SOLAMENTE RICORDI

by Silea

 

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Tre persone possono custodire un segreto, se due di loro sono morte.

 

Benjamin Franklin.

 

 

 

PARTE 1

 

 

Dal diario dell’osservatrice Catherine Parker.

 

 

 

Oggi ho preso contatto diretto con la potenziale cacciatrice localizzata nell’area di Boston.

La ragazza è un’orfana, dei genitori naturali si è persa ogni traccia, al momento si trova in una delle strutture statali per ragazzi senza famiglia. Condizione che ritengo favorevole per un mio coinvolgimento completo nella sua vita, in veste di tutore legale, oppure di genitore affidatario, una volta creati falsi certificati di parentela.

 Mi sono presentata come l’impiegata di collegamento tra l’ufficio adozioni ed i servizi sociali, la carica che ricopro come copertura.

La potenziale ha reagito mostrando un comportamento di vigile indifferenza, senza far trapelare sorpresa o irritazione alla notizia della sua futura adozione, rimanendo per tutto il colloquio sulla difensiva, pronta a diventare aggressiva al minimo segno di minaccia da parte mia, ugualmente  fisica o verbale.

Prima di parlarle in privato, l’ho  osservata per diversi giorni, ed ho studiato la sua scheda.

E’ una persona molto silenziosa, che in genere risponde per monosillabi o attraverso battute  sarcastiche. Questo modo di parlare è una semplice scelta, fatta per mantenersi coerente con la sua facciata di ragazza “ribelle”, come dimostra la sua estesa capacità dialettica, quando vuole mostrarla.

Gli stessi risultati scolastici, si è diplomata con due anni di anticipo con il massimo dei voti, ed i suoi  punteggi ai test fatti per calcolare il quoziente intellettivo che sfiorano livelli geniali, confermano grandi  capacità cognitive. Le materie in cui eccelleva erano storia, geografia, matematica e scienze.

E’ una ragazza solitaria, descritta come aggressiva dal personale dell’orfanotrofio, isolata dagli altri ragazzi, che la ignorano per la maggior parte del tempo.

Generalmente siede in disparte, sia nel cortile che nella mensa dove spesso è sola al tavolo. A lezione siede in fondo all’aula, ed  il suo letto è l’unico singolo della stanza. Gli altri la evitano, ma la rispettano, nessuno la infastidisce o la sfida, e le rare volte in cui è stata coinvolta in sfide o discussioni ne è risultata vincente, è una potenziale leader.

E’ facile intuire che soffre per la sua condizione di isolamento, anche se non sono visibili debolezze nella maschera agguerrita che porta, e che il suo comportamento aggressivo è dettato dalla paura.

Condurrò altre ricerche sulla causa di queste paure, sebbene sembra che siano spariti i fascicoli che riguardano i primi otto anni di vita della ragazza, prima che venisse trasferita in questo istituto da un altro orfanotrofio statale di cui non ho trovato il nome né alcuna informazione.

Sospetto che il suo atteggiamento sia dovuto ad un trauma infantile, non necessariamente causato da abusi ripetuti, di natura fisica o psicologica.

Anche fisicamente dimostra una forza superiore della media, eccellendo nell’atletica leggera sulle medie distanze e nei giochi di coordinazione.

Le capacità iniziali delle ragazza sono alte, anche per gli standard di una potenziale, e strettamente connesse agli ambiti necessari all’addestramento.

Le probabilità di sopravvivenza e di riuscita come cacciatrice sono molto alte.

 

 

 

Catherine Parker.

 

 

 

 

 

Cornovaglia, Inghilterra.

 

 

 

Travers sedeva quasi al buio nel suo ufficio. Stava riflettendo sugli ultimi avvenimenti. Doveva trovare un modo per uccidere almeno una delle due cacciatrici, meglio se all’insaputa del concilio. Così si sarebbe attivata la prossima prescelta, la ragazza che controllava lui.

Prese il bicchiere di whisky e ne osservò i cubetti di ghiaccio coperti dal liquore. Cominciavano a sciogliersi.

Le cose non erano andate per niente bene. La squadra incaricata di uccidere Faith aveva miseramente fallito ed ora la cacciatrice era scomparsa senza lasciare la minima traccia. Nessuna delle ombre del consiglio e nessun informatore l’aveva vista. Si stava muovendo con intelligenza. Troppa intelligenza per i suoi gusti. Era pericolosa, avrebbe potuto aver scoperto qualcosa da Lawerence prima che lui l’avesse fatto uccidere.

Lawerence. In realtà lui non sapeva quanto le aveva detto. Un sospetto improvviso gli si presentò, un qualcosa che poteva seriamente minare tutto il suo lavoro. Qualcosa che prima gli era sfuggito. Che non aveva valutato. Potevano esserci state delle manipolazioni alle fonti a lui sconosciute.

Lawerence poteva essere stato influenzato da qualcun altro all’interno del concilio. Qualcuno che avesse previsto le mosse della cacciatrice più accuratamente di lui, che senza la telefonata dello stesso Lawerence, sapeva casa sarebbe accaduto. Qualcuno a cui il diretto interessato doveva un favore importante, come la vita.

Marlin, doveva essere stata lei. Aveva giocato con astuzia e lui non se ne era accorto se non quando era troppo tardi. Ed ora il vero problema era sapere cosa aveva fatto arrivare alle orecchie della cacciatrice. Doveva anche riflettere sul fatto che forse Lawerence aveva tradito anche lei ed aveva giocato solo per interesse personale. Probabilmente aveva chiesto soldi, o più soldi, in cambio di certe informazioni. Ci rifletté un attimo. Probabilmente Magdalene aveva fatto indicare lui come colpevole della morte dell’osservatrice, di Parker.

Loro due erano gli unici ancora in vita a conoscere tutta la verità su quel segreto. Che era meglio lasciare sepolto. Quel segreto sarebbe dovuto rimanere definitivamente tale. Non poteva permettere che tornasse alla luce. Sarebbe stato disastroso per lui. Il terzo che ne era a conoscenza, Lawerence, appunto, era… dipartito miseramente, schiacciato anni prima dalla sua potenza e salvato da Marlin, che aveva acquisito un alleato allora inutile, che era rimasto tale per anni. E che ora si era rivelata una pedina di fondamentale importanza.

Imprecò fra sé e sé. Avere una cacciatrice alle calcagna che ti vuole uccidere non è piacevole. Domattina stessa avrebbe aumentato la sua scorta, con discrezione, poteva farlo senza autorizzazione, era lui il capo dei progetti speciali, la persona che decideva come impiegare squadre speciali ed ombre.

Così avrebbe risolto il problema della cacciatrice fin quando non fosse morta. Anzi sarebbe stato più facile ucciderla ora che era nel suo terreno. In caso di attacco i suoi uomini avrebbero conosciuto il campo meglio di lei. Avrebbe scelto i migliori, in fondo era un periodo abbastanza tranquillo.

Rimaneva un problema.

Magdalene Marlin. Era troppo potente, e troppo contro di lui. Cosa sarebbe successo se avesse rivelato la verità sulla morte di Parker alla cacciatrice? O se lo avesse detto a Miller? Avevano interessi divergenti, tendenzialmente contrastanti. Andava, come dire, gentilmente fermata. Non era una donna che si lasciava persuadere, lo sapeva, la conosceva bene. Ma doveva essere fermata. Era già tardi, ma, forse, poteva ancora salvare tutto.

Posò il bicchiere sul tavolo notando che il ghiaccio si era completamente sciolto e che ormai il liquore era caldo, imbevibile. Lo ignorò alzando il telefono alla sua destra.

Compose il numero dell’interno sette.

-Sono Travers. Vieni nel mio ufficio. Temo che uno dei dirigenti stia per avere un incidente.

Non poté trattenersi dall’ammirare la sua avversaria per come aveva agito. Mettergli contro una cacciatrice.

 

 

 

 

New York, Immortals’ body building.

 

 

 

 

Faith si stava scaldando nella piccola saletta privata di Eliza. Era tornata il giorno precedente e sentiva il bisogno di lavorare un po’, aveva passato molte ore in aereo e si sentiva decisamente legata.

Dopo aver lasciato Sunnydale era tornata a Angels Falls per interrogare nuovamente Lawerence, portando con sé un po’ di denaro, ideale per far sentire a proprio agio gli informatori. Aveva scoperto che Lawerence era morto. La polizia locale aveva chiuso l’inchiesta come un regolamento di conti tra bande (tra l’altro del tutto inesistenti in quello sperduto luogo). Lei conosceva la verità, o perlomeno poteva intuirla quasi completamente. Lawerence era stato ucciso per quello che sapeva dal consiglio. O da qualcuno molto vicino al consiglio.

Aveva perso il suo unico contatto.

Era decisamente arrabbiata. Questo le impediva di cercare riscontri a quello che già sapeva. Si domandava perché era stato ucciso. Avevano scoperto che aveva parlato con lei? Potevano aver fatto delle ricerche per sapere se si era mossa da Sunnydale. Oppure l’idiota poteva aver chiamato qualcuno all’interno, per fare il doppio gioco e l’avevano ucciso. O nella più rosea delle possibilità sapevano che lui era facilmente raggiungibile e l’avevano ucciso per non farlo parlare con lei senza sapere che lo aveva già fatto.

Continuò a riscaldarsi rabbiosa di non sapere ridurre le possibilità in modo da poter agire. Provò alcune serie di calci e pugni combinati chiedendosi cosa doveva fare. Voleva una soluzione, voleva agire.

La porta si aprì ed Eliza entrò nella stanza portando con sé la propria spada e un pugnale.

-Serve una mano per allenarti?

Faith la guardò un istante. Eliza che era un’immortale in giro dal mille, anno più anno meno, a quanto le aveva raccontato, e conosceva l’arte della scherma come pochi altri data la sua…lunga esperienza. Non possedeva forza o velocità soprannaturali ma le tecniche che padroneggiava le permettevano di vincere praticamente tutti gli scontri con la cacciatrice nonostante gli sforzi della ragazza.

Faith sorrise ed andò a prendere dalla sua sacca le sue armi preferite mentre Eliza si preparava dall’altro capo della stanza.

La cacciatrice aveva sempre amato coltelli e spade ma le armi di cui aveva più esperienza e che l’affascinavano di più erano le doppie spade uncinate (Shuang kou) che venivano usate nelle arti marziali. Le usava relativamente da poco tempo ma era diventata brava a maneggiarle.

Eliza invece aveva sfoderato una Katana ed un pugnale piuttosto anonimo con una lama di acciaio lucente.

Le due si prepararono allo scontro.

Cominciarono piano scambiandosi affondi e parate non particolarmente insidiosi. Poi Faith cominciò ad attaccare più a fondo mentre Eliza si limitava a difendersi senza cercare improbabili aperture nella guardia della cacciatrice che non si esponeva.

In poco tempo la bruna aveva imparato a difendersi molto bene, stupendo Liz con la velocità con cui apprendeva, le ultime pecche del suo stile erano ormai nell’attacco. Le mancava ancora il tempismo per cogliere alcune occasioni e l’esperienza per crearne a sufficienza per riuscire a colpire l’avversario. All’immortale piaceva il modo istintivo con cui la ragazza combatteva. Si vedeva che aveva il combattimento nel sangue.

Lo scontro andò avanti per alcuni minuti con Faith sempre più arrabbiata dal frustrante esito dei suoi attacchi. Esasperata affondò la spada destra verso la spalla dell’avversaria. Invece di deviare  semplicemente l’arma o spostarsi Eliza fece scattare qualcosa sull’impugnatura del suo pugnale. La  lama si divise in tre parti. Con una veloce mossa riuscì ad agganciare la punta uncinata della spada tra due sezioni del pugnale e con una violenta trazione la tolse dalla mano di Faith causando uno sbilanciamento della cacciatrice.

Approfittando dell’apertura Eliza puntò la Katana al collo dell’avversaria.

-Un’altra volta, mi hai battuto un’altra volta. –ringhiò Faith.

-Ti ho dimostrato uno dei fondamentali punti deboli delle tue armi.

-Grazie per la dimostrazione. – rispose ironicamente la cacciatrice, più per ripicca che intenzionalmente.- Non sapevo però che tu usassi le misericordie. –si riferiva al pugnale trilama.

-So adoperare tutte le armi e utilizzo quelle che servono. –Faith la guardò di sbieco con un po’ di irritazione negli occhi. Eliza continuò scherzosamente dopo la serietà delle parole precedenti. -Andiamo a pranzo che è meglio. Offri tu visto che hai perso.

 

 

 

 

Cornovaglia, Inghilterra.

 

 

 

Entrando Jason accese le luci dell’ufficio di Travers. Notò che la poltrona del suo superiore era girata verso l’ampia finestra che, generalmente coperta da pesanti tende scure, questa sera era aperta.

Quando lo studio si illuminò Quentin girò sulla sedia per guardare l’uomo davanti a sé, il capo del suo “esecutivo”, l’addestratore dei migliori agenti del concilio. Era un uomo che rispettava e che svolgeva sempre con efficienza i compiti affidatigli. Anche se in realtà non lo conosceva veramente, gli bastava il fatto che fosse fedele al concilio.

-C’è un problema.

L’altro annuì grave. Non amava il suo lavoro, si limitava a farlo al meglio delle sue possibilità.

-Dei problemi con Marlin.

Così era cominciato. Tutti sapevano che ci sarebbe stata una guerra di potere tra loro due, per decidere il successore del capo del concilio. Nessun altro avrebbe potuto osare competere con loro e sperare di uscirne vincitore. Si chiese se questa era la prima mossa o solamente la prima di cui lui veniva a conoscenza. Non amava le lotte intestine, ma non le riteneva nocive fino a quando non avrebbero spinto all’autodistruzione. Se si fosse accorto che le mosse di Travers si fossero solo avvicinate a quel limite lo avrebbe ucciso lui stesso. Senza rimpianti.

-Cosa devo fare?

-La voglio morta. Se possibile deve sembrare un incidente. –Una soluzione diretta e definitiva. Jason apprezzò la decisione dimostrata da Travers. Non ci sarebbe stata pietà in questo scontro.

Il premio della vittoria era la vita ed il potere.

Gli occhi verdi di Jason guardavano fuori cercando di distinguere le forme oltre l’oscurità senza riuscirci. La notte era meravigliosa. Scorse i rami degli alberi nel parco muoversi appena ad una leggera brezza estiva che doveva essere molto piacevole da sentire sulla pelle. Quando parlò la sua voce era atona e priva di intonazione.

-Come vuole signore. Quando devo agire?

-Questa sera. E’ ancora qui.

Jason non si chiese come faceva a saperlo. Non lo riguardava. Si voltò, imbastendo piani per arrivare ad una morte il più “accidentale” possibile. Una morte che non sarebbe dovuta ricadere sulle sue spalle.

 

 

 

 

Boston, otto mesi prima.

 

 

 

La testa sbatté contro il vetro, abbastanza forte da svegliarla. Faith aprì faticosamente gli occhi guardandosi attorno senza capire dove si trovasse. Mise a fuoco il sedile davanti a lei, quello a fianco, vuoto, e poi la fila dall’altra parte del corridoio, dove una signora stava parlando con un ragazzo gesticolando abbondantemente.

Il pullman doveva aver preso una buca, la prima di una serie, a giudicare dagli scossoni della vettura. L’interfono gracchiò un momento prima che la voce sgradevole dell’autista riuscisse ad informarli che tra cinque minuti sarebbero arrivati a Boston, il capolinea.

Faith doveva aver dormito per tutto il viaggio. Ricordava appena di essere salita sul pullman, aver fatto vedere il biglietto al conducente ed essere sprofondata in una sorta di dormiveglia nel primo sedile vuoto che aveva visto.

Si sentiva il cervello completamente addormentato. Era difficile formulare un pensiero coerente, si passò la mano sul collo massaggiandolo leggermente. Provò a fare mente locale, non aveva molto altro da fare, cercare di rendersi presentabile era inutile, non con quello che indossava, pantaloni troppo larghi e una maglietta in cui sprofondava dentro, anche se erano abiti suoi.

Per non parlare dei capelli sporchi, e della carnagione cadaverica. Non aveva perso tempo a guardarsi in uno specchio, ma il riflesso del vetro era abbastanza eloquente.

Otto mesi di coma fanno anche questo. Aveva perso peso, i muscoli si erano praticamente atrofizzati, era lenta e scoordinata nei movimenti e le sembrava di avere il cervello avvolto da nebbia perenne.

Dire che non si sentiva in forma era un eufemismo.

Per fortuna non aveva perso la memoria. Anche se le ci era voluto circa un quarto d’ora semplicemente per alzarsi da letto, raggiungere l’armadio di fronte e vestirsi, almeno sapeva cosa fare.

Niente patetiche scene della serie “oddio, chi sono? Quale è il mio nome?”, che amavano far accadere nei film, con tanto di incontro a “sorpresa” con qualcuno del tuo passato (sempre un orribile passato poi…) che non riconoscevi.

Almeno quello le era stato risparmiato.

Così si era trascinata fuori dalla stanza, poi verso l’ascensore, le scale non erano un opzione, si sentiva le gambe così gelatinose che fare i tre piani necessari l’avrebbe solo portata in ortopedia, ed una volta fuori dall’ospedale aveva pagato un taxi per portarla direttamente all’ufficio postale.

Ricordava come il tassista l’aveva guardata, dicendole che la corsa sarebbe costata tra dollari, da pagare in anticipo. Senza scomporsi minimamente Faith aveva pescato dalla tasca le monete necessarie per poi allungargliele, soddisfatto, l’uomo era partito.

Sembrava che nessuno avesse toccato gli spiccioli né il piccolo mazzo di chiavi, giusto quattro, che Faith aveva con sé al momento del ricovero. Non poteva dire altrettanto del Rolex e dei cinquanta dollari in banconote, scomparsi assieme al portafoglio.

All’ufficio postale era scesa, ed appena chiusa la portiera il taxi era ripartito, sarebbe stato inutile chiedergli di fermarsi ad aspettare.

Faith aveva usato una delle chiavi per entrare nella stanza dove si trovavano le cassette postali, accessibili ventiquattro ore al giorno. Non erano certamente cassette di sicurezza ma il posto era decisamente più sorvegliato di una stazione degli autobus, e per aprire uno degli armadietti dovevi avere la chiave giusta, oltre a quella della porta esterna.

Una sicurezza minima, sicuramente, ma non erano in molti a lasciare del denaro in una cassetta postale, quelle dovevano semplicemente servire per recapitare posta che non si voleva arrivasse a casa.

Era un trucco a cui Faith aveva pensato tempo prima. Aveva sempre avuto bisogno di un posto sicuro per tenere qualcosa di valore, ed arrivare alle cassette di sicurezza di una banca era troppo costoso e necessitava di troppi documenti. Aprire una cassetta postale invece… così aveva pensato di usarne una per tenere qualcosa da parte.

Era stato un rischio, ma ci aveva lasciato i documenti assieme a duecento dollari, praticamente quasi tutto quello che aveva quando era arrivata a Sunnydale. Aprì l’armadietto e ritrovò il portafoglio che aveva depositato chiuso dentro la busta gialla sigillata.

Fece un sospiro di sollievo. Almeno adesso aveva abbastanza denaro per andarsene da questa maledetta città. Prese il portafoglio e buttò la busta.

Uscì dall’ufficio postale per dirigersi verso la stazione degli autobus, poco costosi e decisamente anonimi. Le facevano male tutte le gambe, come se avesse corso per quindici chilometri e non camminato per qualche minuto, ma proseguì ugualmente, avrebbe riposato dopo. Prima voleva lasciare questa maledetta città.

Raggiunse la stazione in una ventina di minuti. Ora tutto quello che le rimaneva da fare era decidere dove andare, e per lei una città valeva l’altra. Le bastava allontanarsi da questo buco infernale il più in fretta possibile. Aveva buttato abbastanza del suo tempo lì, compreso il coma, passato in un dannato letto... ci era rimasta per più di un anno. Una volta letta la data odierna non le ci era voluto molto a capire il perché si trovasse in terapia intensiva e perché non ricordava nulla di otto mesi. La sola spiegazione possibile era il coma.

Una volta alla biglietteria notò l’orario di partenza del diretto verso Boston. Guardò l’orologio alla parete, mancavano dieci minuti. Acquistò il biglietto.

Almeno avrebbe conosciuto il posto dove andava.

 

 

 

New York.

 

 

 

Erano sedute nel ristorante preferito di Faith. Era un posto elegante, vicino a Wall Street, sempre pieno di uomini, ed una minoranza, di donne d’affari. Se ne era innamorata la prima volta che ci aveva messo piede. Rivelando a Liz che la ragazza possedeva un gusto raffinato, quando si dava pena di dimostrarlo.

 Faith stava attaccando una gigantesca bistecca ai ferri, seconda solo alle fiorentine italiane. Eliza invece si stava concentrando su una porzione di pesce spada veramente gustoso, almeno a suo dire. La cacciatrice, più carnivora che onnivora, ci credeva poco. Ma non aveva discusso i gusti dell’amica.

Stavano chiacchierando allegramente degli affari della palestra. Nell’ultimo periodo andava di bene in meglio, la parte dedicata alle arti marziali, ampliata proprio con i soldi che Faith aveva investito diventando socia di Liz, rendeva molto bene. Le arti marziali erano tornate di moda e questo aveva aiutato non poco i loro affari.

Poi passarono a discutere di argomenti più seri.

-Non so cosa fare.- esordì Faith.- Lawerence è morto prima che io potessi interrogarlo nuovamente. E non so perché è stato ucciso. Tutto quello che ha detto può essere una trappola per prendermi.

Liz era rimasta un po’ in silenzio continuando a mangiare l’insalata davanti a lei, mentre Faith giocava svogliatamente con il suo contorno di patate al forno.

-Hai la possibilità di controllare le informazioni? I miei amici non possono fare niente in questo caso, rischierebbero troppo e non posso chiedergli questo.

Faith annuì, capiva la situazione, anche lei non avrebbe mai messo in pericolo i propri amici. Non che ne avesse molti ora, non che ne avesse mai avuti molti.

-No, non posso controllarle. I miei contatti si muovono su piani differenti. –I suoi informatori erano per la maggior parte vampiri o criminali che si trovavano in America. Diciamo che si muovevano dalla parte sbagliata per ottenere quel genere di informazioni.

-Allora non hai scelta. Puoi verificare soltanto di persona.

Faith annuì. Rimasero ancora un po’ in silenzio finché non portarono i dessert. Poi la conversazione riprese vita. Eliza si era messa a raccontare una delle infinite storie tratte dalla sua vita. Amava conversare e Faith sapeva che in questo modo le dimostrava la sua fiducia, inoltre a lei piaceva ascoltare queste storie di vita normale (che la cacciatrice non aveva mai vissuto, neanche prima della chiamata) accumulate in secoli di esistenza. Forse le mancava più di quanto ammettesse una vita normale. Una madre ed un padre affettuosi, un ragazzo da amare… Non che la volesse veramente ma non era una semplice chimera.

Era un sogno, accuratamente chiuso in un cassetto.

-…Conoscevo questa coppia, erano davvero simpaticissimi, ma soprattutto adoravo le loro due figlie Colin e Ellen. –A quei due nomi gli occhi di Faith si accesero per un istante, poi si fecero opachi. Divennero lontani, distanti, come se fossero in un altro luogo, in un altro periodo.- Erano due pesti. – proseguì Liz.- Pensa che un giorno Ellen cadde e si fece molto male, tanto che noi credemmo… - Faith non la stava ascoltando più, oltre il velo che le oscurava gli occhi, tingendoli con pallide ombre nere, i ricordi, indesiderati, tornavano prepotentemente in superficie, lasciando il pozzo oscuro dove lei li aveva relegati.

Liz notò il cambiamento repentino. Il volto di Faith si era fatto freddo distante come se fra loro due si fossero improvvisamente innalzati invalicabili ed invisibili muri. Sembrava che la cacciatrice non fosse più lì con lei. Eliza non l’aveva mai vista così. Le era capitato di notare a volte l’improvviso rabbuiarsi della ragazza, quando era sua ospite, aveva ascoltato le sue urla sconnesse durante il sonno, sempre agitato, la tristezza o la malinconia di qualcosa nel profondo di quegli occhi per un attimo, ma mai li aveva visti così freddi e distanti. Si chiese a cosa fosse dovuto quel repentino cambiamento di umore e sperò che Faith si aprisse, che si confidasse con lei. Sapeva che la ragazza aveva bisogno di una valvola di sfogo. Aveva bisogno di trovare l’equilibrio che le mancava. Non poteva andare avanti così per molto tempo ancora.

Continuò a parlare per un po’ aspettando che Faith uscisse da quello stato, poi, vedendo che la ragazza era ancora persa in quelli che immaginava fossero ricordi poco piacevoli, le rivolse una domanda. Solo dopo diverse volte che le rivolgeva la stessa domanda gli occhi di Faith tornarono a fissarla, con sempre quelle ombre nere che si agitavano nel profondo. Dopo un attimo di stordimento la ragazza le chiese di ripetere quello che aveva detto, cercando di scrollarsi di dosso le  sensazioni che le avevano lasciato i ricordi.

-Niente di particolare. Volevo solo sapere se stavi bene.

Faith rispose con voce atona, decisamente algida, che andava tutto bene, che non c’era alcun problema. Come sempre aveva fatto nella sua vita. I suoi problemi erano appunto, i suoi. Solo due persone aveva avuto il permesso di conoscerli. Ed erano entrambe morte, uccidendo una parte di Faith, una parte di cui lei sentiva un disperato bisogno. Ed ogni volta che la cercava trovava solo vuoto.

La cena finì nel pesante silenzio che era calato. Pesante almeno per Liz, visto che Faith sembrava essere stata risucchiata in un vortice molto profondo, dal quale non voleva uscire. O, forse, non poteva.

Dopo il caffè si alzarono, la bruna pagò il conto, e salutò distrattamente Eliza per poi allontanarsi, ancora persa nei suoi ricordi.

 

 

 

 

Sunnydale, Bronze.

 

 

 

Era la terza birra quella sera, forse la quarta. Non stava tenendo il conto. Buffy guardò la spuma bianca farsi sempre più sottile fino a scomparire del tutto. Bevve un sorso, in realtà non le piaceva il sapore amaro che la birra le lasciava in bocca, era troppo simile alla sua vita. Qualsiasi cosa buona che le fosse successa era contornata da eventi a dir poco spiacevoli.

Era un periodo strano. Sembrava che la popolazione di vampiri e simili fosse scesa attorno allo zero assoluto. Si sentiva quasi “distante” dal resto del mondo, avrebbe pagato per avere qualcosa da combattere, qualcosa che la impegnasse fino in fondo, qualcosa che minacciasse direttamente la sua sopravvivenza in modo da far scattare l’istinto dell’autoconservazione. Si scoprì a desiderare un avversario come Angelus od anche uno Spike. Si trovò a desiderare di scambiare il suo bisogno di realtà con la vita di persone innocenti. “…quelli che tu devi proteggere…”.

Invece dopo una pattuglia di oltre due ore completamente infruttuosa, se ne era andata al Bronze, sola. I suoi amici non sapevano che lei si trovasse lì, probabilmente pensavano che fosse ancora in perlustrazione da qualche parte.

Avevano notato il suo comportamento piuttosto strano e cercavano di farla stare meglio, senza riuscirci. Poi, per farli smettere, solo per farli smettere di preoccupare, aveva cominciato a recitare. A dirsi ed ad agire come se stesse veramente bene. Avevano presto smesso di prestare attenzione al suo comportamento. Nessuno notava più quei tentennamenti e quei falsi sorrisi che proclamavano il suo vero stato. E lei non sapeva più se desiderava che se ne accorgessero, che l’aiutassero, o che continuassero a vivere le loro vite.

Perché loro avevano una vita.

Lei non li aveva avvertiti, non avrebbe avuto la forza di fingere che andava tutto bene che era tutto a posto, che il fatto che era stata adottata (ma non lo aveva detto a nessuno, perciò gli altri pensavano che era in questo stato per la morte di Riley, e lei non si era presa il disturbo di smentire) non la toccava minimamente.

Quella sensazione di inquietudine, tristezza, malinconia che provava quasi sfociava nella disperazione. Ma non si poteva permettere di lasciarsi andare, non voleva permetterselo sebbene si sentisse fragile come un cristallo. Poteva farcela, ce la doveva fare. Gli altri contavano su di lei, era suo dovere proteggere l’umanità.

Ma era stanca.

Eppure stava perdendo contatto con la realtà, lo sapeva. Lo sentiva. Ormai non contava più il tempo secondo il calendario ma semplicemente come distanze fra avvenimenti significativi per lei. Avvenimenti fisici prevalentemente, erano passate due settimane da quando si era storta un polso, quattro giorni da quando aveva ucciso il vampiro dai capelli rossi. Questo era diventato il suo calendario. Ed ammetterlo le faceva paura. Stava perdendo la fiducia.

E non sapeva in cosa.

Lasciò qualche dollaro sul bancone ed uscì. Forse l’aria fresca della notte le avrebbe fatto dimenticare il suo problema per un po’, al contrario della confusione del Bronze che non ci era riuscita.

 

 

 

Cornovaglia, Inghilterra.

 

 

 

Magdalene si alzò dal suo scrittoio di ebano tenendo il mano il voluminoso fascicolo che aveva appena finito di scrivere. Poteva ritenersi soddisfatta del dossier che aveva messo insieme. Era da più di una settimana che ci lavorava, molto per i suoi canoni, raccogliendo informazioni a tutti i livelli, personalmente e non, svolgendo controlli incrociati, facendo pressioni ed oliando gli ingranaggi giusti. A volte minacciando, a volte blandendo gli informatori. Facendo ricerche nel passato tanto quanto nel futuro, documentando ed illustrando tutti i suoi punti in maniera sintetica ma esauriente. Aveva concluso facendo un’analisi il più completa possibile, aggiungendo le sue personali previsioni e supposizioni.

Uscì dall’ufficio e si diresse verso la scrivania della segretaria del leader del concilio attraversando il corridoio ormai deserto dato la tarda ora. Lo posò con non curanza sul lucido tavolo di marmo in cima alle scartoffie che si trovavano già lì, accumulate in una giornata di lavoro a rilento.

-Lo dia al signor Miller.

Senza aggiungere altro si girò e si allontanò per andare alla sua auto che l’aspettava appena fuori dal portone del palazzo. Sapeva che la segretaria avrebbe consegnato il fascicolo appena possibile. Nessuno poteva ignorare un suo ordine.

 

 

 

Travers, ancora affacciato alla finestra, poteva vedere la berlina scura attendere all’ingresso con il motore ed i fari già accesi. Il conducente scese dall’abitacolo, per andare ad aprire la portiera alla sua unica passeggera. Non poteva sentirne i passi sulla ghiaia solo a causa del basso rombo della vettura. Era una notte davvero silenziosa.

Scorse i capelli rossi della piccola, esile figura che entrava nell’auto stretta in un cappotto nero che la mimetizzava quasi perfettamente con l’oscurità circostante. La portiera venne chiusa e l’auto partì, muovendo appena la ghiaia bianca.

Travers perso nei suoi pensieri sorseggiando il nuovo scotch che si era versato, osservava gli stop posteriori dell’auto farsi sempre più piccoli, finché non sparirono, per poi continuare a guardare la notte che sembrava averlo stregato. “Sarà l’unico omicidio che mi provocherà tristezza e rimpianto”.

Finì il liquore in un unico lungo sorso per poi mettersi il cappotto ed uscire anche lui nella notte per raggiungere la sua auto parcheggiata ad un ingresso secondario. Con un cenno ordinò al conducente di partire.

“E’ l’unica donna che ho amato, che, forse, amo ancora.”

 

 

 

 

Boston, otto mesi prima.

 

 

Faceva freddo. Rimanere all’aperto in inverno in una città come Boston con solo una maglietta addosso non era salutare. Diverse teste si voltavano a guardarla, persone interdette dall’abbigliamento. Faith ignorava i loro sguardi curiosi concentrandosi sul camminare, un passo dopo l’altro.

Andava leggermente meglio, le gambe facevano ancora male, ma almeno non sembravano più gelatina. In compenso a dormire nelle scomodo sedile ci aveva guadagnato torcicollo e mal di schiena.

Dalla stazione centrale aveva preso un bus per la parte più malfamata della città, la zona dove era cresciuta. Non aveva molta voglia di rimetterci piede nelle condizioni in cui si era ora, ma era l’unico posto dove poteva sperare di trovare qualcosa da mettersi, mangiare e dormire con un centinaio di dollari solamente. A patto di non essere accoltellata prima per via di tutto il denaro che aveva.

La prima cosa che fece fu entrare in un negozio di abiti usati e comprare una felpa pesante, troppo grande per lei, vecchia e scolorita, per dieci dollari. Una cifra ragionevole.

Altro guadagno della nuova zona in cui si trovava, era l’anonimato. La gente non girava più la testa per guardarla con curiosità o compassione, tutti si facevano gli affari propri e se la guardavano vedevano solo una che aveva esagerato troppo con alcool e droghe nell’ultimo periodo, niente di straordinario.

Risolto il problema del freddo decise di affrontare quello del cibo. Non aveva fame ma entrò ugualmente in una tavola calda. Ordinò un panino, mentre i forti odori che arrivavano dalla cucina cominciavano a darle il voltastomaco.

Ignorò la sensazione e si preparò ad addentare sandwich che le aveva portato un cameriera sulla quarantina, appesantita dall’età. Faith masticò lentamente ed inghiottì con fatica. Non c’era più abituata.

Bastarono tre morsi per far ribellare completamente il suo stomaco. La assalirono ondate di nausea, si alzò in fretta dal tavolo, facendo appena in tempo a raggiungere il lavandino del bagno.

Rigettò il poco che aveva mangiato. Si ripulì con l’acqua fredda cercando di ignorare i crampi alla pancia che seguirono i conati.

Dopo qualche minuti tornò al bancone e si fece dare qualcosa di caldo da bere, abbandonando il panino sul tavolo, disgustata.

 

 

 

 

 

Norvegia, venti anni prima.

 

 

 

Magdalene stava redigendo la giornaliera cronaca delle attività della sua cacciatrice. Era stata una notte movimentata, ma la ragazza si era comportata particolarmente bene. Erano solo cinque mesi che la conosceva, l’aveva raggiunta dopo la chiamata, ma si era creato già un legame profondo tra loro due. L’inizio era stato difficile, tra la diffidenza che la ragazza dimostrava verso il mondo soprannaturale, a cui era completamente estranea, e alle parole di Marlin. Lene le aveva data una sola possibilità di dimostrarle che tutto quello fosse vero.

Era bastato l’incontro con un vero vampiro perché la ragazza capisse che l’osservatrice diceva il vero, di parola la ragazza aveva cominciato l’addestramento il giorno stesso.

Passando le ore insieme avevano cominciato a conoscersi, contro le proprie aspettative Magdalene aveva trovato Lene simpatica, estroversa, competitiva ma anche, quando voleva, profonda e gentile, le ricordava come voleva essere alla sua età.

Improvvisamente la porta del suo ufficio, pochi metri quadrati arredati con mobili vecchi ma confortevoli, si aprì. Sulla soglia un uomo sulla quarantina che richiuse la porta dietro di sé mentre squadrava con evidente sufficienza sia lei che la stanza.

-La signorina Marlin?

Le chiese in inglese, evidentemente la lingua natale dell’uomo.

-Sono io, signor…

-Travers, vengo da parte del concilio degli osservatori per prestarle aiuto…

Non c’era bisogno di aggiungere “e giudicarla” , Magdalene era una delle più giovani osservatrici mai poste al fianco di una cacciatrice. Molte la consideravano ancora una ragazzina impertinente, che ricopriva un incarico troppo importante, qualcosa che doveva essere affidato a spalle più grandi. Strano anzi che avessero aspettato così tanto prima di cercare un modo per toglierle la cacciatrice e rispedirla in patria magari dentro un archivio polveroso.

Questo sebbene la sua protetta sopravivesse da ben cinque mesi, molto, per una cacciatrice giudicata di “transizione”, la cui speranza di vita non avrebbe dovuto superare la settimana. E la vita media di una cacciatrice “forte” si aggirava sui diciotto mesi.

Le sembrava di aver letto qualcosa su questo osservatore. Veniva reputato capace ma anche freddo, del tutto incapace di emozioni. Lo accolse con un sorriso di circostanza.

-Prego, si accomodi pure.

 

 

 

 

Cornovaglia, Inghilterra.

 

 

 

John stava guidando piano, attento a rispettare i limiti di velocità. Dietro Magdalene guardava pensierosa la notte oltre il finestrino. Era una notte senza stelle né luna. Una notte morta.

Si accorse dell’altra macchina solo quando gli abbaglianti illuminarono il lunotto posteriore della sua vettura. Infastidita dalla luce accecante si rivolse a John.

-Ti dispiace accelerare e lasciare indietro l’auto dietro di noi?

Ma non era una domanda a cui potesse rispondere di no.

-Come vuole signora.

La mercedes grigia accelerò nel tentativo di lasciare indietro l’altra auto, che però li raggiunse immediatamente tallonandoli per i minuti successivi. Magdalene, un po’ infastidita dalla reazione dell’altro conducente, si chiese cosa stesse accadendo. Non era normale e lo sapeva. Mantenne come sempre la calma, il panico non serve. Era la prima cosa che aveva insegnato alla sua cacciatrice.

-Per favore John rallenta di parecchio così ci supereranno. –la sua voce era un po’ seccata.

La mercedes rallentò ma non ci fu il sorpasso da parte dell’altra vettura. “Ma chi sono?”

Uscirono dal centro abitato con la seconda macchina sempre incollata dietro. Poi, improvvisamente, Magdalene sentì un urto. Li avevano tamponati. Si allacciò la cintura di sicurezza.

-Ma che stanno facendo?

John accelerò per allontanarsi ma venne raggiunto facilmente. Le due auto ingaggiarono un duello di velocità sfrecciando nelle deserte strade extra urbane. Entrambe di grossa cilindrata, raggiunsero e superarono in breve i centocinquanta chilometri orari. I lampioni scorrevano a fianco delle vetture illuminandole per un solo istante ad intervalli sempre più brevi. L’asfalto nero scorreva sotto di loro come una pista, il paesaggio reso invisibile dalla velocità e dall’oscurità.

Ci fu un altro scontro. La macchina sconosciuta li affiancò cercando di spingerli fuori strada. Il conducente della mercedes ebbe difficoltà a tenere la macchina in carreggiata ma rispose d’istinto, spingendo a propria volta l’aggressore verso il lato opposto. Il clangore metallico delle due carrozzerie, che sfregavano e si deformavano, ed il rombo dei motori sotto sforzo erano gli unici rumori della notte.

Magdalene guardando, quasi incuriosita, fuori dal finestrino, tentando di riconoscere i passeggeri dell’altra auto, notò i vetri oscurati. E fu certa che non fosse un incontro casuale. E lei aveva un solo nemico abbastanza potente da organizzare un agguato notturno come questo. Ci furono altri scontri che si rivelarono ancora una volta infruttuosi. La corsa continuò.

Poi il finestrino posteriore venne abbassato. La canna di una mitraglietta sporse dall’abitacolo della vettura pirata. Ci fu una raffica contro i vetri della mercedes.

Non si frantumarono, limitandosi a incrinarsi appena. All’insaputa di molti Magdalene aveva fatto montare cristalli antiproiettile. La mitraglietta venne ritirata ed il finestrino chiuso.

Il paesaggio era cambiato. Erano entrati in un’altra cittadina, i palazzi si facevano sempre più fitti e le macchine parcheggiate al lato della strada più numerose, con esse aumentava la possibilità di incontrare traffico locale, ignaro di questa corsa per la vita. Ad ogni curva le ruote fischiavano e le auto perdendo aderenza sbandavano leggermente di lato toccandosi ancora una volta. Nessuno dei due conducenti rallentò.

Dalla direzione opposta sbucò una macchina in traiettoria per uno scontro frontale con l’auto non identificata.

Con una veloce manovra l’inseguitore si gettò sul marciapiede, passando nello spazio lasciato libero tra due vetture parcheggiate, per poi tornare nella strada principale approfittando di un incrocio. Il clacson dell’ignaro automobilista si perse nell’oscurità. Aveva perso solo un centinaio di metri. Non riuscendo più a raggiungerli cominciarono a sparare nuovamente. Alcuni colpi raggiunsero il lunotto posteriore.

Dopo pochi secondi riuscirono a colpire le ruote. La mercedes sbandò, andando a finire contro una serranda che si deformò a causa del violento impatto.

L’auto pirata si fermò dietro di loro sulla strada per evitare manovre di fuga, comunque impossibili a causa del motore, da cui si levava una poco rassicurate voluta di fumo. Scesero quattro uomini che si avvicinarono cautamente alla mercedes, armi in pugno.

Marlin ancora senza fiato a causa dell’impatto armeggiò concitatamente con la cintura di sicurezza per liberarsi ed estrarre la propria arma. Riuscì a sganciarla in tempo perché il primo uomo aprisse il suo sportello. Fu ucciso da un colpo quasi a bruciapelo al torace. Magdalene, con ancora la pistola in mano, cominciò a respirare profondamente cercando un po’ di ossigeno e sperando che il martellare del suo cuore nelle orecchie si attenuasse.

Sentito lo sparo, e visto l’amico cadere gli altri commando si allontanarono dal mercedes per cercare un rifugio. Si posizionarono a ventaglio aprendo il fuoco contro la vettura.

Nel frattempo anche John si era ripreso, sanguinava appena da un taglio sulla fronte, sembrava decisamente arrabbiato. Estrasse la sua P-6 dalla fondina e si mise a sparare contro gli avversari.

Sia Magdalene che John finirono un caricatore senza riuscire a colpire nessuno. Dovevano trovare una via di uscita. I commando rimanevano bene al coperto, facendo fuoco di sbarramento. Non dovevano certo avere problemi di munizioni, loro.

Marlin cercò una soluzione.

La trovò velocemente nonostante sentisse la fatica di pensare lucidamente pesare su di lei. Il rumore a bassi regimi del motore dell’auto inseguitrice arrivava chiaro nonostante le pallottole che fischiavano nell’aria. La distanza fra le due vetture era meno di una decina di metri, molti, ma ce la potevano fare se non fosse stato per la capacità di fuoco della mitraglietta. Anche quel problema poteva essere risolto.

-John? Al mio via scattiamo e raggiungiamo la macchina.

L’uomo si limitò ad annuire, continuando a sparare appena vedeva un bersaglio.

Passò qualche istante, lunghi come ore. Poi, quando sentì che il caricatore della mitraglietta era finito, Magdalene uscì di corsa dall’auto correndo bassa verso l’auto abbandonata continuando a sparare. Al suo fianco, proteggendo in ugual modo il lato destro, John.

 

 

 

Solamente Ricordi Parte II

by Silea

 

Boston, otto mesi prima.

 

 

I vicoli erano esattamente come li ricordava. Fetidi, deserti e bui. Il posto non era cambiato di una virgola nel tempo in cui era mancata, stesse strade, stessi locali, stesse facce. Faith continuava a camminare indecisa su dove passare la notte.

Di certo quella non era una zona sicura, ed i motel dei dintorni erano poco meglio delle strade. La cosa migliore sarebbe stata non dormire affatto, ma si sentiva stanca e sapeva per esperienza che dormire era il modo migliore per permettere al suo corpo di guarire i danni che aveva. Anche se a pensarci bene non sapeva se la cosa l’avrebbe aiutata ora.

In una delle discussioni con la sua osservatrice avevano parlato proprio di questo. Le capacità rigenerative che le cacciatrici possedevano.

Catherine le aveva spiegato, semplificando il concetto senza renderlo banale, che per sostenere le alte prestazioni atletiche quanto quelle di rigenerazione dei tessuti, le prescelte dovevano avere grandi fonti di energia a cui attingere. In parole povere calorie, il che significava mangiare tanto, e la cosa andava benissimo per Faith ora che aveva da mangiare.

Spiegava anche l’appetito con cui divorava tutto quello che le capitava a tiro.

Ampliando il discorso Catherine le aveva anche spiegato che le cacciatrici possedevano anche una sorta di autoregolazione, in pratica erano ancora in grado di rallentare inconsciamente il metabolismo in caso di necessità, come carenza di cibo, a patto della riduzione delle attività, come i neonati.

Faith sospettava che il coma fosse stato affrontato così dal suo corpo. Si era svegliata decisamente troppo in forma per essere rimasta otto mesi in coma. Muscoli che dovevano essersi atrofizzati si erano semplicemente indeboliti.

Per quello stesso motivo Catherine le aveva sempre consigliato dopo essere stata ferita di mangiare qualcosa di sostanzioso (“che so… ad esempio della cioccolata può andare bene Faith…” la cacciatrice aveva sorriso alla notizia ) e poi di dormire il più a lungo possibile, per dare al suo corpo il tempo di recupero necessario.

Il problema era che Faith non riusciva più a mangiare. Niente cibo, niente energia, niente guarigione. Avrebbe dovuto risolvere il problema in qualche modo ed lo avrebbe dovuto fare in fretta. Domani avrebbe provato a prendere una cioccolata calda, era un’idea come un’altra, e sarebbe stata sicuramente più sostanziosa di un tè o di un brodo.

Rimaneva il problema di dove passare la notte.

Faith, anche se persa nei suoi pensieri, appena superato l’ennesimo angolo buio si bloccò sui suoi passi, imprecando a bassa voce per la sfortuna. Nella penombra poteva distinguere due figure, vampiri, che avevano tutta l’aria di essere lì ad aspettare la loro cena.

Cercando di apparire poco appetitosa e completamente ignara della minaccia, Faith sfilò lentamente le mani dalle tasche e cominciò a cercare con lo sguardo una qualche arma utile tra i cassonetti sulla sua destra.

Ovviamente non c’era un pezzo di legno, soltanto qualche scatolone, puzza di cibo marcito e plastica bruciata. “Perfetto, ora ho la certezza di essere una completa sfigata”. Del resto anche con un paletto la situazione non sarebbe migliorata di molto. Faith non riusciva quasi a camminare, combattere sarebbe stata una scommessa.

Con molta fortuna sarebbe potuta durare dieci secondi.

I due si mossero dopo averla studiata per qualche secondo. Ovviamente anche loro avevano capito che si reggeva a stento in piedi, l’incertezza del passo, la sua lentezza, probabilmente percepivano anche il lieve tremore dei suoi muscoli. Erano cacciatori, sopravvivevano proprio in base alla scelta della preda.

Ed una ragazza sola, una specie di scheletro che faticava a camminare, lontano da occhi ed orecchie indiscrete, era la perfezione. La speranza di Faith era semplicemente che i due avessero già mangiato e la lasciassero perdere, ignorandola. Una possibilità praticamente uguale a zero.

Uno di loro, un nero alto con le spalle di un giocatore di football le si portò davanti bloccandole il passaggio, mentre l’altro, un biondo dalla faccia slavata, i lineamenti ancora nascosti dalle ombre le si portò sulla destra leggermente indietro.

Faith non aveva speranze, lo sapeva perfettamente. Il che per lei non era un motivo sufficiente per rinunciare a combattere. Lei voleva vivere. L’unica cosa di cui era stata sempre certa. Che le probabilità fossero tutte contro di lei non era un problema. Le avrebbe cambiate o almeno ci avrebbe provato.

Faith aveva sempre desiderato vivere, andare avanti e vedere un altro giorno, e lo aveva sempre fatto cercando di sfruttare al meglio le sue possibilità, qualsiasi esse fossero. Non perché avesse paura della morte, altrimenti non sarebbe mai stata in grado di combattere come faceva, con quell’abbandono e quell’aggressività rischiando quanto faceva. Il che non toglieva che per salvare una persona a cui teneva avrebbe dato volentieri la sua esistenza.

Semplicemente lei non voleva rinunciare alla sua vita, perché era annoiata o perché era diventata troppo difficile.

Non concepiva il desiderio di lasciarsi morire.

Faith non perse tempo cercando di parlare con i vampiri, nel vano tentativo di convincerli a lasciarla stare o per guadagnare una manciata di secondi in più, che non le sarebbero serviti a nulla. Si mise in posizione di difesa, aspettando l’attacco dei due.

Il piano era semplice.

Cercare di sopravvivere ai loro attacchi fino a quando si fosse aperta una via di fuga. Poi correre. Era sempre stata molto più veloce dei vampiri, e questa sera le servivano giusto una manciata di secondi di vantaggio, abbastanza da infilarsi nella prima casa abitata. Era la sua migliore chance.

Il nero la guardò divertito mentre notava il cambiamento di postura.

Sorrise mentre il suo volto si trasformava.

 

 

 

 

Boston, dieci anni prima.

 

 

 

Faith dormiva tranquillamente nel proprio letto. Era stanca, aveva corso tutto il pomeriggio con la sua migliore amica, Ellen. Era una ragazzina di un paio di anni più grande di lei, ma si trovavano bene insieme. Quando riuscivano a trovare un pallone, ed era piuttosto raro, giocavano a calcio insieme, gli altri giorni inventavano qualche gioco, guardie e ladri, nascondino… Erano l’una il conforto dell’altra in quel posto dimenticato da Dio. Si confidavano i segreti, parlavano una dei ricordi dell’altra. Si erano conosciute quattro anni prima, quando Ellen era arrivata. Inizialmente occupavano lo stesso letto a castello, poi Faith era stata trasferita in un’altra stanza.

Erano amiche.

Il loro orfanotrofio non era esattamente il posto più piacevole del mondo. Alla periferia della città, in un quartiere dove la violenza era quotidiana, dove era considerata normale. Dove anche per i ragazzi che avevano una casa era difficile arrivare ai diciotto anni. Dove i sogni erano considerati utopie, idiozie da bambini ritardati.

Dove molto più spesso non c’erano più sogni o speranze.

Le avevano raccontato di come una ragazza di quattordici anni era stata uccisa a coltellate per il giubbotto di pelle che indossava, appena regalatole dalla madre. Ed non era stato un episodio isolato.

La sera, ogni sera, si sentivano spari, macchine che sgommavano, gente che urlava. E tutto quello che Faith poteva fare era rannicchiarsi un po’ di più sotto le lenzuola e pregare che un colpo vagante non la raggiungesse. Poteva avvolgersi un po’ più stretta nelle coperte grezze, impregnate dall’odore di disinfettante e di detersivo industriale, alla ricerca di un po’ di calore.

Ha scuola non era meglio. Il loro istituto era stato tra i primi a decidere di perquisire gli alunni all’ingresso delle lezioni. Erano state sequestrate molte armi, la maggior parte vecchi revolver o coltelli. Non si avevano neppure i soldi per acquistare armi più moderne. Ma non era servito a molto. I pestaggi nei bagni erano ancora eventi quotidiani. Eventi su cui il preside ed il corpo insegnante chiudevano un occhio, spesso entrambi. Erano diminuiti solo il numero di accoltellamenti. E solo dentro la scuola.

Faith si svegliò di soprassalto quando qualcuno le tirò addosso un secchio di acqua gelida. Trattenne a stento l’urlo di orrore e stupore che le era salito alla gola, avrebbe solo peggiorato le cose, lo sapeva.

Si parlava di quella cosa da giorni. Tutti lo sapevano e nessuno lo diceva. Faith aveva solo una vaga idea di quello che stava per succedere, ma quel poco che sapeva non le piaceva affatto.

Lei ed Ellen erano state scelte per entrare a far parte di uno dei gruppi di ragazzi che si erano formati nell’orfanotrofio. Una di quelle bande che dettavano legge in quel posto appena le luci si spegnevano. Un onore al quale non potevi rinunciare.

Questa notte doveva esserci l’iniziazione. Le avevano detto che più uno strillava o mostrava paura più era difficile la prova di ingresso. Si morse il labbro inferiore per non parlare.

Deglutì, cercando di inghiottire la paura senza molto successo, era ancora lì, a tormentarla con quel sapore acidulo in gola.

Faith sapeva cosa c’era nell’aria e si era preparata meglio che aveva potuto all’idea. Scese silenziosamente dal letto completamente vestita.

Tre dodicenni la accompagnarono in una sala poco usata che era stata aperta con un qualche grimaldello, entrando, Faith aveva notato i segni di forzatura sulla porta.

All’interno c’erano un’altra decina di ragazzi, Ellen, zuppa fradicia e congelata come lei, ed il capo del gruppo, un certo Loren, un quattordicenne che dimostrava una sedicina di anni, grosso e tarchiato. L’anno successivo sarebbe stato trasferito in un altro orfanotrofio.

La accolse mettendosi a ridere piano. Non potevano farsi scoprire. Le stanze del personale erano al piano di sopra ed i rumori parevano amplificarsi in quella struttura anni settanta con un’acustica degna di un teatro.

-Ed ecco il secondo pulcino bagnato.

Rise ancora. Poi fissò sia lei che Ellen.

-Siete pronte per la prova?

 

 

 

Cornovaglia, Inghilterra.

 

 

 

Seminati i restanti inseguitori John ridusse i giri del motore. Guidò a velocità ridotta fino a raggiungere l’enorme ed isolata villa in stile neoclassico che era la casa di Marlin. Era una proprietà di famiglia, ereditata assieme ad una ricchezza di cui pochi conoscevano l’ammontare esatto. In realtà era un’osservatrice solo per vocazione. Con i soldi che possedeva e gli “amici” di famiglia avrebbe potuto fare la bella vita in società, entrare in politica oppure semplicemente gestire l’impero finanziario che aveva full-time.

John fermò la macchina davanti all’ingresso principale. Nonostante tutto quello che era successo l’uomo girò intorno all’auto ed andò ad aprire la portiera di Magdalene, come un perfetto autista. Non le porse la mano per aiutarla a scendere, malgrado lo scontro a fuoco e l’incidente, la donna sembrava come sempre tranquilla e composta. E sapeva che Marlin odiava vedersi offrire un aiuto di cui non aveva bisogno, soltanto perché si assumeva senza cognizione di causa che non era in grado di fare qualcosa o, peggio, che avrebbe desiderato l’aiuto anche se capace di fare quel qualcosa.

John la precedé ed aprì la porta di quercia massiccia per farle strada all’interno. Si fermarono un attimo nell’ingresso, lui chiudendo, la porta lei togliendo il cappotto come ogni sera.

Una volta di spalle a Magdalene, la guardia del corpo, senza far vedere il movimento alla donna, sfilò la pistola dalla cinta dove l’aveva messa in seguito allo scontro a fuoco, ignorando la fondina ascellare che indossava.

John con la P-6 già in pugno, senza sicura, non l’aveva rimessa dopo aver sparato, si apprestò a girarsi per uccidere Marlin con un singolo colpo in mezzo agli occhi. Non voleva correre rischi che la donna sopravvivesse o potesse reagire.

 

 

Norvegia, venti anni prima.

 

 

 

Erano passati tre mesi dall’arrivo di quello sconosciuto. Molto era cambiato. Lene continuava a combattere con successo i vari demoni che si presentavano, diventava ogni giorno più brava e più forte. Magdalene coltivava in segreto la speranza che vivesse per più di un anno. Questo le diceva la sua parte razionale, quella emotiva invece le faceva credere che Lene sarebbe vissuta fino a quando non fosse diventata anziana ed avesse avuto dei figli. Si era affezionata alla ragazza e sapeva che meritava di vivere più di tanti di quelli che salvava.

Soprattutto però era cambiato il suo rapporto con Travers, l’iniziale attrazione che si era sviluppata dopo il loro primo incontro si era trasformata in qualcosa di più serio. Dopo qualche tentennamento, qualche incomprensione ed una serie di discussioni erano riusciti a chiarirsi ed a decidere cosa fare.

Ora avevano una relazione stabile, accuratamente nascosta al concilio ed alla cacciatrice. Un rapporto del genere infrangeva almeno una trentina di regole e tradizioni vecchie di secoli. Ma a loro non importava, erano felici insieme, ed erano giovani.

Entrambi si era innamorati, e per la prima volta vedevano quella relazione come qualcosa di serio. Qualcosa per cui avrebbero anche lottato, che avrebbero voluto avere per il resto della vita. Sembrava strano ad entrambi, si erano sempre ritenuti troppo cresciuti per provare un attaccamento del genere.

Nonostante la loro relazione, continuavano a portare avanti il lavoro con professionalità esemplare, senza paura di ferirsi a vicenda. Era un tacito accordo per evitare che le menzogne diventassero quotidiane e che distruggessero, piano, inavvertite, il loro rapporto.

Sarebbe stato così facile. Sarebbero bastate delle omissioni, risentimenti che si sarebbero trasformati in rancori, per poi sbocciare in odio.

Ma andava tutto bene.

Travers raggiunse Marlin in ufficio, entrando, bussò appena. Lei sollevò il capo dal proprio diario, lo stava aggiornando in quel momento lo aveva trascurato per quasi una settimana, lo chiuse e ripose in un cassetto. Era una lettura proibita per lui. Il Diario dell’Osservatore poteva essere letto solo dai dirigenti, ed era reso pubblico per tutti solo alla morte della cacciatrice, o dell’osservatore.

Gli ultimi erano stati giorni frenetici. Si erano succeduti, serrati, l’attacco di alcuni vampiri in un ospedale, durante il quale alcuni pazienti non critici erano morti, cosa che aveva creato scandalo ed imbarazzo ai sanitari. Poi la morte per dissanguamento, apparentemente inspiegabile, di un ricco e famoso uomo di affari aveva creato domande imbarazzanti. Lene era stata vista in ospedale e poi vicino all’ufficio del magnate. La polizia era stata sul punto di andare a parlarle, accusarla magari, e Marlin aveva faticato a far trovare le giuste risposte agli investigatori per impedirlo.

L’uomo si chiuse la porta alle spalle e si avvicinò a lei. Si baciarono brevemente, poi lui si sedé sulla sedia davanti alla sua scrivania.

-Ti ho mai detto che ti amo? –chiese Magdalene con un sorriso sulle labbra. La pena picchiettava appena sul legno.

-E’ capitato, -rispose lui sorridendo. – però se me lo ripeti non mi dispiace.

Passarono alcuni istanti durante i quali si fissarono semplicemente negli occhi. C’era molto da leggere e niente di nascosto od irraggiungibile. Travers spezzò l’incanto.

-E’ arrivata una comunicazione dal concilio. Lene è stata giudicata sacrificabile. Credono che ormai l’altra potenziale, quella di Barcellona, sia pronta a diventare cacciatrice. Ha finito l’addestramento. –la sua voce era fredda, noncurante, stranamente lontana dall’essere professionale.

Marlin non fu colta da rabbia alla notizia, la notizia che in un solo istante le fece crollare addosso le macerie di una vita perfetta, e questo la stupì ognuna delle migliaia di volte che questa conversazione le tornò in mente. Molte, troppe, durante gli anni a seguire. Le sembrò che un velo fosse sceso su di lei, qualcosa che impedisse alle emozioni di manifestarsi. Qualcosa che impiegò molto tempo ad imparare a controllare seppur minimamente. La penna si fermò a mezz’aria, immobile.

-Sei d’accordo?

Era una domanda dalla risposta scontata, ma non si sarebbe abbassata a chiedere il perché, lui comunque non glielo avrebbe detto. Non la verità almeno. Una comoda, protettiva, istruttiva, menzogna, di cui lei proprio non sentiva il bisogno.

-Si, sono d’accordo.

Lei annuì. Ci fu un attimo di silenzio. Gli occhi di Magdalene andarono un attimo fuori fuoco, per vedere qualcosa di lontano, per poi, vuoti, tornare a fissarsi in quelli di Quentin.

-Quando?

-Domani, nello Zaire. Un nido molto esteso di vampiri. Sta creando imbarazzanti incidenti nelle campagne intorno alla capitale.

Era la missione suicida in cui Lene sarebbe morta “accidentalmente”. Combattendo, come una vera cacciatrice. Sopraffatta dal numero, non dalle capacità del singolo. Avevano scelto un modo onorevole di ucciderla.

Ma questo non cambiava niente.

-Le probabilità che la catturino viva e la torturino?

-Alte. – Travers non avrebbe mentito per facilitarle le cose, del resto lei sapeva leggere nei suoi occhi. -Il tempo di sopravvivenza è stimato in una settimana- Se fosse stato di più, se i vampiri non si fossero stancati (secondo le previsioni, sempre secondo le previsioni, ed anche questa era una scommessa) così presto, non sarebbe convenuto al concilio mandarla in quella missione.

Lei annuì di nuovo. La sua voce era calma e tranquilla, quasi noncurante.

-Esci da  questo ufficio e dalla mia vita.

Questo fece male a Quentin. Più di quanto avesse mai sospettato o temuto. Che Magdalene sapesse perché lo faceva? Non era stupida. Sapeva quanto valeva in realtà al sua cacciatrice. Sapeva che era forte. Che con un po’ di fortuna avrebbe potuto sopravvivere per ben più di un anno. E sapeva che se Lene si fosse rivelata inadatta, o giudicata tale, il che era la stessa identica cosa, e lui avesse avuto il fegato di farla dichiarare sacrificabile, Travers avrebbe automaticamente acquisito prestigio tra le alte sfere. Con un gesto simile avrebbe dimostrato di avere una visione più ampia che il semplice benessere dell’individuo. La capacità di anteporre il bene della maggioranza a quello del singolo. Una visione adatta a cariche come quella di organizzatore tattico, ad esempio.

Avevano sempre saputo che la carriera sarebbe venuta prima del loro amore. Era sempre stata troppo importante per ognuno di loro, per rinunciarvi. Eppure Travers non era preparato a questo. Aveva creduto che lei sarebbe rimasta con lui, con il vincitore della partita. Da sola, senza la protezione di qualcuno come lui, sarebbe stata vulnerabile, ora che la cacciatrice che le era stata affidata era stata ritenuta sacrificabile.

Implicava quasi direttamente che quell’osservatore era stato incapace di addestrarla, a meno che non la giudicasse anche lui (lei, in questo caso) inadatta. E stare sotto la diretta protezione di Travers sarebbe stato più eloquente di una dichiarazione scritta. Un fronte unico impossibile da criticare.

Così Marlin si sarebbe esposta a molti pericoli. Evitabili se fosse rimasta con lui. E Quentin sperava che lo avrebbe fatto almeno per interesse, fino a quando non avesse riscoperto l’amore verso di lui. Aveva creduto che Magdalene avrebbe colto al volo la possibilità di tornare a casa e lasciare questo posto dimenticato da Dio.

Perché a Travers l’Inghilterra mancava veramente, odiava questo posto in cui si parlava una lingua che era poco più di un’accozzaglia di grugniti, giusto una manciata incoerente di consonanti. Un posto in cui faceva sempre così freddo, in cui a volte non c’era il sole per più di due ore al giorno.

E se l’avesse fatto, se Marlin avesse giudicato la cacciatrice sacrificabile, la sua reputazione ne sarebbe uscita rafforzata. Far sopravvivere una cacciatrice simile per otto mesi era considerato un successo. Avrebbe ricevuto una promozione anche lei.

Invece era finita. Per sempre, come dicevano quegli occhi. Per la prima volta freddi come il ghiaccio.

Travers si alzò dalla sedia appena irrigidito. Quando raggiunse la porta Marlin parlò ancora una volta.

-La giudicherò Capace. E’ il minimo che possa fare per la sua memoria.

“Ed il massimo per distruggere la tua carriera.” Aggiunse mentalmente Quentin.

Non sbatté la porta.

 

 

 

Quella sera stessa Magdalene sparò alla sua cacciatrice, che morì istantaneamente, senza provare dolore, né sapere chi le avesse sparato.

Venne seppellita in Norvegia, fra le nevi che aveva tanto amato.

 

 

 

Boston, otto mesi prima.

 

 

 

Il primo assalto fu facile da schivare, a Faith bastò evitare il colpo abbassandosi improvvisamente. Il braccio passò diversi centimetri al di sopra della sua testa. Sarebbe dovuto essere un diretto contro la sua faccia.

Il vampiro non si aspettava quella velocità di reazione, il pugno era stato preparato lentamente senza cercare finte o sorprese. Sapendo che la forza dietro di esso sarebbe bastato a stordire, se non ad uccidere, la ragazza. Il succhiasangue la guardò con curiosità mentre recuperava l’equilibrio per preparare il prossimo colpo. Era ovvio che non si trattava di un grande combattente, nessuno si sarebbe esposto a quel modo, ma sicuramente era forte.

La seconda volta ci mise più impegno.

Il pugno colpì Faith allo stomaco, facendola piegare in due dal dolore. L’aveva visto arrivare, il movimento delle spalle, la posizioni dei piedi, ma non era abbastanza veloce da schivarlo, non nelle condizioni in cui era. Così per evitare di riceverlo alle costole aveva preferito rimanere ferma. Faith sapeva che metterla K.O. era addirittura troppo facile per il vampiro.

Boccheggiò, cercando di riprendere fiato. Sentì il vampiro ridere e dire qualcosa che lei non riuscì ad afferrare all’altro, il biondo che era dietro di lei. Faith approfittò della sua distrazione per colpirlo con una testata all’addome.

Funzionò, ora era il vampiro ad essere piegato in due dal dolore. L’adrenalina prese a circolarle per tutto il corpo mentre iniziava a sentire un vago senso di eccitazione ed il dolore diminuire. Non ci fu tempo per congratularsi con se stessi del successo. In quel momento attaccò l’altro.

Faith lo sentì arrivare con un attimo di anticipo. Era debole, non sorda ai suoi passi di carica.

Si spostò verso destra riuscendo ad evitare di ricevere la gomitata del vampiro al centro della schiena. Il colpo la raggiunse alla spalla sinistra, intorpidendole l’intero braccio. Continuando a ruotare su se stessa grazie alla forza di inerzia la cacciatrice centrò con il taglio della mano destra il collo del biondo, ma la botta era troppo debole per fare altro che stordirlo.

Non aveva né la forza né il tempo di metterlo K.O. definitivamente, il suo compare già stava riprendendosi. I pochi secondi guadagnati sarebbero dovuti essere sufficienti.

Se li sarebbe fatti bastare.

Senza voltarsi a guardare i due vampiri, Faith cominciò a correre verso un palazzo in fondo alla strada. Quando se ne era andata era uno dei pochi della zona ad essere abitato. Sperava lo fosse ancora.

Ma la sua corsa era lenta, troppo lenta, se ne rese conto immediatamente. Pochi passi e le sue gambe rallentarono ancora, i muscoli sembravano bruciare, il fiato le mancava, ed anche l’effetto dell’adrenalina non poteva durare in eterno. Non a sufficienza per arrivare in fondo a quella maledetta via.

Faith cominciò a vedere l’asfalto avvicinarsi ed allontanarsi alternativamente. Poi la strada prese girare su se stessa mentre le pareti si deformavano, alzandosi ed abbassandosi. Chiuse gli occhi e continuò a correre. Un passo dopo l’altro, con ostinazione. Le gambe le stavano tremando, prima o poi avrebbe messo un piede in fallo, lo sapeva. E sarebbe stata la fine.

“All’inferno le gambe che fanno male, all’inferno tutto quanto. Devo arrivare in fondo a questo vicolo”.

Al giocatore di football bastarono qualche decina di metri per raggiungerla. La placcò da dietro, bloccandole entrambe le gambe.

Caddero, rovinando a terra in un ammasso informe.

Sembrò volerci un’eternità per raggiungere l’asfalto, poi Faith batté la testa, ma lottò per rimanere cosciente anche se l’oscurità non sembrava volerla lasciare andare. Usò il bracco sinistro per assorbire alla meglio la caduta, con il risultato di avere il gomito piantato fra le costole. “Pochi secondi ancora, ce la puoi fare Faith, resisti ancora pochi secondi”. Sentiva il peso del vampiro sulle sue spalle e il fiato vicino al collo. Un istante e l’avrebbe morsa.

Faith scattò con la testa indietro, riuscendo a colpirlo con la nuca in pieno volto, spaccandogli il setto nasale. Udì un urlo strozzato, poi il corpo rotolò via dalla sua schiena.

Carica di adrenalina, Faith girò su sé stessa fino a trovarsi di fronte al vampiro, che era sdraiato a terra di fianco a pochi centimetri da lei, le mani sulla faccia, mugolando dal dolore. Si vedeva del sangue tra le dita.

La cacciatrice allungò entrambe le braccia verso la sua testa per afferrarlo alla fronte, puntando contemporaneamente un ginocchio contro la spalla dell’ex-giocatore. Una torsione improvvisa e lo schiocco secco della colonna vertebrale che si spezzava.

“Uno a zero”. Faith fece un respiro profondo mentre puntellava le braccia a terra per rialzarsi. Quando provò a caricare il peso sul sinistro, un dolore lancinante partì dall’avambraccio fino a raggiungere la spalla. Anche il destro le cedette. Ricadde pesantemente a terra. Non andava bene. Affatto. Doveva rialzarsi prima che arrivasse l’altro. Lo sentì urlare.

-Cagna!

Poi un calcio allo stomaco che la fece volare di qualche metro. L’atterraggio, fatto su alcuni scatoloni, avrebbe potuto essere peggio. Sembrava che il biondo fosse stato più veloce di lei. La testa era tornata a fare un male del diavolo, pulsava al ritmo di almeno duecento battute al minuto, ma Faith non aveva alcuna voglia di mollare. Non ora.

Una mano l’afferrò per la felpa, tirandola su da terra di peso. “almeno ora alzarmi non è più un problema”. Ma suonava piuttosto magra come consolazione anche alla sue orecchie.

-Era il mio childe! Ho passato un anno ad insegnargli a comportarsi! Un anno buttato al vento grazie a te!

Faith sorrise, compiaciuta, anche se teneva a stento gli occhi aperti. Faceva tutto troppo male. Infuriato il vampiro la colpì sul volto spaccandole un labbro e facendole tagliare una guancia sui denti. L’unico risultato che ottenne fu quello di sentirsi sputare addosso sangue misto a saliva. Le ringhiò contro mentre la sbatteva di nuovo contro il muro vicino.

Faith sentì la sua colonna vertebrale schiantarsi sinistramente contro i mattoni. Tenendosi a distanza, il biondo aveva visto cosa quella ragazza insignificante aveva fatto con la testa del suo amico, continuò a colpirla mentre la teneva ferma con una mano. Stomaco e volto come bersagli preferiti.

Faith aveva provato a districarsi dalla presa senza riuscirci, usando entrambe le mani per tentare di aprire la morsa che la bloccava, senza successo. Tre, quattro tentativi poi aveva rinunciando, limitandosi a respirare affannosamente. Od a cercare di farlo. Sentì lo scricchiolio di alcune costole, forse rotte o certamente incrinate. Non sarebbe riuscita a resistere ancora per molto a quel dolore. L’incoscienza era lì, pronta ad accoglierla.

Dopo un paio di minuti di questo lavoro, accortosi che la ragazza oramai non reagiva più, le braccia e le gambe abbandonate molli contro al corpo e il respiro quasi assente, il vampiro le ringhiò contro, con una smorfia divertita che metteva in mostra i canini.

-Non sembriamo più tanto pericolose ora.

Il volto di Faith era coperto di sangue, un taglio alla zigomo sinistro, il labbro spaccato, e quella che con tutta probabilità era una mascella rotta, gli occhi tumefatti. Delle costole non sapeva quante ne fossero rimaste intere dopo il calcio e il pestaggio. Teneva lo sguardo basso, fisso su qualcosa limitandosi a concentrasi sul respiro.

Il vampiro le si avvicinò per morderla e farla finita. Una preda che non reagiva più non lo divertiva.

Faith approfittò del momento per dargli un calcio all’inguine con tutta la forza che aveva e poi un destro al mento. La cacciatrice riuscì a rimanere in piedi, la schiena e una mano poggiate contro la parete, ansante. Le faceva male tutto. Deglutì un paio di volte passandosi la mano sulla bocca per togliere il sangue. Si mosse verso il vampiro ancora a terra, sembrava aver perso conoscenza.

Qualcuno accese la luce in uno degli edifici lì vicino guardandosi bene dall’affacciarsi, ed un fioco chiarore rischiarò il volto del vampiro.

Faith lo riconobbe immediatamente. Difficile dimenticare una delle facce responsabili della morte della tua osservatrice e della distruzione della tua vita. Sorrise.

Sarebbe stato un piacere ucciderlo.

Si avvicinò e gli assestò un altro calcio, alla testa ora. Gli puntò un piede alla gola per impedirgli di muoversi mentre allungava la mano per prendere il coltello che il biondo teneva alla cintura. Lo aveva visto prima, mentre la teneva schiacciata contro il muro. Contava sull’arma per avere la meglio del vampiro, che fosse rimasto stordito dalla caduta era stato un colpo di fortuna.

La cacciatrice gli sfilò il pugnale, soppesandolo in mano.

Il braccio destro le funzionava alla meraviglia, era appena un po’ stanco. Aveva il respiro affannoso ma sapeva di poter resistere ancora qualche minuto prima di stramazzare a terra.

Faith sorrise.

Sarebbe stato divertente.

 

 

 

 

Boston, dieci anni prima.

 

 

 

Dovevano scalare la parete dell’orfanotrofio. Nell’oscurità più completa, accerchiata da quei ragazzi dall’aria tutt’altro che benevola, Faith rabbrividì ancora una volta. Faceva freddo.

L’orfanotrofio era un’imponente casermone di tre piani dalla facciata praticamente liscia. C’erano solo alcuni cornicioni tra un piano ed un altro ed i davanzali delle finestre sporgenti di una decina di centimetri. L’unico modo per scalarlo era usare le grondaie, vecchie di almeno venti anni. Era un suicidio. Nell’oscurità della notte non avresti neppure potuto vedere un altro appiglio in caso di bisogno e non avresti potuto sapere dove eri se non quando arrivata.

Venne spinta rudemente in avanti e Loren la guardò, divertito dalla sua fragilità. Era una ragazzina alta per la sua età ma decisamente gracile.

-Pronta per la salita scricciolo?

Tutto quello che Faith riuscì a fare fu di scuotere la testa e farfugliare qualcosa. I ragazzi la guardavano divertiti.

-Una piccola fifona allora… -Faith sapeva che Loren stava per farle uno scherzo crudele. Qualcosa che l’avrebbe perseguitata a lungo. Non immaginava quanto.

-Vado io.

Era stata Ellen a parlare. Si era materializzata al fianco di Faith come per incanto. Fece un altro passo avanti fino a coprire la bruna dalla visuale del gruppo. Guardò Loren negli occhi.

-Vado prima io, tanto è uguale no?

Loren la guardò un attimo, poi annuì. Si sarebbe divertito più tardi con l’altra mocciosa.

Ellen cominciò la scalata nel buio della notte. Saliva piano ma costantemente, diventando sempre meno visibile. Faith rabbrividì ancora. Poi, improvvisamente, all’altezza del primo piano, si sentì il primo cigolio della grondaia. Per la paura la gola di Faith si serrò impedendole di respirare liberamente. Dopo allora ad ogni avanzamento il rumore era sempre più forte.

Incapace di restare ferma a guardare la scena, Faith corse sotto la grondaia. Guardò in alto, individuando l’ombra di Ellen, poi, sussurrando, la pregò di fermarsi, di fermarsi su un davanzale. La paura si era trasformata in nausea che le impediva di ragionare lucidamente. Non riusciva neanche più a deglutire. Le sue ghiandole salivari erano paralizzate, trasformando la sua bocca in un deserto assetato. Ogni pensiero era svanito, la sua mente fluttuava in un accogliente nulla.

L’amica continuò.

Faith non sapeva neanche se l’avesse sentita. Ma non poteva correre il rischio di parlare a voce più alta.

I ragazzi della banda cominciarono a mormorare tra loro, alcuni un po’ incerti, altri stupiti, altri cominciando a diventare nervosi, quei rumori prima non c’erano mai stati, alcuni ancora strafottenti.

Ellen raggiunse il secondo piano. La sua mano destra si allungò verso il cornicione sporgente che  percorreva tutto il perimetro del palazzo. Le sue dita raggiunsero il cemento cercando una presa solida. Al suo tocco alcuni frammenti si staccarono e lei si sbilanciò verso l’esterno, rimanendo a penzoloni, a sei metri dal suolo, attaccata solo per una mano.

In quell’istante le staffe della grondaia cedettero al peso eccessivo.

Un urlo terrorizzato squarciò la notte.

Un attimo dopo la grondaia cadde sul prato trascinando con sé un piccolo corpo che si aggrappava inutilmente ad essa cercando di evitare la caduta. Furono attimi interminabile per Faith che guardò l’amica morire senza poter fare niente. Urlò anche lei tutta la sua angoscia ed il suo risentimento. Non era giusto.

Il rumore dell’impatto fece accendere delle luci al secondo piano dell’orfanotrofio, dove dormivano il direttore ed alcuni dei coordinatori della struttura. I ragazzi dell’istituto favoleggiavano sulla bellezza di quelle stanze singole. Qualcuno si era svegliato.

Pezzi di grondaia caddero alla rinfusa sul prato, colpendo sulla schiena Faith, troppo terrorizzata per accorgersi delle profonde ferite da cui cominciò subito ad uscire sangue. Si sentirono delle urla e i ragazzi terrorizzati scapparono, dileguandosi nei rispettivi dormitori.

Loren rimase un istante di più. Una figura solitaria nella notte, del tutto immobile.

Guardò la ragazzina ferma sotto la grondaia e Faith inginocchiata accanto a lei che la chiamava sempre più agitata, che la scuoteva. Senza ricevere alcuna risposta. Loren guardò la felpa strappata arrossarsi del sangue della bruna ed il rivolo rosso uscire dalle labbra di Ellen trasformarsi in una goccia e cadere sull’erba verde.

Nella mente di Faith, buio. Nell’anima, vuoto.

-E’ stata colpa tua. Ci saresti dovuta essere tu lì sotto.

Poi scomparì anche lui.

Faith era disperata. Perché Ellen non le parlava? Perché era così immobile? Registrò appena le parole di Loren, troppo presa nel tentativo di svegliare l’amica. Da un sonno eterno.

Scoppiò in lacrime che le rigarono il volto per poi cadere sulla maglietta già fradicia. Non sentiva più freddo ma aveva cominciato a perdere sensibilità alla punta delle dita

Improvvise giunsero delle voci dietro di lei e dei passi, sempre più vicini. Un paio di robuste mani l’afferrarono e la trascinarono lontano dal cadavere dell’amica, illuminato da torce elettriche che evidenziavano l’innaturale posizione della testa. Prima vertebra rotta, morta sull’impatto, senza provare dolore, (tranne il terrore dell’interminabile caduta a cui nessuno accennò) avrebbero detto i medici.

Faith provò a svincolarsi senza molto successo. Era una solo una ragazzina.

Una voce rabbiosa le gridò nell’orecchio.

-Cosa hai fatto piccola incosciente?

 

 

 

Fu dichiarata morte accidentale. Responsabilità imputabile alla stessa vittima.

Nessuno seppe mai la verità. Faith, dopo alcuni giorni di degenza in un ospedale a causa delle ferite riportate alla schiena, venne trasferita in un altro orfanotrofio.

 

 

Cornovaglia, Inghilterra.

 

 

 

Quella mattina Travers aveva lasciato la porta dell’ufficio aperto ed osservava con i soliti occhi inespressivi la vasta sala circolare che funzionava da androne su cui si affacciavano gli uffici dei più importanti dirigenti del consiglio. Era affollato di gente. Chi chiacchierando con un caffè in mano, chi discutendo di pratiche di lavoro. Alcuni ridevano.

Sempre contro le sue abitudini aveva in mano un bicchiere di scotch liscio, senza ghiaccio. muoveva pensieroso il liquore mentre guardava oltre la propria porta, ignorando lui stesso cosa volesse davvero vedere.

Nel suo campo visivo apparve improvvisamente la sagoma di una donna che riconobbe subito. Vestita con un severo abito nero con dei lunghi, eleganti pantaloni al posto della solita gonna, bella come non la vedeva da anni, passò Magdalene.

La donna si voltò per un solo istante nella sua direzione. Era troppo lontano per leggerle lo sguardo. Come sempre, ormai, il suo volto sembrava scavato nel marmo gelido, come il suo nella pietra.

Un attimo e la donna era oltre la sua visuale. Non poté che sentirsi sia arrabbiato per il fallimento sia felice perché lei viveva ancora.

Si concesse, dopo venti anni, un sorriso.

Ignorò lo scotch per andarsi a prendere un tè.

 

 

 

Magdalene superò l’ufficio di Travers con passo deciso senza fermarsi, volgendosi un attimo solo, troppo poco per leggere l’espressione dell’altro dietro le maschere che si erano costruiti in venti anni. Maschere perfette se non, alcune volte, per gli occhi.

Ieri sera, appena era entrata nella sua casa, aveva estratto la pistola senza una parola ed ucciso la sua guardia del corpo con un singolo colpo alla nuca prima che potesse girarsi e spararle a sua volta. Quando John era caduto a terra, già morto, gli aveva visto l’arma in pugno. La conferma dei suoi sospetti.

Aveva avvertito il pericolo e si era comportata di conseguenza seguendo il suo istinto, che l’aveva salvata, per l’ennesima volta. Il fatto che quell’uomo lavorasse per lei e con lei da più di otto anni non l’aveva fatta esitare un solo istante.

 

Non entrò nel suo studio ma si diresse subito verso il più grande, quello di Miller. Ignorando la segretaria, bussò appena prima di entrare, senza fermarsi però ad aspettare l’invito ad entrare.

-Perché mi hai fatto chiamare?

Aveva ricevuto la convocazione via telefono quella stessa mattina.

-Ho letto il fascicolo che hai lasciato ieri sera. Mi ha convinto. Riassumi Giles. Ho bisogno di almeno una cacciatrice alle nostre dipendenze…Se fossero due sarebbe anche meglio.

L’uomo si voltò con un  sorriso sulle labbra che lo rese affascinante pur rendendolo simile ad uno squalo.

Magdalene aveva vinto la mano corrente della partita che giocava con Travers.

-Grazie per avermelo fatto notare.

Fu tutto.

 

 

 

Boston, otto mesi prima.

 

 

 

Faith era sdraiata da diversi minuti con la schiena a terra, concentrandosi soltanto nel cercare di respirare e di rimanere cosciente. La prima operazione era resa difficile e terribilmente dolorosa dalle costole rotte che si era procurata durante lo scontro. Respirando, cercava di sollevare il meno possibile la cassa toracica per evitare qualsiasi movimento.

Usò la mano destra per controllare lo stato delle costole, accorgendosi che era fin troppo facile contarle. Aveva perso molto peso durante il coma. Ne contò almeno tre rotte e quattro o cinque incrinate. Le rimaneva solo da sperare che la fortuna non l’abbandonasse in quel momento e qualche scheggia di osso non le procurasse un’emorragia interna.

Anche evitare di perdere conoscenza richiedeva non poco sforzo.

Stanchezza, perdita ingente di sangue, colpi alla testa. Faith li aveva collezionati coscienziosamente. Le ferite non si erano ancora rimarginate, quando, in condizioni normali, non ne sarebbero più rimasti neanche lividi.

“Ridurre quel bastardo in una specie di polpetta prima di farlo fuori non è stata la mia migliore idea di sempre, ma dannazione se non mi sento una meraviglia”.      

Viva, con un altro dei suoi torturatori ucciso, dopo aver sofferto per lunghi minuti.

Si sentiva appagata.

“Ora devo solo levarmi di qui e trovarmi un posto dove riposare.”

Faith fece un respiro e rotolò su un fianco. Puntellò le braccia a terra e provò ad alzarsi, senza successo. Ricadde immediatamente, il braccio sinistro le faceva troppo male. Probabilmente anche quello si era rotto.

“Sono un mito, mi sveglio da un coma e in meno di tre giorni mi riesco a procurare una mezza dozzina di ossa rotte o incrinate, senza neanche andare a cercarmi i guai. Ancora un po’ e crederò di attirarli.”

La seconda volta riuscì a mettersi seduta puntellandosi con il gomito. Il vicolo era deserto e sembrava che nessuno si fosse interessato alle urla che c’erano state. Urla strazianti, Faith era sempre stata un’artista con un lama. Si trattava di vicini riservati. Meglio così.

In mano, Faith stringeva ancora il coltello, lo infilò nella cintura dei pantaloni dopo averlo pulito sulla manica della sua felpa, che era già completamente sporca di sangue.

Le servì qualche altro laborioso minuto per rimettersi in piedi, racimolando abbastanza energia per trascinarsi lontano da lì.

Fu esattamente quello che fece. Lasciò il vicolo per imboccarne un altro e si ritrovò a seguire alcune vecchie stradine che conosceva bene. Senza essersene resa conto si era diretta verso il suo vecchio quartiere.

Qui, anche i volti erano familiari. Faith ne riconobbe qualcuno e si ritirò ancora di più tra le ombre del vicolo in cui si trovava. Si fermò, appoggiandosi contro un muro, per riprendere fiato.  Sapeva che era senza senso girovagare per quelle strade sprecando energie, visto che non aveva un posto dove andare. Doveva fare mente locale, nonostante la stanchezza e il malditesta feroce, per cercare di capirci qualcosa.

Fece qualche altro passo e si fermò contro la parete di un vecchio palazzo abbandonato, un rifugio per senza tetto e drogati. Si sarebbe potuta fermare lì. Un suicidio in pratica, ma forse quei barboni l’avrebbero lasciata stare, del resto sentire il coltello infilato nella cintura la faceva sentire meglio. E non aveva poi tutta quella scelta.

Il palazzo o svenire in una qualche vicolo nei prossimi cinque minuti.

Tutte ipotesi molto attraenti.

Entrò e la prima cosa che la colpì fu la puzza.

Sudore, urina, cibo avariato. Umanità povera e alla rovina. Odiava quel genere di posti. Oddio quanto li odiava.

Si fermò pochi passi oltre la porta. Vedeva delle sagome indistinte nella penombra, con uno spiacevole sottofondo di rantoli e singulti.

Sarebbe stato meglio dormire fuori, tra bidoni della spazzatura.

Ma non poteva, non imbrattata di sangue come era, con un coltello alla cintura e forse anche ricercata dalla polizia. Faith fece qualche altro passo nell’androne. vide una testa muoversi per seguire i suoi movimenti.

Sembrava che lei non fosse l’unica ad essere ancora sveglia.

Era un uomo anziano, sulla sessantina, Faith lo conosceva bene.

Un barbone che aveva incontrato tempo addietro, una persona a posto per quanto lo si potesse essere nel quartiere. Uno abbastanza sveglio da conoscere i demoni ed intelligente abbastanza da avere informazioni da barattare.

La fissò per alcuni secondi, mentre lei si trascinava oltre, ignorandolo.

-Faith? Sei tu?

Continuare ad ignorarlo fu una forte tentazione. Ma se faceva così l’uomo si sarebbe potuto agitare, urlare magari, e forse, soltanto forse, il barbone le avrebbe dato una mano, in nome dei vecchi tempi. E del resto nel buio lui non poteva vedere che era imbrattata di sangue e mettersi paura.

-Si J.D.

-Passato molto tempo. Che ci fai qui?

Faith sorrise stancamente.

-Secondo te?

-Perché qui quando hai una comoda casa?

Faith si arrabbiò.

-Quella non era casa mia.

L’uomo la guardò per qualche secondo, come riflettendo. Gli anni e il troppo whisky si facevano sentire.

-Una donna è venuta, tipo un anno fa, e ha detto che la casa era tua.

-Una donna?

-Si, una donna. Era un avvocato. Vestita bene, di lusso. Ti cercava. Gli ho detto che non sapevo dove fossi. Mi ha chiesto di dirti che la casa era tua, in caso ti avessi visto.

Faith rimase in silenzio, pensando. A due isolati da qui c’era quella che sembrava essere una sua casa. Sicuramente, anche se disabitata da tempo, sarebbe stata più accogliente e sicura di questo tugurio. Preferiva fare altri dieci minuti di cammino, che cadere a terra addormentata qui e magari non risvegliarsi.

 

 

 

La porta cedette alla terza spallata. Ogni colpo era tremendamente doloroso per Faith, lo sentiva rintronare su tutto il torace, ma aveva continuato testardamente a colpirla mordendosi le labbra per non urlare.

La serratura saltò e Faith riuscì a mettere piede in quell’appartamento per la prima volta dopo più di un anno. Stanca, sanguinante e sull’orlo dello svenimento.

“La porta, devo chiudere la porta”.

Mise la catenella e si inoltrò verso il salone.

Tremava dal freddo, dalla stanchezza e dalla paura. Non sapeva cosa avrebbe trovato in quella stanza. Era spettrale nella luce incerta che filtrava tra le persiane. Erano rimasti solo i mobili, scomparsi tutti gli oggetti ornamentali ed i quadri, il caminetto spento, senza legna.

La vista di una donna sui trent’anni, castana, seduta comodamente su una poltrona rivolta verso l’ingresso fu una sorpresa. Faith si appoggiò contro lo stipite mentre cercava di mettere a fuoco meglio la figura, la sua vista non era granché al momento. La mano era già sull’impugnatura del coltello, pronta a lanciarlo.

-E tu chi sei?

Faith non aveva voglia di essere cortese. Era stanca e ferita. La donna sorrise, od almeno così sembrò.

-Eliza. Ma tu puoi chiamarmi Liz. Diciamo che era un’amica di Catherine.

 

 

 

New York.

 

 

 

Era molto tardi, o molto presto, questione di punti di vista.

Faith girava sola, senza meta, per le strade a volte deserte, a volte gremite, della grande mela. I ricordi non la volevano lasciare. Erano ritornati. Credeva di aver sepolto quelle cose, ma non era così. Il bavero del giaccone di pelle alzato e le mani ficcate in tasca, in profondità, la ragazza camminava cercando di annullare i pensieri.

Senza riuscirci.

Due anni prima ne aveva parlato con Catherine, che l’aveva consolata dicendole che non era stata colpa sua, che non aveva potuto fare niente. L’osservatrice l’aveva guardata con tristezza, mai i suoi occhi si erano riempiti della pietà che tanto disgustava e faceva arrabbiare Faith. Si ricordava che, dopo quella sera in cui si era confidata, erano entrambe davanti al camino scoppiettante come sempre dopo la ronda (sorrise al pensiero), aveva dormito bene fino a quando era rimasta con Catherine.

Altri ricordi.

“…E’ stata colpa tua. Ci saresti dovuta essere tu lì sotto…”

Le disse una voce nella sua mente. Una voce di cui non riconosceva il proprietario. Una voce il cui proprietario non contava. Il cui proprietario non sapeva. Una voce pacata che constatava un fatto senza dargli troppa importanza. Una voce che si ripeteva all’infinito, impietosa come la morte. Sempre uguale, cruda e crudele.

“…Cosa hai fatto piccola incosciente?...”

Le urlò un'altra voce rabbiosa. Una voce incorporea che la seguiva da tanto tempo. Che mai l’aveva lasciata. Che ripeteva queste parole come se fossero un mantra. Parole che la seguiva noi sogni, braccandola impietose. Ignoranti della verità. Così convincenti e truci.

“…Cosa hai fatto? … E’stata colpa tua!...”

Non riusciva a zittire quelle voci.

Non riusciva a sopportarle.

Tornò a bramare l’oblio dei sensi come una volta.

Sarebbe stato facile trovare qualcosa di adatto in una città come New York.

Si guardò attorno. Un bar di infimo ordine. Alcool.

…oblio…

Le bastava entrare. Poi, domattina, si sarebbe ritrovata da qualche parte con i ricordi di nuovo seppelliti nei recessi più bui della sua mente. Dove cercava disperatamente di non andare. Dove credeva che non sarebbe più tornata. Dove non voleva tornare. Dove era precipitata nuovamente.

Sul fondo. Le poche buone cose che aveva, strappate, senza misericordia o pietà.

Oblio.

Erano anni che non pensava più a quel fatto. Da quando lo aveva raccontato. Da quando aveva creduto di averlo dimenticato. Ed invece era lì, marchiato a fuoco nella sua mente. Pronto a ripresentarsi appena avesse abbassato le sue barriere, appena un qualcosa glielo avesse ricordato,  “…soprattutto adoravo le loro due figlie Colin e Ellen…”. Una storia, un nome… Niente altro che questo.

Era ritornato.

Forte come non mai. Implacabile. Imperituro.

Oblio!

Attraversò la strada di corsa. Un automobilista suonò il clacson infuriato e poi accelerò.

Poco più avanti, oltre il bar, la vide.

Una donna dai capelli grigi, alta, longilinea, che si girò un solo attimo.

Le sembrò di riconoscerla. Non poteva sbagliare.

Catherine.

Irrazionalmente, conscia che la donna era morta, la seguì.

Rimase a distanza, senza mai perderla di vista, ansiosa di raggiungerla, ma avendo paura che poi non sarebbe stata lei.

Di scoprire che era una semplice donna che rincasava dopo il turno di notte. Un’estranea.

Aveva bisogno di quell’illusione. Di quella speranza.

Ci si aggrappò per poter uscire da quel baratro di cui aveva ancora una volta toccato il fondo.

La seguì per tutta la notte. La donna, instancabile, aveva camminato senza mai fermarsi, senza mai voltarsi.

Albeggiò.

Il sole, in tutto il suo splendore, sorse illuminando la città dal mare. Inatteso e stupefacente.

Un raggio riflesso sulla superficie dell’acqua la accecò per un istante.

Quando tornò a vedere la donna era scomparsa.

La strada era deserta.

 

 

 

 

 

Cornovaglia, Inghilterra.

 

 

 

 

Magdalene sedeva nel suo studio privato alla villa. Orientato verso ovest era illuminato dai raggi del sole che stava tramontando. La luce si rifletteva calda sui mobili ottocenteschi in stile neoclassico. Adorava assistere al crepuscolo, le trasmetteva un senso di pace. Osservava spesso il calare del sole in Norvegia dove durava molto più a lungo ed era davvero meraviglioso, di solito al suo fianco sedeva Lene.

Si sentiva stanca.

Sentì un rumore alle sue spalle.

Si voltò piano per fissare i suoi occhi in quelli nocciola della ragazza di fronte a lei, la pelle del viso, molto chiara, quasi pallida, le ricordava straordinariamente quella della sua cacciatrice. Nessuno dei suoi pensieri trasparì in superficie. Il suo volto, come quello della giovane davanti a lei, era senza espressione.

-Ti aspettavo Faith.

Nessuna delle due diede alcun segno di stupore, ad un osservatore casuale sarebbero sembrate amiche da sempre.

La cacciatrice non era stanca nonostante il lungo volo, si era addormentata appena l’aereo era partito, svegliandosi solo in Inghilterra. Appena tornata a casa aveva trovato sul bancone della cucina il biglietto di prima classe prenotato per Londra in partenza nel giro di poche ore, con tanto di indirizzo esatto di questa villa. Il tutto da parte di Liz, che si era mossa senza chiederle niente, agendo con ottimo tempismo, come sempre. Si sentiva in colpa nei suoi confronti, continuava ad agire in maniera ambigua con lei.

-Credevo che i dirigenti del consiglio fossero più protetti.

-Quando gli uomini di cui dovresti fidarti cercano di ucciderti sei più sicura da sola. Non credo comunque che qualche guardia avrebbe potuto trattenerti per più di qualche secondo.

Magdalene studiò attentamente l’interlocutrice. Non portava armi visibili, non che una cacciatrice ne avesse bisogno. Eppure qualcosa le diceva che se avesse potuto perquisirla le avrebbe trovato almeno una pistola addosso, non credeva che Faith fosse ottusamente legata alle tradizioni. Non le sarebbe servito usare l’arma, se voleva avrebbe potuto ucciderla a mani nude prima di un solo battito del cuore, prima che Magdalene potesse sfiorare il calcio della sua, di pistola.

Guardò la postura della ragazza, falsamente rilassata contro lo schienale della morbida poltrona. Gli occhi testimoniavano la sua attenzione, penetranti e profondi.

Faith sapeva che la donna che le sedeva davanti era pericolosa. Forse non fisicamente, ma poteva quasi sentire l’intelligenza emanata dall’altra, simile a quella di Catherine, solo più fredda ed analitica. Doveva fare attenzione. Miss Marlin era un’avversaria mortale, capace ed efficiente, esattamente come lei.

Ed il suo volto che dimostrava una quarantina di anni, in realtà, portava segni di decisioni difficili ed anni passati solamente cercando di sopravvivere. Faith si guardava allo specchio venti anni dopo.

Avevano corso entrambe molto rischi per accettare questo incontro.

Avevano entrambe scommesso d’azzardo, sperando che il risultato fosse loro favorevole.

Avrebbero entrambe giocato fino in fondo questa partita.

Silenzio.

-Dobbiamo parlare.

 

 

Fine