva fatto provviste. Scartò ipermercati e centri commerciali. Probabilmente si serviva in negozi a conduzione familiare. Avrebbe cominciato con quelli vicino a motel ed alberghi, preferibilmente aperti ad orario non-stop.

 

 

 

Stava albeggiando. Aveva trovato cinque vampiri. Li aveva “interrogati”. Non ne aveva ricavato nulla. Cumuli di cenere.

Era tardi. O presto. Punti di vista.

Rimase per un attimo sul limitare del parco dove aveva incenerito da poco un vampiro pericolosamente in ritardo per rientrare nella sua tana.

Vide prima il chiarore dell’orizzonte poi il primo raggio di sole che la scaldò piacevolmente. Chiuse gli occhi assaporando al momentanea pace. L’adrenalina dello scontro era ancora in circolo.

Fino a notte non avrebbe più potuto cacciare, almeno non vampiri. La mente le si schiarì un po’, la sete era per il momento, solo per il momento, saziata. Poteva pensare lucidamente. La sua vera preda era il Karatum.

Aveva bisogno di informazioni. Willy.

 

 

 

Aveva una traccia. La vecchia della cassa se lo ricordava. Alto, moro, vestito con un abito chiaro. Lo aveva osservato perché ero uno sconosciuto ed aveva “un non so che di misterioso. Credevo che potesse essere un taccheggiatore, e poi quegli occhiali scuri…”. No, non, aveva la macchina né altri mezzi, si era avviato a piedi lungo la strada.

Faith aveva ringraziato allungando una banconota da dieci dollari alla signora dai capelli grigi, ricevendo come effetto l’aggiunta di un’osservazione. “Ha fatto la spesa per qualche giorno comprando anche dell’acqua da bere ma non aveva niente altro, né alcool né bibite”.

Faith era rimasta un attimo a pensare. A Miami lui sorseggiava un drink. Probabilmente frequentava un bar. Era alla periferia sud, la zona che conosceva meno imprecò fra sé. L’aspettava una lunga notte passata fra un bar ed un altro.

 

 

 

Non aveva ottenuto alcuna informazione utile. Willy non sapeva niente. Lo aveva capito dopo il naso e il secondo dito rotto che stava dicendo la verità. Non sentiva la stanchezza, le sembrava di essere in una condizione in cui tutte le sensazioni (fatica, dolore) venivano registrate con un secondo di ritardo, attutite.

Lei voleva vendetta. Esigeva vendetta. Non si sarebbe fermate fino ad allora.

Il porto.

Lì poteva avere delle informazioni.

 

 

 

Casa di Giles.

 

 

 

Il suono del telefono lo svegliò. Riuscì a rispondere al terzo squillo.

-Pronto?

-Signor Giles? Sono Willow. Buffy non è tornata questa notte.

L’inglese sospirò, se lo era aspettato.

-Lo immaginavo. Non credo che tornerà ancora per delle ore, forse per dei giorni.

Era così stanco…

-Cosa sta facendo? E se ha bisogno di noi? E le sue classi, che dirò ai professori, come farà per recuperare le lezioni perdute, e se la madre dovesse telefonare…

-Willow respira. –Si passò una mano davanti agli occhi, gli bruciavano. –In questo momento Buffy deve stare sola, vuole stare sola. Sta provando molto dolore, vuole vendetta, ha anche paura. Probabilmente si sente anche colpevole. Le ci vorrà del tempo per calmarsi. Rimani il più possibile in camera e aspettala. Lo stesso farò qui ed Anya al negozio. Se la vedi o la senti sii rassicurante. Tornerà, come sempre. –“od almeno spero”.

 

 

 

New York, immortals’ body building.

 

 

 

In sottofondo si sentiva la musica di una delle tante radio commerciali a volte sovrastata dal rumore dei pesi che colpivano il pavimento. Vicino ad una panca orizzontale c’era un gruppetto di persone che chiacchieravano del più e del meno. Tra loro c’era una donna castana, apparentemente sulla trentina, dal corpo ben scolpito, che sembrava essere l’anima della conversazione.

Sopragiunse in quel momento un altro ragazzo, un istruttore, vestito con la tuta della palestra la scritta staff sulla schiena, toccò leggermente la spalla della donna per attirarne l’attenzione. Lei si girò ancora ridendo della battuta che aveva appena ascoltato.

-Cosa c’è David?

-Niente di particolare Eliza, ti volevo solo informare che quel tuo amico John ti sta aspettando fuori.

Lei lo ringraziò con un cenno del capo dirigendosi verso il bar della palestra.

Non era troppo affollato data l’ora tarda del pomeriggio, così riuscì ad individuare con facilità il suo amico, un uomo sulla cinquantina dai capelli brizzolati che sedeva ad un tavolo un po’ appartato bevendo quello che sembrava un drink analcolico.

Eliza si sedé salutando calorosamente l’altro.

-Quanto tempo è che non ci vediamo?

-Sei mesi, credo. – rispose lui.- Ti trovo identica.

-Davvero? Non l’avrei mai detto. – rispose lei ironica.

Scoppiarono entrambi in una breve risata. John sorseggiò per qualche momento il suo drink prima di riprendere.

-Ho le informazioni che mi hai chiesto.

-Grazie, forse è meglio proseguire il resto della conversazione nel mio ufficio però.

L’altro rispose con un cenno affermativo alzandosi dalla sedia.

L’ufficio era abbastanza piccolo e confortevole con le pareti di vetro coperte da tendine mobili. Sugli scaffali un’impressionante collezione di armi per arti marziali, insegnate nella palestra e praticate da Eliza, ed una spada molto ben affilata.

-Accomodati. Sei riuscito a rintracciare quel tuo amico?

-Si. Sai che non te ne posso fare il nome vero Liz?

-Non serve, mi basta la tua parola che hai usato solo collegamenti sicuri.

-Ce l’hai. Ma non mi hai ancora detto a che ti servono queste informazioni.

Eliza fece un piccolo sospiro prima di parlare.

-Servono ad una mia amica. Diciamo che ha dei problemi irrisolti con il concilio degli osservatori.

-E a cosa gli servono queste informazioni?

-Diciamo che vuole conoscere un po’ meglio chi ha cercato e probabilmente cercherà di farle la pelle, e vuole delle risposte a certe domande.

-Va bene. Devi sapere che…

 

 

 

Il terzo giorno dalla morte di Riley, notte.

 

 

Era davvero stanca. Più precisamente esausta.

Sembrava che nessuno avesse mai visto o sentito di questo Karatum. Aveva messo sottosopra la città. Aveva distrutto due nidi di vampiri, sorpreso di notte altri dieci succhiasangue, ucciso un polgara e altri quattro demoni di cui non conosceva neanche il nome. Ma di lui, dell’unico che gli interessava niente.

Gli abiti che indossava ormai erano sporchi di cenere e terra miste a sangue rappreso. Si era procurata diverse ferite superficiali durante quegli scontri. Una spalla era infiammata, le si era gonfiata ed aveva cominciato a farle un male infernale.

Era ora di tornare a casa. Tutto quello che voleva era dormire. Poi, forse, mangiare. Non si ricordava esattamente più quale era stato il suo ultimo pasto. Soprattutto la rabbia, il dolore, quello che l’aveva fatta andare avanti finora erano spariti. E con essi l’adrenalina che la confortava così tanto.

Si avviò verso il campus stringendo nella mano, che solo ora si accorgeva percorsa da crampi, un paletto ormai spuntato e quasi inutile.

Ad un tratto, improvvisamente li sentì. La stanchezza le aveva impedito di accorgersene finché non fu troppo tardi. Era circondata. Si concentrò un attimo. Dovevano essere una quindicina. Decisamente troppi.

Strinse di nuovo con forza il paletto cercando una via di fuga. Si accorse di essere entrata in un cimitero. Aveva voluto prendere una scorciatoia per il campus. Pessimo errore. Si guardò attorno cercando un luogo adatto ad affrontarli tutti.

 

 

 

Faith l’aveva trovato. Era nel terzo locale che controllava quella sera sempre nella zona sud della città la più lontana dal porto e dal campus. Lui era seduto ad un tavolo d’angolo quasi completamente immerso nell’oscurità, gli abiti troppo eleganti lo avevano tradito. Corrispondeva alla descrizione della donna. Capelli scuri, occhiali da sole sulla testa, aria distinta ma un po’ misteriosa.

La cacciatrice si era seduta al bancone ordinando una birra. Continuò ad osservarlo con discrezione accorgendosi ben presto dell’aurea, l’unico termine che dava un’idea di quello che lei percepiva, che quel killer emanava.

Non voleva affrontarlo in quel luogo pubblico. Avrebbe potuto approfittare della confusione per scappare. Non si poteva permettere di sbagliare. Inoltre le serviva vivo, era l’unico collegamento che aveva con i mandanti di cui cercava informazioni. Voleva interrogarlo od almeno dare un’occhiata alle sue cose.

Finito il suo drink l’uomo si alzò per andarsene. Faith lasciò qualche dollaro sul bancone e cominciò a pedinarlo.

 

 

 

Buffy si avvicinò guardinga ad una cripta, almeno non l’avrebbero attaccata alle spalle.

Si materializzarono tutti insieme. La maggior parte erano uomini ma c’erano anche diverse donne, avevano la faccia deformata.

-Guarda, guarda, una cacciatrice solitaria che se ne va in giro per i cimiteri dopo una caccia che dura da più di tre giorni. Non ti hanno detto che troppo lavoro uccide?

Sogghignò. Ad un suo cenno tutti gli altri si mossero simultaneamente. “non sono appena risorti, sembrano decisamente coordinati fra di loro. Questa volta non ne esco viva” in realtà non le importava molto, era troppo stanca per importarle fino in fondo.

Riuscì ad incenerire i primi due che l’attaccarono, poi la colpirono per la prima volta, la colpirono proprio alla spalla che le faceva male, dovevano aver capito che era indolenzita da come la muoveva. Un altro minuto, un altro mucchietto di cenere.

La colpirono di nuovo, più forte. Una volta al torace, un’altra al braccio destro. Cominciò a sentire le punte delle dita fredde.

“I miracoli non ci sono mai quando ti servono…” Sarebbe stata anche un situazione divertente se non avesse portato alla sua morte.

 

 

 

Derek si immobilizzò appena superato un angolo. Aveva la sensazione che lo stessero seguendo. Chiunque fosse doveva essere bravo, non si era accorto della sua presenza per più di dieci minuti. Dovevano averlo rintracciato nel locale. Aveva prestato molta cura nell’affittare la stanza di motel dove viveva. Non aveva lasciato tracce ne era sicuro.

Il suo cacciatore doveva aver fatto un lungo lavoro per trovarlo. Probabilmente lo aveva visto almeno una volta, ed era un buono osservatore per aver capito le sue abitudini.

Cercò un modo per farlo venire allo scoperto. Sparire dalla sua visuale era il metodo migliore.

Si inoltrò tranquillamente in un vicolo cieco per arrampicarsi facilmente su una scala antincendio. Sfilò dalla fondina la pistola che portava con sé avvitando il silenziatore alla canna preparandosi all’imboscata.

 

 

 

Doveva essersene accorto. Faith imprecò fra sé. La gente non termina le sue passeggiate in un vicolo cieco. Ringraziò il cielo di aver esplorato bene la zona nei giorni scorsi.

Probabilmente le stava preparando un’imboscata. “Vorrà vedere chi lo seguiva e piantargli una pallottola in mezzo agli occhi” scosse la testa. Che imbecille a farsi scoprire. Probabilmente l’aveva notata a quell’incrocio quando si era fermato ad accendersi una sigaretta. Era troppo vicina. Non sapeva che fare. Aspettare la sua prossima mossa od agire per interrompere lo stallo.

 

 

 

Aspettava da trenta minuti. L’imboscata era evidentemente saltata. Provò rispetto per quelli che lo braccavano. Conoscevano il mestiere. Non per questo si sarebbe fatto prendere.

Derek scese dalla scala antincendio atterrando in mezzo a dei sacchi della spazzatura che attutirono la caduta. Puntò la pistola verso l’imboccatura del vicolo di riflesso mentre rotolava verso la parete dell’edificio.

Nessun colpo.

Si rialzò senza fare rumore e si avvicinò all’angolo che aveva superato per entrare nel vicolo. Gettò una rapida occhiata alla strada immersa nel silenzio e fu salutato da un colpo di pistola che gli sfiorò la spalla.

Si ritrasse a tempo di record. Il colpo doveva essere stato sparato dalla sua destra anche se non aveva visto nessuno. Probabilmente era nascosto in qualche androne.

Rispose al fuoco alla  cieca, sparò quattro colpi giusto per guadagnare tempo, poi si girò verso la recinzione che ostruiva il vicolo. Rea alta ma ce la poteva fare a scavalcarla prima che il suo inseguitore capisse cosa stava succedendo.

Sparò altri due colpi per tenere a distanza l’avversario per poi girarsi e correre verso la rete. Saltò su un cassonetto, facendo più rumore di quello che si era aspettato, poi cominciò a scalare il reticolato accompagnato dai cigolii delle maglie arrugginite.

 

 

 

Altri due colpi evidentemente sparati alla cieca. Voleva tenerla lontana dal vicolo.

Poi un rumore sordo le sembrò di sentire dei cigolii. Rimase in attesa.

Un tonfo più leggero.

Stava scavalcando la rete.

Faith imprecò cominciando a correre verso il vicolo tenendosi il più possibile al riparo all’ombra degli edifici.

Arrivò all’ingresso del vicolo in tempo per vedere una figura allontanarsi. L’aveva giocata. “Merda!” sparò un paio di colpi verso il fuggitivo mancandolo. Lo osservò allontanarsi impotente. Maledisse la propria stupidità mentre usciva dal vicolo per cercare di anticipare le mosse del suo avversario. Aveva le stesse possibilità di ritrovarlo di quante ce ne siano di vincere alla lotteria.

 

 

 

Buffy decise di cambiare strategia. Avrebbe concentrato tutti i suoi attacchi su un solo vampiro. Se resisteva abbastanza forse avrebbe anche potuto farcela.

La bionda a sinistra. Evitò un pugno diretto al volto e  rispose con un gancio sinistro. La colpirono dall’altro lato, L’ignorò concentrandosi sulla bionda.

Riuscì a stordirla con l’impugnatura del paletto per poi girarlo ed incenerirla velocemente.

Meno sei.

Si concentrò su un moro, una veloce combinazione di pugni al volto, un calcio alla cassa toracica e un preciso colpo al cuore. Cenere.

Ma si era sbilanciata verso destra. Qualcuno la colpì con un calcio dietro al ginocchio. La gamba si piegò toccando terra, ancora un altro colpo le fece volare il paletto dalle mani.

Cadde bocconi al suolo dopo un altro calcio. Provò a rialzarsi ma un colpo al volto la fece ricadere. La sua bocca era piena di sangue. Le arrivò un calcio al torace, forte e preciso. Un’altra costola rotta. Un altro osso rotto, non che ormai facesse più molta differenza per lei. Ormai sentiva il suo corpo come separato, diviso da lei, lontano. Il dolore era quasi stato registrato passivamente come un’informazione non molto utile.

Con un rantolo sputò di sangue e saliva sull’asfalto nero dove giaceva, lo sentiva umido al contatto con la pelle del viso, quasi viscido. La sua visuale si stava facendo sempre più ristretta e scura, come coperta da un velo nero.

Improvvisamente i colpi che prima arrivavano con regolarità smisero. Doveva essere successo qualcosa. L’istinto di sopravvivenza prese il sopravvento. Con forze che non sapeva neanche di possedere si trascinò in piedi e cominciò ad allontanarsi mentre la paura la sommergeva ad ondate, implacabile. Si inoltrò in mezzo al boschetto del cimitero appoggiandosi quando poteva agli alberi attenta a non cadere. Se fosse successo sapeva che non avrebbe più avuto la forza di rialzarsi. Zoppicava vistosamente e la gamba destra le faceva malissimo, poteva, doveva essere rotta, non sapeva che direzione stesse prendendo, e non le importava, voleva solo fuggire dal dolore e da quei vampiri.

Sentì dei rumori dietro a lei, passi affrettati, ramoscelli spezzati, alcune parole frettolose, rapidi bisbigli.

Un urlo di dolore, passi di corsa e rumore di ramoscelli spezzati.

Era terrorizzata, sentiva freddo in tutto il corpo. Continuò a camminare, anche se ogni passo era un inferno. Era un lavoro monotono che però assorbiva tutta la sua attenzione, fare un passo dietro l’altro senza fermarsi.

Era braccata, si sentiva braccata.

Era dura lasciare il posto di predatore. La paura, la paura di morire e quell’insostenibile senso di impotenza la tormentavano. Si sentiva accerchiata, conscia dell’inutilità della sua fuga. Nelle condizioni in cui era, e se ne rendeva conto, era questa la vera maledizione, un vampiro avrebbe potuto raggiungerla anche camminando.

Il terrore e l’orrore di morire sola in mezzo ad un cimitero drenata a morte la perseguitava da quando era diventata la cacciatrice. Ora era realtà, era tangibile, lo sentiva fisicamente al suo fianco. Arrivò a temere di impazzire, sentiva la coscienza premere per tornare in superficie, lottare con l’istinto di conservazione che la stava spingendo a trovare una via di uscita.

I rumori si affievolirono. Poi più niente, non le arrivarono altri colpi, nessuno cercò di fermarla.

Ma nella sua mente li sentiva ancora, con i loro ringhi, i respiri ansanti, i passi che si avvicinavano inesorabili, la paura del prossimo colpo.

Dopo un tempo indefinito crollò a terra esausta. Non voleva più sentire. Si rifiutava di provare. Il dolce nulla in cui si era rifugiata era così accogliente, fuori l’aspettava solo dolore.

Attendeva con ansia che arrivasse la morte. Il riposo eterno. In fondo se lo era meritato. Anni di lotte contro il male, forse esisteva un paradiso solo per le cacciatrici…

Buffy, riversa nel proprio sangue, sola, in un vicolo abbandonato, venne investita da ondate di dolore lancinante che le sembravano provenire da tutto il corpo, da ogni singola cellula, insistente, penetrante. Dopo il dolore venne assalita dalla nausea. Vomitò ripetutamente contorcendosi per gli spasimi che questo le procurò al torace…

 

 

 

-Una delle ombre è appena rientrata, Miss Ridely.

-Bene agente, cosa ha riferito?

-Abbiamo trovato l’alloggio dell’obbiettivo. E’ dalle parti del porto, signora.

-Preparate la squadra e portate con voi le ombre come rinforzo. Seguite il protocollo Gamma.

-Dobbiamo uccidere chiunque interferisca o possa rivelarsi una minaccia per la missione?

“Li scelgono senza dubbio per la mancanza di cervello”.

-Esatto agente.

Quanto odiava lasciare la sede del concilio per le missioni sul campo. Amava lavorare con i computer tanto quanto odiava farlo con gli uomini.

 

One step closer  Parte II

 

 

In una stanza di un motel.

 

 

 

Era davvero stanco. Non ce la faceva più. Era sdraiato sul letto a riflettere su tutto quello che era successo. Prima di entrare nella sua camera aveva controllato che non fosse sorvegliata e poi aveva cercato eventuali cimici all’interno, senza trovarne. L’ispezione aveva confermato quello che sospettava fin dall’inizio, dovevano averlo trovato a bar e non seguito dal motel.

Aveva ancora la sua base e tutta la sua roba. L’incidente di ieri sera si era rivelato solo un inconveniente insignificante. Giusto un contrattempo.

 Ma ieri sera i suoi cacciatori erano arrivati troppo vicini. Non era stata una delle situazioni più pericolose della sua vita, ma non gli era piaciuto affatto. Per un istante, per un solo istante aveva pensato di abbandonare il lavoro.

Al diavolo i suoi clienti. Avrebbe fatto una telefonata, avrebbe restituito il pagamento e sarebbe sparito. Un’azione del genere lo avrebbe messo anche al riparo di eventuali doppi giochi da parte loro, questa volta non gli piacevano i suoi datori di lavoro, certo, non aveva mai avuto a che fare con gente onesta e perbene, ma questi li riteneva largamente in grado di fare una telefonata ed avvertire un altro assassino di eliminare lui a lavoro finito. Non gli sarebbe costato neanche molto. Se lo avesse fatto si sarebbe anche liberato definitivamente dei suoi cacciatori (sempre che non lo cercassero per vendetta personale, cosa non troppo improbabile).

In realtà ci stava già pensando da tempo. Quindici anni di omicidi sono abbastanza. Quello che stava portando a termine sarebbe stato l’ultimo. L’omicidio di una cacciatrice sarebbe stato il suo addio all’attività. Un buon modo per chiudere in bellezza una carriera coronata da soli successi.

Non aveva rimorsi per quello che aveva fatto. Nessun rimorso, ma ormai si era stancato. La sete di uccidere che lo animava all’inizio era sparita e con essa la fredda efficienza che era seguita. Avrebbe onorato il suo ultimo contratto per poi ritirarsi in una qualche città viva, Parigi o New York a godersi la vita.

Si avvicinò allo specchio. Era stata necessaria una lunga corsa per sfuggire alla cattura. Alla fine era rimasto senza fiato. Anche il suo corpo cominciava ad invecchiare. Situazione non piacevole. Era abituato a chiedere il massimo ed ad ottenerlo.

Allontanandosi dalla sua immagine, o meglio dagli occhi rossi che attiravano sempre tutta la sua attenzione quando si guardava allo specchio, decise che avrebbe portato a termine il lavoro in nome dell’onore. L’onore. Gli sembrava di essere tornato indietro di un paio di secoli.

Lui non credeva nei valori come l’onore ma era l’unica merce di scambio nel suo mondo. I mercenari avevano solo l’onore su cui contare per rimanere vivi. Non una patria, od un’organizzazione, od un gruppo, a difenderli, a garantire per loro. Un mercenario che non ha onore, non trova lavoro, è una pericolosa testa calda che ti si può rivoltare contro.

E non potevi abbandonare un lavoro senza perdere buona parte del tuo onore.

 

 

Vicino al porto.

 

 

 

Aprì gli occhi improvvisamente e fu investita da un’ondata di nausea e da un malditesta feroce, sembrava che il suo cervello soffriggesse. Li richiuse per poi aprirli piano con più attenzione. La luce continuava a ferirglieli ugualmente impedendole di mettere a fuoco la stanza dove si trovava. Si sentiva debolissima e le faceva male tutto. “Dove sono?”. Non si ricordava dove era e non riusciva a riconoscere il posto, non le piacque la sensazione di incertezza che provò.

Sembrava che ultimamente la sua vita dovesse andare a rotoli. Prima Riley, poi il pestaggio. Non si ricordava come avesse fatto a venirne fuori. Era scappata si, era scappata, ma non ricordava altro. C’erano immagini confuse nella sua testa. La testa, le faceva male anche ora, pulsava, forte.

Il pestaggio, giusto, il pestaggio, e dopo la fuga … Giles o chi per lui doveva averla portata in salvo. Doveva esser così, non era incatenata e si trovava su un comodo letto, gli odori della stanza erano anonimi, non si trattava di un ospedale, perciò doveva essere tra amici.

Sentì dei rumori provenire dalle sue spalle. Provò ad alzarsi senza riuscirci, era troppo debole, la sua vista si rifiutava di obbedirle rimanendo ostinatamente fuori fuoco. Contro luce poteva vedere una sagoma avvicinarsi a lei, le sembrava portare qualcosa.

La persona le sembrò offrire un bicchiere con qualcosa dentro.

-Buttale giù, ti sentirai subito meglio.

Conosceva quella voce ne era sicura…Faith?

Non era possibile. Si stava sbagliando, non poteva essere l’altra cacciatrice. Era un sogno, si, doveva essere un incubo, non c’era altra soluzione. Non poté comunque trattenersi dal domandarlo.

-Faith?

Quasi non riconobbe come suo quel roco sussurro.

-Proprio io B, come ti senti?

Di scatto Buffy cercò di alzarsi per scappare. Faith doveva averla presa prigioniera. Dopo la sua fuga, forse quei vampiri erano ai suoi ordini. L’unico risultato dei suoi sforzi fu quello di cadere rovinosamente dal letto facendosi male.

Senza dire niente Faith posò il bicchiere con le aspirine sul tavolino vicino al letto e si chinò per sollevare Buffy dal pavimento incurante delle sue proteste e dei suoi tentativi di colpirla. Si aspettava questa reazione, per questo aveva evitato il confronto prima.

-Lasciami subito, non puoi tenermi prigioniera. Lasciami!

Faith la posò delicatamente sul letto.

-Ti sembra che io ti tratti come se fossi una prigioniera?

Buffy provò a calmarsi, anche perché arrabbiarsi non era stata una buona idea, ora le faceva male tutto più di prima, se possibile, in particolare la gamba destra.

-Perché sono qui?

-Passeggiavo per il cimitero quando ho visto una decina di vampiri che stava per farti la festa. Così ho pensato che una buona azione avrebbe fatto bene al mio Karma, questo se credessi al Karma, e perciò ho ucciso quei vampiri.

-Perché mi hai portato qui? Chi te ne ha dato il diritto?

-Non sapevo che per salvarti la vita si dovesse fare richiesta in carta bollata. Non ti preoccupare. La prossima volta ti lascio sola a giocare con i tuoi amici.

“Ma perché l’ho salvata? Dannazione a me e alle promesse che faccio!

Buffy rimase un po’ in silenzio rendendosi conto che doveva la vita a Faith. La cosa era strana e lei  non voleva dire grazie all’altra cacciatrice, che nel frattempo le stava porgendo il bicchiere con le aspirine.

La sua vista le si era schiarita abbastanza ed ora vedeva soltanto i contorni delle cose sfocati. Senza una parola prese il bicchiere. Buttò giù in fretta acqua e analgesici.

-Perché?

-Sai B, più il tempo passa più le tue domande diventano chiare. Perché cosa?

-Perché mi hai salvato la vita?

-Ho fatto una promessa ad una persona.

-Moolto chiaro. E come mai sei qui? Un'altra promessa?

-Tecnicamente sono qui per ammazzare il tizio che sta cercando per farti la pelle.

-Tu cosa? Rischieresti la tua vita per salvare la mia?

-Cosa ci vuoi fare, se non sbaglio hai sempre detto che sono pazza, no?

-Lo sei se pensi che possa credere alla storia che mi hai appena raccontato. Dovrei avere fiducia in te o cosa?

-Non ti ho mai chiesto di avere fiducia in me. Se ci tieni tanto ti puoi alzare, sempre che tu ci riesca con quel ginocchio, ed andartene di qui, ora che sta tramontando il sole. Io non ti fermo, stanne certa.

Buffy sembrò riflettere sulla cosa prima di rilassarsi sul letto, facendo silenzio per qualche minuto. Il fatto che ci fosse qualcuno che voleva la sua pelle non era una novità, ma sapeva di non dover mai sottovalutare un avversario. Ma perché Faith sapeva che qualcuno la stava cercando quando lei per prima lo ignorava?

-Chi vuole la mia pelle?

-Un certo Derek. E’ un assassino a pagamento, molto bravo per giunta. Per il suo lavoro non si limita alle armi vecchio stile, usa con uguale efficienza anche quelle moderne. Ieri sera l’avevo quasi preso, poi è sparito…

-Poi te ne andrai?

-Non ho altre cose che mi trattengano qui. –“di certo non la tua gratitudine”-Finisco questo lavoro e mi tolgo di torno, non ti preoccupare, ho affari personali da risolvere oltre che andare in giro a salvare la pelle a quelli che una volta erano miei amici.

Detto questo Faith si allontanò per andare a farsi un caffè, lo sorseggiò in silenzio seduta sullo sgabello del piano bar mentre guardava il sole tramontare. Era veramente arrabbiata, si aspettava una reazione poco amichevole da Buffy ma di certo non così ostile.

“Dannazione! Le salvi la vita e che ti chiede? ‘Ma quando te ne vai?’. Evviva l’ingratitudine. Che vada all’infero. Prima prendo quel bastardo prima me ne vado”.

 

 

 

Buffy era confusa, il dolore, dopo le aspirine e un qualche antidolorifico che Faith le aveva iniettato, si era calmato permettendole di pensare abbastanza lucidamente. Si era svegliata da qualche ora e dopo quella prima conversazione non aveva più parlato con la mora.

Faith aveva girato per casa come una belva in gabbia, risistemando più volte le sue cose senza degnarla di uno sguardo, avvicinandosi al letto solo per le medicazioni e per prendere un sacco a pelo.

Buffy non si fidava di lei, e lo strano comportamento dell’altra non aiutava. “Questa faccenda è assurda. Noi siamo nemiche (siamo nemiche?) quindi dovremmo combattere non salvarci la vita a vicenda, invece ecco lì Faith che dorme tranquilla in un sacco a pelo senza curasi del fatto che sono qui. Che mi può uccidere senza fatica, o, ancora meglio mi poteva lasciare a quei vampiri”.

La mora però non sembrava riposarsi neanche quando dormiva. Il suo viso e i suoi muscoli erano ancora tesi, pronti a scattare al minimo segnale di pericolo. Era come se non riuscisse mai a staccare, a rilassarsi completamente.

Nei periodi di stress era capitato anche a lei ma dubitava che questo fosse solo un atteggiamento temporaneo, aveva più l’aria di un’abitudine consolidata nel tempo. Come se fosse abituata ad essere attaccata nel cuore della notte. Se ne chiese il motivo senza sapersi dare una risposta.

In realtà non conosceva più da tempo la persona che dormiva a meno di tre metri da lei, se l’aveva mai conosciuta.

Era decisamente tutto troppo confuso. Quello che vedeva contrastava con tutto quello che credeva, dando vita troppe domande di cui non conosceva la risposta. Rinunciò a capirci qualcosa e cercò di trovare una posizione comoda per addormentarsi.

 

 

 

Fu svegliata da parole sconnesse intervallate da brevi urli. Aprì gli occhi di scatto cercando la fonte di tutto quel rumore. Era Faith, si dibatteva nel sonno urlando ed agitandosi. Doveva avere degli incubi. Orrendi incubi da come si lamentava.

-No…No…non lo fare…non ho fatto niente…non c’entro niente…non sono stata io…no…No!

Buffy non avrebbe mai immaginato che l’altra cacciatrice potesse fare incubi del genere, così… spaventosi. Non credeva che la mora potesse fare incubi, aveva…smesso di considerarla umana da quando era passata dalla parte del sindaco, era diventata solamente un nemica. Più facile combattere così.

Cominciò a chiamarla. Anche lei soffriva di incubi ricorrenti, ma non le piaceva ammetterlo e quando Willow la svegliava la notte dava alle sue domande preoccupate sempre la stessa risposta “non è niente”. La considerava una conseguenza del suo “lavoro”. Non potevi sperare di combattere demoni giorno dopo giorno senza che loro ti inseguissero anche di notte, prendendo le forme dei tuoi amici di infanzia o delle persone che ti stavano a fianco ogni giorno.

Ci vollero diversi minuti per svegliarla. Faith spalancò improvvisamente gli occhi mettendosi a sedere e controllando tutta la stanza per vedere cosa era successo, la mano per istinto corse sotto il cuscino per afferrare qualcosa.

-Hai avuto un incubo.

Si girò di scatto verso Buffy come se non si fosse ricordata che l’altra cacciatrice era lì con lei. Appena la riconobbe la tensione si allentò un po’.

-Mi dispiace averti svegliato.

La bionda non avrebbe saputo dire se stava parlando seriamente o la stava prendendo in giro.

-Ne vuoi parlare?

No, non poteva averlo detto lei. “Deve essere un effetto degli antidolorifici. Devono aver spazzato via il mio buon senso”.

-No. E’ tutto a posto.

-Come sempre.- mormorò Buffy.

Invece di rispondere Faith si alzò per andare a prendere qualcosa in cucina, mentre si infilava qualcosa nella cintura. In quel momento si sentì il rumore di vetri infranti ed una pallottola si andò a piantare nel sacco a pelo della cacciatrice sollevando uno sbuffo di piume. Faith si gettò di riflesso dietro il bancone del bar per proteggersi dai successivi colpi.

-Mettiti al riparo! –urlò.

Buffy rotolò velocemente oltre il bordo del materasso a riparo della linea di fuoco. Si gettò sul pavimento cercando di riparare il ginocchio destro ed atterrò senza eccessivo dolore per poi cercare di avvicinarsi il più possibile alla massa del letto.

Ci furono altri colpi che fecero rovinare definitivamente la finestra, schegge di vetro come impazzite volarono per tutta la stanza infrangendosi in miriadi di frammenti una volta raggiunto il pavimento.

Faith, con una pistola in mano, si sporse dal suo riparo per rispondere al fuoco. Aveva calcolato la posizione del cecchino, doveva essere posizionato sul tetto del palazzo adiacente. Buffy la vide mentre faceva fuoco, i brevi, infinitesimali lampi di luce che si sprigionavano dalla canna, rivelandone la posizione nel buio della stanza. Inaspettatamente si aggiunse una seconda linea di tiro dalla sua destra che sorprese Faith obbligandola a tornare al riparo del bancone.

-Merda!

Aveva un solo caricatore nella sua glock nera, quella che aveva preso da sotto il cuscino, più per abitudine che in previsione di un vero pericolo, non pensava di dover sostenere un attacco. Non poteva permettersi di sprecare colpi.

Il suo cervello lavorava freneticamente per trovare un modo per raggiungere le altre armi che erano vicino al suo letto. Nel frattempo il fuoco continuava bersagliando il suo riparo. Lei aspettava, al riparo, un’apertura per rispondere ai colpi. Sentiva i colpi penetrare nel legno che la riparava mentre le tazze ed i piatti poggiati sul piano andavano in frantumi coprendola di detriti.

-B!

-Cosa c’è Faith?

Sembrava che la pioggia di pallottole l’avesse convinta che c’era qualcuno che voleva farle la pelle, facendola diventare decisamente più collaborativa. In altre circostanze la mora avrebbe sorriso al repentino cambio di atteggiamento.

Faith sapeva che in realtà questo non era Derek, lavorava sempre solo, ma non aveva alcuna intenzione di informare Buffy che questi allegri cecchini facevano probabilmente parte del concilio degli osservatori, e che volevano la sua di pelle. Non ne aveva la certezza ma non le pareva il caso di fare conversazione.

-Sotto al letto c’è una borsa, passamela.

Facendo molta attenzione a rimanere al coperto Buffy prese la borsa e la lanciò a Faith facendola atterrare sul terreno scoperto poco distante dal bancone. Imprecando per la sfortuna la mora allungò il braccio per prendere la sacca ricevendo come ricompensa il graffio di una pallottola.

Recuperata la borsa Faith si sporse per rispondere al fuoco finendo l’intero caricatore contro il primo cecchino, poi ricaricò la glock estraendo dalla borsa anche una Beretta automatica riposizionandosi dietro al bancone..

 

 

 

Cornovaglia, Inghilterra.

 

 

La donna bussò alla porta di quercia massiccia.

-Entra pure Magdalene.

L’ufficio era gigantesco, somigliava più ad un salone di rappresentanza che ad posto di lavoro. L’uomo, che sedeva nella poltrona di pelle davanti al caminetto acceso sorseggiando un whisky vecchio di almeno trent’anni, era a capo del consiglio degli osservatori.

Poco più che cinquantenne ma con già tutti i capelli bianchi emanava un’aura di potere attorno a sé. Il viso freddo e distante sapeva incutere paura a tutti quelli che incrociavano il suo sguardo. Tranne a lei.

Si conoscevano da troppo tempo, erano entrambi pericolosi e si rispettava per questo.

Magdalene era il suo braccio destro, sulla quarantina, con dei capelli rossi ben pettinati che le sfioravano le spalle, alta, filiforme ma anche lei capace di mettere paura. Entrambi avevano deciso la morte di decine, forse centinaia di persone, a sangue freddo. A volte anche uccidendole personalmente.

-Perché mi hai fatto chiamare?

-Cosa ne pensi della cacciatrice più piccola?

-Killer efficiente, ottime capacità di sopravvivenza, solitaria, capace di eseguire ordini ma in grado di prendere decisioni autonome.

-Cosa mi consigli di fare?

-Assumerla.

-Perché non ucciderla?

-E’ più utile da viva. Ha avuto ottimi addestramenti, non ha remore nell’uccidere esseri umani. Per certi versi è decisamente migliore della più celebrata Summers.

-Un altro problema.

-Facilmente risolvibile. Riassumi Giles e la potrai controllare. Sai bene che tutte le cacciatrici che superano i venti anni diventano autonome dal consiglio, od almeno ci provano, ma lei è abbastanza intelligente da capire che l’aiuto del consiglio a volte può fare la differenza. Lei vuole vivere. Puoi usare questo contro di lei, è il suo punto di forza e di debolezza assieme.

L’uomo annuì pensieroso.

-Mi consigli di trattare con entrambe?

-Esatto.

-Non posso. Non posso lasciare in circolazione una traditrice, meno che mai fare un patto con lei. E’ un’instabile, si è alleata con il Sindaco di Sunnydale!

-Non è instabile, ha fatto delle scelte considerando dei fattori. Inoltre puoi benissimo allearti con lei. Lo abbiamo già fatto. Se ciò che guadagniamo è più di ciò che perdiamo va fatto, come sempre. Non è nostro compito essere buoni. Il nostro è mantenere in vita la maggior parte dell’umanità. Abbiamo lasciato gli idealismi da tempo. –Fece una pausa, per dar forza al concetto. -Se vuoi prova ad ucciderla ma per me è un errore, non farà altro che metterla ancora più contro di noi.

Lui rimase un’ attimo in silenzio.

-Grazie per il parere. Ci stanno già pensando. Va eliminata.

 

 

 

Sunnydale, vicino al porto.

 

 

 

Un’ombra nera saliva le scale piano, senza fare rumore con la pistola spianata davanti a sé.

Smith teneva mentalmente il conto dei piani.

“Terzo.” Attivò il microfono per comunicare la sua nuova posizione.

-Obbiettivo raggiunto, sono al terzo piano.

Gli rispose nell’auricolare la voce di Miss Ridely.

-Posizionati ed attendi il segnale.

Con cautela, facendo attenzione per scoprire eventuali segnali di imboscata, raggiunse prima il pianerottolo poi la porta della appartamento di Faith. Dall’interno provenivano i rumori della sparatoria, distinse i colpi dei due fucili e la risposta della pistola. Rimase in attesa per alcuni istanti delle ultimi istruzioni.

-Smith, l’obbiettivo e a circa dieci metri da te sulla sinistra. Hai visuale libera.

L’uomo respirò profondamente e con una spallata sfondò la porta cominciando a sparare nella direzione indicata. Il suo spazio visivo era vuoto! L’obbiettivo era sparito.

Ci mise pochi attimi a capire…

…Troppi attimi.

Cercò riparo contro lo stipite della porta sapendo che la finestra nelle scale diffondeva abbastanza chiarore da renderlo un bersaglio facile.

Non fece in tempo. Diversi colpi provenienti dalla sua destra lo raggiunsero al torace. Cadde rovinosamente a terra, la mitraglietta gli scivolò dalle dita prive di forza. Il tempo parve rallentare mentre l’arma volteggiava nel vuoto sempre più vicina al suolo, la osservò per un tempo che gli parve infinito. Poi improvvisamente colpì il pavimento, che era sembrato irraggiungibile per interminabili attimi, con un fracasso che attirò tutta la sua attenzione.

Non si rese conto che era caduto anche lui sulle ginocchia. Guardò le mani che aveva portato al petto con curiosità, mentre la vista gli si stava sfocando. Erano sporche del suo stesso sangue. Cadendo bocconi pensò che non sarebbe dovuto succedere. Indossava un giubbotto antiproiettile.

 

 

 

Faith lo stava aspettando. Sapeva che i due cecchini servivano solo per attirare la sua attenzione mentre un’altra squadra avrebbe attaccato dalla porta. Continuò a tenere le pistole puntate sull’uomo a terra per accertarsi della sua effettiva morte, per sicurezza sparò un altro colpo. Il corpo riverso a terra non si muoveva più.

-Hey B che ne pensi di andarcene da qui?

Buffy ancora al riparo del letto sommersa dalle lenzuola che si era portata dietro nella caduta rispose con un po’ di paura nella voce, stava rimpiangendo i cari vecchi demoni armati di accette e coltellacci vari. Era una situazione nuova che, aveva deciso, non le piaceva affatto.

-Ottima idea, se mi dici come.

-Senti. –una pausa per sparare un colpo.- Ce la fai a camminare con quel ginocchio?

-Ce la devo fare.

-Bene allora. Tra poco mi alzerò e comincerò a sparare contro i due cecchini. Tu raggiungi la porta cercando di rimanere il più in basso possibile. Sono pochi metri, ce la puoi fare, non si sono accorti di te.

Faith si alzò cominciando a sparare ad intermittenza sia con la Beretta che con la glock indietreggiando anche lei verso il vano della porta, parzialmente ostruito dal corpo, cercando di tenersi al riparo con lo scarso mobilio della stanza. Buffy arrivò alla porta velocemente nonostante la gamba, arrancando nel buio dell’appartamento, raggiunta in breve anche dalla mora che la spinse verso le scale continuando sempre a sparare.

-Presto saliamo prima che ci raggiungano.

 

 

 

All’interno di un furgone dai vetri fumé Miss Ridely imprecò sonoramente. Aveva perso un agente (non che le dispiacesse aver perso proprio Smith) e l’obbiettivo, assieme ad un civile non identificato, stava scappando. Per fortuna aveva la squadra di riserva. Aveva fatto bene a premunirsi con un piano alternativo.

-Base ad Ombre. Entrate nell’edificio e raggiungete il tetto, l’obbiettivo si sta spostando, fate attenzione, sono in due di cui almeno una armata e pericolosa.

 

 

 

I quattro uomini, con le mitragliette in mano e gli inutili giubbotti antiproiettile, salivano le scale in silenzio, secondo uno schema collaudato e ripetitivo. Uno copriva i compagni dalla rampa inferiore, un secondo raggiungeva il pianerottolo e il terso si posizionava alla base delle scale della nuova rampa mentre l’ultimo le risaliva di corsa piazzandosi al centro della scala. Piano dopo piano.

Raggiunta la porta del tetto il capo indicò a gesti ad altri due di sfondarla. Al tre un secco calcio fece saltare la scalcinata serratura e, per la forza del colpo, la porta arrivò a sbattere a fine corsa contro il muro. Rapidamente uscirono dalla tromba delle scale per trovare altri ripari. C’erano diverse condutture sul tetto coperto da ghiaia isolante che scricchiolava ad ogni passo sotto i loro stivali.

Si divisero in due squadre cominciando a cercare i fuggitivi. Ispezionarono il perimetro rilevando che il tetto era isolato dagli edifici adiacenti, non c’erano altre vie di fuga oltre le scale, sorvegliate dalla prima squadra. Cominciarono a perlustrare l’area. Dopo cinque minuti di ricerche senza frutto, durante le quali avevano ispezionato tutto il tetto, contattarono il controllo.

-Signora Ridely non c’è traccia delle due.

Stavolta la donna inglese bestemmiò dalla rabbia.

 

 

 

Faith ascoltava con estrema attenzione con l’orecchio attaccato alla porta. Quattro serie di passi. Li lasciò scorrere senza intervenire, erano troppi, non poteva rischiare di essere colpita.

Guardò Buffy. Era appoggiata alla parete con gli occhi socchiusi dal dolore tenendosi il ginocchio. Ansimava rumorosamente, aveva l’adrenalina a mille ma sentiva ancora il dolore pulsante. Era stato duro per lei fare le scale anche con l’aiuto di Faith e della ringhiera. Da come lo muoveva era evidente che lo avesse distorto, una condizione di cui Faith avrebbe dovuto tenere conto nel trovare una via di fuga.

Si erano fermate al piano superiore, dopo la prima rampa di scale. Faith aveva tirato fuori una involucro nero da cui aveva estratto dei grimaldelli ed aveva forzato, con mano esperta, la serratura entrando velocemente nell’appartamento che sapeva abbandonato.

I passi si stavano allontanando, non avevano notato i segni di scasso sulla porta, probabilmente credevano che si fossero rifugiate sul tetto. Una volta Faith l’avrebbe fatto, del resto la psicologia umana in caso di panico spinge sempre  raggiungere posti alti, che inevitabilmente non hanno mai vie di uscita. Probabilmente si trattava di retaggi ancestrali. Ma non era il caso di mettersi a giocare ai piccoli antropologi.

Fece cenno a Buffy di alzarsi mentre socchiudeva la porta. Gli uomini che le cercavano erano abbastanza lontani da non sentire gli eventuali rumori che avrebbero fatto scendendo le scale e raggiungendo l’androne del palazzo per perdersi nelle stradine del porto.

Uscirono e cominciarono a scendere, lei sorreggeva Buffy con una mano e con l’altra stringeva ancora la pistola con il silenziatore per evitare eventuali sorprese.

Tempo di mettersi in salvo.

 

 

Cornovaglia, Inghilterra.

 

 

 

Nel suo ufficio Magdalene sedeva pensierosa. Era un errore uccidere Faith. Ed inoltre aveva fatto una promessa che voleva mantenere. Rifletté un attimo, avrebbe trovato una soluzione.

Uccidere una cacciatrice era sempre un gesto estremo anche se si trattava di una rinnegata. Ci doveva essere qualcuno che forzava la mano in tutto questo. Una testa calda, un radicale decisamente troppo retrogrado per i suoi gusti. Doveva essere Travers, era abbastanza ottuso da voler il controllo completo, inoltre era stato nominato da poco direttore dei progetti speciali. Aveva acquisito un notevole potere negli ultimi anni nonostante il casino provocato con la Summers, per via di quel test.

Ora pensava lui agli affari sporchi del concilio, era stata una nomina che Magdalene aveva ostacolato senza successo esponendosi anche troppo. Con quell’incarico, che dava il diretto controllo di certe squadre speciali e delle onnipresenti ombre, era pericoloso.

Si erano alterati gli equilibri di potere all’interno del palazzo. Lei aveva perso un po’ della sua influenza rendendola attaccabile, ma non aveva intenzione di cedere e lasciare il campo. Avrebbe dato il via ad una guerra per il potere. Era garantito che qualcuno sarebbe caduto nella polvere. Ma non sarebbe stata lei.

Doveva intervenire nuovamente. Con più cautela questa volta, il suo era un avversario pericoloso. Era morto, in un incidente automobilistico il mese scorso, uno dei suoi migliori alleati, quello che aveva proposto la destituzione di Travers. Si era creduto intoccabile. Coincidenza poco rassicurante.

La carta vincente sarebbe stata la cacciatrice. Chi controllava la migliore agente del consiglio aveva un vantaggio incolmabile sugli altri. Ora ce ne erano due, ma Travers aveva i ponti già bruciati con la prima e la seconda era una rinnegata. Probabilmente Travers aveva il controllo della prossima in linea di successione. Per questo voleva l’omicidio di almeno una delle due cacciatrici.

Lei doveva ottenere l’appoggio di Faith per poter vincere. Per allearsi doveva comunicare con lei, farle sapere che aveva un’alleata nel concilio.

Ma come poteva stabilire un canale di comunicazione con la cacciatrice?

Rifletté per alcuni minuti poi richiamò dei dati al computer. C’era una sola persona a cui lei si poteva rivolgere in tutti gli Stati Uniti per avere informazioni ed era un collegamento relativamente facile da raggiungere, ora che non era più protetto dal consiglio. Sorrise.

Alzò il telefono componendo il numero che appariva sullo schermo azzurro. Quell’uomo le doveva un favore, gli aveva salvato la vita. Non l’avrebbe tradita. Il suo nome sarebbe arrivato a Faith. Rischioso ma l’unico modo per contattarla. La ragazza avrebbe potuto fraintendere e considerarla sua nemica ma doveva rischiare.

Ora non le rimaneva che sperare che Faith sopravvivesse fin quando non l’avesse contattata.

 

 

One step closer  Parte III

 

 

 

Cara Buffy.

 

 

So che questo è il modo sbagliato per dirtelo ma non ho il coraggio di fare altrimenti. Lo so, avrei potuto dirtelo tante volte, ma non ci sono mai riuscita. Mi mancavano le parole, il coraggio,  e mi maledico per questo.

Perché tutto questo poteva essere diverso ora.

Oh, sarebbero cambiate così tante cose, ma non è detto che lo avrebbero fatto per il peggio.

Ora temo di si.

Sono alcune settimane che penso di dirti quello che sto per scriverti, ma non c’è mai stata l’occasione giusta, o forse io non l’ho voluta trovare. Sai, tutte quelle cena il giovedì sera e la domenica, c’era un motivo.

Non ti preoccupare, non è niente di terrificante ma mi sono resa conto che la tua vita è appesa ad un filo, sei la cacciatrice.

Ho sempre cercato di ignoralo ma quando ho saputo della morte di Riley e del fatto che eri sparita, mi sono preoccupata. Non sono più riuscita a capire niente. Ho forse ho capito tutto. L’ho accettato, finalmente.

Ritengo giusto smettere di mentirti.

Così che tu possa agire di conseguenza, finché avrai tempo per farlo.

Voglio che tu sappia tutta la verità prima di morire.

Non voglio più vivere con questo peso sulla coscienza. Non riesco più a vivere sapendo quello che non ti ho detto. Anche se temo la tua reazione. Ho sbagliato, lo so. Ma ho sempre scelto per il tuo bene.

La verità è che tu non sei mia figlia

 Tuo padre ed io ti abbiamo adottato.

So che non è una rivelazione sconvolgente, che andrebbe detto ai ragazzi quando sono piccoli ma avevo paura che tutto tra noi cambiasse. Che tu ti sentissi diversa dagli altri. Nessuno lo sa, neanche i tuoi parenti. Allora vivevamo lontano da loro, e non è stato molto difficile fingere la gravidanza e poi il parto.

Ho continuato a mentirti per proteggerti.

Se non mi vorrai più parlare dopo quanto ti ho scritto capirò la tua reazione, ne sarò distrutta, già lo so, ma capirò.

Non  buttare via venti anni di rapporto madre-figlia soltanto per questo.

 

 

Con amore,

Joyce.

 

Sunnydale

 

 

 

Il suo cellulare cominciò a squillare. Lo prese dalla tasca e guardò il numero che appariva sul display prima di rispondere.

-Ciao Liz.

-Ciao. Come vanno le cose laggiù?

-Più complicate del previsto. Lui si sta aggirando qui intorno. Non sono riuscita ancora a rintracciarlo. E’ furbo. Mi è sfuggito fra le mani. Non mi stupisce che anche se è un free-lance sia in giro da così tanto tempo. Il gioco si sta facendo più pericoloso. Non mi stupirei se ci fosse in giro un’altra squadra speciale. Sono scappata all’ultima per miracolo.

-Dall’altra parte servono dei risultati.

-A me serve ancora la mia vita.

-Un buon punto di vista, allora difendila. Sei riuscita a salvarla?

-E’ ancora viva ma non ha certo collaborato. Un altro po’ e ci fa ammazzare tutte e due. Ti giuro, in certi momenti avrei voluto ucciderla io, quell’arrogante carogna.

-E’ una parte importante di tutto il resto.

-Sarà. Per ora è al sicuro. Pare che abbia accettato il mio consiglio di starsene per un po’ buona. Qualche pallottola l’ha sfiorata un po’ troppo da vicino e le ha fatto cambiare idea. Tra noi c’è una… tregua. Del resto, forse, un giorno, lascerà perdere definitivamente quella sua smania di uccidermi. Per vendetta lo vuole fare. Cazzate. Pare che uccidermi sia diventato lo sport dell’anno.

-Buon per te, non ti servono certo altri problemi in questo momento. Ho una buona notizia. Ho quelle informazioni.

-Ci sei riuscita? John ce la ha fatta?

-Esatto, il mio amico c’è riuscito, ha contattato un paio di amici che gli dovevano dei favori. –Sorrise, c’era poco che un immortale non potesse fare, aveva detto Liz una volta. Ed aveva avuto ragione. – Si tratta di notizie sicure, non dovrebbe essere trapelato nulla, si è mosso con molta cautela. Fa comunque attenzione, c’è sempre di mezzo il consiglio.

-Non ti preoccupare, ho intenzione di sopravvivere fino ai venti anni. Quanti favori ti devo ora?

-Se non sbaglio mi hai salvato la vita una volta, credo di essere ancora io in debito con te. L’indirizzo è 12 Wellington road, Angels Falls, Nord Dakota. E’ l’unico in America che ti può dare le informazioni che cerchi. Pare che abbia avuto dei problemi con i vertici e per questo sia stato buttato fuori, discussioni riguardo l’etica. Dimissioni e quello che tu potresti chiamare prepensionamento. Fortunato ad essere ancora vivo per quanto ne so io. Non sa nulla del tuo arrivo, non puoi permetterti il rischio che tradisse. Non sono certi della sua fedeltà.

-Grazie Liz.

-Richiamami una volta che sei arrivata lì, chiaro? Sono curiosa.

-Non ti preoccupare, ci risentiamo.

-Guardati le spalle.

-Lo faccio sempre.- “sono ancora viva…”

Faith chiuse la comunicazione e si rimise in tasca il cellulare avviandosi verso il suo appartamento.

 

 

Un cimitero di Sunnydale, giorno.

 

 

 

Buffy era ferma a contemplare la lapide davanti a lei, il peso del corpo diviso tra la stampella che aveva e la gamba sinistra. Si era procurata una distorsione al ginocchio destro in quelle ultime ventiquattro ore. Le erano sembrate lunghe settimane.

Dopo la fuga da casa di Faith l’altra cacciatrice l’aveva accompagnata in ospedale. Aveva detto che li sarebbe stata al sicuro per la notte. Ma la mattina dopo se ne sarebbe dovuta andare. Potevano rintracciarla. Quindi non a casa proprio né nel campus.

Il vento muoveva appena le foglie dell’albero che ombreggiava il vialetto di ghiaia dove si trovava. Le sembrava così irreale. Ed anche così diverso.

Il cimitero di giorno non le apparteneva, si sentiva un ospite indesiderato, il messaggero di violenza in un luogo di pace. Guardò per la prima volta le altre tombe, le lapidi di diverse gradazioni di marmo, dal nero al bianco candido come la neve. Di notte erano solamente ostacoli od armi, ora ricordavano una persona, una vita. C’erano dei fiori colorati che espandevano un profumo piacevole come il silenzio che la circondava.

Buffy era ferma davanti una lapide di marmo bianco che riportava il nome di Riley Finn, semplice, senza foto. Era la prima volta che veniva lì, “ha trovarlo” si era detta, come se lui fosse ancora vivo.

Le circostanze della sua morte erano ancora oscure. Non aveva ancora scoperto chi lo aveva avvelenato nonostante le sue lunghe ricerche. Non poteva fare a meno di sentirsi responsabile, anche se non era con lui quando era accaduto quella sera.

Era certa che fosse morto a causa della sua relazione con lei.

-Frequenti i cimiteri anche di giorno, B?

Si girò di scatto, non aveva sentito arrivare la bruna, si era permessa di rilassarsi anche se non avrebbe dovuto, avrebbe potuto pagare con la vita questa disattenzione se fosse stato qualcun altro a sorprenderla.

Si fidava dell’altra. In uno strano, perverso modo. Tanto da sapere che la sua vita non era in pericolo, sebbene non conoscesse ancora i veri motivi che aveva spinto l’altra a Sunnydale. Era convinta che salvarle la vita fosse una incarico secondario. Sapeva con certezza anche che non era stata lei ad uccidere Riley. Non era il suo stile.

In altre circostanze l’avrebbe ritenuta responsabile.

-Tu cosa ci stai facendo qui?

-La verità? – Rispose ironica. –Ti aspettavo.

-Ne dovrei essere lusingata?

-Non credo.

Buffy provò a guadarla negli occhi inutilmente, portava degli occhiali da sole. Faith si accorse del tentativo.

-So che è maleducato non toglierli, ma il sole mi dà molto fastidio. –Poi si voltò verso la tomba. – E’ per lui che sei qui?

Perché fare una domanda dalla risposta così ovvia, si chiese Buffy.

-Si, certo! – replicò, già sulla difensiva senza volerlo. -Lo amavo.

La mora si mise a ridere forte. Buffy la guardò esterrefatta cominciandosi subito ad arrabbiare. Non ricordava neanche più quale era stata l’ultima volta che aveva visto Faith senza arrabbiarsi. Sembrava che l’altra spuntasse dal nulla solo per questo.

-Non mi raccontare idiozie, B. Puoi darla a bere agli altri, ai tuoi amici, non a me. Loro non vogliono vedere la verità. Non lo hai mai amato, mai veramente. Al contrario di lui, potrei aggiungere per farti sentire peggio.

Lo disse con un sorriso divertito.

-Gli ho voluto bene.

Faith annuì.

-Non doveva essere male come persona quando non pretendeva di salvare il mondo da solo.

-E questo lo hai scoperto prima o dopo esserci andata a letto?

Si voltò verso la mora con un sorriso cattivo sulle labbra.

-Portarti a letto una persona non te la fa conoscere. Vi ho osservato.

Buffy si girò di nuovo verso la tomba.

-Hai trovato chi lo ha ucciso?

-No, non ancora. Tu hai scoperto qualcosa su Derek?

Un cenno di diniego. Poi Faith continuò. –Devo partire per un paio di giorni. Rimani nascosta ancora un po’. Con quel ginocchio ridotto così non puoi certo andare a caccia ed inoltre, lo sai, Derek usa armi da fuoco.

-Rimarrò per un paio di giorni a casa di Willow. I suoi sono partiti, lì non mi cercherà.

Rimasero in silenzio per qualche istante.

-Perché proprio lui? Era l’unica cosa normale della mia vita.

-Ti stai prendendo in giro. E non te ne rendi neanche conto. Normale. Stai parlando di un commando dell’esercito coinvolto in operazioni segrete contro dei demoni. Non era normale. E la sua morte non lo è di più.

-Dannazione Faith! Era un uomo, fingi almeno che di essere addolorata per la sua morte.

-Questa è la differenza. Tu ami così tanto fingere. Di essere qualcun altro, che le cose siano diverse. Continua pure a sognare. Hai bisogno di qualcun altro che ti dica che andrà tutto bene? Che si risolverà tutto? Di non preoccuparti che il dolore sparirà nel tempo? Qualcuno che ti esorti ad essere forte così che supererai il lutto? Non hai bisogno di questo. Per caso hai bisogno di qualcun altro che ti chieda se stai bene? Quanto stai soffrendo? Eh, B, quanto? Dimmelo, su. Non essere timida o compita. Sfogati. Ma tu ed io conosciamo già la risposta. Vero? Non è per questo che stai male. –Buffy non reagì, strinse con forza i pugni.- Non hai bisogno di altre menzogne. Prova di tanto in tanto con la verità, ascoltala. Fa attenzione però dà dipendenza.

Incapace di trattenersi oltre la bionda esplose urlando.

-Stai zitta! Non sai niente! Fai finta di provare qualcosa! Smettila con quel tono cinico e menefreghista!

Si girò per guardarla in faccia.

Faith se ne era andata.

 

 

 

Nord Dakota, Angels Falls.

 

 

 

Era un casetta piuttosto anonima. Ordinario giardino tenuto abbastanza bene, bassa recinzione, tutta dipinta di bianco. La normale villetta monofamiliare come ne potevi incontrare a migliaia in tutte le province degli Stati Uniti.

La strada su cui si affacciava era deserta, ai lati del marciapiede c’erano alcune macchine parcheggiate ed in fondo alla strada un furgone che si stava allontanando, mancavano solo alcuni bambini che giocavano a baseball per avere il perfetto quadro tratto da un film di secondo ordine.

Faith fermò la propria moto sul vialetto della casa numero 12 di Wellington road, a fianco di una vecchia berlina grigia.

Bussò alla porta mentre si sfilava il casco.

Le aprì un signore sulla sessantina dai capelli bianchi e dal volto raggrinzito a causa di troppe preoccupazioni. L’apostrofò in maniera poco garbata parlando con un pesante accento inglese, dicendole di andarsene da lì.

-Piacere, io sono Faith.

-Ancora una volta, se ne vada.

Faith non si mosse. L’altro perse la pazienza.

-Cosa vuole signorina?

-Parlarle.

-E di cosa di grazia?

-Diciamo di amici in comune. –il vecchio la guardava sospettoso ora. Strinse gli occhietti come per metterla a fuoco meglio. – Comuni amici inglesi, come Catherine Parker.

Un lampo di paura mentre l’uomo cercava di chiudere la porta. Faith glielo impedì facilmente. Lui la guardò un attimo meravigliato per la forza dimostrata. Poi capì, e quasi rassegnato lasciò libero il passaggio facendo cenno a Faith di entrare.

La condusse in un salotto arredato spartanamente alla moda degli anni settanta, con un forte odore di chiuso, polvere e qualcosa di non meglio definibile. Neanche dieci secondi dopo essersi seduta sul divano Faith cominciò ad odiare quel posto, vi aleggiava un senso di abbandono, di disperazione.

Il proprietario doveva essere morto nell’anima da tanto tempo. Non bisogna mai fidarsi dei morti viventi, non hanno più niente da perdere. Lei lo sapeva per esperienza diretta.

-Tu devi essere la cacciatrice.

-Una delle due.

-Cosa hai detto? C’è una sola cacciatrice per generazione.

-Da quanto tempo è qui signor…

-Lawerce. Da sette anni.

-Allora si sieda, faremo uno scambio. Lei risponde alle mie domande, io le racconterò quello che è successo sul campo negli ultimi anni.

Un lampo di curiosità accese il volto del vecchio.

-D’accordo Faith. Cosa vuoi sapere?

-Prima di tutto qualcosa sulla vita di Parker. Chi erano i suoi avversari, chi l’avrebbe voluta vedere morta.

-Penso che tu stia sbagliando, il consiglio è dalla parte delle cacciatrici, non ucciderebbero mai un’osservatrice.

-Penso stia sbagliando anche lei. Non credo più da molto tempo alla favoletta che il consiglio sia buono. Cominci a raccontare, l’avverto, ho altre fonti. –non era del tutto vero, ma il vecchio davanti a lei non poteva saperlo. -Se scopro che mi ha mentito la uccido.

-Cosa? Ma tu sei la cacciatrice, t-tu difendi l’umanità. Non p-puoi uccidere…

-Vuole mettermi alla prova?- Rispose Faith mentre un sorriso gelido le si dipingeva sulle labbra, il vecchio ebbe paura, quel sorriso gli ricordava quello di una sua collega del concilio. Da predatore.

Quanto era vero, un sorriso può incutere più terrore di un qualsiasi sguardo d’odio.

-Catherine era una donna splendida. Generosa, disponibile, affidabile. Questo l’ha condotta a scontrarsi con poteri più forti di lei. Ma in qualche modo se l’è sempre cavata. Prima di essere mandata a Boston, se preferisci esiliata, mi ha confidato di aver scoperto qualcosa su un progetto segreto.

-Che altro ti ha detto sul progetto?

-Niente, se non che qualcuno in alto la stava aiutando.

-Chi?

-Non lo so.

-Un’informazione gratuita. Oggi non ho pazienza. Ho fatto un lungo viaggio per venire qui. Sono stanca e nervosa.

-E’ una delle donne più potenti del consiglio, forse la stessa che l’ha tradita.

-Dimmi il suo nome.

L’uomo parve crollare, disperato.

-Miss Marlin, Magdalene Marlin.

Ora Faith aveva la sua traccia. La vita di Derek non era più importante.

 

 

Sunnydale, campus universitario.

 

 

 

Buffy rientrò nella propria camera del dormitorio. Era decisamente stanca dopo quella giornata. Aveva passato tutta la mattinata ai corsi cercando di rimettersi in pari con tutte le materie ed il pomeriggio al Magic shop per la riabilitazione. Il ginocchio le faceva ancora male ma poteva camminare senza stampelle, con solo l’aiuto di un tutore.

Aveva deciso di tornare nella sua camera quella stessa mattina, era stanca di stare nella vecchia casa di Willow ed i genitori della sua amica sarebbero dovuti tornare domani. Si tolse la giacca di jeans e la buttò sul letto. Era pensierosa, irrequieta.

Cominciò a passeggiare per la stanza vuota, probabilmente Willow stava con Tara, provando qualche incantesimo. Smise di camminare per fermarsi davanti alla finestra, cominciò a guardare, senza vedere realmente, gli indaffarati studenti che passeggiavano per il college in piccoli gruppi o da soli verso le loro mete.

Stava riflettendo su tutto quello che era capitato nell’ultimo periodo.

Riley; il suo nuovo avversario, decisamente sfuggente, non aveva ancora idea di chi fosse; Faith, ancora più sfuggente del suo invisibile avversario; la scoperta della sua adozione.

Abbastanza da farle fumare il cervello.

Intanto la sua vista si era fissata sui passanti. Se l’avesse alzata e avesse osservato il tetto del dormitorio accanto avrebbe visto un cecchino. Derek, o anche Karatum come era conosciuto tra i demoni, stringeva un fucile di precisione dotato di silenziatore e la stava seguendo attraverso il mirino pronto ad esplodere il colpo mortale.

Gli ci era voluto più tempo del previsto per portare a termine il suo lavoro. Dopo la morte del ragazzo aveva lasciato in pace la cacciatrice per un paio di giorni per evitare la sua ira, e dalle notizie che aveva raccolto aveva fatto bene. Poi lei era sparita dalla circolazione per più di una settimana. L’aveva cercata inutilmente. Doveva essere andata nella casa di qualcuno di cui lui non era a conoscenza. Non trovandola, aveva cominciato a sorvegliare la sua stanza. Era stato premiato questo pomeriggio.

Al suo ritorno in albergo lo aspettava il biglietto aerei per Parigi, prima classe Air-France. Aveva già comprato una piccola villetta nel centro storico della capitale. Un bel posto, piccolo, appartato. Pregustava una vita fatta di passeggiate e riposo ma mise da parte questi pensieri per concentrarsi sul bersaglio.

Il suo indice accarezzò lievemente il grilletto dell’arma, poi Buffy uscì per un momento dal campo visivo coperta dall’infisso della finestra. Rilasciato un secondo il dito, il cecchino lo riposizionò aggiustando un po’ la mira.

L’indice si tese pronto a sparare.

Un paio di stivali neri apparsi dal nulla si posizionarono silenziosi dietro di lui. Due mani guantate si avvicinarono al suo collo e con un’abile mossa glielo spezzarono, il rumore secco di ossa risuonò nitido sul tetto deserto. Il corpo esanime si afflosciò mentre veniva afferrato dalle mani del suo assassino impedendogli di premere seppur casualmente il grilletto.

Posato senza troppe cerimonie il cadavere a terra Faith prese in mano il fucile di precisione e per qualche secondo scrutò attraverso il mirino Buffy, poi senza fare rumore posò l’arma e si allontanò in silenzio senza dire neanche una parola.

 

 

Cornovaglia Inghilterra.

 

 

 

-Le hai detto niente?

-Ovviamente no, Quentin. Niente di importante, è ancora in alto mare. Solo qualche informazione sulla sua osservatrice, che tipo era… cose del genere, non sa niente del progetto.

L’inglese seduto dietro la scrivania avrebbe sorriso di soddisfazione se non fosse per il fatto che non sorrideva da più di venti anni. Gesto inutile ed uno spreco di tempo.

-Hai fatto bene a mantenere il segreto. L’operazione deve continuare ad essere confidenziale. Anche tu ne sei coinvolto. Non credo che la cacciatrice sarebbe felice di scoprire che ruolo hai avuto nella faccenda. Di scoprire che per salvarti la vita hai venduto la sua osservatrice al migliore offerente.

-Non sarebbe felice di scoprire neanche il tuo. –Rispose l’altro per reazione.

-Hai ragione.

Quentin riattaccò per formare un altro numero.

-Pronto? Sono Quentin Travers. Ho un lavoro per te.

 

 

Angels Falls.

 

 

Lo sceriffo guidava piano la macchina lungo la strada principale della città sorseggiando il suo caffè caldo.

-Come va con tuo marito Jane?

-Non bene. Andrà a finire che chiederemo il divorzio, mi dispiace per i miei figli ma non ce la faccio più, è davvero troppo. Abbiamo provato, ma non funziona. Tra i miei ed i suoi orari non ci vediamo mai. Ormai non abbiamo più neanche un rapporto in crisi. Non c’è più alcuna relazione tra noi.

-Mi dispiace, so che cinque anni fa, quando ti sei sposata, era diverso. Si vedeva che eravate innamorati. Avrei scommesso che avreste visto le nozze d’argento insieme.

-Invece le persone cambiano. Alla faccia dell’amore eterno. Se prendo chi ha messo in giro questa storia lo faccio a pezzi.

-Modera le parole, sono sposato felicemente da venti anni ed ho intenzione di continuare ad esserlo.

Scese un attimo il silenzio. Jane stava mangiando distrattamente una ciambella. Allungò il braccio per prenderne un’altra ma scoprì che erano finite.

-Ti dispiace accostare? Voglio buttare la scatola.

Lo sceriffo annuì accostando l’autopattuglia. La donna, tra i trenta ed i quaranta scese e si diresse verso il grande cassonetto all’ingresso del vicolo. Alzò il coperchio e buttò il cartone quando notò qualcosa di strano.

C’erano troppe mosche vicino al cassonetto. Si sporse a guardare dietro, incuriosita dal fatto, e si sentì gelare il sangue nelle vene.

Un cadavere con un foro di proiettile al centro della fronte. Si portò una mano alla bocca per sopprimere un grido.

 

 

 

-Ti senti meglio?

Lo sceriffo le porse una tazza di caffè. Jane lo sorseggiò ancora scossa dalla visione. Non era cosa da tutti i giorni scoprire un cadavere nella piccola cittadina dove vivevano. Le mani le tremavano leggermente.

-Chi era?

-L’ho riconosciuto. Si tratta di un certo Lawerence. Si era trasferito qui sei o sette anni fa. Aveva un non so che di misterioso. Forse è per questo che è finito con un foro in testa. I vicini lo descrivono come una persona riservata, un solitario. Hanno detto che sembrava quasi essere in esilio. Era inglese. Credo si tratti di un regolamento di conti, è un lavoro pulito, da professionista. I federali ci capiranno qualcosa.

Jane annuì sollevata dal fatto che quello sconosciuto non sembrava essere stato un bravo cittadino.

 

 

 

FINE