SORRISI …

By Silea

 

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PARTE I

 

Parla Eliza Sinless, immortale:

 

 

 

 

“Faith è molto vicina all’orlo del crollo psicologico. E’ troppo tempo che sta vivendo senza un equilibrio che ne stabilizzi priorità ed emozioni. Sta camminando su di un filo sempre più esile che prima o poi si spezzerà. E’ una condizione molto pericolosa. Ho parlato a lungo di cacciatrici con Parker. Essere la prescelta sottopone ad uno stress rilevante.

Nessuna persona sana di mente sceglierebbe coscientemente questo destino. Una abbastanza saggia o abbastanza pazza rinuncerebbe al suo fato.

Nell’unico modo possibile.

Parte dell’addestramento che un osservatore fa svolgere ad una cacciatrice consiste nel controllo delle proprie emozioni, o per essere più precisi, volge alla ricerca di un equilibrio interno della cacciatrice stessa, che infine non si dovrà più appoggiare all’osservatore. In modo tale che possa continuare combattere in caso di dipartita prematura della sua guida.

Purtroppo Catherine non ha potuto finire l’addestramento e quando io ho finalmente incontrato Faith non ho potuto terminare quello che Parker aveva iniziato. La ragazza, per superare la morte violenta della sua osservatrice, si era chiusa in se stessa e resa indipendente.

L’unica possibilità è che sia lei stessa a trovare l’equilibrio che le manca.

Se non accadrà a breve, questa ragazza scompenserà nuovamente e non ci sarà nulla da fare per poterla aiutare. La sua unica via di fuga sarebbe la morte.

Ed io potrei essere costretta ad aprirgliela.

 

 

 

 

 

 

 

Sunnydale.

 

 

 

Era appostata su quel tetto da quasi quattro ore. Supina, con la balestra appoggiata al bordo di mattoni appena rialzato, che forse raggiungeva i venti centimetri, e la testa posizionata per vedere l’ingresso del vicolo sottostante, aspettava immobile.

L’aria, dopo che il sole era calato, più di tre ore prima, si era fatta fredda. Il cielo era limpido, le stelle brillavano nella notte non illuminata da luci. Faith, che ormai sentiva il suo corpo distante, leggero, come immerso nell’acqua, non provava freddo, sapeva però, che appena finito il suo lavoro si sarebbe sentita gelata fino al midollo, ma prima di allora sarebbe stata bene.

Mosse nuovamente le dita della mano destra per tenerle al caldo. Non poteva permettersi che si intirizzissero così che, quando sarebbe venuto il momento di tirare il sensibile grilletto della balestra, rispondessero alla sollecitazione con un attimo di ritardo, facendole perdere la sua unica possibilità di tiro.

Tenendo sempre gli occhi incollati all’ingresso del vicolo da cui sarebbe dovuto giungere il bersaglio, Faith si era permessa di vagare con il pensiero. Era abituata agli appostamenti, era convinta di poter anche lavorare come cecchino (l’aveva fatto prima, ma mai a tempo pieno), in questi casi era come se la sua fretta di attaccare battaglia, l’adrenalina, si dissolvessero, lasciandola solo concentrata sul suo lavoro. Non aveva paura come molte altre persone, la maggioranza, a rimanere sola per ore con la sua mente (non che non le avesse mai giocato brutti scherzi, ma dopo otto mesi di coma soli con se stessi, poche ore sono come battiti di ciglia).

Il dardo incoccato, dalla punta in acciaio imbevuta di veleno mortale (questa volta l’aveva scelto senza alcun antidoto, non avrebbe corso rischi evitabili) e dal fusto di legno di frassino, con quattro alette stabilizzatrici, era l’arma perfetta per fare quello che doveva.

Vagando la sua mente tornò alla conversazione che aveva avuto con Magdalene Marlin più di una settimana prima. Una conversazione che le aveva cambiato la vita. L’incontro con l’osservatrice, che le avevano detto implicata nella morte di Parker, era stato illuminante per certi versi, del tutto inutile per altri.

Era stata più una prova di forza che non una semplice conversazione. Nessuna delle due avrebbe ammesso la superiorità dell’altra prima di uno scontro, che non era loro intenzione (non ancora almeno…) intraprendere.

Aveva incontrato Magdalene solo perché le avevano detto che era stata una dei mandanti dell’omicidio della sua osservatrice (aveva smesso di credere da tanto tempo al fatto che quello fosse stato un semplice incidente) solo per questo era andata in Inghilterra. Faith era stata chiara e diretta una volta finiti i “convenevoli”.

-Mi hanno detto che hai fatto uccidere la mia osservatrice.

Aveva esordito così. Magdalene non aveva staccato gli occhi dai suoi.

-Ti fidi di quello che ha detto Lawerence?

Le aveva chiesto tranquillamente come se si parlasse di un fatto irrilevante e la sua vita non dipendesse da una sola parola. Faith aveva risposto in maniera ugualmente distaccata.

-Sei ancora viva.

Così era stato chiuso l’argomento Catherine Parker. Chiuso soltanto momentaneamente, perché Faith aveva altri progetti per il futuro…

Faith doveva ammettere che Marlin l’aveva stupita, dopo averle spiegato che in realtà Lawerence le stava facendo un “favore”, le aveva offerto di tornare a lavorare per il consiglio. Era quello il vero motivo per cui l’aveva “chiamata”. Per proporle un accordo d’affari. Non credeva che gli osservatori fossero così lungimiranti ed “aperti”. In realtà credeva che Magdalene fosse l’eccezione, del resto lei era ancora viva. Ne avevano discusso a lungo. Di certo non sarebbe tornata ad essere la piccola brava cacciatrice nelle mani del primo osservatore che le avessero assegnato. Lo aveva messo subito in chiaro.

Quando l’aveva fatto aveva quasi potuto vedere il sorriso di soddisfazione dell’altra. Magdalene sapeva che avrebbe reagito così, ci contava, ed era felice di non essersi sbagliata. Questo aveva messo ancora più in guardia Faith. Marlin non l’avrebbe mai sottovalutata, ed anche lei non avrebbe commesso questo errore.

Si erano accordate dopo aver raggiunto diversi compromessi ed entrambe ne erano uscite soddisfatte, l’unico modo per cui un accordo simile potesse durare. Faith era tornata ufficialmente a lavorare per il consiglio degli osservatori, ma non come cacciatrice. O meglio non come cacciatrice tradizionale.

Non avrebbe fatto riferimento ad alcun osservatore. Il suo contatto sarebbe stata la stessa Magdalene. Lei le avrebbe assegnato le missioni (che aveva la facoltà di rifiutare…), le avrebbe procurato le informazioni, l’avrebbe pagata a lavoro finito.

Le regole erano poche e semplici. Non attaccare installazioni o personale del consiglio, non attaccare l’altra  cacciatrice, evitare il coinvolgimento con strutture e apparati governativi. Naturalmente Magdalene l’aveva informata del pericolo costituito da Travers e consigliata di tenersene lontana, non era difficile immaginare che ci fosse un conflitto tra loro. Un conflitto che forse, in futuro, Faith poteva usare a proprio vantaggio.

Sarebbe potuto essere descritto come un incontro amichevole, se non fosse stato per le minacce implicite che sapevano di poter esercitare l’una sull’altra. Nulla di evidente, nessun accenno. Giacevano come spettri. Che non occorreva risvegliare.

Faith si era guardata bene dal parlarle di Eliza o di qualsiasi altro contatto che aveva o aveva avuto. Non era disposta a mostrare i propri alleati, inoltre non conosceva la politica del concilio verso gli immortali. Magdalene aveva fatto lo stesso limitandosi ad informarla che il capo del consiglio era d’accordo e che sarebbero state ritirate le squadre alla sua ricerca.

Ed ora si trovava su quel tetto, immobile da quasi cinque ore, sdraiata sulla ghiaia mista a terra che serviva da isolante termico, poteva sentire i sassolini sotto il suo stomaco, uno particolarmente grande che batteva contro una costola. Non era una posizione comoda.

 Doveva uccidere un vampiro di quasi cento anni che cominciava a farsi un nome nella propria zona e che sarebbe diventato una minaccia futura. Era sulla bocca dell’inferno per cercare nuovi alleati. Nonostante non ci fossero personalità di spicco al momento, il posto brulicava ancora di piccole bande, che riunite, si sarebbero rivelate ostiche da eliminare. Era una minaccia da stroncare il più velocemente possibile.

Era una missione tutto sommato semplice, scelta per saggiare le sue qualità. Faith lo sapeva. Avrebbe dimostrato quello che valeva, ci teneva a rimanere ancora in vita. Probabilmente la zona era piena di informatore di Magdalene. Non si sarebbe stupita se l’indomani stesso un rapporto completo dei fatti si sarebbe trovato sul suo scrittoio. Quella donna era un’osservatrice molto attenta. Avrebbe tratto molte informazioni dal suo metodo di agire.

Era per questo che Faith voleva fare un lavoretto pulito, efficienza e capacità sarebbero dovuti trasparire da questa operazione. Nessuna debolezza (e lei si conosceva abbastanza da sapere che ne aveva diverse) doveva trasparire. Non avrebbe dato gratuitamente un’arma in mano a Marlin.

Negli ultimi giorni aveva raccolto informazioni e una descrizione dettagliata del vampiro da uccidere. La sua escursione nel lato oscuro le era stata molto utile per creare contanti che, se non sicuri, erano affidabili nelle informazioni. Un solo colpo, un assassinio pulito e la missione era compiuta. Dopo, doveva solo portare la sua pelle in salvo e riscuotere il denaro. Non aveva richiesto l’aiuto di nessuno, non poteva ancora permettersi un eventuale tradimento. Avrebbe agito da sola.

Lo aveva già fatto in passato, era rimasta sola a lungo.

Per questo era lì su quel tetto con una balestra. Tra le possibili soluzioni ci piani individuali era la più logica e sicura. Non sapeva quanti vampiri ci sarebbero stati nei dintorni oltre ai quattro di scorta e non aveva voglia di affrontare una ventina di succhiasangue da sola. Il suo compito era uccidere il bersaglio, gli altri non la riguardavano.

Ci fu del movimento in fondo al vicolo. Apparve una figura alta ed imponente dai lunghi capelli biondi, una cicatrice sulla fronte. Era lui.

Bastò una leggera pressione.

Il dardo incenerì il vampiro e Faith si lasciò cadere oltre il bordo del tetto per non farsi scoprire dalla scorta di quello che era stato Gareth Williamson, americano, signore di Chigaco.

Due ore dopo era tornata la calma. La scorta aveva perlustrato a lungo i vicoli e i locali che si aprivano sul vicolo, per poi abbandonare la caccia, ormai privi del loro signore, liberi di perseguire i propri interessi personali. Probabilmente nei prossimi giorni a Sunnydale il numero di vampiri sarebbe diminuito e a Chigaco si sarebbe aperta una guerra tra i luogotenenti. Con un po’ di fortuna sarebbe stata lunga e sanguinosa.

I vampiri non avevano controllato però il tetto dove Faith attendeva, silenziosa, con la balestra nuovamente carica e un paletto in mano, pronta a difendersi ed aprirsi una via di fuga con la forza, in caso fosse stata scoperta.

La cacciatrice si alzò, spolverandosi i pantaloni e la giacca di pelle nera, per tornare a casa. Mentre raccoglieva la sua roba e la infilava nella sacca che si buttò sulle spalle, un brivido gelido le percorse la schiena.

Aveva freddo.

 

 

 

 

Cornovaglia, Inghilterra. Una settimana prima.

 

 

 

Travers sedeva nel suo ufficio scorrendo i rapporti giornalieri che gli avevano portato. La situazione era tranquilla. L’unico elemento di disturbo era rappresentato da un certo Williamson, un vampiro che si era fatto strada nella città di Chigaco assumendone il controllo. L’avrebbe dovuto far seguire costantemente da un’ombra.

Stava per alzare il telefono e dare l’ordine a Jason di provvedere, quando l’apparecchio suonò. Alzò la cornetta e sentì la voce della segretaria di Miller che annunciava il suo capo.

Perché il dirigente del consiglio l’avrebbe chiamato quando poteva convocarlo nel suo ufficio, distante poco più di venti metri? Non era un buon segno.

-Travers?

-Signor Miller…

-A che punto sono le sue squadre alla ricerca della cacciatrice più giovane?

-Ne abbiamo perso le tracce signore. –A Travers bruciava doverlo ammettere ma non era salutare mentire al grande capo. Aveva fatto sorvegliare aeroporti e porti senza alcun successo. Forse la cacciatrice non era venuta in Inghilterra, nella terra del consiglio, oppure i suoi uomini non erano riusciti ad individuarla. Non voleva credere che i suoi uomini fossero tanto maldestri, non ci avrebbe creduto, ma il sospetto si insinuò un attimo nella sua mente, troppo debole per essere registrato nella memoria, subito cancellato dalla certezza. Si fidava dei suoi uomini e delle loro capacità. Forse aveva sottovalutato la cacciatrice, non era così stupida da cercare di arrivare in Inghilterra.

Ci fu un lungo silenzio sufficiente a far capire quanto Miller fosse seccato dalla faccenda, e quanto il suo errore era stato ritenuto importante e notato. Il capo del consiglio era parco nei ringraziamenti, silenzioso nella rabbia. A Travers sembrò di aver perso qualcosa di importante. Cosa era successo?

-Ritiri l’ordine di cattura e di ricerca. La cacciatrice lavora nuovamente per noi. –“Cosa?” Avrebbe voluto urlare nella cornetta Travers, invece si morse le labbra per non dire nulla mentre un nome gli balzava in mente, Magdalene. Non era certo stata con le  mani in mano dopo quello che era successo. Questa doveva essere la risposta alla sua mossa. Miller continuò. –Non dovrà più essere ostacolata. Anzi, dovrà essere aiutata, chiaro?

-Si signore. –un cucchiaio di cianuro sarebbe stato più facile da mandare giù ma Travers riuscì a non farlo trasparire nella sua voce.

-Ed anche la Summers. Non agisca più contro di lei. Le cacciatrici non la riguardano più, nessuna delle due. I suoi metodi non sono stati ritenuti efficienti. E’ sollevato dall’incarico.

Travers si ritrovò ad ascoltare il suono della linea libera.

Miller aveva attaccato.

Magdalene aveva vinto la mano, e acquisito in una settimana quello che lui si era conquistato in un anno. Miller non aveva fatto il suo nome ma era chiaro che le cacciatrici ora facevano riferimento a lei. Era l’unica abbastanza alta in grado per avere la responsabilità di qualcosa del genere.

Era il suo turno di agire. Doveva riguadagnare il terreno perso, ora che anche l’ipotesi di omicidio era svanita. Non avrebbe tentato la fortuna ancora con una mossa diretta verso Magdalene. Un errore era sufficiente.

E lui ne aveva già fatti tre.

 

 

 

 

Magdalene, seduta dietro il suo scrittoio teneva la cornetta in mano aspettando una risposta dall’altro capo.

-Pronto? Parla il signor Giles.

-Buon giorno Signor Giles, sono Miss Marlin.

Se l’osservatore le avesse sbattuto il telefono in faccia lei non si sarebbe stupita più di tanto. Era al corrente di tutto quello che era successo tra lui ed il consiglio. Magdalene sapeva anche che Giles era un uomo intelligente.

-Cosa vuole ancora il consiglio degli osservatori da me?

Magdalene giocava con la matita facendola battere piano sul legno dello scrittoio.

-Riassumerla. Saremmo onorati se lei volesse tornare a far parte del consiglio.

-La cacciatrice si è “licenziata”, -era ironico.- Lo sa vero?

-So che la cacciatrice si è trovata molto male a trattare con il signor Travers, ma io non sono lui. E’ ovvio che gradiremmo che la signorina Summers torni a collaborare con noi. Il concilio si sta… rinnovando, comprendiamo che il mondo è cambiato e che la cacciatrice abbia esigenze personali. Da parte nostra ci sarebbe l’impegno di mettere le nostre fonti e le nostre risorse a vostra disposizione, inoltre, oltre alla sua gratifica economica si potrebbe discutere di un compenso per la cacciatrice. Non è più una ragazza, ormai si tratta di una donna che ha le proprie esigenze. Ovviamente non mi aspetto una sua risposta immediata. Mi limito a chiederle di pensarci. –Ci fu un silenzio di qualche secondo. La risposta che Giles stava per dare era fondamentale per il proseguo delle trattative.

-Capisco il suo punto, miss Marlin. Non posso prometterle niente, non senza aver consultato la signorina Summers – come stonava chiamarla così per il signor Giles.-  ma ci penserò…

Scambiati gli auguri reciproci di una buona giornata ed il numero a cui Giles poteva chiamarla, la comunicazione fu chiusa.

Magdalene si rilassò contro lo schienale della poltrona. Sorrise, soddisfatta dell’esito della telefonata. Avrebbe potuto scommetterci. Giles avrebbe accettato ed avrebbe portato la sua cacciatrice con sé. E lei avrebbe controllato (solo in parte, non si faceva illusioni) le cacciatrici.

Ora avrebbe solamente dovuto attendere. Che Faith le comunicasse qualcosa. Che il signor Giles la richiamasse. Che Travers facesse la propria mossa. L’attesa non è mai la parte più entusiasmante di una guerra. Anzi la più noiosa e pericolosa. Le sue strategie si fondavano sul tempismo. Un errore avrebbe compromesso delicati meccanismi. Doveva essere precisa.

Alzò il telefono e compose il numero interno. Era tempo di saggiare il polso alla situazione, avvertire alleati e prepararsi a difendersi.

Era Quentin a dover giocare la prossima mossa. La guerra era stata dichiarata. Nessuno dei due poteva più contare sul fattore sorpresa.

 

 

 

 

 

In un bar del porto, Sunnydale.

 

 

 

Faith era seduta su uno sgabello, la sacca nera tra i suoi piedi dove poteva controllarla. Certo, essendo la cacciatrice nessuno poteva veramente avvicinarsi senza che lei se ne accorgesse, ma le vecchie abitudini erano dure a morire.

La sala, piena di fumo e affollata nonostante l’ora tarda, o forse proprio per la tarda ora, era confortabilmente calda dopo tutte le ore passate immobile su un tetto. A Faith pareva di scongelarsi. Di tanto in tanto era ancora scossa da brividi ma il freddo glaciale che sentiva fino alle ossa stava scomparendo.

Sorseggiò la birra, che per una volta non aveva chiesto fredda. Il barman, un uomo sulla trentina con i capelli neri raccolti in una coda si avvicinò a lei con uno sorriso sincero (lei ne era certa anche se non stava guardando la faccia dell’altro, concentrata sul calore che percorreva il suo corpo).

-Assenza più breve questa volta Faith.

La ragazza annuì.

-Ti serve un altro posto sicuro dove passare la notte?

-No, non ti preoccupare Michael. Sto nel vecchio appartamento.

Il ragazzo rimase stupito. Credeva che Faith non sarebbe più tornata in quell’attico, che era legalmente suo, perché sarebbe diventata un bersaglio troppo evidente per chiunque la cercasse l’ultima volta che l’aveva vista.

-Si sono sistemate un po’ di cose?

Michael era una delle poche persone che poteva permettersi di fare domande a Faith e conservare l’uso delle braccia.

-Si, in effetti si. –la ragazza sembrò perdersi nei pensieri per qualche istante. –Ho risolto un po’ di cose.

-Allora rimani a Sunnydale, la patria dei demoni e dei maledetti?

-Non so proprio. Forse. Non ho niente che mi trattenga.

-Grazie per la considerazione. –stava scherzando, poi tornò serio. –Comunque non hai niente che ti chiami altrove.

In quel momento un cliente fece segno a Michael, lui, senza aspettare una risposta di Faith, ad una domanda che non era stata espressa, si allontanò. La cacciatrice rimase un attimo in silenzio finendo la sua birra, poi, con una scrollata di spalle, come per dimenticare qualcosa, estrasse un cellulare dalla tasca.

Composto un numero inglese preceduto dai vari prefissi internazionali aspettò che rispondessero. Non sapeva neanche che ore fossero dall’altro capo del mondo e non le importava. La voce che le rispose non era assonnata né stanca, era come Faith si aspettava che fosse, calma e controllata.

-Mars? –Mars era il cognome dell’identità che aveva chiesto a Magdalene di procurarle. Risultava essere una cittadina britannica di ventuno anni, nata a York e residente temporaneamente negli Stati uniti. Era una delle tre identità che possedeva, l’unica che Marlin conoscesse.

-Salve Marlin. – avevano chiarito dal primo incontro gli appellativi da usare reciprocamente. Solamente il cognome. –Ho fatto il lavoro. Tutto sistemato.

-Perfetto. L’accredito di venticinquemila dollari sarà effettuato entro le prossime dodici ore.

Faith chiuse la comunicazione. Il giorno dopo sarebbe dovuta passare in banca, aveva degli spostamenti di capitale da effettuare. Non aveva intenzione di lasciare molti soldi su quel conto che era facilmente controllabile dal consiglio.

Non si fidava di loro più di quanto fosse necessario.

 

 

 

 

Sunnydale, Bronze.

 

 

 

Buffy sedeva sul divanetto assieme ai suoi amici nella solita gioiosa confusione del Bronze. La conversazione verteva su un non ricordava quale gruppo musicale alla ribalta. Ad essere sinceri non stava ascoltando e non le interessava nemmeno. Era un periodo che si sentiva piuttosto silenziosa, lei, che una volta non poteva stare zitta per più di due minuti consecutivi. Lei, che una volta teneva sempre banco dettando legge, come aveva fatto a lungo la stessa Cordelia.

Willow e gli altri non sembravano averci fatto particolarmente caso, assorbiti tanto dalla conversazione che dal compagno che gli sedeva al fianco. Perchè loro erano felicemente fidanzati. Lei no. Da quando Riley era morto non era più uscita con un ragazzo. Non si sentiva pronta per una nuova relazione. Quella sensazione di fragilità non la voleva lasciare.

Cominciò una nuova canzone. Le due coppie di ragazzi che erano con lei si guardarono negli occhi e trascinarono i rispettivi partner verso la pista da ballo. La band aveva cominciato a suonare una qualche canzone di amore, Buffy era sicura di averla già sentita ma non ne ricordava il nome, non che facesse differenza.

Prima di allontanarsi con Tara, Willow si girò verso di lei sorridendo evidentemente entusiasta di ballare con la sua ragazza.

-Non ti dispiace rimanere sola vero Buffy?

Si interessava sinceramente. Era la sua migliore amica.

Buffy scosse la testa e sorridendo rispose.

-No, non ti preoccupare. Andrò a prendere qualcosa al bar.

Dando le spalle alla pista (se volutamente o no Buffy non avrebbe saputo dirlo) la bionda si avvicinò al bancone facendo lo slalom tra la gente, cercando di  urtarne il meno possibile. Si sentiva sull’orlo di un crollo nervoso, sarebbe bastata una battuta per farla scattare e provocare una rissa.

 Si andò a sedere su uno degli sgabelli vuoti all’estremità più nascosta dalla folla, lì la musica arrivava un po’ attenuata, le sue orecchie le furono grate per la scelta del posto. Avere sensi da cacciatrice in un luogo simile non era un vantaggio.

Ordinò una birra al barista. Poi si perse in oziosi pensieri che pochi secondi dopo aveva già dimenticato. Cominciava appena a rilassarsi (non sapeva di essere tesa). Una sensazione di  estraniamento la invase dolcemente. La assaporò.

La birra arrivò e lei prese in mano la pinta cominciando a sorseggiarla. Aveva lo sguardo perso nella folla di avventori.

Una coppia, lei evidentemente più giovane di lui, stava litigando. I due cominciarono ad urlare e spintonarsi a vicenda finché la ragazza non piantò il suo compagno uscendo in fretta dal locale. Dopo un attimo anche il ragazzo con un’espressione di rimorso seguì la ragazza già arrivata alla porta. La seguì all’esterno. Buffy riprese ad osservare la gente.

Un altro giovane con una birra ed una sigaretta in mano si aggirava tra i vari tavoli come alla ricerca di qualcosa. Era piuttosto popolare e si fermava spesso a scambiare un paio di battute con qualche altra persona, poi proseguiva. Probabilmente cercava una ragazza con cui passare la notte. Buffy non credeva fosse il tipo da relazione seria.

-Un predatore anche lui?

La bionda si voltò di scatto alla voce conosciuta.

Faith la guardava quasi sorridente dallo sgabello vicino a lei bevendo un drink. A Buffy non piaceva affatto questa capacità di apparire dal nulla sviluppata da Faith. Era decisamente seccante. In un certo senso le ricordava Angel, senza sapere che agli altri anche lei appariva così. Mille volte Willow l’aveva rimproverata mentalmente dei colpi che le faceva prendere apparendo al suo fianco all’improvviso.

-Cosa ci fai qui? Qualcun altro tenta di uccidermi?

La bruna sorrise veramente questa volta e dopo una sorsata rispose.

-Che io sappia, no.

-Ed allora cosa ci fai qui?

-Vietato tornare a trovare vecchi… conoscenti?

-Ancora con la storia che non ti conosco Faith?

-Non è una storia, è la verità. -Buffy fece per replicare ma la bruna non si lasciò interrompere e proseguì. –Come ti va?

-Tutto bene, perché?

La bionda alzò un sopracciglio seccata ma anche incuriosita dall’altra. Perlomeno aveva qualcuno con cui parlare. Qualcuno che la facesse sentire vitale.

-Vorrei che rispondessi sinceramente.

Ora Buffy era veramente infuriata. Ma chi si credeva di essere?

-Ti sei nominata mio angelo custode? Chi ti da il diritto di piombare nella mia vita e giudicarla? Non ne sai niente! IO STO BENE!

Le ultime parole erano urlate. Voleva solo essere lasciata in pace. Chiedeva troppo?

-Si vede che stai bene. –sarcasmo e non solo negli occhi nocciola che la scrutavano, senza giudicarla. Era questa la differenza principale tra loro due. –E’ per questo che passi quasi tutta la serata in silenzio, è per questo che hai cominciato a bere, è per questo che i sorrisi che rivolgi ai tuoi amici sono falsi.

La rabbia di Buffy sparì. Stanchezza ed odio ne presero il posto. Come faceva Faith ad arrivare, fissarla per un istante, rivolgerle una domanda e sapere la verità? E sbatterle in faccia la sua retorica? Odiava chi riusciva ad andarle così in profondità. Si sentiva vulnerabile.

“Fragile.”

Faith le ricordava molto Spike. Anche quel vampiro riusciva a vedere cose che neppure i diretti interessati riuscivano a scorgere lontanamente. Che forse non volevano vedere. Riusciva a usarle contro di te. Era la sua arma migliore. Non il terrore che incuteva Angelus, lo studio analitico della tua mente. Loro vedevano i tuoi sentimenti, quello che si agitava sotto la superficie del conscio, tralasciavano i pensieri, che tu potevi alterare. Sulle emozioni non potevi esercitare nessun tipo di controllo. Ma a quanto sembrava la bruna non voleva ferirla usando quello che vedeva.

Quanto invidiava (odiava?) quel tipo di persone. La facevano sentire cieca e sciocca. Sentire, vedere, quello che loro percepivano così chiaramente…sapere se la gente fingeva o no... scorgere nelle profondità delle acque oltre la calma superficie che si limita a riflettere quello che la circonda…Era un qualcosa che lei non possedeva. E che invidiava.

Che invidiava soltanto perché non conosceva i problemi che produceva a chi la possedeva. Che sia Spike che Faith sarebbero stati felici di mostrarle. Ma che lei non avrebbe mai chiesto.

Quando parlò nuovamente fu la stanchezza ad emergere.

-Come sai che sto fingendo? Vado in giro con un cartello attaccato sulla fronte che lo dice o cosa? –Non era mai riuscita ad essere sarcastica e questa frase era venata da ansia di conoscere e preoccupazione. In realtà non sapeva quello che le stava succedendo. E non le piaceva questa sensazione. Era come se improvvisamente le sue percezioni fossero cambiate, come se le sue scale di paragone si fossero alterate. E lei non capiva più quello che provava…

Faith scosse la testa e finì in un solo sorso il suo alcolico.

-No, non ti preoccupare. Non te la cavi male a fingere. Gli unici che si accorgerebbero che tu stai mentendo sarebbero od osservatori attenti o persone che fingono loro stesse. –Posò il bicchiere sul bancone, poi si rivolse al barista. –Un’altra vodka.

Buffy ordinò un’altra birra.

-E’ vero, ho un problema.

Ora che lo aveva ammesso ad alta voce si sentì un po’ meglio. La risposta fu aspra e diretta.

-Allora risolvilo.

Rabbia.

-Illuminante consiglio. Davvero!

La bruna sorrise, finì la seconda vodka e scese dallo sgabello posando dieci dollari sul bancone.

-Lo so.

Poi se ne andò lasciando Buffy sola, seduta sul proprio sgabello a pensare. Pagato le due birre, la bionda tornò dai suoi amici scuotendo la testa per dimenticare il più presto possibile questo incontro.

Prima di arrivare dai suoi amici indossò un sorriso.

 

 

 

 

Campus universitario.

 

 

 

Un suono, evidentemente estraneo, interruppe il suo sogno. Le ci volle qualche istante per capire che il ripetitivo bip proveniva dalla sveglia digitale che aveva, e che lei era sveglia.

Buffy aprì appena un occhio ancora immersa in quello stato tra veglia e sonno in cui basta chiudere per un attimo le palpebre e si ricade nel dormiveglia. Il suono della sveglia era davvero irritante. Buffy radunò tutta la sua forza di volontà per non colpirla, limitandosi a disattivarla.

Si sentiva stanca. Molto stanca.

Decise che era meglio rimanere a letto per quella mattina. Non aveva niente di importante da fare. Non trovava la forza per obbligarsi ad alzarsi. Se cercava di aprire gli occhi le bruciavano per la stanchezza e le palpebre erano così pesanti.

“Posso rimettermi a dormire…”

Risistemò il cuscino mentre la sua mente sempre più annebbiata cercava di ricordare cosa dovesse fare quel giorno. Ricordò che aveva un esame. Era un esame bimestrale, ci si preparava da tempo.

Si scoprì improvvisamente che non le importava. Che andassero pure all’inferno gli esaminatori e le loro valutazioni. Le sembrava così assurdo alzarsi, prepararsi ed andare all’esame. Assurdo e fuori dalla sua portata.

Non ce l’avrebbe fatta. Sarebbe stato meglio rinunciare. Non avrebbe fatto differenza.

A lei non faceva differenza. Non nello stato in cui era attualmente. Le sembrava che il mondo si fosse improvvisamente appiattito. Tutto aveva perso senso. I colori erano sbiaditi limitandosi a sfumature di grigio. Sospirò appena. Era confusa, qualcosa era cambiato (e lei non sapeva cosa) ma per la prima volta non sentiva una marea di emozioni appena sotto la superficie che spingevano per liberarsi.

Era calma, ma non a volte avrebbe preferito tornare ad essere quella ragazza spensierata e piena di problemi. Che non sapeva incastrare tra loro tutti gli impegni, che rideva (e lo faceva davvero, non fingeva di farlo), che passava il tempo con i suoi amici, che passava tempo con altri ragazzi, che parlava (ma ora non aveva niente da dire, non più).

Tutto era diventato irrilevante. Che lei ci fosse o no non si sarebbe notata la differenza.

Richiuse gli occhi.

 

 

 

 

(Appartamento di Faith)

Sunnydale.

 

 

 

 

Correva disperatamente, sempre più velocemente ma inutilmente.

 Le gambe, stanche e pesanti non avevano più sensibilità. Continuava ad alzarle per poi abbassarle meccanicamente, senza più pensarci, sbattendo violentemente le piante dei piedi a terra.

Respirava affannosamente cercando ossigeno. Che non trovava.

Con la bocca spalancata da cui usciva un urlo muto ingoiava miseramente l’aria, che non era mai abbastanza. I polmoni le bruciavano, procurandole un dolore che aveva creduto impossibile, e si rifiutavano di espandersi, seppur di poco, di pochissimo, per accogliere un po’ di ossigeno.

Intorno a lei freddo. Raffiche impietose di vento la scuotevano furiosamente facendola barcollare.

Sentiva gocce gelide impregnarle la fronte e bagnarle il volto. Le sentiva scendere piano lungo le guance, raggiungerle la bocca, cadere a terra (erano lacrime o sudore…? …Entrambi? …Forse…).

Stava correndo in quella che le sembrava una strada senza fine, buia e deserta, delimitata ai lati da due serie di alti ed infiniti edifici sempre uguali. Non c’erano porte o finestre né auto parcheggiate.

Qualcosa di indefinito la stava rincorrendo e lei non trovava una via di fuga, continuava a correre senza raggiungere niente.

Il terrore era dentro e fuori di lei.

Lo poteva sentire sulla sua pelle. Lo poteva respirare. Ne sentiva l’odore acre e allo stesso tempo dolciastro.

L’orrore le squarciava l’anima, lasciandola inerme davanti al panico che la incalzava.

Che la raggiungeva.

Che la sfiorava in un tocco gelido e mortale.

Che poi si ritirava per ricominciare ad inseguirla, senza darle respiro. Senza che lei potesse pensare, la mente persa nell’angoscia. Un abisso oscuro senza fondo.

Improvvisamente un muro sorse a sbarrarle il passo.

Cercò di scalarlo senza riuscirci.

Cercò degli appigli. Che non trovò.

L’entità  la raggiunse bloccandola contro la parete bagnata (Ancora delle gocce sul suo volto… sudore od da una pioggia che non aveva sentito cadere?) per poi costringerla a voltarsi.

 

 

 

 

Faith si svegliò rabbrividendo nel suo letto. Sbatté le palpebre diverse volte prima di riuscire a mettere a fuoco l’ambiente circostante. Era nella sua camera. Grondava di sudore che asciugò con un lembo del lenzuolo caduto a terra.

La vista, ora pienamente efficiente, le permetteva di vedere normalmente senza bisogno di accendere luci o spalancare le finestre al chiarore dell’alba imminente.

Scese, posando cautamente le gambe a terra, ancora scosse da tremiti incontrollabili. I suoi muscoli si contraevano involontariamente come stanchi da una lunga corsa. Presto sarebbero venuti anche i crampi. “Di nuovo…” .

Si diresse in cucina dove accese la macchinetta del caffè, già preparata in previsione di quello che era successo puntualmente, ma con la segreta speranza che si rivelasse una inutile precauzione.

Aspettando il caffè Faith si passò la mano sulla fronte per asciugare il rimanente sudore e cancellare la spiacevole sensazione di bagnato. La maglietta che indossava era incollata alla sua schiena. Rabbrividì. “Un altro incubo…Non ricordo niente…Come sempre…” Non sapeva se era felice o no di questo.

Certo, le immagini di quel tormento non sarebbero apparse improvvisamente di giorno, inattese e angoscianti, “Non che i ricordi che di tanto in tanto ritornano siano in qualche modo più lievi”. Ma non sapere cosa le causasse tutto questo...Cosa potesse farla sentire così impotente e terrorizzata era frustrante.

“Odio questi risvegli. Quando non sai più dove sei. Quando non sai perché sei terrorizzata.”

Il caffè era arrivato. Se ne versò una tazza abbondante, cominciando a girarlo con il cucchiaino per far sciogliere lo zucchero. Diede uno sguardo all’orologio digitale che si affacciava dalla libreria, quasi scrutandola.

Le sei e tre minuti.

Aveva dormito quasi tre ore.

Non proprio un record ma le era andata peggio.

Si accorse di aver finito il caffè. Attraverso la porta guardò il letto con uno sguardo di desiderio misto a timore. Le coperte erano a terra, i cuscini ammonticchiati da un lato alla rinfusa. Scosse la testa cercando di scacciare le spiacevoli sensazioni causate dal sogno. Chiuse per qualche istante gli occhi massaggiandoli perché indolenziti e stanchi.

Andò in bagno, infilandosi in fretta sotto una doccia calda, rinunciando a provare di addormentarsi nuovamente, “…Tanto è inutile, non riuscirei a prendere sonno...”. Con l’acqua sparirono anche la restante, inspiegabile paura, e la stanchezza residua. Rimase quasi mezz’ora godendosi il tepore sulla pelle. Non aveva fretta. Non l’aspettava nessun lavoro.

Dopo si infilò una tuta e se ne andò a correre per bruciare un po’ di energie e acido lattico.

 

 

 

 

 

Sunnydale, Magic shop.

 

 

 

-Torni a trovarci.

Anya chiuse il registratore di cassa con un sorriso soddisfatto. Un altro cliente. Oggi aveva già incassato più di cento dollari. Amava il suo lavoro. Uscì da dietro il bancone per andare a sistemare alcuni scaffali, poi si sarebbe occupata di aggiornare l’inventario. Sentì il rumore della porta dell’ufficio aprirsi e si girò per informare il signor Giles dell’incasso giornaliero.

L’inglese la prevenne, parlando per primo.

-Buffy è arrivata?

L’ex-demone lo guardò un po’ contrariata. Possibile che quell’uomo dovesse sempre pensare alla cacciatrice e mai agli affari? Rispose con sufficienza.

-No signor Giles, non è arrivata.

-Ed ha telefonato?

-Neanche… -Poi, cambiando discorso…- Che ne pensa se prendessimo in affitto il negozio a fianco? Così possiamo ingrandire l’attività…

Senza ascoltarla, preoccupato per la sua cacciatrice Giles si girò e rientrò in ufficio. Buffy era in ritardo di più di due ore. Doveva essere successo qualcosa. Alzò il telefono e cercò di rintracciarla.

 

 

 

 

Sunnydale.

 

 

 

 

Il cielo era nuvoloso, minacciava di piovere. Un vento freddo si alzava di tanto in tanto gelando i passanti con le sue folate. Stava cominciando ad arrivare l’inverno nella calda e sempre assolata Sunnydale. Sebbene non facesse particolarmente freddo, almeno dal punto di vista di qualcuno che non vivesse in posti caldi, molte persone erano uscite indossando giacche pesanti.

Fra di loro, silenziosa, quasi invisibile, camminava Faith del tutto ignara del freddo che la circondava, del fatto che la gente si aprisse istintivamente davanti a lei, senza prestarci attenzione, o notandolo in alcun modo, a formare un corridoio sgombro, che subito scompariva, come se mai fosse esistito, inghiottito dalla folla. Un passaggio dove nessuno la urtava (non che le avrebbe fatto alcuna differenza). Come se lei fosse stata avvolta da un’aurea gelida che aveva il potere di allontanare le persone, un qualcosa che faceva allontanare la gente che le stava attorno, che sfiorava la sua vita.

Faith camminava immersa nei propri pensieri tra la gente senza essere veramente cosciente della direzione che prendeva. Non le importava dove sarebbe arrivata (sarebbe arrivata in qualche posto?) non aveva nulla da fare, era libera (era libera…). Semplicemente amava camminare e sentire quell’atmosfera, un po’ opprimente, carica di elettricità, mista all’umidità crescente, che precede un temporale. Che ti avvolge come una coperta, non necessariamente fastidiosa, che ti scalda, ti protegge dal freddo (dal freddo della tua anima…).

Temporale che preannunciava il successivo arrivo di un’aria pulita, nuova, in cui non ci sarebbero stati le decine di odori che sentiva ora. L’odore inscindibile che potevi sentire solo in una città. Sudore, delle persone che popolavano la città, profumi, che avvolgevano i corpi in movimento (per nascondere, per cambiare, per far apparire diversi chi li indossava, come vestiti) lontane fragranze di cibo, provenienti da ristoranti ma anche da semplici cucine, che si mischiavano creando una sinfonia dal complesso spartito.

Sarebbe rimasta solo aria per i suoi polmoni stanchi.

Cominciò a cadere la pioggia. Fine e benvenuta. Faith amava camminare sotto la pioggia. Le ricordava di quando era piccola.

“Rilassarsi. Diventare tutt’uno con l’ambiente che ti circonda. Sentire quelle piccole gocce che cadono sulla tua pelle. Quell’elettrizzante stimolo di piacere misto a gelo che ti corre i nervi fino ad arrivare al cervello, per poi assaporarlo piano. Gustandolo. Così semplice eppure complesso, che non riesco a capire, a definire, ma che in realtà non ho bisogno, non sento il bisogno, di farlo. Alzo il viso verso il cielo e sento le gocce scorrere sulla fronte, sfiorare, solleticandole appena, le sopracciglia, scivolare lungo il naso ed arrivare alla bocca. Riabbasso la testa e le sento fra i capelli, appena sul cuoio capelluto. Con un gesto istintivo li muovo, spostando le ciocche ormai quasi umide. Faccio scivolare una mano, lentamente, mi piace sentirli scorrere fra le mie dita.”

Riaperti gli occhi, chiusi nell’assaporare quei istanti di personale piacere, Faith vide una figura nota nella folla multicolore. Si fermò al limitare della piazza, imitata all’altra estremità, dalla bionda.

Buffy era uscita perché si sentiva stanca, vuota. Non capiva cosa le stava succedendo. Si vedeva agire ma le sembrava di non potere intervenire per modificare le cose. Come se lei fosse una spettatrice della sua stessa vita, una di quelle comparse che non appaiono neanche nei titoli di coda. Si comportava in maniera bizzarra, incostante, ma non aveva problemi (non aveva problemi…).

Stava succedendo troppo e tutto troppo in fretta. E lei non riusciva a regolare le proprie emozioni in base a quello che le stava accadendo intorno, si sentiva incapace di provare davvero qualcosa. Non riusciva a capire il vero valore delle cosa, a metterle nel posto giusto.

Era uscita per camminare e non pensare. Nulla più.

Il loro sguardo si incrociò al di sopra della folla, tra la gente che camminava, parlava, viveva. Si immobilizzarono, perse in quell’istante. La pioggia battente, fine, gelida che bagnava capelli e scorreva su volti immobili. Sul marciapiede ormai umido si muovevano persone, cieche di loro, indaffarate, perse nella loro esistenza riparate chi da impermeabili, chi da ombrelli. Loro, invece, stavano sotto la pioggia senza curarsene, senza cercare di coprirsi.

Lasciando che semplicemente l’acqua seguisse il suo corso.

Faith e Buffy si guardarono negli occhi e si accorsero che erano simili. Troppo simili per ammetterlo a loro stesse, per farlo trasparire. Una realizzazione del genere le avrebbe distrutte, annientate. I punti fermi che avevano nella loro vita (che fossero di gioia o dolore non importava… non adesso…), quegli stessi punti sui quali avevano costruito la loro esistenza e loro stesse sarebbero risultati eliminati. E non sarebbero più riuscite a riconoscersi…

Restarono a fissarsi permettendo che l’altra vedesse, per la prima volta, che, dietro la maschera di forza che indossava tutti i giorni per sopravvivere, era fragile. Permettendo che la verità si manifestasse.

Permisero alla solitudine di mostrarsi in quelle pozze nocciola e verdi. Le gocce di pioggia rigavano il loro volto come lacrime, disegnando righe sulle guance, ma gli occhi di entrambe erano asciutti. Non piangevano da molto tempo, non avrebbero pianto lì, non adesso, non davanti all’altra.

Era un qualcosa di troppo personale. Qualcosa che non erano pronte a condividere. Che probabilmente non sarebbero mai state pronte a condividere.

E si accorsero di essere uguali. Nonostante quello che avevano detto, nonostante le volte che si erano ferite, nonostante quello che pensavano troppo spesso per crederlo falso, per credere che la loro somiglianza, che la loro solitudine fosse un’illusione.

Si sorrisero con tristezza. Un sorriso che non raggiunse gli occhi. Un sorriso gelido, la solitudine, l’auto-disciplina, la malinconia che provavano, il rimpianto di scelte fatte tanto tempo fa.

Scelte che le avevano allontanate e che ora sapevano sbagliate.

Forse, però, era tardi.

O presto.

Poi giratesi, senza un cenno di saluto, né una parola, lentamente si allontanarono nella direzione da cui erano venute.

 

 

Sorrisi… Parte II

By Silea

 

 

Dal diario privato di Catherine Parker.

 

 

 

“Una cosa che non ho mai detto a Faith è che la solitudine ti può uccidere. Sono le piccole cose che ti logorano, giorno dopo giorno, mese dopo mese, finché non si trasformano in anni che ti scorrono tra le dita come se non ci fossero mai stati. E tu muori lentamente dentro, senza ribellarti, silenziosamente, e quando te ne accorgi spesso è troppo tardi.

Un giorno ti fermi e ti rendi conto che non hai ricevuto gli auguri per il tuo compleanno, che non hai ricevuto cartoline di auguri natalizi né che non parli con una persona che puoi definire amica da troppo tempo per ricordartene.”

 

 

 

Catherine Parker.

 

 

 

 

 

Appartamento di Faith.

 

 

 

 

Sedeva sul proprio letto al buio cercando di prendere sonno. Erano le quattro del mattino ma sembrava che il suo corpo non volesse addormentarsi. Eppure era stanca, era andata a caccia, aveva ucciso il suo bersaglio. Si sarebbe dovuta addormentare. Ed invece niente. Il suo cervello non si voleva fermare. Continuava a girare a ritmi vertiginosi.

E Faith non aveva intenzione di pensare. Aveva provato a prendere sonno facendo degli esercizi fisici. Non aveva funzionato. Aveva provato a pensare a qualcosa di piacevole e rilassante. Niente. Aveva provato a meditare come le aveva insegnato Catherine. Senza successo.

 C’era qualcosa che la turbava. Sapeva cosa era, ma non ci voleva pensare. Inevitabilmente, come tutte le volte che cerchi di evitare qualcosa, questa si presenta davanti a te.

Oggi era il giorno del suo diciottesimo compleanno. Nulla di particolare, tra l’altro non aveva neanche dovuto affrontare la stupida prova che il concilio faceva fare alle cacciatrici…normali?... e ne era felice, o sarebbe dovuta esserlo.

In realtà nessuno sapeva che era il suo diciottesimo compleanno. L’unica a cui l’aveva detto era stata la sua osservatrice. Tutti gli altri non lo avevano mai saputo. Per questo, ovviamente, non aveva ricevuto auguri od altro. Neanche una chiamata.

Era così irreale. I compleanni sono fatti per essere festeggiati, per passarli con la tua famiglia (ma lei ne aveva mai avuta una?) con i tuoi amici (che non aveva…od erano semplici conoscenti, o “colleghi”). Non avresti dovuto passare il tuo compleanno, il tuo compleanno più importate, da sola, “lavorando”.

Tutti aspettavano con gioia il loro compleanno. Lei li temeva. Come le feste in genere. Natale. Pasqua. Era in questi giorni che ti accorgevi se eri sola o no.

E lei era sola.

Quando passeggiavi per le strade e vedevi persone felici che andava comprando regali per poi tornare a casa (e tu che non ce l’avevi neanche una casa). Quando entravi per prenderti la tua cena pronta al ristorante e vedevi quelle tavolate imbandite… e sentivi le risate dei commensali, venti persone, dieci, o solamente tre, non importava… e li scorgevi insieme, uniti… e sentivi che si volevano bene, che si conoscevano davvero…

La verità, che avevi nascosto per così tanto tempo, (ignorandola, circondandoti di persone…) tornava, e non ti lasciava più.

E poi parlavi a persone che ti raccontavano di come era soffocante la loro famiglia, di come fosse difficile dividersi tra affetti e amici. E tu non avevi niente.

Si sentiva davvero stanca. Invecchiata prima del tempo. Sola.

 

 

 

 

Sunnydale, Magic Box.

 

 

 

Buffy stava allenandosi nella piccola palestra annessa al negozio. Contrariamente al suo solito non si stava impegnando nell’eseguire i movimenti ed i colpi degli esercizi che un Giles più distratto di lei le aveva assegnato.

Persa nei suoi dubbi Buffy si muoveva automaticamente senza pensare realmente. Non riusciva a togliersi di dosso la sensazione che la sua vita fosse andata in frantumi. La sua vita era andata in frantumi.

C’era stata la morte di Riley. L’aveva superata, ma a quale prezzo? Non sapeva neanche cosa l’avesse ucciso. Travolta da altri eventi, il ritorno di Faith, il Killer pagato per ucciderla, aveva perso di vista una cosa molto importante. La vendetta. Non si era presa la propria vendetta. L’aveva sempre fatto, dopo aver ricevuto qualsiasi colpo si era sempre premurata di restituirlo più forte. Ogni volta. Tranne questa.

Il pugno che tirò al sacco di allenamento fece tremare la catena che lo sorreggeva dallo sforzo.

Poi la scoperta, rivelazione, che era stata adottata. In pratica che tutta la sua vita era stata costruita su menzogne, che sua madre non era sua madre. Che quella che aveva chiamato famiglia erano per lei, in realtà, degli sconosciuti. Joyce (sarebbe mai tornata a chiamarla mamma?) le aveva mentito per venti anni. E le aveva detto la verità solo perché si era resa conto che la sua vita era così incerta che lei poteva morire ogni giorno. Il che la lasciava con la sola domanda a cui ora cercava davvero risposta.

Chi era sua madre?

Che fosse questo che la turbasse nel profondo? In maniera così radicale che lei quasi non se ne rendeva conto? In modo tale da stravolgere completamente la sua vita?

Che cosa le aveva detto Faith qualche giorno prima sul fatto che lei aveva un problema? “Allora risolvilo.” Lapidario, seccante, irritante, eppure giusto.

Doveva risolvere il proprio problema.

Il calcio che diede fece tremare la catena del sacco smuovendone il gancio infisso nel cemento.

Il sordo cigolio di protesta dell’acciaio trasse Giles dai suoi pensieri.

La proposta di Marlin l’aveva scosso nel profondo. Sapeva che quello che aveva detto la donna era vero. L’aiuto del concilio poteva fare la differenza in molte occasioni. Gli aveva promesso libertà di azione.

La proposta oltre ad allettarlo lo aveva stupito. Aveva chiesto a vecchi amici delle informazioni sulla donna. Era pericolosa, molto pericolosa ma aveva una parola sola. Ed era quello che interessava a Giles, né più né meno. Del resto lui non era un concorrente per una delle cariche dirigenziale del consiglio.

Quelle cariche a cui potevi accedere solo se eri stato l’osservatore di una prescelta. In qualsiasi altro caso ti sarebbero rimaste precluse per sempre, anche se tu fossi stato il migliore degli osservatori. Era una regola molto rigida, una regola che non era mai stata infranta. Il perché, lui immaginava, era l’impatto emotivo che la morte della ragazza che tu stesso avevi allevato ti avrebbe procurato. Ti avrebbe cambiato emotivamente ad un livello irraggiungibile in altro modo, con altre preparazioni. Era un qualcosa che ti avrebbe tolto tutte le illusioni “giovanili”.

Lui aveva intenzione di rimanere l’osservatore della cacciatrice ancora a lungo. Non ci sarebbe stato conflitto con Marlin.

Sorrise sollevato ora che la decisione era presa.

 

 

 

 

 

Sunnydale, un negozio di alimentari.

 

 

 

Faith camminava lentamente tra gli scaffali cercando quello che le serviva e prendendo tutto quello di cui aveva voglia. Il piccolo carrello che aveva era già quasi pieno. Le piaceva fare la spesa, o meglio, le piaceva ora che aveva i soldi per farla senza dover rubare.

Dopo aver lasciato Boston non aveva abbastanza soldi sia per il biglietto del bus che per mangiare, per questo, senza tanti rimorsi, aveva rubato, durante le soste, dai grandi magazzini che incontravano.

Era così rilassante passeggiare su e giù quando il tuo più grande problema era scegliere che tipo di carne volevi a cena. Aveva scelto un piccolo negozietto alla periferia di Sunnydale principalmente per due motivi. Odiava i giganteschi supermarket dei centri commerciali ed aveva sempre amato quell’atmosfera di familiarità che invece c’era in questi piccoli alimentari. Secondo, qui, lontano dall’unico centro commerciale di Sunnydale, aveva meno possibilità di incontrare Buffy e compagnia.

Con il carrello completamente pieno, ad essere più esatti, stracolmo, Faith si diresse verso la cassa sorridendo fra sé e sé. Con tutto quello che aveva acquistato avrebbe fatto diventare il suo appartamento finalmente abitabile. Già pregustava la cena che si sarebbe preparata una volta arrivata a casa.

In coda per pagare, Faith cominciò a dare un’occhiata ai dispenser vicini ai frigoriferi. Ad un tratto la bionda in fila davanti a lei si girò come attratta da un rumore.

Faith si bloccò, fissando esterrefatta la giovane che la guardava di rimando con una luce di curiosità accesa negli occhi. La riconobbe subito, si trattava di quella ragazza che aveva visto all’università con Willow più di sei mesi fa. Non ricordò il suo nome ma era certa di non sbagliare. Ricordava come era ovvio che la bionda amasse la rossa. Ci aveva fatto anche un non sapeva quale scherzo sopra.

Senza rendersene conto trattenne il respiro, impaurita dalla possibile reazione che l’altra poteva avere se l’avesse riconosciuta. Poi si ricordò che quel giorno era nel corpo di Buffy, espirò lentamente. Non poteva riconoscerla.

Allora perché la fissava ancora?

-Scusi, desidera?

Era meglio rompere il silenzio con una domanda educata. Se le avevano raccontato qualcosa di lei non sarebbe corrisposta alla descrizione. Non ce la vedeva Willow a dirle “E’ una persona molto cortese…” sarebbe suonato meglio un “E’ una psicotica…”.

-N-nulla.

La ragazza si girò con uno sguardo mortificato.

Passarono pochi istanti perché si rivolgesse di nuovo a Faith. Pareva più sicura ora.

-Mi d-dispiace averla f-fissata prima.

-Non si preoccupi, non fa nulla.

Non costava niente a Faith cambiare registro di conversazione, inoltre la tuta che indossava ora rendeva plausibile l’interpretazione della ragazza decisa ma educata.

-Io s-sono Tara.

Si era presentata? Perché avrebbe dovuto farlo?

-Piacere di conoscerla.

Continuarono a parlare ancora per qualche minuto e Faith non trovò seccante o invadente la conversazione. Anzi non le dispiaceva affatto chiacchierare per alcuni minuti. Non ricordava più quando era stata l’ultima volta che aveva “parlato”, dicendo qualcosa e non limitandosi al necessario, con qualcuno che non era Liz. Che era impegnata a New York con la palestra e, a quanto le aveva detto, con un immortale giapponese che voleva la sua testa. Non si erano sentite molto ultimamente.

Era difficile relazionarsi con qualcuno più vecchio di te di ottocento anni. Eliza era una persona sensibile, aveva capito la sua difficoltà e non la obbligava a “rapporti umani forzati”. Capiva che aveva bisogno di spazio, bisogno di un ordine, meglio se costruito da sé, che dato da altri.

Arrivarono alla cassa e Tara pagò la roba che aveva comprato. Si fermò sulla porta con le buste in mano. Si girò e la guardò negli occhi.

-Ci rivedremo Faith?

Faith? La cacciatrice non le aveva detto il proprio nome. Come faceva a conoscerla? Qualche foto? No, era certa che i salvatori del mondo avevano bruciato tutto quello che la riguardava. E poi perché non era scappata? O si era messa ad urlare? O qualcosa di simile?

Tara era ancora sulla porta, Faith si accorse che era passato un solo istante.

Sorrise appena.

-Non ho fretta di andarmene questa volta.

-Bene.

 

 

 

Sunnydale, campus universitario.

 

 

 

 

 

Seduta sul proprio letto, le gambe incrociate, Buffy guardava il telefono come se rappresentasse una minaccia. Era ferma in quella posizione da ore quasi aspettando un segno. Willow non sarebbe tornata quella notte. Sarebbe rimasta da Tara. Buffy aveva tutto il tempo che voleva, proprio ora che non voleva averne.

Fissò ancora il telefono.

Poi improvvisamente lo prese e compose il numero di quella che aveva chiamato casa. Tre squilli, poi la risposta.

-Casa Summers. Chi parla?

-Sono Buffy.

Sentì il sospiro di sorpresa ed ansia dall’altra parte della cornetta. La cacciatrice non sapeva cosa provare. Aveva amato quella donna, l’amava ancora? Sapeva che la risposta era si, eppure quell’amore ora era coperto da odio, odio per essere stata tenuta all’oscuro quando la sua vita sarebbe potuta finire da un momento all’altro. Da quanti anni la madre sapeva che era una cacciatrice? Tre? Ed aveva aspettato così tanto tempo? Sarebbe potuta morire così tante volte senza sapere neanche chi fosse la sua vera madre.

-Come stai tesoro?

La voce era diventata dolce, apprensiva. Un tempo questo avrebbe infastidito Buffy. Avere una madre iper protettiva quando si è adolescenti non è bello (eppure ora poteva capire perché era stata iper protettiva, non avrebbe mai potuto avere altri figli, e chissà per quanto tempo aveva atteso per poter avere una bambina). Oggi la irritò. Come poteva permettersi di usare quel tono con qualcuno che non era sua figlia?

-Joyce, voglio sapere.

Poté quasi vedere la faccia della madre contorcersi a quelle parole gelide. Non aveva parlato Buffy, ma la cacciatrice.

-Cosa vuoi sapere?

-Tutto.

-Sei stata adottata a due anni e tre mesi. Ci hanno dato i documenti di nascita. Sei nata in America, a Chigaco. Non li hai mai visti. Te li spedirò. Li avrai in mattinata.

-La mia famiglia?

-Non ci hanno comunicato i loro nomi. So solo che non sei mai stata affidata ad un istituto. Eri stata cresciuta in famiglia fino ad allora. Non so dove, né con chi.

C’era dolore in quelle parole.

-Buffy senti io…

-Non dire nulla. Non ho ancora deciso. Prima voglio sapere la verità. Tutta la verità. Poi mi risentirai. Allora sarò disposta a parlarti e forse potrò superare il rancore. Non prima di allora.

Buffy attaccò il telefono sentendosi sollevata.

 

 

 

 

Cornovaglia, Inghilterra.

 

 

 

 

Magdalene rispose al terzo squillo.

-Miss Marlin? Parla il signor Giles.

-E’ un piacere sentirla.

Oltre l’Atlantico, in America, Giles si sfregava nervosamente gli occhi. Era stata una decisione difficile. Ma era quella giusta.

-Ho riflettuto sulla sua offerta. Vorrei aver alcuni chiarimenti.

-Sarò felice di rispondere.

-A chi dovrò fare riferimento?

-A me, sarò il suo dirigente. E le garantisco fin d’ora ampia libertà di azione.

-Bene, e se avessi bisogno di informazioni o aiuto?

-Le darò un numero che la metterà in contatto, a qualsiasi ora o in qualsiasi giorno, con operatore che si occuperà solo della sua situazione, nei limiti del possibile l’operatore eseguirà le sue richieste. In caso di problemi sarò contattata io. Ovviamente sarà un numero a lei riservato.

-Capisco… E per quanto riguarda l’appannaggio della cacciatrice?

-Ovviamente gradirei discuterne con la diretta interessata ma credo che si possa aggirare sui duemila dollari al mese- era una cifra irrisoria, ma importane simbolicamente. Anche se non avesse avuto l’autorizzazione di Miller, e l’aveva, sarebbe stata in grado di pagarla di tasca propria.

-Io… per quanto mi riguarda accetto… informerò al più presto al cacciatrice. Le comunicherò le sue decisioni.

-Perfetto. Siamo felici del fatto che si sia riunito a noi, signor Giles.

Orami poteva avere la certezza di contare su entrambe le cacciatrici. Aveva tolto l’arma più importante a Travers, che sapeva, però, tutt’altro che sconfitto.

 

 

 

 

 

Sunnydale, Campus universitario.

 

 

 

 

Buffy sedeva pensosa sul proprio letto. Fissava il soffitto di cui ormai conosceva ogni crepa ed imperfezione. Forse era ora di tinteggiarlo, magari poteva dipingerci un paesaggio...

Stava pensando a quello che era successo negli ultimi giorni. Aveva sfiorato un pericoloso punto di non ritorno, aveva camminato lungo lo stesso ciglio di burrone che era la strada preferita di Faith (ma non sapeva che era una strada obbligata per l’altra. Non sapeva che lei, essendo una cacciatrice, percorreva una strada lontana un solo passo da quello della bruna, non se ne rendeva conto). C’era ancora molto da capire ed altrettanto da ricostruire. Il suo certificato di nascita e i documenti dell’adozione erano nel suo cassetto chiusi a chiave, erano arrivati la stessa mattina. Li aveva letti. Dicevano poco più di quello che le aveva già detto Joyce. C’era il nome dell’assistente sociale che aveva trattato la sua adozione. L’aveva contattato ed aveva fissato un appuntamento per il giovedì successivo. Tre giorni e avrebbe saputo qualcosa altro sul suo passato.

 Scosse la testa e si alzò. Guardò con aria svogliata i libri sulla scrivania. Doveva studiare psicologia. Ma ne aveva abbastanza della mente umana. La sua le aveva combinato fin troppi problemi.

Non aveva intenzione di studiare. Fu salvata dal rientro di Willow.

Salutò l’amica con un sorriso sincero, come non accadeva da settimane.

-Dove andiamo questa sera?

Willow la guardò un po’ stupita. Ultimamente Buffy era diventata più silenziosa, ma lei non aveva notato come la loquacità e l’interesse alle attività del gruppo da parte dell’amica le mancasse. Sorrise anche lei. Era felice che la cacciatrice fosse ritornata, si sentì un po’ colpevole di non essersi accorta che la cacciatrice era cambiata così tanto. Erano stati cambiamenti graduali, per cui non lì aveva notati. Fino ad ora.

Si sentì anche colpevole di non averla aiutata ad uscirne. Felice però che si fosse riuscita da sola. Tutto quello che contava era che Buffy fosse tornata.

-Bronze.

-Perfetto. Non ne vedo l’ora.

Sedute sui propri letti cominciarono a chiacchierare, raccontandosi tutto quello che era successo in quel periodo e che non si erano dette.

Era molto.

 

 

 

 

Sunnydale,  appartamento di Faith.

 

 

 

 

Faith aveva appena finito di cenare. In sottofondo, discreta, la voce diffusa dagli altoparlanti sistemati in tutta la casa, Lene Marlin cantava. L’impianto stereo era stata la prima cosa che la cacciatrice aveva comprato una volta aver deciso di rimanere lì a Sunnydale.

Il perché di questa decisione proprio non lo conosceva. E non se lo chiedeva, ma voleva una risposta. Questa cittadina era “bruciata” per lei. Aveva commesso troppi errori per sperare di ripartire da zero. Non che lei lo volesse veramente. Era troppo stanca per ricostruire tutto da capo. Aveva ricominciato troppe volte. Era tempo di limitarsi a creare una vita degna di essere vissuta accentando il passato. Tutto il passato.

Avrebbe raccolto tutti i frammenti del suo passato. I ricordi che le appartenevano, di cui era più o meno fiera, a cui voleva o meno ripensare, ma mai dimenticare.

Per abitare avrebbe potuto scegliere una qualsiasi altra città, in qualsiasi stato del mondo.

Sarebbe potuta andare a vivere in Cornovaglia vicino alla sede del consiglio dove si trovavano le risposte a molte delle sue domande. Lì avrebbe potuto creare dei contatti, raggiungere la verità. Sarebbe stato pericoloso, ma lei non ricordava più quando aveva vissuto per l’ultima volta senza sentirsi in pericolo. Una semplice menzogna, le diceva una voce dentro, ed aveva ragione. Non puoi sentire la mancanza di qualcosa che non conosci. (la puoi sentire di qualcosa che dici di non aver conosciuto?...).

Sarebbe potuta rimane a New York e comprare l’appartamento in cui già abitava. Lì abitava Liz, l’unica persona di cui si fidasse completamente. Il suo unico contatto con Catherine. Erano state amiche per tanto tempo che a volte Faith vedeva gli stessi atteggiamenti dell’osservatrice riflessi nell’immortale. Forse non aveva potuto rimanere lì proprio perché “sentiva” che la città apparteneva a Eliza e non a lei.

Altra menzogna, Sunnydale era evidentemente di Buffy.

Qui, lei era poco di più di un ospite malamente sopportato. Forse non voleva vivere con qualcuno attorno che le ricordava Catherine. Stava cercando di andare avanti, di trovare un nuovo equilibrio.

Faith ripensò all’incontro fatto nel piccolo negozio di alimentari. Le era piaciuto parlare semplicemente con qualcuno, di niente in particolare, qualcuno con cui non avrebbe nemmeno dovuto mentire perché sapeva chi era. Forse questo era un motivo che l’aveva aiutata a decidere (ma aveva mai deciso o sapeva già che quella sarebbe diventata la sua casa?).

Cercava un nuovo equilibrio in un posto che aveva già “usato”.

Come questo appartamento regalatole dal sindaco. Casa sua.

“La mia casa”. Era la prima volta che ci pensava in questo modo. Le era piaciuto come suonava, si, era casa sua. Un posto dove dolore e piacere erano così fusi che lei non tentava neanche più di dividerli. Dove aveva così tanti ricordi. Dolci, acri od entrambi.

Le bastava chiudere gli occhi ed in solo istante poteva riviverli.

Le piaceva riassaporare il passato. Riflettere sulle sue scelte. Sui suoi errori.

Sapendo in fondo che, se ne avesse avuta la possibilità, non li avrebbe cambiati, non li avrebbe modificati. La somma di quelle azioni (di tutte quelle azioni) l’avevano fatta diventare quello che era.

E le piaceva.

Finito di sparecchiare e sistemare i piatti Faith si versò un ultimo bicchiere di vino rosso per poi dirigersi verso la terrazza.

Proprio quella terrazza da cui si era gettata più di un anno prima. L’aveva fatto per evitare la morte fisica. Il termine della funzionalità biologica per essere più esatti. Le era costato otto mesi della sua vita. Tanti per un essere umano, troppi per una cacciatrice. Era stato dopo il risveglio, quando aveva lasciato Sunnydale, che era morta.

Non per la prima volta.

“Quante vite hai vissuto Faith?...E quante morti hai attraversato?...Sono tante, non troppe. Chi vive più di una vita muore più di una morte.”

Aveva aggiunto un tavolo, delle sedie ed una poltroncina di vimini reclinabile, per il resto era rimasta identica, niente piante, nessuna copertura. Il parapetto basso, senza ringhiera.

Si sdraiò sulla poltroncina e guardò il tramonto mentre sorseggiava il vino rosso. Le note melodiche di “Maybe I’ll go” raggiungevano la terrazza. Ogni volta che ci rimetteva piede, quello scontro con la sua controparte bionda le tornava in mente, addolcito come solo un ricordo poteva essere. Le sembrava quasi che fosse come stato sepolto da un velo che nascondeva, lasciando vedere soltanto le forme. Il dolore, la disperazione, non c’erano più, o quasi.

Poteva rivedere il suo sangue sulle sue mani.

Mani insanguinate perché avevano già ucciso. Il sangue non se ne sarebbe mai più andato.

 Sarebbe stato inutile cercare di lavarle.

“Ma lo hai fatto. Quella sera. Dopo aver ucciso il deputato del sindaco (per errore…per errore… solamente per uno stupido errore… e ti importava nonostante quello che dicessi e che volessi credere tu stessa…) le hai lavate, strofinate, sfregate. Fino ad escoriarle, a portare via strati di pelle.

E le hai sentite bruciare.”

Mentre calava il sole sentì il suo corpo come risvegliarsi. Le cacciatrici erano predatori notturni, lo aveva capito da molto tempo. Si, poteva cacciare di giorno, ma era la notte il suo regno. Lo divideva con i vampiri, ma erano loro a doverla temere. Era lei il predatore.

Era un regno solitario. Nelle battaglie che affrontava non c’erano alleati né pietà. O vincevi o morivi.

Sentì quasi la vista acuirsi mentre la luce diminuiva. Ormai di giorno, nella splendente California, e non solo, era obbligata a portare gli occhiali da sole. Quella luce così intensa le feriva le pupille impedendole di vedere perfettamente, come se qualcuno ti puntasse degli abbaglianti per tutto il giorno negli occhi. Chissà come faceva Buffy ad andare in giro senza protezione.

L’ultimo raggio di sole scomparve, tingendo per un attimo una nuvola di sangue. Poteva essere l’ultimo che vedeva. Lo sapeva.

Sentì un brivido percorrerle la schiena. Si alzò dalla sedia, il bicchiere in mano vuoto. Poteva sentire l’adrenalina che si diffondeva lentamente risvegliando i muscoli dolcemente intorpiditi. Il sangue pulsare prepotente nelle vene, la pressione alzarsi, il battito del cuore aumentare. Il respiro farsi appena più profondo e veloce.

Rientrò in casa per andarsi a preparare.

Pochi minuti e sarebbe stata fuori. Nella notte.

Nel suo regno.

Che aveva deciso di condividere con Buffy.

 

Fine