UNA PROMESSA DIFFICILE DA MANTENERE

AUTRICE:ANNEBELL

Questa fanfiction è AU

 

Capitolo 1.

Il caffè sulla mia scrivania era ancora fumante nonostante il gelo di quei giorni. Mi allungai sul legno freddo appoggiando il viso contro il braccio piegato a mo’ di cuscino. Osservavo il fumo salire dalla mia tazza bianca. Si perdeva nell’aria senza alcuna paura. Non tornava indietro, non urlava che era troppo presto, non buttava via cinque anni di fidanzamento, no il fumo abbracciava l’aria.

Quel dannato fumo mi irritava, lo spazzai via con la mano. Gesto inutile, sbuffai guardando di nuovo il fumo tornare a salire insofferente. Nascosi il viso contro la scrivania. Non volevo piangere, non volevo soccombere, non volevo permettergli di farmi questo. Sentii qualcosa di bagnato scendere sulle mie guance, urlai di rabbia spostando il braccio per scaraventare quella dannata tazza fuori dalla mia vita.

Non volevo, ma lui aveva vinto ancora.

Piansi ogni goccia di dignità che avevo. A dispetto di quello che molti potevano pensare piangere non diminuiva il dolore, non lo rendeva più sopportabile, il dolore non si consumava, era lui a consumare me.

Spostai la sedia a rotelle della scrivania su cui ero seduta, ma le dannate ruote erano impigliate nel tappeto noveau su cui era poggiata. Una delle mie brillanti idee, mi alzai di scatto rovesciando la sedia sull’inutile tappeto. Lo abbandonai lì con la sua macchia di caffè, con la sua sedia rovesciata e con i pezzi di quel che restava della stupida tazza. Avrebbe dovuto raccogliersi da solo, esattamente come avrei dovuto fare io.

Mi trascinai scalza e intontita verso le scale, ma per quanto mi sforzassi di ignorare il fatto di essere ancora viva, intravidi la mia immagine nel vetro della portafinestra. Avevo la sua camicia addosso, la sua inutile camicia. Strappai i bottoni graffiandomi il petto nel tentativo di allontanarla da me il più velocemente e violentemente possibile. La gettai contro il vetro restando in intimo. Nuda ed inutile ecco com’ero per lui. Guardai il mio riflesso, quella non ero io.

Crollai in ginocchio. Quella nel vetro mi seguì accasciandosi a terra. Si accovacciò raccogliendo il suo inutile corpo. Sì lei era inutile e sarebbe rimasta lì a soffocare nel suo dolore fino alla fine. Lei, sola e inutile stupidamente si addormentò sperando di non risvegliarsi mai più.

 

Capitolo 2.

Il desiderio non si avverò. Mi svegliai ancora più stanca di quando mi fossi addormentata come se il sonno fosse stata un’altra lotta. Per fortuna il tempo mi risparmiava di sopportare giornate soleggiate e uccellini canterini. Pioveva ininterrottamente da tre giorni ed il meteo non faceva sperare in un miglioramento.

Guardai fuori sperando che la pioggia potesse trascinarmi con sé e sciogliermi in tante goccioline così da non poter sentire più nulla o forse in modo da poter sentire tutto.

Il rumore dei tuoni continui sembrava provenire dal mio petto, era forse solo un’illusione? Era forse solo il rumore del mio inutile cuore che si stava frantumando?

Avvicinai la mano al mio petto. Batteva ancora purtroppo. Era distrutto eppure ancora non si decideva a smettere di rimbombarmi dentro.

Mi alzai guardando il tappeto macchiato, avrei dovuto ripulire, ma non ora. Mi girai andandomene. Salii le scale per fare una doccia. Il telefono squillava, ma per quel che mi interessava io ero morta. Non avrei risposto.

Uscii dalla doccia, bagnata mi sedetti sul letto. C’era la nostra foto sul comodino. La sveglia segnò le 7:00 ed iniziò a trillare. La guardai con odio. Provai a spegnerla, ma non ci riuscivo, continuavo a premere il bottone di stop, ma non voleva fermarsi, non voleva smettere, gemetti di frustrazione staccandola dal muro e lanciandola via da me. La foto era ancora lì. Sorridevo come una stupida, lui no.

Avrei dovuto capirlo prima, eppure, non lo avevo fatto. Non riuscivo a vedere oltre. Non so per quale istinto sfiorai il suo viso. Lo amavo e non capivo il perché. Se qualcuno mi avesse chiesto cosa amassi di lui cosa avrei potuto dirgli? Non trovavo una risposta che avesse avuto un minimo di senso. Non esisteva una sua qualità che mi piaceva, non esisteva un lato del suo carattere che mi ammaliava. Non c’era nulla, allora perché soffrivo in quel modo? Perché ogni respiro mi ricordava quanto fossi inutile? Non capivo nemmeno io il mio dolore. Era solo un’altra prova di quanto non fossi capace di far nulla. Posai la foto sotto il cuscino. Non c’era nulla che dovesse sorridere in quel giorno.

***

- Buffy Summers. Chi parla?- Il telefono quella mattina non voleva darmi tregua.

- Certo attenda. Buffy Summers. Chi parla?-

- Hai intenzione di continuare così tutto il giorno?-

- Certo attenda. Credo di sì- risposi senza alzare lo sguardo dal pc.

- Hai scritto almeno l’articolo?-

- L’ho iniziato-

- Buffy va in stampa fra meno di due ore, ma che ti prende?-

- Niente, lo finirò in tempo. Buffy Summers. Chi parla?-

- Io proprio non ti capisco se il capo ti vedesse comportarti così ti sbatterebbe fuori a calci. Datti una regolata-

- Certo attenda. Fra mezz’ora avrai il tuo articolo ok? Lasciami lavorare ora Michael-

- Come vuoi, ma qualsiasi cosa tu stia facendo non stai lavorando. Io ti ho avvertita- disse andandosene.

- Buffy Summers. Chi parla?- Volevano buttarmi fuori? In quel momento non me ne fregava nulla. Era un lavoro che mi piaceva, ma non avevo nessuna intenzione di glorificare il loro ego oggi. Se fossi sopravvissuta alla giornata forse sarebbe andata meglio domani, ma soltanto forse.

- Certo attenda. Come scusi? Io credo di non capire… No, lei non può conoscerla! Non può! La lasci andare! Pronto! No!- rimasi con la cornetta del telefono in mano, ma ormai restava solo il suono del segnale acustico a riempirmi la testa.

- Buffy ti ho portato quei documenti che mi avevi chiesto. Ti va dopo di… Buffy? Buffy! Che ti prende!- Voltai il viso come un automa senza rendermi nemmeno conto con chi stessi parlando. Il telefono cadde per terra e la cornetta scivolò via dalle mie mani. Lo guardai spaventata e confusa.

- Buffy?- chiese ancora quella voce facendomi voltare di nuovo.

- Dawn- dissi sussurrando

- Dawn? Che stai dicendo Buffy?- tentai di ingoiare il magone di paura senza alcun risultato. Portai una mano alla gola, mi sentivo soffocare. Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Non riuscivo a parlare. Volevo tentare di spiegare anche a me stessa cosa stava accadendo, ma non ci riuscivo.

- Lei… Loro…- singhiozzai

- Buffy mi stai facendo preoccupare. E’ successo qualcosa a Dawn?- Era successo qualcosa a Dawn? Sì, ecco cosa dovevo dire, ma non potevo dirlo. Se l’avessi detto sarebbe stato come ammettere che era qualcosa che era accaduto davvero. Guardai il telefono per terra. Il segnale acustico tornò a riempirmi la testa. Era successo davvero.

- Dawn è…- tentai di dire di nuovo. Alzai lo sguardo incontrando quello molto preoccupato di Willow.

- L’hanno rapita. Hanno rapito la mia Dawn-

 

 

 

Capitolo 3.

 

Sedevo nell’ufficio della polizia ormai da più di due ore e non eravamo ancora nemmeno riusciti a parlare con un dannato poliziotto, sembrava che il mondo del crimine si fosse coalizzato tutto quel giorno per far impazzire centralini e grassi uomini unti di ciambelle.

- Non dovremmo essere qui, ha detto che la uccideranno se diremo qualcosa alla polizia- dissi cercando di alzarmi per andarmene.

- Noi non andiamo da nessuna parte. Resteremo qui fino a quando non avremo parlato con delle persone competenti. Non siamo in grado di gestire da sole una cosa simile te ne rendi conto?- disse Willow tirandomi di nuovo a sedere su quella dannata seggiola di legno scricchiolante. Non era la prima volta che provavo ad andare via di lì. I rapitori erano stati categorici e noi li stavamo sfidando senza alcun ritegno. Non sarebbe finita bene, ma non stavamo parlando della mia inutile vita, ma di quella di Dawn. Perché se l’erano presa con lei? Era solo una studentessa! Ed io ero l’unica famiglia che gli restava e non ero di certo una milionaria, allora perché? Cosa potevano mai volere da noi?

- Summers?- tuonò una voce molto poco cortese.

- Siamo noi- rispose Willow.

- L’ispettore la sta aspettando- disse indicando svogliato una stanza alla sua sinistra.

- Grazie- disse Willow tirandomi per un braccio in modo che la seguissi all’interno di quella stanza maledetta. Era buia, sporca e piena di fogli ovunque. L’odore di chiuso la infestava probabilmente in modo perenne. L’idea di parlare con quell’uomo mi terrorizzava, sentivo una morsa allo stomaco che si stringeva di più ad ogni passo. Stavo tradendo Dawn. Se le fosse successo qualcosa per colpa mia come avrei potuto perdonarmelo?

- Buona sera- disse cortesemente Willow.

- Chi di voi è Miss Summers?- tossì l’uomo nascosto da una delle pile di documenti più alta che io avessi mai visto.

- Sono io- sussurrai.

- Accomodatevi pure- disse più per abitudine che per reale cortesia.

- Allora sua sorella è stata rapita? Ne è sicura?- continuò lui, era una mia impressione o in quella dannata stazione di polizia erano tutti scorbutici ed insensibili?

- Certo che ne sono sicura!- mi alterai

- Si calmi Miss Summers, sto solo cercando di fare il punto della situazione. L’agente Miller mi ha parlato di un possibile rapimento voglio essere sicuro che non sia una bravata da ragazzi- disse tentando di essere conciliante.

- Dawn non è una stupida ispettore e chi sarebbe quest’agente Miller?- chiesi irritata.

- L’uomo fuori la porta-

- Bene può dire all’agente Miller che se si fosse degnato di chiedermi qualche altro particolare saprebbe che Dawn non è una stupida oca, ma una ragazza giudiziosa che è stata rapita da… da dei criminali che mi hanno proibito di parlare con voi ed io come una stupida sto qui a rischiare la sua vita quando voi lo trattate come un caso di serie B- risposi infuriata e scossa. Avevo sbagliato ad andare da questi idioti, ma cosa credevo? Da quando la polizia faceva il proprio lavoro?

- Signora Summers si sieda cortesemente e mi dica ciò che sa e ciò che questi rapitori le hanno detto-

- Buffy ti prego calmati. Stanno solo facendo il loro lavoro- disse Willow stringendo la mia mano tremante. Abbassai lo sguardo cercando di ignorare quell’uomo orribile al di là della scrivania.

- Io-io stavo lavorando stamattina e…-

- Dove lavora?- mi interruppe l’ispettore

- Al Washington Journal Post, sono una giornalista- risposi mentre lui appuntava le mie parole.

- Continui continui- disse facendomi un cenno con la mano rugosa.

- Beh io stavo lavorando quando ho ricevuto una telefonata-

- Che ore erano?-

- Le undici più o meno-

- Bene continui-

- Beh io ho risposto e… e lui ha detto che l’avevano presa- dissi tremando

- E’ certa che fosse un uomo?-

- Sì, credo di sì- dissi sorpresa

- Ha detto che “l’avevano presa” quindi bisogna presupporre che siano almeno in due- disse parlando più con se stesso che con me.

- Dove si trovava sua sorella?-

- A New York frequenta la Columbia è al secondo anno- dissi. L’ispettore annuì.

- E dove vive?-

- Nel campus dell’università- risposi

- Da quanto non vede sua sorella?-

- Da dicembre era tornata a casa per le feste di Natale-

- E lei non è mai andata a trovarla all’università?-

- No perché?-

- Quindi non sa che tipo di vita faccia lì-

- Che cosa sta insinuando?- dissi innervosendomi di nuovo, ma lui non mi degnò di nessuna risposta né di un minimo di considerazione.

- Sa se frequentasse qualche ragazzo?-

- No lei non ha nessun ragazzo non che io sappia almeno-

- Capisco. Mi ripeta esattamente cosa le hanno detto i rapitori- disse come se parlare con me fosse una grandissima perdita di tempo.

- Lui ha detto “L’abbiamo presa…”-

- Solo questo?-

- No- ringhiai irritata. Non capiva quanto fosse difficile per me parlarne?

- Ed allora cos’altro le hanno detto?- ribattè lui altrettanto irritato.

- Ha detto “L’abbiamo presa, abbiamo la tua bella Dawn e l’abbiamo fatto solo per te, non sei felice? Se andrai dalla polizia la uccideremo e non la ritroverai mai più”- dissi urlando. Iniziai a piangere per la rabbia.

- L’ha detto ridendo! Lui stava ridendo!- dissi singhiozzando

- Si calmi Miss Summers. Non ha chiesto niente né soldi né altro. Per quale motivo qualcuno dovrebbe avercela con lei?-

- Non lo so! Non siamo una famiglia ricca e Dawn ha solo me! Ed è solo colpa mia se le hanno fatto questo- dissi crollando fra le braccia di Willow

- Su Miss Summers non c’è motivo di pensare al peggio, sono sicuro che è solo una ragazzata, ma indagheremo lo stesso, vada a casa ora e cerchi di riposare- rispose bonario. Non avevo la forza di rispondergli né di guardarlo oltre. Ero sempre più convinta di aver fatto male a rivolgermi a loro. Scossi la testa uscendo da quella stanza di corsa seguita dalla voce di Willow che mi pregava di aspettarla, ma non avevo più alcuna intenzione di dar conto a nessuno delle mie azioni. Avrei aspettato che i rapitori si fossero fatti sentire e li avrei accontentati in ogni modo. Dovevo solo sperare che non scoprissero che ero andata dalla polizia o Dawn sarebbe morta.

Entrai in casa con l’anima in frantumi. Il mio cuore era già stato distrutto troppe volte per potersi ancora ricomporre, mi ero sempre domandata quante volte qualcosa poteva essere ferito e lacerato senza pietà prima di soccombere. Due? Tre? Purtroppo molte più di quelle che potremmo mai immaginare.

Ora toccava alla mia anima a quanto pareva.

Lasciai cadere il cappotto per terra, tolsi le scarpe e lanciai la valigetta lontano da me. Non accesi nessuna luce, desideravo solo sprofondare nell’oscurità ed esserne inghiottita. Mi sentivo ubriaca, confusa, intontita. Mi sembrava di danzare scalza sull’orlo di un baratro. Nel buio, da sola iniziai a ridere. Ballavo e ridevo, mentre realizzavo che l’unico mio desiderio era scivolare in quel baratro.

Lo volevo disperatamente.

Sbattei contro il tavolino di vetro nel mio soggiorno, caddi per terra distruggendolo che ancora ridevo. Mi fermai ad osservare i pezzetti di vetro che mi tagliavano in mille piccole righe rosse e la mia risata si trasformò in ansimi di dolore. Iniziai a respirare con fatica e la paura di sentire che l’aria mi veniva strappata dalla gola fu l’ultima goccia che fece traboccare me stessa dalle mie labbra in grida disperate. Urlavo con tutta la rabbia, la paura e la voglia di esistere che ancora mi restava. Sentivo colare il mio sangue bollente lungo il viso, le braccia e le gambe nude. Sentivo che ogni goccia che si allontanava da me, mi ustionava la pelle bruciandomi interamente nella consapevolezza che era la mia vita che stava andando via da me. Urlai per quelli che mi sembrarono giorni e mesi anche se forse furono solo pochi minuti. Mi consumai fino a non avere più voce. Rimasi immobile, oppressa dal peso del buio macchiato del mio sangue, pugnalata da pezzi di me stessa e da un silenzio che mi faceva impazzire. Se il mio corpo non aveva più la forza per disperarsi, la mia anima si dibatteva in preda alla furia in un muto urlo terrorizzato.