UN LIETO FINE PER LA MIA STORIA

 

AUTRICE: MISS KITTY

 

Capitolo 1.

La televisione accesa debolmente illuminava il soggiorno di un pallido blu, il canale trasmetteva ‘imperdibili’ repliche estive di un qualche telefilm dimenticato e la voce impostata della bionda eroina risuonava cristallina nelle primissime ore del mattino.

Sempre più spesso la lasciavo a farmi compagnia in quelle umide notti  di prima estate, assieme alle bottiglie di birra (due, tre, a seconda della serata, anche quattro) allineate scientificamente sulla monocottura color avorio, ai piedi della poltrona.

Risucchiata dalla seduta di velluto, accaldata per il contatto della mia pelle, quasi completamente ad esso esposta per via del piccolo pigiama estivo, mi svegliai quando l’ultima auto passò sulla strada; il silenzio entrò dalla finestra aperta e, con esso, le mie subdole ansie. Un sottile filo d’angoscia risuonò una nota aspra e acuta, come pizzicato da un’unghia appuntita e turbò il mio riposo, destandomi, stanca e intorpidita.

-Aaaaahiii..ooohhiiii….la mia cervicale…-massaggiandomi il collo, cercavo di distendere le gambe, mentre con una mano esploravo convulsamente sotto i cuscini alla ricerca del telecomando.

Mi alzai stizzita per il sudore e per i dolori che avvertivo in tutto il corpo, spengendo la tv dal pulsante sotto lo schermo, l’indomani avrei sicuramente trovato il telecomando.

Ed ecco il mio letto: le lenzuola di cotone leggero, celesti e turchesi, i miei due guanciali, morbidi e pazienti, fedeli loro -Sì!- molto più delle mie amicizie e, certamente, più di me stessa. Mi lasciai cadere pesantemente sul materasso, senza disfarlo, tanto assonnata da esser convinta che mi sarei immediatamente  riaddormentata e, invece, dopo due ore, ero ancora distesa supina a fissare il buio sul soffitto.

Da quattro anni, non dormivo bene.

Anzi, cinque o sei, se devo includere anche i due anni precedenti a “quello” che ha cambiato per sempre la mia vita. Come ogni notte, allora, quando tra le fessure della avvolgibile  percepivo l’avvicinarsi dell’alba, ricorrevo al mio asso nella manica: posizionavo uno dei due cuscini di fianco e lo stringevo al seno, chinando la tesa sull’angolo della federa, convincendomi di abbracciare LUI.

E il sonno, pian piano, veniva.

Quel fastidioso stato d’animo, così, veniva soffocato dal sonno e, per mia fortuna, era poi spazzato via dalle luci del giorno, come se il sole, al suo sorgere, soffiasse via la polvere dal mio essere, consentendomi di vivere le giornate come meglio sapevo.

 -La polvere sul mio passato:no. Quella no. Il suo strato si ispessiva ad ogni ricordo.-

Non facevo mai suonare la sveglia, alle 7.00 in punto i miei occhi si aprivano tempestivamente e la mano si allungava sicura sul comodino per disattivarla prima che la radio iniziasse a cantare.

E poi le canzoni del mattino erano terribili: non avrei potuto sopportare di svegliarmi, ogni santo giorno, con una di quelle melense canzoni della rubrica revival!

-Dovrei decidermi a sintonizzarmi su una stazione meno nostalgica! Aaaawwwhhhnn!-

La solita serie di sbadigli mi accompagnò fino alla porta dello studio dove lavoravo come avvocato. O almeno dove….ci provavo.

Angel no, lui era il titolare di uno degli studi legali più prestigiosi di Los Angeles, lo “Wolfram & Hart” e, fin da quando era appena un laureando, aveva già avuto modo di farsi conoscere e ammirare dai professori universitari prima, e dai facoltosi (già) clienti di suo padre, anche lui avvocato, poi.

Sorrisi pensando ad Angel, l’unica cosa bella che avevo nella vita.  La mia seconda occasione, immeritata -Ne ero convinta!-,  seconda occasione.

Sorrisi, è vero. Ma l’amarezza non tardò a vincere il sorriso. Scossi forzatamente la testa, volendo, piuttosto, scuotere la mente. Girai la chiave nella serratura d’ottone e salii le scale, osservando quanto rapidamente svanissero le orme che lasciavo al mio passaggio sulla elegante guida rossa lungo gli ampi scalini di marmo.

-Oggi non è giornata!-sbuffai ad alta voce varcando la soglia del mio ufficio da gavetta. Appena undici metri quadri di scaffali e mensole, con il posto per il tavolo ricavato, a stento, da una antica nicchia nel muro e senza una dannata sedia con le rotelle, perché quelle girevoli sarebbero state troppo ingombranti e, comunque, spazio per farla girare non ne avevo: dietro c’era un rugginoso archivio tremolante di metallo, di quelli con i cassetti estraibili, pieno zeppo di insulsi fascicoli ingialliti dei primi  successi in tribunale del ‘grande capo’, cartellette puzzolenti di nessuna importanza ma che venivano amorevolmente conservate per un supposto legame affettivo. Legame affettivo che però a me impediva di avere una sedia girevole con cui muovermi comodamente.

-Ma se ci tiene tanto com’è che non se lo mette nel SUO ufficio, tra la scrivania in mogano e il mobile bar?- borbottai assestando un calcio all’ultimo cassetto, che si apriva, non so bene per quale teoria della fisica, non appena gli passavo accanto.

Accesi meccanicamente il computer, scostai le tende e comincia a tirar fuori le pratiche più urgenti dalla valigetta in pelle.

-Molto professionale…-ringhiavo, arraffando a casaccio dentro-…peccato che non si riesca mai a trovarci niente!-

-Giornataccia, Buffy?-

Willow sorrise buttando la sua vocina allegra dentro la porta aperta della mia stanza, per oltrepassarla, senza fermarsi, anche lei indaffarata nelle operazioni dell’apertura quotidiana.

-Già!.- risposi, alzando il tono perché potesse raggiungerla fin dentro il suo ufficio, dall’altra parte del corridoio.

Willow era la mia più cara amica o, perlomeno era l’unica che mi fosse rimasta.

Dolce e gentile ma anche molto sicura di sè e dannatamente padrona della sua vita, era la più giovane degli avvocati dello studio legale “GILES”, vera promessa del foro, aveva difeso già autorevoli delinquenti, scagionandoli completamente dalle accuse più disparate: frode, peculato, concussione, violenza privata…Con grande soddisfazione del nostro paterno osservatore, il ‘grande capo’, l’avv.Rupert Giles.

Willow era sempre di buon umore, come se le cause legali non la coinvolgessero, scivolandole addosso come storie lette su una rivista di pettegolezzi. Quando mi vedeva mangiarmi il fegato per preparare la difesa di un cliente, che sapevo, invero, essere colpevole, lei si avvicinava a me e mi ripeteva che dovevo solo pensare che la sera, a casa, avrei trovato Angel ad aspettarmi…che avrei dovuto pensare alla nostra cenetta tranquilla …al piacere di trascorrere la serata con lui a chiacchierare o a scherzare sul divano…

Forse questo funzionava per lei. Willow e Oz erano i fidanzati storici della nostra, ormai dispersa, compagnia dei tempi del liceo. Erano qualcosa come tredici, quattordici, anni che stavano insieme.

Quante volte pensavo a loro. E mi rodeva.  Cazzo, se mi rodeva! Non che fossi invidiosa della loro felicità duratura, non avrei potuto, volendo molto bene ad entrambi, quello che mi faceva girare e rigirare sulla poltrona la sera, era che fossero riusciti a superare le crisi che, come ogni coppia, avevano affrontato negli anni.

E cavolaccio! Ne avevano avute di crisi!

Io me le ero sorbite una per una! Ad ogni ora del giorno e della notte, il cellulare e il telefono di casa avevano alternativamente squillato per mesi. Prima si sfogava Willow, poi mi chiamava Oz …poi di nuovo Willow, per altri particolari, subito dopo Oz, per le ultime imprecazioni e raccomandazioni …insomma, conoscevo la loro storia, credo di poter dire, meglio di quanto non la conoscessero i diretti interessati, dato che a me entrambi raccontavano anche ciò che l’altro non avrebbe MAI dovuto sapere.

E, di qui, la mia rabbia. Per quelle cose che, abilmente, entrambi avevano saputo tacere e che adesso li tenevano ancora serenamente insieme.

La sincerità era sempre stata il mio forte, invece: l’onestà e la correttezza le mie qualità principali, le più apprezzate! Eh, già, perché la sincerità in un rapporto è la prima cosa! Le menzogne non portano mai a nulla.

Già già.

Lanciai la valigetta contro l’archivio del signor Giles. L’ultimo cassetto puntualmente si aprì, urtando le zampe della mia sedia e, dietro, stavolta anche gli altri tre.

Voltai la testa di scatto e lo fissai. Le scartoffie ammuffite avrebbero potuto prender fuoco, incenerite da quello sguardo rabbioso e ferito.

La mia sincerità mi aveva rovinato la vita. Se avessi mentito, William sarebbe ancora con me.

 

 

Capitolo 2.

La giornata trascorse velocemente. Quando mi mettevo a lavoro niente riusciva a distogliermi e, proprio la capacità di isolarmi dal mondo e concentrarmi sulle pratiche da svolgere, faceva di me una persona ‘normale’.

Mettere su la maschera del giovane avvocato, desideroso di imparare e di svolgere al meglio i primi impegni, mi aveva salvato la pelle. La mia occupazione, a essere sincera, mi piaceva veramente e intuivo, pur nella mia inesperienza, che avrebbe saputo darmi molte soddisfazioni in futuro. Infatti, nei ritagli di tempo, continuavo i miei studi giuridici preparandomi alla carriera notarile. Non che fossi particolarmente ambiziosa  ma, a conti fatti, quella mi pareva l’unica soluzione, per un verso, per non dovermi trovare ogni giorno a contatto con ladri, assassini e delinquenti vari, per altro verso, per non buttare nel cesso i miei faticosi anni al college.

Così facendo, ogni santo giorno, mi ammazzavo tra studio e lavoro e, mentre mi uccidevo, nel contempo, mi salvavo la vita. La vita, forse, è un po’ esagerato…ma i nervi, sicuramente : lottavo disperatamente con la stanchezza pur di non avere un momento per pensare. Dovevo essere perennemente occupata in qualcosa. Qualsiasi cosa. Bene anche televisione, letture e computer. Meglio ancora se riuscivo ad incontrare il mio fidanzato, possibilmente all’aria aperta.

Anche quella giornata volò via, lasciandomi scheletrita a tarda sera a chiudere lo studio. Tutti i colleghi erano, come sempre, usciti prima di me.

Lentamente mi incamminai alla fermata della metro. Uno, due, tre…. “ddrrriiiinnn!!”:  ecco la telefonata di Angel.

-Amore!- ero felice di quella telefonata che arrivava, puntuale, quando uscivo dall’ufficio. Dovevo essere felice di sentirlo.

-Ciao, piccola! Tutto bene? –

-Certamente! Un po’ di stanchezza…ma tutto ok. A che ora hai prenotato questa sera?-

-Di questo ti volevo parlare, Buffy, scusa, ma ho dovuto spostare una cena di lavoro. Non potevo fare altrimenti….sai è un parente del sindaco… comunque, il mio cliente verrà con la moglie, sarei contento che tu mi acc…-

-No, Angel…. Dai…scusa, ma sai che queste cene mi stancano ancora di più! Dopo una giornata di  caccia ai mostri qui allo studio…non ho proprio la forza per sorbirmi un’altra discussione su questioni legali…-

-Ti prego, Buffy…fai uno sforzo, altrimenti non ci vedremo neppure questa sera…-

-Non preoccupari, amore. Facciamo domani….-

-Non ricordi che domani ho gli allenamenti?-

-Ohh…-la conversazione iniziò a divenire irritante per me e ci fu un lungo istante di silenzio con cui comunicai ad Angel il mio disappunto.

-Allora ti telefono domani sera…- osò lui, con una punta di senso di colpa.

-D’accordo. A domani. Cerca di divertirti stasera.- conclusi cercando di non lasciar trapelare oltre la mia stizza.

La metropolitana arrivò poco dopo. Un carico di carne umana pressata, in tailleur, tacchi, cravatte ed eleganti ventiquattrore di pelle. Ammutoliti, con il volto teso o contrito e gli occhi persi nel riflesso dei finestrini. Inespressivi e ostinatamente severi.

Mi sentii soffocare…ordinavo mentalmente alle lacrime di non mettersi a scendere in mezzo a tutta quella gente… e cercai i suoi occhi. Prima che potessi fissare i pensieri su una delle mie cause o su una pagina qualunque dei manuali di diritto…con il corpo appeso stancamente alla maniglia di gomma, seguendo per inerzia i sussulti del metrò….mi ritrovai a cercare i suoi occhi tra la folla.

Quando risalii all’aperto, l’aria fresca della sera mi portò un po’ di sollievo e ricacciai indietro le lacrime: mi fermai a comprare della frutta, assalendo la povera commessa di discorsi di circostanza, sul tempo e sul traffico ….qualunque cosa pur di non pensare a William: qualunque conversazione…qualunque interlocutore.

 

William era lontano. A Sunnydale. Non abbastanza lontano, a giudicare dai miei pensieri e dal mio stupido cuore rattoppato che colmava in un secondo quei maledetti chilometri, non appena percepivo un profumo o sentivo una canzone o anche quando non c’era il benché minimo appiglio per nessun ricordo.

Dopo cena attesi la consueta telefonata da mia madre, come ogni sera, da quando avevo lasciato Sunnydale per andare al college a L.A., mi chiamava per accertarsi che stessi bene e per chiacchierare un poco con la sua ‘bambina più grande’.

Il telefono quella sera non squillò.

Non trovai il coraggio di sollevare la cornetta fino alle 5.00 dell’indomani: quando accadono certe cose, ignorarle volutamente, il più a lungo possibile, ti dà l’illusione che tu possa sbagliare e che quelle sensazioni di freddo lungo le braccia e lungo il collo siano solo suggestioni emotive.

-Dawn…- parlai con una filo di voce tanto che lei non mi riconobbe subito, sconvolta e confusa com’era.

-…Buffy…Buffy…oh, Buffy….- singhiozzò per vari  minuti in cui io non dissi niente.

-Prendo il primo aereo, piccolina, non preoccuparti… ti prego, Dawn…tra poche ore sarò da te… dimmi, tesoro, dimmi cosa è accaduto alla mamma….-

 

L’aereo atterrò a Sunnydale alle dieci del mattino.

Pioveva, fatto questo assai strano per un posto come quello in cui ero nata io. Il cielo era tanto grigio da aver fatto scattare le fotocellule dei lampioni per le strade, queste erano bloccate da auto in difficoltà per la scarsa visibilità e per il livello di acqua piovana che le fognature non riuscivano a smaltire con la dovuta velocità. Uno spettacolo insolito per me: surreale e terribilmente freddo, la mia città mi apparve quasi scostante nei miei confronti, come non mi volesse. Il disagio mi assalì, con l’insistenza di sempre, fino a prevalere, a tratti, sul dolore per la morte di mia madre.

Il taxi mi lasciò davanti all’ingresso dell’ospedale; mia sorella era raggomitolata nella sala d’aspetto circondata dai suoi amici e da qualche vicino di casa.

-Dawn…-

La strinsi a me, rincuorandola con il mio abbraccio come meglio potevo, reprimendo  ogni emozione, per non farla piangere ancora più disperatamente.

-Dove l’hanno portata?- mi girai verso Jonathan,un compagno di scuola di Dawn –Vorrei vederla…-

Lasciai Dawn alle attenzioni del ragazzo per raggiungere la stanza della mamma: saperla sola, in questo momento, mi faceva ancora più male che saperla morta.

Affrettai il passo, l’eco dei miei tacchi sulle mattonelle si fece più forte e mi parve di udire mia sorella chiamarmi, nel mio convulso calpestio, ma non badai a quella sensazione per mettermi , invece, a correre verso la stanza indicatami.

Sulla ampia soglia di metallo mi bloccai. Tremarono le dita delle mani e tremarono le mie labbra.

Mia madre non era sola: in piedi, immobile, al suo capezzale, William era con lei.

La stanza girò. E fu come essere in un baratro, circondata dal nulla, perché il nulla era la sola verità nella mia vita.

Avrei potuto avere la meglio sulle mie emozioni anche in quella tremenda circostanza?

Ero certa di poter trattenermi dal gridare al mondo il mio dolore.

Ma non ero sicura di poterlo fare anche davanti a lui.

E già sentivo di voler piangere tutte le lacrime di quegli ultimi anni lontana da lui.

 

Capitolo 3.

La sua figura sottile, eppur imponente, avvolta nella lunga giacca di pelle nera, divenne il perno attorno al quale volteggiò la camera e, con essa, ogni mia emozione. Tutte quelle che avevo provato e poi represso in quegli anni a Los Angeles, trascorsi a tirar su una nuova piccola esistenza, mattoncino dopo mattoncino… tutte quelle che avevo represso e poi, inevitabilmente, provato ,ogni volta che ero tornata a Sunnydale per le vacanze o nei weekend, giornate in cui fingevo di rilassarmi, mentre ogni mia manovra era diretta ad evitare di incontrarlo per le strade di questa troppo poco grande città.

William non si voltò subito: mi soffermai sul candore delle sue mani,serrate sui gomiti, le lacrime offuscarono i contorni delle sue lunghe dita affusolate che spiccavano sulla pelle nera dello spolverino.

-…Buffy….-

Come un fresco soffio di vento, delicato sulle mie tempie accaldate, mi chiamò senza  girarsi a guardarmi e ,in quella breve esitazione, forse senza importanza, io sentii il cuore di William battere più forte del mio.

Quando venne verso di me, il mio viso era già completamente bagnato da un pianto liberatorio, troppo a lungo costretto in fondo al cuore dalla mia anima, presuntuosamente forte e orgogliosa; non avevo più pianto in quel modo, dal giorno in cui decisi di lasciarlo per sempre. Non avevo pianto neppure quando i medici avevano diagnosticato il tumore alla mamma.

Piangere…. E lasciare che il dolore, la tristezza o anche la gioia, emergano violentemente, in tutta la loro disarmante prepotenza, era un lusso che non potevo permettermi, non senza distruggermi definitivamente. Così smisi di ‘sentire’.

Del resto, la vita mi appariva come una parte da recitare e, sebbene non potessi riconoscere me stessa nella parte che mi ero attribuita –In me non c’era più nemmeno la metà della ragazza che ero stata un tempo!-, il mio personaggio era senza infamia e senza lode, dunque abbastanza facile da usare.

Ma bastò che lui muovesse il primo passo verso di me per far sbriciolare i miei agognati mattoncini  di polvere e sabbia:

-..Buffy…- William ripetè il mio nome, con infinita dolcezza e compassione, guardandomi negli occhi e molto, molto, più dentro. In un istante, arrivò ad accarezzare la mia anima come solo a lui era permesso,da sempre.

Gli corsi incontro e lo abbracciai con tutta la forza che avevo, facendomi piccola piccola sul suo petto, le sue mani mi avvolsero completamente mentre io dimenticavo la mia parte e, credo, lui, la propria.

Stare tra le sue braccia, fosse stato anche per l’ultima volta, era per me molto più di quanto potessi anche solo immaginare.

Perché con lui tornavo a ‘sentire’. Io non volevo, non potevo…perché, quando quell’abbraccio fosse finito, sarebbe stato ancora più difficile riuscire ad rimettermi la maschera .

Alzai il viso al suo  e incontrai il suoi occhi trasparenti e fieri, tra i singhiozzi, gli sorrisi. Quello che vidi riflesso nella purezza di quel blu, era la ragazza che ero stata.

Negli occhi di William si specchiava ancora, nonostante il passato e il dolore terribile delle ferite che io gli avevo inferto, spietata e crudele, come non lo ero stata mai con nessuno altro, la ragazza che lo aveva fatto innamorare e che credevo non esistesse più.

-Perché ?…-mormorai,senza distogliere lo sguardo dal suo.

William comprese il senso della mia domanda, ma non mi rispose.

Non avevo nessuna intenzione di lasciarlo andare e glielo dissi.

Reagii all’imminente distacco, senza fermarmi a ragionare, facendo quello ciò che più desideravo, dicendogli cosa volevo, inaspettatamente, disperatamente, come se il tempo non fosse mai andato avanti. Come se ci amassimo ancora.

Perché, nel nulla che mi circondava, lui vedeva ancora quella che ero e io tornai,  in quei pochi minuti, padrona di me.

A dire il vero, non ricordo con esattezza le mie parole,non sono nemmeno sicura che fossi io a parlare, erano troppe le emozioni e troppo intense, dubitai di aver fatto discorsi di senso compiuto.

-Ora che ti ho preso…non ti lascio andare più….- e infilai la testa nell’incavo marcato della sua spalla, strofinandomi a lui con il viso e il seno, senza alcuna malizia, stringendolo a me ancora più forte.

-…Buffy….- William mi scostò delicatamente, allontanando prima il suo cuore che il corpo, fuggendo da quelle parole dette con la razionalità di un fiume in piena.

Sentii il gelo scendere, secco e rapido, nella spina dorsale e girai lo sguardo per non incontrare più il suo. La vita che avevo colmò il vuoto, riempiendo il nulla di menzogne e di sentimenti fasulli.

Mi accostai al letto della mamma con le guance asciutte e il volto serio, imperscrutabile, sedendomi composta sulla sedia di metallo vicino al comodino.

-Io vado….Buffy…ci vediamo domani al funerale.-

La voce di William fu senza tono alcuno.

-Grazie per essere venuto.- risposi, dandogli le spalle.

-L’ho fatto per Dawn…-precisò lui, ostentando distacco e la sua irritante maturità emotiva. Non aggiunse altro e io non mi voltai a vederlo uscire, ma  per vari giorni continuai ad udire l’eco ovattato dei suoi passi farsi sempre più lontano, lungo l’asettico corridoio dell’ospedale.

Tornammo a casa solo quando la stanza mortuaria venne chiusa per la notte, Dawn si addormentò, sfiancata dal pianto, sul divano, sotto l’effetto di un calmante.

Anche io ne presi uno, ma con me non fece effetto: i miei nervi erano stati abituati a ben altri farmaci in passato. Il male oscuro aveva tentato di farmi fuori, sebbene, alla fine, fossi stata io più forte o, forse, erano stati più forti gli antidepressivi che mi erano stati prescritti dallo psichiatra.

Approfittai dell’insonnia per fare le telefonate del caso: avevo tenuto tutto il giorno il cellulare spento ed era probabile che Angel avesse persino mandato la polizia a cercarmi a L.A. …e poi c’era Giles! Come avevo fatto dimenticarmi del mio lavoro?

-Pronto? Angel?-

-Dio mio! Buffy! Dove sei? Come stai? Che è successo? E’ tutto il giorno che …-un carico di ansia e nevrosi mi sommerse in quella conversazione,al punto che mi pentii di averlo avvisato.

-Angel….mia madre…sono a Sunnydale…-

-Come stai? Stai bene? Dove sei?-

-Angel,te l’ho detto…calmati! Sono a casa…mia madre è….è…. è accaduto…lo sapevamo,no? Ero preparata….-

-Come….- Angel rimase silenzio,sapevo quanto fosse dispiaciuto in quel momento,ma non capivo se fosse più triste per la morte della mamma o perché non avevo sentito il bisogno di avvisarlo prima ….magari avrebbe voluto  che gli avessi chiesto di accompagnarmi.

-Domani c’è il funerale.- interruppi il silenzio, risoluta e fredda, in un respiro rumoroso.

-Capisco. Ci sarò senz’altro, non preoccuparti….-si affrettò a tranquillizzarmi, con amore, come meglio poteva fare al telefono.

-Non preoccuparti…so che hai da fare…-cercai di allontanarlo con quelle parole, lo feci senza rendermene conto, non avevo intenzione di ferirlo: non volevo che mi stesse vicino perché io non avevo bisogno di nessuno e a nessuno, soprattutto,  era permesso vedermi soffrire e accostarsi ai miei sentimenti più di quanto io non lo ritessi necessario.

-Buffy!-Angel era sconvolto e, certamente, offeso e irritato dalla mia risposta –Non vuoi che venga al funerale di Joyce? Non vuoi che ti sia vicino, Buffy? Perché cerchi di allontanarmi ogni volta che, al contrario, dovresti sentire il bisogno di una persona vicina, di una persona che ti ama?-

-No…io …no…Angel, ti sbagli…io son..sono felice che tu sia con me in questo momento…ma so che hai da fare allo studio, perciò…-

Colpita in pieno. Mezza affondata, direi: Angel non era affatto uno stupido e la mia recitazione, in quel frangente, vacillò miseramente, sotto il peso del dolore e della stanchezza .

-Voglio dire che ero pronta a questo evento….Dawnie ed io sapevamo che non sarebbe vissuta a lungo….era solo questione di tempo…i medici….-cercai di rimediare, in modo da tranquillizzare  le insicurezze di Angel.

-..mmh….Buffy, perdonami se insisto, immagino tu sia distrutta…ma…non sono sicuro che tu sia sincera con me. Da quanti anni stiamo assieme? Quattro? Beh, non ricordo una sola volta in cui mi hai chiesto aiuto in un momento difficile…-

-Angel,ti prego…non adesso…sono sfinita….-

-Già. Sempre “non adesso”. Ad ogni modo, domani  sarò  a Sunnydale, con Willow e Oz, naturalmente. Mi chiedo se almeno  vorrai i tuoi amici vicini…-concluse con una punta di sarcasmo.

-Ok.-non replicai. Non ne avevo la forza. E probabilmente, se lo avessi fatto, avrei finito per vuotare il sacco stavolta, scossa come ero dalla perdita della mamma. E non  solo da quello. Ma il momento dei rimpianti era finito quando William si era scostato da me, respingendo con freddezza le mie parole e il mio abbraccio.

Non mi sarei concessa altre debolezze.

Continuai con le telefonate del caso, avvisando, seppure a notte fonda, gli amici più stretti e qualche parente (di quelli che si sentono solo il giorno di Natale), per le assurde pubbliche relazioni di circostanza, alle quali, certo, io non ero avvezza, ma che erano un efficace diversivo per far tacere sinistre voci provenienti dal baratro dentro di me.

 

Capitolo 3 (seconda ed ultima parte).

 

 La mattina del funerale c’era molta gente, a conferma dell’affetto che mia madre aveva saputo raccogliere attorno a se, Dawn ed io eravamo confuse e terribilmente frastornate da tanta considerazione: persone, conosciute e non, che ci abbracciavano e ci stringevano le mani o cingevano le nostre spalle con decisione, in un tumulto di parole deprimenti e di condoglianze formali.

Il rito fu breve, per nostra fortuna, sebbene non così sobrio come lo avrebbe voluto la mamma, per via dello spreco di decorazioni floreali e di addobbi nella piccola cappella del cimitero.

Salutai almeno un centinaio di persone vestite di nero e di blu, senza più neppure riconoscerne i volti, nell’attesa spasmodica della fine della funzione, nell’attesa di essere lasciata sola, per parlare finalmente con mia madre.

Non cercai William tra le persone riunite nella chiesa, né davanti alla fossa in cui venne calata la bara, non potevo sopportare di vederlo lì vicino: la sua presenza mi ricordava che non era più mio.

Angel rimase accanto a me fino alla fine, Willow, Oz….c’erano tutti, persino i vecchi compagni del liceo, quelli della mia vecchia compagnia di amici, Cordelia, Xander…non mancava nessuno. E io ero grata a tutti loro, solamente non vedevo l’ora che sparissero. Avevo bisogno di stare sola, non ne potevo più di dover partecipare al composto dolore di gruppo, ostentando la sofferenza riservata che mi si imponeva.

Convinsi malamente anche Angel ad andare a casa, grazie ad un provvidenziale intervento di mia sorella, Dawn doveva essere più grande di quanto non sembrasse, se seppe cogliere il mio disperato bisogno di solitudine.

Il silenzio calò a proteggermi nel cimitero desolato,l e tombe ben curate, con la loro misteriosa luce bianca, corsero a calmarmi, infondendomi un’irreale senso di quiete.

-Mamma….ciao….-bisbigliai, sedendomi sul dosso di terriccio fresco – Allora sei andata via….e adesso? -

-Buffy….-

Mi voltai di scatto, spaventata da quella voce, non perché non l’avessi riconosciuta subito, bensì perché temevo di essermi illusa.

-William….-

Mi alzai e lui mi si fece accanto, in silenzio ad ascoltare il mio respiro, senza trovare il coraggio di guardarmi .

Restammo così per quasi un’ora, io non parlai più ad alta voce a mia madre, ma William sapeva di non disturbarmi, semplicemente perché era certo che,davanti a lui, fossi sempre me stessa, in qualunque occasione, libera di mostrarmi in ogni istante, nei lati peggiori e migliori –Eh,sì! Perché William conosceva anche quelli peggiori…- del mio carattere, senza vergogna, senza pudore…senza falsità.

In quei lunghi minuti con lui accanto eravamo tornati insieme. Nonostante il passato e le persone che erano entrate nelle nostre vite, William ed io tornammo insieme.

Senza guardarci …senza sfiorarci, nemmeno casualmente…senza dire una parola…. 

La sua anima era vicino alla mia e la accarezzava con amore, entrambi ce lo concedemmo, fermando il tempo, ignorando quello che fu ….e allontanando quello che doveva venire.

In una muta sintonia, ci avviamo al cancello del cimitero, indugiando ad ogni passo, strattonati dalle nostre anime urlanti di dolore per l’ennesima separazione, imminente, spietata… Beffarda mano del destino! …che noi avevamo creato.

Sulla soglia, non fummo capaci di andare avanti, neppure quando la pioggia prese a cadere, dapprima a piccole gocce e poi insistentemente, bagnandoci gli abiti, sciogliendo il mio trucco leggero e il gel tra i suoi capelli ossigenati, purtroppo, senza che potesse anche lavar via il sangue che ancora grondava dal suo cuore… e, dunque, dal mio.

-Buffy, sii forte adesso…-disse provando un tono convinto, smorzato però dal filo di voce che gli uscì a fatica.

Io soffocai un mesto sorriso, sbuffando sarcastica, seguendo i rigoli d’acqua sulla ringhiera di ferro dell’enorme cancello nero.

Non credevo nemmeno di averlo il coraggio per dirgli quello che gli confessai in quella assurda circostanza…e poi, in quel luogo ancora più incredibile….

Non credevo nemmeno  di ricordare come si dicesse…

-William…io ti amo….-

Le gocce d’acqua si fermarono sulle foglie degli alberi, i rigoli di pioggia sul cancello cessarono di scivolare sul marciapiede….il vento rimase ad ascoltare, bloccando a mezz’aria i lembi dello spolverino di pelle…. Le auto in strada erano senza motore, lasciando la scia sfumata del loro moto, magicamente interrotto.

Solo le mie labbra si muovevano, in un tremito.

Tutto intorno, il battito incantatore dei nostri cuori.

-Buffy…io…-

-Shhh….tu non devi dire niente….-

-Io…cosa ti devo dire io….-

-Niente, William. Non importa. Non devi preoccuparti. Io non ti sto chiedendo niente, non voglio niente. Solo che ….io ti amo… Adesso, vai.-

La pioggia riprese a cadere e parve ancor più violenta, le foglie cariche d’acqua la riversavano scrosciante a terra…il rumore del traffico arrivò alle nostre orecchie ed ognuno riprese la sua strada, desolata e scura, sempre più incerti i nostri passi, di nuovo in direzioni opposte.

 

Capitolo 4.

I giorni seguenti ebbi il mio bel da fare a Sunnydale e questa fu un’ottima cosa: occuparmi della casa e di Dawn, prima di tutto, delle pratiche  burocratiche della mamma e di tutto quello che c’era da sistemare prima del ritorno a Los Angeles, mi faceva sentire utile, anzi, indispensabile e, di conseguenza, forte e coraggiosa.

Dawn sarebbe venuta con me a L.A., era inevitabile e per questo anche estremamente preoccupante, conoscendo la mia sorellina e il suo attaccamento a Sunnydale e alla nostra casa. A causa del gran movimento di quei giorni, quella permanenza forzata in città mi metteva in difficoltà più del solito: le commissioni che avevo da fare mi portavano a tutte le ore del giorno e della notte fuori da casa…e più tempo trascorrevo in giro…maggiore era il rischio di incontrare William.

Ogni volta che tornavo a casa per il weekend o per le vacanze, con il pretesto di voler passare più tempo possibile con la mamma e con Dawn, riuscivo a  chiudermi in casa, unico posto in cui mi sentivo al sicuro dal mio passato.

Espediente non del tutto efficace, invero, infatti le vacanze da eremita non mi impedivano di pensare a lui ed anzi, chiusa in casa, probabilmente, stavo anche peggio, perché nella mia stanza tutto, dopo anni, ancora mi parlava di lui e della nostra storia.

La mia stanza…ma anche il giardino, il grande pino appena fuori il vialetto… la cucina… i cd e i dvd ….insomma, ero sempre come una tigre nella gabbia. Mi dibattevo nel presente, cercando di adattarmi, invitando Angel a Sunnydale nei suoi momenti liberi, in modo da distrarmi da quel tormento invadente, concentrandomi su l’amore che Angel mi dava, nutrendomi avidamente di esso per sopravvivere un po’ meglio in quella sottospecie di vita che mi ero, faticosamente, ricostruita negli ultimi maledetti anni.

Ecco perché non vedevo l’ora di fuggire a Los Angeles –‘FUGGIRE’, quello era il massimo che riuscivo ad ammettere-: unica via di salvezza dal logorio del rimorso e del rimpianto, che si acuiva inevitabilmente stando a Sunnydale.

Eppure, mentre pianificavo le mie commissioni nelle ore in cui sapevo di non trovarlo in giro –Ricordavo alla perfezione le abitudini di William e i suoi impegni di lavoro!-, il desiderio di vederlo, anche solo per un momento, magari senza essere vista da lui… spingeva incessante da dentro di me, per portarmi a cercarlo.

Ma incontrarlo era come far suonare un allarme nel cuore della notte: mi scuoteva  d’improvviso dal latente torpore del  ricordo e del senso di colpa, spaventandomi a morte nel mostrarmi quella che era adesso la mia miserabile esistenza e sbattendomi in faccia quella che avrebbe potuto essere. Con William.

Vederlo, ribadiva il fatto che l’avessi perso per sempre, che l’avessi perso per colpa mia…mi sbatteva in faccia il tradimento a me stessa e quanto brutalmente avessi ferito chi mi amava di tutto l’amore del mondo.

 

Trascorsa una decina di giorni dal funerale, Dawn ed io eravamo sedute fianco a fianco su un volo diretto a Los Angeles, senza parlare tra noi o scambiarci un’occhiata, né un sorriso di complicità o d’affetto. Sedute vicine, distanti come non lo eravamo state mai prima di allora. Dawn vedeva la sua condanna alla solitudine nel cielo di LA, mentre io volavo verso il mio confortevole castello di sabbia e di bugie. Tradendo me stessa, di nuovo.

L’aereo decollò in orario, mostrandomi la mia città piccola piccola e una stretta al petto mi tolse il fiato, ricordandomi quanto amassi quella placida isola felice.

 

Nello stesso momento, William girò lo sguardo fuori dalla grande vetrata dell’hotel, scostando rapidamente la pesante tenda azzurra, come chiamato da una voce giunta col vento.

-Cosa stai fissando, amore?-

-…mmmhhh….-socchiuse gli occhi, William e non rispose alla domanda, seguendo fino all’ultimo lo sbiancare della scia disegnata debolmente dall’aeroplano.

-Ehi? William, dico a te!-

Una giovane donna  gli si fece vicino, per andarsi  a sedere sulle sue ginocchia.

-Come dicevi, Fred?-

-Ehi, ma lo sai che non puoi permetterti di sognare quando sei a lavoro!-lo rimproverò bonariamente quella.

-Peccato che io sia SEMPRE a lavoro!-sbuffò, visibilmente seccato, alzandosi bruscamente dalla poltrona imbottita dell’elegante salotto.

La ragazza per poco non scivolò sui tacchi, frenati dalla moquette giallo scuro e, stirandosi  la gonna del tailleur leggero con una mano, mostrò a William delle cartellette:

-Ma che cavolo! Stavi per farmi inciampare, qui davanti a tutti i clienti !-sussurò con la voce necessaria perché solo lui sentisse e, poi, continuò, dimenticando il tono acido di prima:

-Questi sono i fax del mese prossimo: ci sono molte prenotazioni…non so se riusciremo ad accoglierli tutti…-

William a quella considerazione tornò a concentrarsi sul proprio lavoro, prese le cartellette dalle mani  di Fred e si ritirò nel suo ufficio, chiudendo rumorosamente la porta dietro di sé.

-Accidenti…se non arrivano in tempo gli arredi per le nuove camere…ma quante prenotazioni hanno preso alla reception? Fred sa del ritardo della ditta… -

William si mise in fretta al computer controllando più volte le camere riservate per il mese successivo, senza poter trovare altra soluzione che quella di andare personalmente a prendersi quei dannati mobili dal fornitore.

-Non posso fare diversamente: dove metto tutta  questa gente, altrimenti?-

Si sorprese a fissare la sua immagine riflessa dal monitor: vide un uomo assorbito completamente dai suoi affari, affari che gli andavano benissimo, ma ai quali non aveva alcuna voglia di sottrarsi, per  nessun motivo, in modo da non doversi occupare di altre questioni…le quali, al contrario, solo agli altri,  parevano andare altrettanto bene. E qui si trovò ad analizzare la sua duratura e felice relazione con la bella Fred.

Quando lo avevo lasciato, non aveva perso tempo. Non aveva mai perso tempo, ogni volta che c’eravamo lasciati.

Tra una rottura e l’altra, mentre io mi flagellavo con il senso di colpa e gli antidepressivi, lui soffriva in silenzio, scopandosi, in storie di poco più di due o tre notti, qualunque ragazza gli paresse attraente; a conti fatti, William si era dato di gran lunga più da fare di me…ma io restavo il carnefice e lui la vittima. Con la differenza, però, che lui non aver ferito nessuno, nemmeno quelle ragazze con cui era stato a letto un’unica notte. Era nella sua natura: non sapeva giocare sporco con i sentimenti delle persone, non era capace di approfittarsi delle debolezze altrui. Chiariva le cose fin da subito, offrendo buon sesso, senza complicazioni successive. ‘Buon sesso’, per lo meno, ra quello che io speravo: la verità era che, a letto, William era di una fantasia sfrenata, un amante premuroso e accorto, insaziabile e indomabile….solo che io volevo credere che lo fosse stato solo con me, che alle altre avesse offerto ‘buon sesso’, appunto e non anche ‘quel sesso’, non riconducibile ad alcun aggettivo qualificativo, che avevamo fatto insieme.

Poi aveva conosciuto Fred e…. William era un “buono” per natura: Fred era ben poca cosa rispetto ad alcune delle passate avventure, come Darla ad esempio, sensuale insegnante di liceo, di molti anni più grande di lui o come la raggiante Drusilla, di una femminilità non comune, tuttavia, la povera Fred era appena uscita da una storia finita male e William non aveva mai smesso di soffrire per me…bla bla bla….

Insomma, Fred era riuscita a mettergli il cappio al collo, con le moine e con la sua aria indifesa e innocente. William la proteggeva con amore e premura dal resto del mondo, come un fiore raro, di una purezza perduta… proprio come aveva fatto con me, i primi anni della nostra storia. E lui lo sapeva. William conosceva se  stesso: sapeva in ogni preciso momento cosa provava e cosa fingeva di provare, senza mai confondere finzione e realtà. Si era messo con lei perché aveva trovato qualcosa di me: qualcosa della Buffy che ero stata e della quale si era innamorato per sempre.

Anche adesso, dopo quattro anni  di separazione, in cui solo pochi giorni fa, per la prima volta da quando lo avevo lasciato, aveva avuto occasione per parlarmi, il suo dolore e l’umiliazione potevano impedirgli di respirare, se si soffermava a pensare a noi.

-Dolore e umiliazione….-sussurò al monitor, sui cui si alternavano le foto di Fred, che lei aveva impostato come screensaver, il primo giorno in cui era stata assunta nell’Hotel di William.

-Dolore? – Fred fece capolino nell’ufficio, intromettendosi allegramente nella malinconia di lui –Dolore per che cosa? Stai male, tesoro?-cinguettò, scivolando al suo tavolo con fare apprensivo.

-Uh?- William si voltò crucciato, ma lei non colse i brutti pensieri del fidanzato e, anzi, continuò:

-E’ tanto che ti dico di rip…-

-No, Fred. Non sto male. Mi riferivo a quello che mi  faranno i clienti che hanno già inviato la caparra confirmatoria per il mese prossimo, quando si ritroveranno a dormire per terra!-

-Ohhh….già…che  si fa?-

-Andrò a prendere quei maledetti mobili! Ecco che si fa.-

-WoW!- Fred gli saltò sulle ginocchia, rovesciando la pila di fogli sulla scrivania:

-Bene! Avevo proprio voglia di fare un po’ di shopping a Los Angeles!- squittì strofinandoglisi addosso.

-No…ehmm.- William, senza accorgersene, la allontanò gentilmente, facendola imbronciare:

-No, amore…-non sapeva esattamente la ragione, ma aveva già deciso che a prendersi i suoi arredi sarebbe andato solo.

 -No,Amore- continuò, coccolandola con carezze e buffetti rassicuranti- Ho bisogno che tu resti qui in Hotel, sai che i dipendenti hanno sempre bisogno della supervisone del titolare per far bene il proprio lavoro…o di qualcuno che ne faccia le veci…e tu…ehm…sei la mia fidanzata…per cui…chi meglio di te….-

William si dispiaceva di quelle menzogne messe in fila una dietro l’altra, ma non desiderava la vicinanza di Fred. Averla assunta, re anni fa, a  lavorare alla reception del suo Hotel era stato un gesto impulsivo e anche molto egoistico, dato che lui ben conosceva il motivo di quella scelta improvvisa. Avere intorno Fred tutto il giorno lo avrebbe distratto dal pensare a me; infatti i primi mesi funzionò come piacevole diversivo… vanificato non appena lei lo lasciava solo e, pian piano, del tutto inutile anche in sua presenza, fino a diventargli fastidioso.

-Capisco…-annuì docilmente e, senza far nulla per nascondere la sua tristezza, uscì dal suo ufficio, lasciandolo, da subito, impegnato a preparare la partenza.

A due ore di volo, l’aereo su cui Dawn ed io viaggiavamo incontrò le prime avvisaglie di turbolenza e la voce metallica del comandante ci raggiunse:

-Siamo spiacenti di avvisare i signori passeggeri che, a causa del maltempo, l’aereo atterrerà all’aeroporto di Santa Barbara e il volo terminerà. La compagnia di volo avrà cura di rimborsare i signori passeggeri e avrà cura di garantire nel suddetto aeroporto ogni servizio aggiuntivo e alternativo per raggiungere Los Angeles. Ci scusiam……-

-No! Questa non ci voleva!- imprecai, battendo i pugni sul sedile di fronte al mio,  voltandomi verso Dawn per cercare conferma della mia animosità.

-…..sei proprio ansiosa di tornare a Los Angeles…-sibilò lei, senza distogliere lo sguardo dal finestrino.

-Cert..si…tu no, a quanto vedo…-abbassai i toni della conversazione e mi misi a pensare ad una possibile soluzione per arrivare a casa il prima possibile.

-Immagino che non veda l’ora di tornare da Angel…- Dawn mi fulminò con gli occhi, per posarli poi di nuovo sul finestrino.

-Non capisco il tuo sarcasmo…però, si! Non vedo l’ora di vederlo…lo trovi tanto strano?- ringhiai tra i denti, per non farmi sentire dagli altri passeggeri vicini.

-Ah, no ! Ci credo, invece! Quello che mi domando è il perché di tutta questa tua dipendenza da lui!-

Le parole di mia sorella si aprirono un varco nel mio cervello, ponendo tutte le mie energie sulla linea difensiva:

-IO amo Angel, ecco il motivo. Tu non sai ancora cosa significhi am …-

-Ohh….lo ami tanto che devi giustificarlo davanti alla tua sorellina quindicenne ‘che non sa ancora cosa significhi’….-

Il discorso morì lì. Dawn era veramente troppo cresciuta ed io non ero preparata ad affrontare lei e la sua psicoanalisi fulminante di teenager, che crede ciecamente nel grande amore. Meglio per me tacere e trovare una soluzione veloce per portare il culo sulla poltrona di velluto verde del mio modesto appartamento da neolaureata. Chissà se in frigo avevo lasciato delle birre? Ne avevo bisogno per sopportare mia sorella.

 

Capitolo 5.

William lasciò l’Hotel in tutta fretta, baciando rapidamente Fred sulla fronte e promettendole telefonate e regali da Los Angeles, per correre a casa e preparare qualcosa che somigliasse ad una valigia.

Partì immediatamente, saltando sulla sua fedele Desoto, sempre pronta in garage con il pieno di benzina e sfavillante come uno Swaroski.

-Svegliati, piccola…- disse ad alta voce, battendo la mano sul cofano –Avremo molto da fare nel posto dove mi porterai….- continuò, aprendo lo sportello con fare teatrale.

William poteva quasi credere di sentire la Desoto rispondere, tanto erano in simbiosi l’uomo e la macchina: e se questa avesse potuto parlare! Ne avrebbe avute cose da dire e da svelare….

Si mise al volante, sereno e finalmente rilassato, con una piccola bottiglia di Bourbon nel vano portaoggetti, casomai ci fosse stata un’emergenza…tipo una gelata o una grandinata in California…si sa, quanto possano essere frequenti in quelle zone! Ad ogni modo,se anche l’avesse trangugiata tutta d’un sorso,non sarebbe stato un problema: ce ne voleva di Bourbon per vederlo ubriaco!

L’ultima volta che aveva bevuto era stata la notte in cui c’eravamo detti addio: proprio a Los Angeles. William mi aveva raggiunto per il weekend, sapendo quanto bisogno avessi di lui in quel periodo, quello che non poteva immaginare era che avessi deciso di tagliarlo fuori dalla mia vita, nel preciso momento in cui cercavamo di superare la crisi nel nostro rapporto. Avevo iniziato da molto a stare male, trascorrendo pomeriggi interi sotto le coperte, a piangere sui miei sbagli. A piangere sulla generosità di William e sul suo perdono che io non meritavo. William era uno che avrebbe amato una sola volta nella vita. Ed io credevo che non avrei amato mai, se ero stata capace di tradirlo, intenzionalmente, di ferirlo, disprezzando quel cuore puro che mi aveva donato, senza chiedermi nulla in cambio. Decisi di lasciarlo perché non ero degna di lui, del suo amore, mi sentivo inferiore a quel sentimento. Lasciarlo, per me, era una sorta di riscatto e, nello stesso tempo, di punizione eterna. Sapevo, infatti, che io non avrei permesso mai a nessuno di prendere il suo posto.

Quella notte si era ubriacato fino a star male e, se non fosse stato per l’aiuto di Oz, avrebbe addirittura rischiato il coma. Ma non gli importava, perché non ragionava più: aveva smesso di cercare soluzioni e spiegazioni quando ero scesa dalla sua auto piangendo, salutandolo per sempre.

William aveva lottato a lungo per la nostra storia, credendoci fino in fondo, credendo in me e in noi , di gran lunga più di quanto lo avessi fatto io, che mi ero data per sconfitta nel mezzo della nostra battaglia.

Combattemmo prima contro i miei inaspettati problemi in famiglia: quando mio padre, che amavo infinitamente, mi disse che non sarei mai stata  capace di portare a termine gli studi, che non ne avevo le capacità ed ero una perdente nata. Non avrebbe dovuto importarmi, avrei dovuto continuare il college pensando solo a me stessa e al mio obiettivo, invece, mi lascia convincere del mio fallimento.

Ero sempre stata una ragazza coraggiosa e all’altezza di ogni situazione, agendo sempre in nome di ciò che era giusto, al liceo,a casa…con gli amici…sempre!

Ma quando l’appoggio di mio padre mi venne a mancare definitivamente e lui partì parti per la Spagna, o non so dove, con la sua segretaria o la sua assistente o con entrambe, mi sentii messa da parte senza motivo, immeritatamente derisa e maltrattata.

Per me fu terribile e fu l’inizio della fine.

Poi vennero le incomprensioni con William e, solo quando oramai era troppo tardi, capii di aver dato ad esse troppa importanza; incapace di dedicarmi al nostro amore, smisi di credere che l’amore fosse mai esisto. Se mio padre mi disprezzava, invece di amarmi incondizionatamente, come ogni genitore fa con i figli…come potevo credere nella forza dell’amore di un altro uomo? Smisi di credere in papà. Smisi di credere in William, che si ritrovò a lottare da solo per salvare un rapporto del quale, a quel punto volevo solo liberarmi.

Lui era rimasto la persona speciale di cui mi ero innamorata, mentre io stavo lentamente diventando un essere spregevole ed egoista, infido. Volevo dimostrare di essere la cattiva figlia che mio padre mi reputava, pian piano, mi cancellai come persona, annientando i tratti più deboli del mio carattere, di modo che, né mia  madre, né gli amici più cari, né il ragazzo che amavo, riconoscessero la mia dolcezza e la mia indole gentile e premurosa.  Assecondai gli impulsi che sapevo sbagliati, andando contro,  in certe scelte, anche a ciò che il mio corpo, intimamente, chiedeva, intenzionalmente sorda alla vocina che, in me, si faceva sempre più flebile e lontana. Non dico di non aver desiderato Riley, di non aver voluto fare sesso con lui, mentirei ancora, così facendo; dico solo che mi feci scopare pensando di stupire, anzi, di più, di sconvolgere, le persone che mi volevano bene, dimostrando loro, chi era la piccola Buffy. Oggi, mi ucciderei per ciò che ho fatto. Solo per aver fatto del male a William, per quello morirei in ogni momento. Del resto, non mi importò mai di quello che, dopo, Riley ebbe da raccontare su di me, né di come di pavoneggiava Parker. Ripensando, a quanto William soffrì… per ciò solo meriterei la morte.

A nulla erano serviti i suoi disperati tentativi di convincermi del mio valore e delle mie capacità: e più William mi ripeteva di amarmi senza riserve, più io mi allontanavo da lui, inesorabilmente, certa di non essere all’altezza di quel sentimento. Anche dopo averlo barbaramente ferito e umiliato, davanti a mezza Sunnydale, lui continuava ad amarmi e, soprattutto, ad avere il coraggio e la dignità di dimostrarmelo. E io? Non potevo che fuggire e nascondere la sua  Buffy in un luogo dove più nessuno l’avrebbe trovata.

Ripensandoci anche ora,  a distanza di tanto tempo, in una autostrada deserta che lo avrebbe di nuovo condotto in quella città….William non potè non sentire un peso in gola, che gli impediva di deglutire .

Arraffò la bottiglietta argentata e ne bevve alcuni sorsi. Inspirò profondamente. Una, due volte. Poi si accorse che alla radio trasmettevano litanie cristiane da almeno mezz’ora e si stupì di non essersene accorto prima.

Allungò la mano e, non senza imprecare, si mise ad armeggiare con le frequenze.

La radio sembrava esattamente sapere di cosa William non avesse bisogno… di quella vecchia canzone, che nessuna emittente trasmetteva più da chissà quanto tempo, ma che quella volta, stava precisamente, un tasto “search” più avanti:

 

No New Year's Day to celebrate
No chocolate covered candy hearts to give away
No first of spring
No song to sing
In fact here's just another ordinary day

No April rain
No flowers bloom
No wedding Saturday within the month of June
But what it is, is something true
Made up of these three words that I must say to you

I just called to say I love you
I just called to say how much I care
I just called to say I love you
And I mean it from the bottom of my heart

No summer's high
No warm July
No harvest moon to light one tender August night
No autumn breeze
No falling leaves
Not even time for birds to fly to southern skies

No Libra sun
No Halloween
No giving thanks to all the Christmas joy you bring
But what it is, though old so new
To fill your heart like no three words could ever do

I just called to say I love you
I just called to say how much I care, I do
I just called to say I love you
And I mean it from the bottom of my heart

I just called to say I love you
I just called to say how much I care, I do
I just called to say I love you
And I mean it from the bottom of my heart, of my heart,
of my heart

I just called to say I love you
I just called to say how much I care, I do
I just called to say I love you
And I mean it from the bottom of my heart, of my heart,
baby of my heart

 

 

(I just called to say I love you-by Stevie Wonder)

 

La musica era dolcissima e malinconica, intensa, una melodia che arriva dritta a toccare il cuore.  Quante volte, aveva avuto la tentazione di alzare il telefono.. quante volte io lo avevo fatto… troppe volte, avevamo riagganciato il ricevitore.

E quella canzone, suonava l’ hi-fi nella mansarda della sua casa, a Sunnydale, la prima volta che facemmo l’amore.

 

Intanto, all’aeroporto di Santa Barbara, regnava il caos più assoluto e i passeggeri erano furibondi per i ritardi e i voli cancellati.

-Altro che servizi aggiuntivi!- sbraitavo io, agitandomi su e giù per tutti i box informazioni –Non c’è un posto sui treni o uno stupido autobus libero che ci porti a  casa, prima di domani a mezzogiorno!-

Dawn se ne stava accovacciata vicino ai bagagli, apatica, giocherellando con il lucchetto della valigia, senza degnarmi della minima considerazione.

Infine, mi rivolse la parola ,più per la noia di sentire i miei lamenti, che per quella di passare le ore in aeroporto:

-Senti, dato che hai tutta questa urgenza….perché non noleggi una macchina? Se non altro, in un’ora e mezzo…ehm..DUE ore e mezza, considerando la tua velocità di crociera al volante…saremo a casa e non sarò più costretta a sopportare i tuoi uggiosi strilli.-

Dawn confermava il suo acume. Ma come la mettevamo con la mia celeberrima ‘abilità’ di pilota?

-…..- mi trovò senza risposta pronta e –Accidenti!- la cosa capitava sempre più di frequente.

-Ehm…-mi feci coraggio–Dawn,i o non ho molta dimestichezza con le automobili…-

-Mi ricordo. Hai preso quella della mamma solo una volta a Sunnydale e…gliene hai riportata solo la metà in garage….tuttavia… date le circostanze…fatti un ripasso mentale del manuale di guida e prenota un’auto, prima che non se ne trovi più una disponibile.-

Di malavoglia, ascoltai la saggia quindicenne.

Erano quasi le una del mattino, quando, finalmente, potemmo avere la nostra piccola utilitaria a noleggio. Il viaggio inizio in apparente scioltezza, facevo del mio meglio per sembrare rilassata tuttavia, dopo una mezz’ora di marcia, cominciai ad avvertire un leggero senso di nausea e a sudare freddo.

-Buffy? Che hai? Stai male?- Dawn se accorse subito, perché aprii di colpo tutti i finestrini, nonostante ci trovassimo in autostrada.

-Non mi sento molto  bene….ho il mal d’aria…- farfuglia alla rinfusa, iperventilando.

-Che hai? Ma Buffy! Siamo scese dall’aereo 10 ore fa! Dì piuttosto che la tua guida fa venire il mal d’auto anche a te che sei al volante!-

-Ti prego, Dawn..non adesso….-

-Ok. OK. Scusa… ecco! Guarda: i segnali indicano una stazione di servizio ed un ristorante ad un paio di chilometri…cerca di resistere…-

-..ri…ri? R.i.s.t.o.r.a.n.t.e??? Oddio, sto per vomitare….-

-No…Buffy…no…. distrai la mente da questa idea…ecco: ascoltiamo la radio! Che ne dici? Uuuuhhhh…senti che bella questa canzone…..-

 

Al malessere di aggiunse un moto di rabbia. Perché proprio adesso?  Non stavo già abbastanza male? Quella musica suonava per me e voleva riportarmi indietro nel tempo, in un’altra vita. Nell’unica vita che meritasse di essere vissuta.

Colpii il volante con tutta la forza che avevo e urlai, per il forte dolore alla mano, stringendomela al ventre, subito dopo, mentre gli occhi si bagnavano di  piccolissime lacrime.

Spensi la radio alla meglio, con l’altra mano, lasciando per un secondo lo sterzo libero.

Dawn, non disse una parola. Aveva un buon intuito, mia sorella.

 

Giunti all’area  di servizio, scesi dalla macchina praticamente ancora in corsa e tornai a respirare, camminando in su e giù per il parcheggio semi vuoto del bar.

-Va meglio, non è vero? Vai a sciacquarti il viso…io resto qui a dare un’occhiata all’auto…non vorrei doverla pagare per nuova al tipo del rent….-

-Ok..vado…ti prometto che saremo a LA in ora…-

-Ma hai una fissazione? Vai vai…non c’è fretta.- e mi spinse per la schiena verso l’ingresso illuminato del piccolo ristorante, poi tornò al parco macchine, a gironzolare  tra le poche vetture in sosta.

-Oh..oh…santa merda! Non ci credo…-gli occhi, già enormi, di Dawn divennero ancora più grandi e il sorriso si fermò, perché si imbatté nel lobo delle orecchie.

 

La nausea mi era passata, per fortuna, dato a quell’ora trovai la toilette era chiusa per turno di pulizia, tuttavia sentivo la necessità di rinfrescarmi e, di soppiatto, scivolai sotto il bancone del bar, per infilarmi nel bagno di servizio con la naturalezza di Lupin.

Aprii la porticina di legno chiaro e mi ritrovai in un piccolissimo antibagno di appena un metro quadro, dove stavano solamente un minuscolo lavandino ed un attaccapanni, con uno specchio che occupava tutta la parete anitstante, forse per dare l’illusione di ingrandire lo spazietto angusto.

Era tanto stretto che, entrando con la grazia di un gatto delle nevi, feci cadere sul pavimento la giacca che vi era appesa. L’aria fu smossa dall’indumento che cadeva, sollevando un profumo a me molto familiare.

Il cuore dovette riconoscerlo prima del mio naso, dato che il battito accelerò pesantemente, ancora prima che mi chinassi per raccoglielo.

Era un morbido spolverino di pelle nera.

In quel momento la porta del bagno si aprì.

Non credevamo ai nostri occhi. Non c’era nessuna parola che potessimo dire.

Solo un sorriso, lentamente lentamente, parlò per entrambi.

William, con un passo, mi fu sul viso e lo sentii tremare. Credevamo fosse uno dei nostri sogni, sarebbe andato bene anche uno di quelli ad occhi aperti…. e comunque, poco ci importò.

Cosa c’era fuori dalla porta?

Oh,sì…l’oceano in tempesta …..e il mare, calmo e languido, prima del temporale.

No. C’era un bosco incantato. Uno di quelli che ci inghiottono, dalle pagine di un libro di fiabe.

No. No, c’era una distesa di colori.

O Los Angeles  illuminata?

Sunnydale?

Le mani imploravano di intrecciarsi con quelle dell’altro, mancava solo un contatto tra i corpi. perché l’amore che ci aveva unito, tanto intensamente e tanto a lungo, già aveva raccolto nella gemma di un fiore le nostre anime in pena e lenito di infinite carezze le cicatrici, gelosamente nascoste e negate, dei nostri due cuori.

 

 

Capitolo 5. –seconda parte-

 

Allungò le dita sul mio viso e mi baciò, senza crederci forse fino in fondo, ma senza esitazione ed io dovetti sforzarmi di reggermi sulle gambe.

Sapevo, anzi, sapevamo, quanto fosse sbagliato, eppure mai  tanto bello e giusto ci sembrò sbagliare. La cosa più assurda fu che i sensi di colpa. che mi avevano attanagliato per anni le giornate, furono vinti da quei baci, proprio quando avrebbero, al contrario, dovuto pungermi maggiormente e impedirmi di lasciarmi andare.

William udì, come sempre, i tormenti latenti della mia anima e mi strinse a sé nel suo abbraccio più pieno, come solo lui riusciva a prendermi, avvolgendo la mia schiena con le braccia e su, fino alle sue spalle, cingendomi di calma e sicurezza, dai fianchi alla nuca.

E quei pensieri furono come gli ultimi colpi di coda di un pesce, tirato sulla barca nella rete di un pescatore, perché, non appena le mie labbra sentirono le carezze della lingua di lui, la testa si immerse in una nebbia  voluttuosa, del sapore del miele e, finalmente, smisi di pensare.

Mi spinse contro lo specchio e distese le mie braccia sopra la mia testa, lasciandomi rabbrividire al contatto con il vetro, affogò il volto sul seno inspirando profondamente, con un sollievo agognato da tempo, lo sentii dissetarsi i sensi del mio odore e riconobbi la felicità.

Tornò a guardare i miei occhi. Vi lesse paura e desiderio ma, comunque, il suo nome. Afferrò i miei seni, riempiendone  le mani con impeto e disperazione, quasi sollevandomi da terra:

-…aaahhh…-soffocai un grido di dolore, tra i denti.

-Buffy….-William pregava di non perdere il controllo.

Gli accarezzai i capelli e la nuca, con calma,e tremammo insieme, per la paura che volessi tirarmi indietro. Allora premetti il suo viso sul mio, perché continuasse a baciarmi ma lui fece di più: si avventò sulla mia gonna, strappandone le cuciture in alcuni punti, per fermarla malamente sui miei fianchi….. mi fissò un attimò, con il blu scuro del cucciolo arrabbiato e, poi, spinse forte il bacino contro il mio, strofinandosi con tanta pressione sulla mia femminilità, da farmi male.

-Facciamo l’amore ….- sembrava una supplica, dal tono sommesso con cui lo disse, ma io non avevo mai dimenticato i suoi ordini.

Mi sfilai gli slip sotto il suo sguardo ed essi caddero mollemente sulle mattonelle. Abbassai le palpebre perché, nell’oscurità della vista, potessi meglio affinare l’udito e non lasciar passare inosservato il rumore sordo della cintura che le sue mani stavano aprendo, mosse dall’ansia e dall’eccitazione. Adoravo sentire quel rumore che preludeva alla vista della sua incontenibile virilità, lo scorrere freddo e rapido della cerniera dei jeans: quello era l’istante che preferivo e che mi travolgeva di fantasie irraccontabili, che avrei condiviso  solo con  lui.

Avvertii la sommità tesa del suo membro scorrere tra le mie gambe, già dischiuse per lui.

-No.- fu un gesto istintivo e goffo, ma efficace.

Allontanai William da me e mi strinsi nelle braccia, cercando riparo in un angolo della parete.

-No. No…non di nuovo. Non voglio essere una puttana per te.-

William divenne serio e di nuovo lucido.

-Non lo sai mai stata .-

Lo guardai grata e, adorante, accennai un sorriso, anche se a lui sembrò solo tanta tristezza.

-Grazie. Ma sappiamo entrambi che non è vero.-gli occhi erano velati di lacrime.

-No, amore. Io non ho mai pensato questo di te.-

Dal tono delle sue parole e dal modo in cui mi guardava, capivo che pensava veramente quello che mi diceva, tuttavia io mi sentivo comunque una puttana.

-Ma lo sono stata, William. Tu mi amavi e io ti ho tradito. Tu hai cercato di perdonarmi e io ti ho tradito una seconda volta.-

-Buffy… è stata colpa di tutti e due.- mi si fece vicino e raccolse le mie guance umide nel palmo delle mani, cercando la sua Buffy nei miei occhi stanchi.

-Si, forse…ma tu hai sofferto troppo per me…e io non meritavo tanto amore…io sono …io sono….cattiva …e sbagliata e…ti ho usato…mi sono approfittata di te, del tuo amore, della tua devozione…. per umiliarti ….-

-Il passato è passato….ed io ho le spalle larghe, amore. Tu, a quanto posso vedere, non hai sofferto meno di me.-

William si stava di nuovo lasciando andare, in un altro senso, certo….ma che non avrebbe comportato conseguenze meno gravi, se non avesse ripreso in mano la situazione immediatamente.

Prima di dire tre parole di troppo.

Tre piccole paroline, lettere innocenti e vaghe, che avrebbero potuto rivoltare in men che non si dica la vita di tutti.

Così non furono dette.

-Buffy, ascolta… io ti ho perdonato. Ora sta a te smettere di soffrire e vivere serenamente quello che la vita ha da offrirti.- William si stava rivestendo, voltandomi le spalle, adesso, tornando a sbattermi in faccia la sua perpetua consapevolezza, senza peli sulla lingua, con una semplicità e un distacco da farmi urlare.

-……-rimasi in silenzio, mentre dentro di me gridavano voci di dolore e rabbia, perché stavo per far l’amore con lui…perché mi ero fermata….perché avevo tradito Angel…perché William mi sputava in faccia la sua razionalità e la sua superiorità emotiva.

-Dimentichiamo l’accaduto… in fondo non è successo niente…-afferrò il suo spolverino dall’attaccapanni, circondandomi con il suo profumo e, dopo un veloce sorriso, senza incontrare il mio sguardo, scivolò via dal bagno, salutandomi di spalle ,con  un cenno della mano.

 

William, a grandi passi, fu fuori dal locale quando le luci si riaccendevano per accogliere le frotte di automobilisti che, di lì a poco, si sarebbero fermati per le prime colazioni. Travolse quasi la porta, era così di fretta che la fotocellula non ne azionò per tempo l’apertura.  Sul marciapiede, si accese una sigaretta e si affrettò verso la Desoto, parcheggiata poco distante.

Un attimo dopo schiacciava l’acceleratore al massimo, lungo l’autostrada per Los Angeles, maledicendo quei dannati mobili che mancavano alle camere del suo Hotel.

Dawn mi vede arrivare a passo lento, oscillare accanto alla nostra utilitaria, quasi inciampando sui piedi:

-Buffy…- mia sorella non mi domandò niente, anche se capiva che il mal d’auto era passato, mentre il male che sentivo in quel momento, forse, non sarebbe passato mai.

Il sole stava sorgendo dietro le colline di Beverly Hills, quando aprii le finestre del mio appartamento nel  centro della città, già caotico e colorato.

-Se faccio in fretta, riesco ad essere in ufficio prima che Willow vada in tribunale per sostituirmi oggi.-

Dawn gironzolava curiosando per la casa, cercando di sistemare le sue cose, senza badare troppo a me.

-Dawn? Capito? Pensi di poter cavartela da sola ? Non conosci la città…-

-Mmhh, mmmhhh…-Dawn annuì semplicemente, per nulla preoccupata di come impegnare la giornata .

-Tu, piuttosto…non hai bisogno di dormire?…-osò lei, sondando la mia reazione, per carpire qualcosa di vero del mio stato d’animo.

-Oh..beh, per dormire …c’è stanotte…adesso è meglio che vado allo studio, Giles avrà un sacco di lavoro arretrato da farmi svolgere…-

Le sorrisi velocemente, per sparire sotto la doccia, ero stremata e confusa …non ero assolutamente pronta per rimettermi subito a far finta di essere felice.

Tornai in ufficio, la montagna di nuovi atti di citazione mi attendeva puntuale sull’archivio arrugginito di Giles e io fui sollevata da una tale mole di lavoro che avrebbe catturato tutte le mie energie per i giorni avvenire.

Quello che non potevo aver calcolato era di vedere una Willow, rossa in volto molto più che nei capelli, strisciare nel mio ufficio, balbettante dal guaio che mi portava:

-Buffy….-fece lei, piano.

-Uh?-

-…Buffy….-biascicò, ancor più piano.

-Eh, che c’è?-

-Buffy….-credevo stesse per svenire dal modo in cui sudava.

-Dimmi, Willow….-

-Oz…-

-Oz?… ‘Oz’, COSA?- cominciai a sudare anche io, inspiegabilmente.

-Oz ospita William.- disse con un filo di voce, nascondendosi nella camicetta.

Mi lasciai cadere sulla sedia: stavo per implodere.

 

Capitolo 6.

-Prima la ammazzo !….poi la salvo…- ringhiò, armeggiando con la chiave nella serratura blindata.

-NO!- si corresse, fermando la mano sulla porta.

-Prima la salvo!… e poi la AMMAZZO!- rimarcò con forza, quasi troncando la chiave per il  gesto rabbioso.

La porta cigolando un poco si spalancò, aperta senza difficoltà dal suo interno.

-Ehi, amico! Vacci piano: l’appartamento non è mio e nemmeno la porta…-

Oz, flemmatico e palesemente assonnato, apparve a William sulla soglia con indosso ancora pantofole e pigiama.

Il volto  già teso di William si contrasse assai di più, in una smorfia di incredulità e disgusto insieme:

-Che diavolo?…. Oz! Da quando ti piacciono le pantofole a forma di lupo? –

Oz restò impassibile ad attendere che l’amico si decidesse ad entrare in casa.

-Diavolo! Ma anche sul tuo pigiama ci sono tanti lupetti disegnati!- il bel viso di William appariva deformato dallo stupore e dallo sdegno per quella che, a lui , pareva una mortificazione della virilità.

-Willow….- si limitò a dire l’altro, stringendosi appena nelle spalle.

-Dio mio!- gridò, facendo ingresso, con un solo allungato passo, nel piccolo tinello e lanciando la sua borsa di là dalla porta della camera che un tempo era stata la sua.

-Willow? Dannate donne! Oz: se non reagisci ti porterà a passeggio con il guinzaglio! Comprale un cucciolo! Dove fai colazione? Nella ciotola che ti  ha regalato Willow?-

-….mmhhh…-Oz temeva che William non stesse esagerando, ma tentò di  minimizzare: _no…è che, sai…Willow mi ha dato molti nomignoli…e ha una fissa per ‘lupacchiotto’…non so spiegarmela nemmeno io…-

Pensieroso per gli ammonimenti di William, lo raggiunse nella grande cucina di legno chiaro e sedette al tavolo, ancora apparecchiato dalla sera precedente.

-Beh?- adesso era il suo turno di fare le domande – Allora, Spike? Chi è volevi ammazzare prima? Quello che ha fatto la serratura di casa?-

-….no.. che? Nessuno, Oz…pensavo ad alta voce…-

-Oohh….capisco. E ‘alta voce’ sarebbe il nomignolo di Buffy?-

Centrato. Maledettamente in pieno.

William inspirò profondamente e si tolse la giacca, accennando alla caffettiera sul fuoco.

-E’ da parecchio che qualcuno non mi chiamava Spike.-

-Che vuoi farci, Spike: anche se adesso sei un illustre albergatore di lusso, per me resti sempre la solita testa matta con cui condividevo l’appartamento al college.-

Oz era disarmante nella sua semplicità  espressiva. Si somigliavano un po’ quei due: parlavano solo lo stretto necessario per sbattere in faccia agli altri che avevano ragione loro. Ma con una differenza notevole: Oz seguiva sempre l’istinto, come un animale selvatico, guidato dallo spirito di sopravvivenza, William, invece, si sforzava di agire per il meglio, mettendo da parte, troppo spesso, i suoi bisogni e la sua vera natura.

Ad ogni modo, i capivano a meraviglia, legati da una lunga amicizia che risaliva agli anni del Sunnydale High, quando ancora il vecchio e numeroso gruppo di amici inseparabili era unito e innocente.

Anche William si era iscritto al college, a Los Angeles, alla facoltà di Economia, frequentando i corsi per due meravigliosi anni, trascorsi con Oz, Willow e con me.

-Testa matta?- ripetè, allibito William, accennando ad Oz un sorriso.

-Ok. Ho pensato ad un’ ALTRA testa , ma sei appena arrivato e non volevo iniziare ad offenderti da subito…-

-Ah, bene, ora ti riconosco…sai pensavo che le babbucce a forma di lupetto ti avessero accorciato quello che hai in mezzo alle gambe!-

E giù, a ridere, davanti ad un caffè disgustoso, come ai vecchi tempi.

-Allora…quali sono i tuoi programmi, Spike?-

-Hai fretta di mandarmi via? O hai paura che io possa sentire il latrare delle tue notti amorose con la rossa? Oh, come sta quella strega?-

-Bene. Willow sta benone e le cose tra noi vanno sempre meglio. Mi sa che, presto o tardi, dovrò decidermi a chiederglielo…-

A quelle parole, il sorriso di William si spense. Aveva sempre pensato che i primi a sposarsi saremmo stati noi due e invece….le cose erano andate in maniera tanto diversa….

-E tu?- provò Oz, sornione, per niente placido e indifferente come appariva, sapeva benissimo dove voleva andare a parare –Quando sposerai la bella Fred? Ormai è un bel po’ che siete fidanzati e già lavorate insieme da tempo…-

-Fan’culo Oz. Non usare questi giochetti con me. Se vuoi farmi una domanda, fammela e lasciati mandare a farti fottere, se non vorrò risponderti.-

-Ok, per me è lo stesso.-disse, serafico, scolandosi la tazza di caffè- Buffy? Vi siete visti al funerale di Joyce. Beh?-

-Willow non te l’ha detto?-

-Che cosa?-

-Cosa è accaduto al cimitero.-

-No. Buffy non si apre con lei più come faceva quando voi due stavate insieme. Buffy…non credo che si confidi più con nessuno. E’ sempre spaventata quando i discorsi si fanno più seri e fugge perfino gli sguardi diretti. Spike, Buffy è cambiata parecchio.-

-No. Non è cambiata affatto. Ha solo paura, su questo hai ragione.-

-E di cosa dovrebbe aver paura? Degli amici? Naaaa….-

-Anche. Ha paura della sua nuova vita. E vive di questa paura. Tirando su una vita che non vuole o di cui , comunque, non è convinta.-

-Sembra che tu e lei abbiate parlato a lungo al cimitero…-

-No. Mi ha detto appena due o tre parole.-

William alzò la testa e fissò l’amico a lungo, senza aggiungere altro.

-Capisco.- fece Oz e anche il suo viso, sempre disteso e sereno, si oscurò- Willow ed io lo sospettavamo…-

-Ad ogni modo….- riprese William, cambiando discorso- Sono qui per prendere dei mobili per l’Hotel, un ordine saltato a cui rimediare velocemente, uno o due giorni, amico e poi tolgo il disturbo. Prima me ne vado e meglio sarà per me. Ah, a proposito, devo telefonare a Fred, a quest’ora sarà già in albergo.-

 

Willow mi confortò con uno acquoso espresso  della macchina da caffè dello studio, lo bevvi per miracolo, inchiodata alla mia sedia con lo sguardo perso in un punto indefinito.

-Buffy…dai …non esagerare…io io….io te l’ho detto perché Oz me lo ha detto ierisera…ma…io…mica vi dovete incontrare per forza…Los Angeles non è Sunnydale.- da bravo avvocato, Willow vagava per argomentazioni inconfutabili e ridicole al contempo, cercando di risollevarmi dallo stato apatico in cui mi trovavo.

Parlava a fin di bene, ma come poteva capire? Tutti i miei fottutissimi giorni passati ad arrampicarmi su una parete rocciosa, verticale e scivolosa, fatta di tutto il lavoro che il mio fisico poteva sopportare, fatta di autopersuasione amorosa, in un rapporto con una persona che non mi conosceva affatto, tagliente pietra di una scogliera di menzogne, a me stessa e agli altri, che spaccava le mani e lacerava la mente, per non precipitare nel dolore del mio perduto amore. Per raggiungere una tranquilla normalità,f ragile e artefatta, ma dignitosa.

Dignità.

In fondo al dirupo era ad attendermi, sotto le acque irose del dolore per William c’era la mia dignità : se fossi caduta, avrei visto quella che avevo perso, facendomi scopare da Riley prima e da….che volto aveva Parker? Non riuscivo a ricordarlo…dignità, dicevo…. Se fossi caduta, sarei stata risucchiata dalle onde violente e ancor più gelide di quella fittizia esistenza, che difendevo nella mia ritrovata ‘tranquilla normalità’ , al fianco di Angel.

Ecco perché mi aggrappavo alle sporgenze appuntite con così tanta disperazione, mentre le mie dita avevano preso a sanguinare. Ma, adesso, sentivo qualcosa franare sopra di me.

Gli avevo detto che lo amavo: che stupida. Come avevo fatto a farmi sfuggire una cosa del genere? E stavamo per fare l’amore, alla prima occasione che ci era capitata…

Guardai la mia cara amica Willow e, per un attimo, vi ritrovai la preoccupazione sincera e ingenua di quando eravamo vicine, prima che temessi il suo giudizio e mi proibissi parole di troppo.

-E’ tutto a posto, Willow. Sono stanca per il viaggio…e ..beh, sì ,un po’ sapere che William è nell’appartamento di Oz…mi ha fatto pensare ai vecchi tempi…ma…- mi alzai di scatto, cercando di sembrare pimpante e spigliata -..era solo un attimo di malinconia…succede…eheheheh..-

Willow mi guardò perplessa e finse di crederci: dovevo aver riso proprio male!

Un’altra risata, peggio della mia, giunse come una zanzara nel cuore di una notte già afosa e insonne:

-Ehi! Non ditemi che è proprio ‘quel’ William a casa di OZ!-

Anya, la segretaria dello studio Giles, gazzettino del tribunale e non solo, pettegola per natura, mangiacazzi per vocazione, si insinuò nella mia stanza, piazzandosi tra me e Willow.

-William è in città? Spike? Il tuo ex?-squittì, zuccherosa fino al disgusto.

Sperai che affogasse nel vomito che mi procurava trovarmela davanti. Quando la sentii pronunciare ‘Spike’, in quel modo arrapato, senza ritegno del successivo ‘tuo ex’, trovai una nuova collocazione per il maledetto archivio di Giles.

La presenza di Willow fece da deterrente: fare a pezzi Anya e infilare i pezzi nei cassetti avrebbe potuto indurre in Willow il sospetto che nutrissi ancora dei sentimenti per William, quella considerazione soltanto mi distolse dai miei sani propositi.

Senza contare che, fin dal liceo, dove già Anya era nota per l’attività di beneficenza che svolgeva nei confronti dei membri della squadra di football e di ockey e di tiro con l’arco …di tiro alla fune….e non sapevo di che altro, avevo sempre avuto la certezza che se ne sarebbe altamente fregata del fatto che ero la sua ragazza, se solo William l’avesse degnata di uno sguardo.

Insomma, forse lei era troppo oca per notarlo, ma io avevo un conto in sospeso con lei: che lei lo sapesse oppure no, per me erano inezie.

L’unica cosa che mi faceva tollerare la sua presenza allo studio Giles era il fatto che, essendo la sua segretaria personale, oltre che qualche altra disgustosa cosa, non la vedevo mai aggirarsi per i corridoi.

Solo quando c’era il barlume di una novità la vedevi sbucare come un funghetto malefico, un’amanita falloide, nel suo caso era la specie più indicata, in ogni dove e origliare e intervenire e impicciarsi e parlare, parlare….

-Allora? Buffy! Willow!-

Non c’era limite alla decenza: o era troppo stupida per capire di essere inopportuna oppure,troppo furba per far vedere di aver capito benissimo.

-Sì . E allora?- sillabai, seccata.

-ooohhhhh….- Anya stava civettando persino da sola, scostandosi gli spallini del top di seta dalla spalla.

-Anya, siamo felici che tu ti stia bagnando, ma ti spiacerebbe andarlo a fare alla toilette? Sai…qui,  tra una masturbazione e l’altra, Buffy ed io lavoriamo persino!-

Mi trovai allora a raccogliere le palle dei miei occhi dalla scrivania su cui erano cadute, alle parole irripetibili di Willow, in un secondo momento, magari, avrei addirittura chiuso la bocca. Forse.

 

Anya, sculettò sui tacchi rosa fucsia, fuori dalla porta, visibilmente indispettita per il trattamento ricevuto, meditando un modo per farcela pagare. Avrebbe telefonato a William e gli avrebbe chiesto di uscire, per rivangare i tempi del liceo. Sapeva essere gentile e gli uomini non le negavano mai niente. E Spike era un uomo. Questo era certo.

 

-Buffy,adesso, ammesso che tu riesca a chiudere la bocca, dovresti andare in ditta dal nostro cliente…per il pignoramento o vuoi che arrivi prima l’uffciale giudiziario a svuotargli il magazzino, che l’avvocato?..su su….da brava, vai.-

-Grazie…-mormorai sottovoce.

-Di niente. Ho cercato solo di evitare il peggio.- Will sorrise dolcemente, tornando la cara ragazza ben educata di sempre.

-Cioè?-

-Che tu la facessi a pezzi!-

 

 

Capitolo 7.

A tarda sera uscii dallo Studio Giles strisciando per terra, tanto erano stanche le gambe di sostenermi, avevo bisogno di dormire per almeno dodici ore filate e di mangiare qualcosa che non fosse un tramezzino pieno di maionese e altri pezzettini colorati non riconducibili a specie animale o vegetale.

Mi avvia mestamente verso la stazione della metro, sperando che mia sorella, almeno quel suo primissimo giorno e Los Angeles, avesse saputo stare lontana dai guai.

Puntuale come sempre, il trillo del mio cellulare mi distolse dai pensieri catastrofici di Dawn sola tutto il giorno nel mio appartamento:

-Amore…. –

-Buffy, piccola, come stai?- la voce di Angel era impaziente e gioiosa.

-Bene, amore…un poco stanca, nzi parecchio…ma sto bene. Tu?- in quelle mie precisazioni, c’era tutta la mia malcelata intenzione di mettere le mani avanti con lui.

-Mmhh, quanto stanca ? Troppo stanca anche per vedere il tuo fidanzato dopo settimane di lontananza?-

Doppio problema: intanto, rimarcare il mio livello di stanchezza era stato controproducente perché aveva indotto Angel sulla via del sospetto, poi, lo aveva spinto a vagliare bruscamente il mio desiderio di riabbracciarlo.

In realtà, io desideravo vederlo e infilarmi tra le sue braccia, solo che veniva prima la mia spossatezza e il bisogno impellente del mio letto. Dunque, i problemi adesso erano tre: il letto era ciò cui mirava anche Angel!

-Certo che ho voglia di rivederti…vieni a cena da me, che ne dici? –

Alle volte avrei voluto che mi conoscesse veramente e che si accorgesse di quando mentivo. Tentavo di portarlo ad accorgersene: quante volte, negli anni, avevo perfino sperato che mi lasciasse? Angel era troppo premuroso e pieno di attenzioni con me, nnamorato profondamente di una ragazza che non esisteva davvero: in fondo, stavo usando anche lui e lo sapevo. Forse in modo indolore, ma non stavo approfittando anche di lui? E allora: perché cavolo non se ne accorgeva e mi piantava con un bel calcio nel sedere? Me lo meritavo. Non lo amavo e sapevo anche questo. Avevo avuto bisogno di lui, come un caro compagno di gioco e come un fratello, come amico, senza dubbio, anche come amante, almeno i primi tempi in cui stavamo insieme. Mi chiedevo continuamente perché mai non mi innamorassi di lui tanto da non pensare più al passato, sarebbe stata la soluzione più giusta e avrei finalmente potuto ricambiare la sua devozione e l’autenticità dei suoi sentimenti per me. Invece niente. Ogni giorno, ogni ora e ogni istante, ogni sua parola ed ogni suo più insignificante gesto, venivano confrontati con quelli di William e mi ricordavano chi amassi in realtà.

-Bene, Buffy. Ci vediamo alle otto, allora. Porterò del gelato per  Dawn.-

-Ok. Ti aspetto.-

Riagganciai e sentii  l’angoscia cominciare ad aumentare. Dopo aver rivisto William, dopo averlo stretto a me ancora una volta, come potevo guardare in faccia Angel e essere capace di mentire e di continuare in quella farsa che mi ostinavo a chiamare vita? Era davvero troppo. Angel avrebbe sofferto terribilmente se gli avessi confessato di non amarlo, non sapevo come avrebbe potuto reagire. Cosa dovevo fare? Perché non potevo riprendere in mano la mia tranquilla vita a Los Angeles nel punto preciso in cui l’avevo lasciata prima che la mamma morisse?

Lasciare Angel…e poi per cosa? Per William? No, davvero: lui davvero era stato capace di ricostruirsi un’esistenza onesta e felice, con un lavoro che adorava e con una donna che amava sinceramente, la quale realmente aveva preso il posto che era stato mio.  Lasciare Angel? Per me? Per cosa? Per la mia dignità? Oh,Dio! Era da parecchio che non l’avevo più. Lasciarlo avrebbe fatto male a lui e avrebbe lasciato scoperto il buco che avevo nel cuore.

Mi convinsi che ero scossa per quello che era accaduto con William, al cimitero prima e alla stazione di servizio, poi e che ,non appena, lui se ne sarebbe andato via da Los Angeles, utto sarebbe tornato come prima e avrei tenuto a bada quei ragionamenti distruttivi.

La cena con Dawn e Angel andò molto bene, riuscì persino a far ridere mia sorella e a farle  dimenticare per qualche ora il motivo per cui si trovava a LA.

Dopo cena, loro si sedettero sul divano ed accesero la tv, cercando un film che potesse andar bene per la serata mentre finivano le loro coppe di gelato.

-Scusate, io sono molto stanca. Se non vi dispiace andrei a dormire….- dissi, appoggiandomi alla porta del salotto, esausta molto più di quanto dessi a vedere.

-Ok.’notte Buffy.- lapidaria,  Dawn, mi congedò senza distogliere lo sguardo dallo schermo, approfittando della distrazione di Angel per cambiare canale.

-Aspetta, Buffy, vengo a dormire anche io: domani devo essere presente all’udienza delle otto….- cercò di essere convincente e disinvolto ed io mi aggrappai alla porta più forte.

-Ah.- tutto quello che riuscii a dire.

Dawn, allora, mi fissò con la coda dell’occhio e io vi trovai il rimprovero e la pena di chi crede nell’amore eterno e totale che non ammette compromessi.

In un momento, Angel mi fermò contro la parete della mia camera, baciandomi il collo e le spalle con impeto e desiderio. Potevo già sentire quanto mi volesse e quanto gli fossi mancata. Mi lasciai spogliare e feci altrettanto con i suoi vestiti, lentamente, cercando di provare piacere. Ripassai mentalmente quanto Angel fosse affascinante e sensuale, concentrandomi sul suo tocco e sul suo respiro eccitato, sforzandomi di eccitarmi. Chiusi gli occhi e cominciai a pensare a quell’attore che tanto mi piaceva, poi a quel cantante …pensai alle situazioni più assurde e più erotiche che conoscessi…. Intanto Angel mi aveva adagiato silenziosamente sul letto e stava entrando dentro di me. Per fortuna non ci guardavamo spesso negli occhi mentre facevamo l’amore e, anche se non capivo bene la ragione, ne ero molto sollevata.

-Buffy? Che hai?- fece lui improvvisamente, fermandosi a guardarmi.

-Niente.- risposi , con il cuore in gola, temendo di essere stata scoperta.

E riprese a muoversi fuori e dentro di me, sempre più forte, accarezzandomi e baciandomi con bramosia e dolcezza insieme.

Ed io che cercavo di eccitarmi e di fare meglio che potevo, altrimenti, ne ero sicura, Angel avrebbe compreso una volta per tutte la verità e, in quel modo, sarebbe stato quanto di più umiliante potessi riservargli.

Così, inevitabilmente e contro i miei buoni propositi, nel buio dei miei occhi chiusi, pensai a William mentre facevo l’amore con Angel.

Non mi accorsi che  Dawn, di là in salotto, aveva riposto al telefono e che stava parlando Willow:

-Ah ah..capito! Sono sempre felice di vederlo, lo sai! –

-E Buffy? Credi che verrà?- fece Willow, dall’altro capo del cavo.

-Ne sono sicura.-la risposta di Dawn non ammetteva repliche.

-Io non molto. E Angel? –

-Verrà anche lui! Figurati se la lascia sola ad una cena con i suoi amici quando ci sarà anche il suo ‘ex’ storico.- il tono di Dawn si era fatto basso e anche Willow la udiva a stento.

Willow riagganciò il telefono e si girò verso Oz, senza decidersi se essere felice o preoccupata per  la conversazione con Dawn.

-Ecco. Fatto. Dawn viene, ovviamente. E ha detto che verrà anche Buffy.-

-Bene. E perché me lo dici con quel faccino serio?-chiese, Oz, senza capire.

-Perché verrà anche Angel, ecco perché- concluse, Willow, con il broncio.

-E con questo? Credevo che Angel ti piacesse….-

-Si. Angel è uno a posto…però speravo che….- non finì la frase ma guardò Oz, ammiccando verso la camera adiacente.

-Eh, No! Willow! Non è certo per questo che si fa questa cena!-  la rimproverò lui -E’ solo per salvare Spike da una cena da solo con Anya! Buffy, Dawn e il bel tenebroso, servono solo a fare numero, così come gli altri che ho invitato! Non ci sono secondi fini !- concluse, seccato, mettendo a tacere la ragazza.

-Ma…-

-Niente MA!- disse stringendola a sè.

Willow tuttavia, da quella posizione, non si accorse dell’espressione maliziosa di Oz, il cui sguardo imperscrutabile parve attraversare il muro fino a William che, nella stanza a fianco, assorto nel “Macbeth”  pensava ad Anya come al “ Re Duncan” della tragedia.

 

La mattina seguente, mi svegliai prima di mia sorella e di Angel e scivolai fuori di casa battendo ogni mio record personale e nonostante il cattivo riposo della notte appena trascorsa, cercando rifugio allo Studio Giles.

Willow già mi attendeva sulla soglia, con le mani sudate del ‘cosa ti sto per dire ti farà incazzare ma non è tutta colpa mia’:

-Willow…che altro c’è? Già ti vedo che…- le dissi dolcemente, sperando di non conoscerla poi bene.

-StaseratuAngelDawnsieteacenadaOzconWilliamedAnya.- annunciò, terrorizzata.

Non sapevo per cosa arrabbiarmi: per Dawn che parlava a mio nome, per l’idea stessa di quella assurda cena, perché Anya aveva telefonato a William o perché avevano invitato anche Angel.

Così non mi misi a gridare. Entrai nel mio ufficio, dissi a Willow che avrei portato la birra e le chiusi la porta in faccia.

 

Mi stavo preparando per quella folle cena, strigliando con rabbia i miei capelli al pensiero che Angel non aveva avuto niente da replicare al bizzarro invito di OZ, pur avendogli quest’ultimo precisato, per correttezza, la presenza del mio storico ex.

Angel non aveva battuto ciglio: tipico da parte sua, avrei dovuto aspettarmelo, era talmente convito di conoscermi e tanto sicuro di sé da non sentirsi minacciato da niente e da nessuno. La cosa mi mandava su tutte le furie: come si poteva essere così presuntuosi? Tuttavia, pensavo davanti allo specchio, se Angel era così tranquillo con se stesso e, soprattutto con me, voleva dire che avevo messo su proprio una bella recita in quegli anni. Non che il mio amore per lui non fosse sincero, questo no, solo che arrivava sino ad un certo punto e non oltre.

-Maledizione!- sbottai, facendo cadere le braccia lungo i fianchi.

-Che hai Buffy?….nervosina?- la voce irritante e saputella di Dawn giunse alle mie orecchie come se avesse appena spiato i miei ragionamenti.

-No!-seccata, tagliai corto e mi rimboccai le maniche, cercando di ricomporre i miei capelli in una acconciatura presentabile. Solitamente raccolti in disciplinati chiffon sulla nuca, quella sera non ne volevano sapere di darsi pace.

-I capelli sono il prolungamento dei nostri pensieri, non lo sai?- annunciò con l’aria saggia e la faccia da schiaffi di chi  ha ragione, girando intorno a me un paio di volte, già perfettamente vestita e pronta per uscire.

-Che vuoi, Dawn? Vai a farti un giro e non rompere.-

Mia sorella mi rispose con un sguardo compassionevole di comprensione affettata ed io pensai alla birra che avevo preparato per portare da Oz: e se l’avessi presa e portata con me in cima ad una montagna della Cina? La fuga: ecco come ero ridotta! Altro che vita sotto controllo:

-Dannati capelli!! E va bene: statevene sciolti e andate dove volete!-

Un ultimo sguardo allo specchio mentre Angel suonava il clacson dalla strada:

-Glielo avrò detto un milione di volte che deve suonare il campanello, quando viene a prendermi! William lo face…-

Eccolo là: il confronto perpetuo ed Angel ne usciva puntualmente con tanti punti in meno.

Alzai gli occhi ancora una volta nel mio riflesso, per farmi coraggio da sola, ricordandomi che ero un giovane avvocato pieno di risorse, felicemente fidanzata con un uomo meraviglioso e piena di amici sinceri, che altro non chiedevano che passare un’allegra serata in mia compagnia.

Allora, allo specchio, mi soffermai stranamente sui capelli sciolti sulle spalle e ricordai che quel modo di portarli, così semplice e ribelle, era il preferito di William.

Una fitta al cuore, più forte, rivelò il baratro che mi stava inghiottendo sempre un po’ di più e mi resi conto di quanto strana fosse l’atmosfera quella sera.

Arrivati sotto casa di Oz, mentre Dawn si attaccava al citofono e Angel si avviava al portone, rimasi qualche passo indietro e alzai la testa alla finestra della camera che William aveva occupato durante gli anni all’università e, con sollievo, notai che la luce era spenta. Almeno non era là con Anya. Oppure sì, ma lo stavano facendo al buio? No, gli piaceva vedere…. Sgranai gli occhi e smisi di deglutire: a cosa stavo pensando? A William ed Anya che facevano l’amore nel ‘nostro’ letto? O cielo! Chiamavo ancora ‘nostro’ il letto nella stanza che era stata di William?

-Angel, aspettami!- gli corsi a fianco e mi attaccai al suo braccio saldo e muscoloso, nella speranza che mi guidasse sulla la strada che avevo scelto.

Già dal pian terreno si sentiva la musica ad alto volume: Angel placido ed educato, entrò per primo, salutando i presenti quasi con disinteresse, mentre Dawn saltò sul divano in braccio a William, buttando i piedi sulla gonna di Anya.

-Ehi! Mocciosa stai attenta a dove metti i piedi!- strillò quella, innervosita dalla invadenza di mia sorella che, senza troppe cerimonie, si era posizionata tra lei e William, ignorandola del tutto.

-Anya,lascia stare! Dawn è  una bambina vivace!- intervenne, William con somma gratitudine verso mia sorella.

-Ops! Scusami Lagnya…ma la gonna ha lo stesso disegno del divano di Oz…non ti avevo vista…- si giustificò Dawn, con una ingenuità e un gentilezza che, certamente, non aveva preso da me.

-Anya….il mio nome è…-provò quella, assai risentita ma William e Dawn erano troppo presi dalle chiacchiere per considerare il disappunto di lei.

Oz e Willow avevano riempito l’appartamento di gente e,per mia fortuna, rimanendo prudentemente attaccata al braccio di Angel, evitai di essere costretta ad affrontarlo direttamente.

In compenso, non lo persi di vista un solo istante. Portavo Angel sempre in punti da cui potessi avere una visione di insieme della casa, dribblando accuratamente le spalle delle persone per vedere cosa stesse facendo, senza però essere vista, spostando furtivamente gli occhi quando avevo sentore che William stesse per incontrare il mio sguardo. Anche lui mi controllava, potevo sentire che mi stava guardando ogni volta che ero costretta a voltargli le spalle. Cosa stava pensando? Sapevo che si interrogava su me e su Angel e per questo mi mostrai particolarmente affettuosa e innamorata, in modo da non destare sospetti in William.

Solo che quando Anya gli si avvicinava, zuccherosa e mezza nuda com’era, mi sentivo ribollire il sangue e pensavo solo al modo più lento e doloroso per strapparle l’intestino e metterglielo come trecce, al posto di quell’insignificante finto biondo del suo parrucchiere.

-Puttana! Puttana da quattro soldi, anche! Anzi: puttana gratis!!!! Non lo sa che il biondo ossigenato andava negli anni 80? Il platinato è volgare, oltre ché fuori moda!- mi lasciai sfuggire, scolandomi la bottiglia di doppio malto.

-Ma dai? Ed io che credevo che ti piacesse!-

-Ah!- urlai dallo spavento, per essere stata stupidamente colta in flagrante da Willow.

-Ohhh…sei tu? Mi è venuto un colpo!- afferrai un’altra birra dal tavolo.

-…..allora…sei guarita definitivamente…bene bene…meglio per te…e pensare che una volta impazzivi per i capelli di Spike…..-

-E impazzisco ancora per quei capelli….colorati in quel modo…a lui donano in un modo così…. Sensualmente sensuale…- sospirai, sentendo di poter tornare a confidarmi con la mia amica del liceo.

-Ecco un pensiero sincero.- sorrise Willow, versandosi del succo d’ananas.

-Cioè?-

-Non so da quanto tempo non mi dicevi una cosa vera, Buffy.-c’era malinconia nella voce di Willow.

-Oh..no..ma che….- ero o non ero anche io un avvocato? Dove stava una buona, vecchia, cara, convincente cosa furba da dire in mia difesa?

-Dai, Buffy, se non vuoi parlare non importa, ma non dirmi altre stupidaggini. Io sono sempre qua, se avessi bisogno…-fece per andarsene.

-No. Willow, aspetta.- sentivo che dovevo essere onesta con lei, che potevo farcela a mostrare i miei punti deboli.

-Allora? Ti piace ancora Spike, è evidente….non importa se lo ammetti o no. Si vede.-

-Eh…già.-

-Bene…quanto ti piace, esattamente? Ti piace così, come te ne piacciono altri dieci… ti piace tanto da scopartelo un’ultima notte…-

-Beh….-

-Oh, no! Quella è la faccia da ‘mi piace da amarlo ancora’! E’vero?-

-SShhhh…-le chiusi la bocca con la mia mano e mi girai intorno, in ansia.-Vuoi vedere la faccia da ‘ti butto dalla finestra se non parli più piano’ ? Vuoi farti sentire da tutti?-

-Scusa! Ma un po’ di sana emozione me la concedi! Oh, Buffy! Sono così felice per voi!-Willow era già in brodo di giuggiole e nel suo modo rosa e fiori, allestiva un matrimonio principesco per quattro partecipanti.

-Non c’è nessun ‘VOI’. Semmai ci siamo io ed Angel.-

-Oh.- Si raffreddò e tornò, calcolatrice e preoccupata, ad intervistarmi.

-Tu ami Angel?- eccolo là: il domandone finale. Chi avesse saputo rispondere esattamente si sarebbe portato a casa il montepremi che, in questo caso, era William.

-Non è così semplice…ma sì. Io amo Angel.- risposi, con convinzione, bevendo svelta un altro lungo, lunghissimo, sorso di birra.

-E il sesso com’è?- domandò, come mi avesse chiesto che ora si fosse fatta.

Le sputai la birra sulla camicetta, bagnandola dal colletto alle tasche.

-Buffy! Accidenti a te!-

-Scusa…-

-Allora?-incalzava, asciugandosi con una maglia dimenticata da qualcuno in cucina.

-…il sesso…il sesso con Angel è… rassicurante!- e tornai a guardarla, soddisfatta come una scolaretta che ha appena dato la risposta esatta alla maestra.

-Rassicurante.- sillabò lentamente, con un non so che di disgusto sulla faccia, forse per via della birra di prima –Rassicurante.-ripetè a bassa voce- Buffy? La fattoria di nonna papera è ‘rassicurante’: non il sesso!- ringhiò, ingurgitando, adesso, un bicchiere di Gin-lemon.

-Il sesso può essere un viaggio verso terre inesplorate e selvagge…oppure…come vagare nello spazio infinito, tra stelle e pianeti infuocati…o anche un più romantico caleidoscopio di forme e colori…NON la fattoria di nonna papera!-

-Ma…-abbassai gli occhi, agganciandoli ai miei stivali alla moda,sapendo che Willow aveva ragione.

-Buffy, ascolta…se non riesci a godere a letto, ci sono due possibilità: o non ami il sesso o non ami quello con cui lo fai.-

-Chi ti ha detto che non riesco a godere con Angel?-sussurrai, scrutandomi guardinga in giro.

-TU, me lo hai detto, stupida. E sai perché? Perché non sei il tipo-Anya: per fare sesso hai bisogno di fare l’amore. Tutto il resto che puoi fare è, al massimo,una brutta copia dell’accoppiamento.-e con questo, Willow si scolò il resto del cocktail per lasciarmi sola con la mia birra, a cercare di ricordare l’ultima volta in cui avevo avuto un orgasmo con Angel. Con Riley? Con Parker?

Di là, nel frattempo, Angel si stava agitando per la mia prolungata assenza, risparmiandosi di venire a cercarmi unicamente perché William era  poco distante a cercare di tenere a bada Anya; sembrava che avesse qualcosa di importante da fare, camminando su e giù per l’andito di fronte alla porta di casa.

-Ehi! Angel? Che hai?- lo sorprese Dawn, che era andata a prendersi una aranciata dal tavolo in salotto.

-Niente…solo che domani ho un’udienza importante e avrei da ripassarmi delle clausole del contratto…-

-No, ti prego…-piagnucolò Dawn, abbracciandolo e facendogli le fusa come un gatto-fammi restare ancora un po’! Oz mi ha promesso che mi lascerà suonare la chitarra più tardi! E poi è ancora presto….- e lo guardò, ingrandendo i suoi occhi cristallini fino all’inverosimile, consapevole del suo ascendente sui miei fidanzati.

-E va bene, senti Willow… se può riaccompagnarvi al posto mio…così potrete restare.-

Angel era così gentile e così fiducioso nei miei riguardi da lasciarmi, nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, certo che il mio amore per  lui mi avrebbe preservato da fare sciocchezze che potessero mettere in pericolo il nostro solido rapporto. Quel gesto mi convinse del valore di quella persona speciale e della forza del suo amore, oltre che del profondo rispetto che mi dimostrava e che io avrei dovuto ricambiare,in un modo o in un altro.

Ci salutò e lasciò la festa, l’indomani aveva effettivamente un impegno importante, ma non dal giudice, bensì dall’orefice più chic di Los Angeles, dove il mio bell’anello di fidanzamento, in oro bianco e diamanti di amore eterno, attendeva di essere ritirato.

 

William mi vide affacciata alla finestra e non potè fare a meno di raggiungermi,alla fine, dopo tutta la sera trascorsa a seguire le mie grandi e altrettanto patetiche manovre.

-Segui l’amore, Buffy?- mi disse, ammiccando verso la macchina di grossa cilindrata che stava uscendo dal parcheggio sotto casa; posò la birra sul davanzale di marmo e si sistemò accanto a me che fissavo l’auto di Angel allontanarsi lungo la strada illuminata.

-Sempre.-gli risposi decisa, guardandolo dritto negli occhi.

 

 

Capitolo 8.

 

Fu come trovarsi fuori dal tempo: l’aria  calda dell’estate inumidiva la pelle di riflessi trasparenti  e di lunari luccichii, i capelli di William si scuotevano sulla fronte al soffio di una leggerissima brezza notturna, mostrandone ogni più argenteo scintillio. Dovevano essere già le primissime ore del mattino perché la musica , in salotto, era stata abbassata e ora giungeva a noi a malapena, con note lievi, come non volesse esser di troppo. Non riconobbi alcuna delle canzoni o, semplicemente, non prestai attenzione ad esse, troppo intenta a godermi l’incantesimo di una ritrovata intimità con William.

Creatasi dal nulla, quella alchimia mai sopita soffiò tra di noi la sua inafferrabile magia, fatta di una surreale metropoli che si stava svegliando davanti ai nostri occhi e di una birra ghiacciata che bagnava un polveroso davanzale; il battito affannato dei nostri due cuori ci sorprese ancora complici e uniti ,nel silenzio.

Restammo a cercarci l’uno nel volto dell’altro, come a voler imprimerne ogni dettaglio nella mente e vi  trovammo stupore, gioia e paura, vi scorgemmo la speranza e la forza di passioni mai domate.

Dopo un lungo istante, William sentì di poter parlare liberamente, come se i quattro anni che ci avevano tenuti lontani, ancorati dal nostro amor proprio al molo di una vita qualunque, non fossero mai trascorsi nella dimensione incantata di quell’attimo.

-Come stai?-

Non lo domandò veramente, ma fu il modo in cui si rivolsero a me i suoi occhi meravigliosi a farmi rispondere. La testa leggermente piegata da un lato e le palpebre poco più chiuse, come a veder meglio dentro me, mi parlavano al posto di quelle due parole convenzionali.

-Adesso sto bene, veramente bene, intendo.- e gli sorrisi, sapendo che pensavamo le stesse cose nello stesso momento; poi dissi, ad alta voce:

–Ho sentito che potevo sospendere la cura di psicofarmaci e anche le sedute di analisi. Sono diversi mesi che ho concluso la terapia antidepressiva e,lo dicono anche i medici, sono completamente guarita!-conclusi con falso entusiasmo, volendo mostrargli che ero felice di potergli dare quella notizia.

-Sono felice per te, Buffy. Ce l’hai fatta, allora.-

Mi chiesi se la felicità autentica che leggevo in lui non potesse essere amore per me. Conoscevo William meglio di chiunque altro e ….

Ma troppa era la paura di illudermi.

-Si. E da sola.-aggiunsi, con rammarico.

-Non era quello che volevi? Uscire fuori da quella condizione senza l’aiuto di nessuno…scegliendo di tenere nascosto a tutti l’inferno in cui ti ritrovavi…-

William mi guardò per un lungo istante e alla sua mente tornarono i nostri litigi e i miei discorsi crudeli e ingrati, con cui lo aggredivo continuamente, incolpandolo, in buona parte, perfino, del senso di incapacità e di inadeguatezza che mi affliggeva quando mi era vicino.

-Si. Era giusto così. Decidere di porre fine alla nostra storia era l’unica cosa saggia che potessi fare, in quelle condizioni. Non mi sono pentita ,nemmeno per un momento, di averti ridato la tua libertà, William. Non era giusto tenerti legato a me e costringerti ad aiutarmi in continuazione. Stare con me in quei momenti bui avrebbe finito per distruggere anche te… e il tuo lavoro… ti avrei portato a fondo insieme a me…Non potevo aggrapparmi a te in eterno…-

-Io ti avrei aiutato per sempre. Non chiedevo altro se non la possibilità di amarti.-

Girò la testa di scatto dall’altra parte e passò velocemente il dorso della mano sul viso, cercando di non dare peso a quel gesto. Afferrò la birra e ne bevve un lungo sorso.

-Lo so…- tremava la mia voce e le lacrime, nei miei occhi, insieme ad essa.

-Ma oramai è andata, no?- disse e tornò a sorridermi con l’amarezza di chi spera di esser contraddetto.

-Già.-

-Come va con Angel?- -Come va con Fred?- insieme, non potemmo trattenerci oltre.

-Bene.- -Bene- insieme, di nuovo, guardando dall’altra parte della strada, attirati improvvisamente dall’interessantissima architettura del palazzo antistante.

-Davvero…-riprese William, dandosi un tono convincente e sereno –Ormai è da molto che stiamo insieme Fred ed io e, devo dire, che sono soddisfatto…lei è così… buona.- disse, annuendo in modo autopersuasivo.

-Anche  Angel è… buono.- ribadii io, grattandomi la testa, come a voler stimolare i neuroni in difficoltà – Ed è gentile.- aggiunsi, fiera.

-E lei mi ama molto.-precisò lui.

-Anche Angel mi ama moltissimo.-rafforzai io.

-Allora siamo due persone fortunate, Buffy.-disse, bisognoso di una conferma.

-Sicuramente, William.- feci io, cominciando a riascoltare mentalmente la fila di stronzate che avevamo appena vomitato; ntanto sentivo le ginocchia cominciare ad ondeggiare e le giunture delle braccia ad informicolirsi. Pregai che il labbro superiore non iniziasse a sudarmi in modo antiestetico e platealmente nevrotico.

 

-E allora com’è che ti sto fissando il collo, cercando di trattenermi dal mordertelo?-

Lo guardai disperata e aspettai, implorando che smettesse di fare quello che non stava facendo.

-Torniamo di là.-

-Oh,si…è meglio…-

Ma nessuno si mosse.

Allora accade una cosa strana: la bottiglia di birra, semivuota, cadde inspiegabilmente dal davanzale della finestra, senza che nessuno di noi l’avesse urtata, volando inesorabilmente sull’asfalto, con un vitreo fastidioso frastuono.

Quel rumore scosse William in maniera imprevedibile.

Con ogni scheggia del vetro sottile si infransero i nostri vani sogni e ne nacquero di nuovi e i ricordi , soffocati nella memoria per non piangere più, riecheggiarono fino al cielo, beffandosi di noi due, piccoli e fragili, affacciati su un’ultima finestra lasciata aperta dal caso. Caso ostinato eppure, premuroso destino, e noi, immobili, nell’incertezza dei giorni a venire, desiderosi che il passato ci rendesse liberi.

Mi afferrò bruscamente il polso e mi tirò via dalla finestra, facendomi inciampare sui piedi; mi costrinse ad attraversare la cucina in cui ci trovavamo, rovesciando il l’unica bottiglia di vino rimasta, dunque passammo goffamente il salotto, sotto gli occhi spalancati di Dawn, Oz, Willow e quelli inorriditi di Anya e dei pochi ospiti rimasti, per spingermi nella sua vecchia camera e chiudere la porta. Senza troppi misteri, girò due volte la chiave.

Le pareti candide della stanza erano oscurate da un’ombra grigia, il riflesso dei lampioni oltrepassava le fessure delle tende, accendendo qua e là un libro e uno spiegazzato poster dei Ramones. Quando la vista si abituò al buio, mi apparve davanti un vecchio ritaglio di vita: nella sua camera tutto parlava ancora di noi.

William si guardò a torno e allargò le braccia, girando lievemente su se stesso:

-L’unica cosa diversa, Buffy, siamo tu ed io.-

-Non farmi piangere, ti prego…- gli sussurrai, tremando già, mentre avvertivo più chiaramente quel peso che, sulla gola,  prelude al pianto.

Mi si avvicinò fino ad accarezzarmi la guancia con la sua, respirando a malapena, temendo che anche il soffio di un respiro avesse più forza del nostra convinzione.

-No, amore…non piangere…-

Gli gettai le braccia al collo e lo strinsi con tutta la forza che avevo, con la disperazione chi non può che arrendersi. Ricambiò il mio abbraccio dapprima per rassicurarmi,  ma non ci volle molto perché si arrendesse anche lui a quello che ci stava accadendo.

 

Se solo si potessero spiegare al cuore le ragioni della nostra volontà: le esigenze che sospingono le nostre scelte e che ci guidano verso ciò è giusto!

Il cuore se ne frega delle chiacchiere.

E ci lascia a guardare, inermi, gli eventi di cui disseminiamo il nostro breve cammino, ai margini di quel sentiero contorto e dissestato che chiamiamo vita, dove, non senza aguzzare la vista, abbandonate da una parte, possiamo scorgere tutte le nostre valide ragioni. Nobilmente valide e altrettanto ignorate.

 

Essere tra le sue braccia mi faceva sentire prescelta nell’universo per un miracolo di Dio: non era mai esistito un altro posto in cui mi sentissi tanto bene.

Il suo corpo mi avvolgeva ed io mi immergevo in lui: William mi circondava ed era ovunque intorno a me, sotto e sopra di me.

Mi baciò i capelli e poi li scostò per affondare la sua bocca nel mio collo accaldato, strofinandosi con tutto il viso e inspirando profondamente il mio profumo.

Mi allontanai debolmente da lui, per guardarlo dritto negli occhi: tanto bastò perché sapessimo che quel momento sarebbe stato solo nostro.

Cos’è una notte, in fondo, su tutte quelle che il moto della terra sottrae alla luce del sole?

Slacciai con due dita il fiocco che sorreggeva la mia maglietta leggera dietro la nuca ed essa subito si piegò sul mio ombellico, scoprendo il seno nudo alla vista di William. Presi le sue mani tra le mie e ne baciai ogni dito, poi feci scorrere le mie lungo le sue braccia, sorridendo, perché erano esattamente come io le ricordavo.

-E’ ancora il più bello che io abbia mai visto, amore…-sussurrò William, senza essere capace di distogliere lo sguardo dai miei seni.

Con un gesto improvviso e sicuro si sfilò la maglia nera, lanciandola da qualche parte, sul pavimento.

Si avvicinò di nuovo a me, quel tanto che bastava perché le punte del mio seno potessero tendersi a sfiorare il suo petto, magnificamente scolpito e levigato.

Raccolse con delicatezza il mio viso e mi baciò gli angoli della bocca, lentamente e con estrema gentilezza, finchè non gli dischiusi le labbra. Infilò la lingua nella bocca fino a soffocarmi, accarezzando la mia, girandole attorno con golosità e capriccio, leccandola e coccolandola, a tratti con prepotenza, a tratti con dolcezza, per domarla con i suoi tocchi più appassionati.

I primi timidi lamenti accendevano la stanza e divennero gemiti urgenti quando lui si attaccò alla cintura che teneva su la mia gonna. D’istinto mossi le mani sui suoi jeans,a rraffando confusamente sui bottoni e sulla cerniera, senza successo, per la troppa foga.

-Lascia …non ci sono ticchettii di lancette per noi stanotte…- solo la nota della sua voce mi fece desistere e le mie braccia caddero lungo i fianchi, arrendendosi a lui.

Continuammo a baciarci, mentre io lasciavo che fosse William a sostenermi interamente, trattenendomi per la schiena con entrambe le braccia, stretta in una morsa che evitava alle mie gambe di piegarsi.

 

Tenendomi per mano, William mi fece avvicinare al letto. Con un piede sfilai facilmente un sandalo e con il piede nudo, subito dopo, l’altro sandalo. La gonna era caduta da sola alle mie caviglie ed io ne uscii, mostrandomi ai suoi occhi senza timidezza, mentre la pelle bruciava sotto il suo sguardo.

A William piaceva molto quello che stava osservando: mi sorrise con quella punta di cattiveria sul viso, che mi aveva sempre fatto impazzire, in una smorfia di sicurezza e quasi di superiorità, con le labbra, ancora arrossate per i baci, pronunciate in avanti, arricciando la lingua dietro i denti, apposta per provocarmi.

-Ti adoro quando mi guardi in quel modo…-dissi apertamente, appoggiando prima un ginocchio sul letto e poi l’altro, in maniera che potesse essergli esposta la morbida fossetta della mia femminilità, velata dalla stoffa sottile delle mutandine bianche.

Restò ancora un po’ a compiacersi di quel delizioso particolare, poi fissò gli occhi nei miei per quella che era una appassionata dichiarazione di guerra.

Si avventò su di me, saltando sul letto, facendomi piegare bruscamente all’indietro sul materasso, ridendo con me del suo assalto, cercando subito la mia bocca.

 Nel bacio più lungo, ci rotolammo tra le lenzuola senza respirare, ansimando pesantemente in cerca dell’ossigeno che le nostre bocche avvinghiate ci negavano. Sentivo premere il suo membro sul ventre attraverso i jeans, in un massaggio doloroso che avrei voluto non finisse mai, mentre con le mani mi toccava in ogni parte del corpo, stringendomi la carne, alle volte fino a farmi male, mosso dalla paura che io svanissi tra le sue dita come, per troppe notti, era accaduto nei suoi sogni.

Afferrò il mio viso e smise di baciarmi:

-Amore… sei mia? Sei ancora solo mia?- mi chiese, fermando le lacrime nel nero mare dei suoi occhi.

-Sono tua da sempre,Spike…- gli risposi con parole, ma William potè sentire la voce della mia anima rivolgersi alla sua e tutto il mio corpo farle eco.

-E’ così dolce sentirti chiamarmi così…da quanto…-

-Ssshhh….- mi sollevai e lo baciai sulle labbra, ancora una volta.

Si tirò su, in ginocchio sopra me e si lasciò guardare mentre si slacciava la cintura e, dopo di essa, i bottoni dei jeans…uno dopo l’altro, davanti ai miei occhi lucidi di desiderio e alla mia bocca già dischiusa per quello che mi avrebbe dato.

La testa mi girava e il cuore galoppava freneticamente al pensiero di poterlo succhiare di nuovo: la sensazione di assoluta potenza che provavo nel dar piacere a William con la mia bocca e l’idea di potermi spingere fino all’estrema sua perversione, era l’orgasmo della mia mente.

Lo tirò fuori dai pantaloni  e  di istinto, io mi spinsi più avanti con il viso per arrivare a prenderlo, solo che William fermò la mia fronte con la mano:

-Non posso aspettare…non stavolta….-

E, prima che io potessi capire, con un dito scostò i miei slip, che avevo bagnato senza alcun ritegno e mi penetrò con violenza, facendomi sobbalzare per la spinta a cui non ero preparata. Sgranai gli occhi nei suoi, lui mi guardava con devozione completa, come adorasse una divinità. Ed io toccai la felicità più pura e più giusta.

Prese a muoversi in un ritmo forsennato, con un ringhio di lussuria e di rabbia dipinto sul viso, guidato solo dal desiderio di venire insieme a me.

Sentivo il suo incontenibile membro aprirmi crudelmente le viscere e i suoi liscissimi testicoli battere ritmicamente tra le mie gambe, per poi scorrere via lentamente, solleticandomi la fica in modo da farla schiudere ancora… e di nuovo, con le spinte più poderose, guizzare nel mio ventre, per fermarsi in fondo, di colpo e farmi strabuzzare gli occhi per il dolore.

William mi premeva il palmo della mano sulla bocca per reprimere le grida di piacere che mi provocava: mi sorrideva in un sogghigno seducente,incantato a guardare le espressioni di godimento in cui mi piegava.

Mugolavo disperatamente, nelle urla soffocate che lui sapeva essere il preludio del mi orgasmo interno e,  con me, William respirava a fatica e gemeva alle spinte più profonde.

-Ora ti libero…però promettimi di non urlare…Dio! Lo sai quanto mi piaci quando gridi! Vorrei sentire quelle grida..amore… …-

-Mhhh…Mrrggghh…- guaivo come un cucciolo, al suono della sua voce eccitata che mi diceva cosa fare.

-Ecco…- e alzò la mano dalla mia bocca gonfia.

-William io…- non avevo fiato per avvisarlo .

-Anche io ….- fece lui, in un lamento più sommesso.

Accelerò le spinte ancora di più ed io accostai la sua mano sulla mia pelle, appena sotto l’ombelico, mentre mi inarcavo ad ogni penetrazione più forte, perché potessi sentirlo dentro di me fino all’estremo:

-Lo senti anche tu? Lo senti dove arrivi,amore?- gli chiesi.

Gli feci sentire la sagoma confusa dell’enorme cazzo che lui stava movendo su e giù dentro me e William rivoltò gli occhi indietro appena lo avvertì da sotto la sua mano.

-Lo senti cosa mi fai? ….- insistei, sicura dell’effetto che stavo avendo su di lui.

-Buffy…non dirmi….AAAHHHHH…..-

Sentii il primo fiotto caldo nella pancia e venni con lui, spingendomi  contro il suo corpo con tutta la forza di cui ero capace, aggrappata alla sua schiena con le braccia e con le gambe, guardandolo dritto negli occhi, per tutto il tempo in cui i nostri corpi si agitarono in preda agli spasmi e ai tremiti.

-Amore…amore…Dio! Sei così…bella e ..Cazzo! mi mandi fuori di testa….Cazzo! Sto ancora venendo…Aaahhh….Buffy… Buffy…- mi sussurrava confusamente, baciandomi il collo e l’orecchio.

-Spike…lo sento..amore..vieni, vienimi ancora dentro…Avevo tanto bisogno di questo…-

Dentro me, i muscoli si tendevano senza la mia volontà, massaggiando convulsamente il suo pene, che non accennava a sgonfiarsi, nonostante ne stessero uscendo le ultime preziose gocce di piacere.

I gemiti probabilmente si udivano per tutta la casa e forse anche al piano superiore e mia sorella era di là…ma non capivamo cosa stessimo facendo, persa completamente la ragione, seguivamo solo la fame insaziabile dei nostri corpi. E niente altro.

Lasciammo che la calma sopraggiungesse senza separarci, la aspettammo accarezzandoci e studiando con dolcezza gli occhi dell’altro, immersi nello speciale luccichio che li colora dopo l’orgasmo.

-Sei così bella, Buffy… più bella ancora di come ti ricordavo…-

-Mi fai arrossire se non la smetti…-risposi debolmente -Non sono più abituata ai tuoi complimenti, amore…-

-Allora aspetta ad arrossire…-

-Uh?- corrugai la fronte, incerta sul da farsi.

-Aspetta che ti faccia quello che ho in mente…poi potrai arrossire….- disse  lascivo, regalandomi un’altra di quelle espressioni per le quali avrei anche potuto masturbarmi.

Si sollevò sopra di me e con due dita aprì le mie grandi labbra e sfilò il suo pene, tornando a fissarmi .

-Sorpresa…-cantilenò,mostrandomelo ancora del tutto eretto.

Mi morsi le labbra e le leccai per ammorbidirle, cominciando ad assaporare con la mente quello che mi attendeva.

William si chinò su di me e leccò la mia bocca assieme a me, disegnandone i contorni con la punta della lingua, inumidendoli con la saliva.

Adoravo il sapore della sua lingua e quello della sua saliva: era buono e aveva un profumo che rimandava sensazioni quasi ancestrali… come quelle di un elemento naturale…i miei sensi se ne nutrivano avidamente e, sazi di quegli umori, reagivano, poi, come staccati dalla mia volontà, cercando solo il piacere e niente più.

-Fammela bere….-gli chiesi, tornando indietro con i ricordi dei nostri giochetti più sfrontati.

-Ti ricordi proprio tutto amore…- rispose, senza nascondere il suo compiacimento, probabilmente William comprese con certezza, proprio a quella mia richiesta, quanto bisogno avessi di scrollarmi di dosso le inibizioni e,di qui, comprese, con molta soddisfazione che, in quegli anni senza di lui, il sesso non doveva avermi dato granchè. Oppure e, con ancora maggiore soddisfazione, che IO non avevo dato molto al sesso.

Si sollevò un poco e schiuse lentamente le labbra, spingendo fuori alcune gocce di saliva che caddero in un momento che mi parve un’infinità, mollemente, nella mia bocca ansiosa di dissetarsi.

Tremiti sinuosi si mossero sotto pelle come fossero serpenti appena nati e ci spinsero oltre.

William si gettò su di me e affogò ancora nei miei baci, mentre io lo stringevo a me con le cosce, premendogliele sui fianchi.

Eravamo di nuovo in preda agli spasmi più violenti, desiderosi di tornare ad unirci in un solo essere perfetto.

William entrò dentro di me con facilità: troppo duro il suo cazzo per poter sgusciar via e troppo fradicia la mia fica perché potesse frenarne l’ingresso.

-Ecco…si…Oh, Buffy…si…è qui che il mio cazzo deve stare….-

Adoravo sentirlo parlare in quel modo mentre facevamo l’amore, senza pudore e senza rispetto, era tutto così tremendamente bello, non c’era paura…non c’era il dubbio… era il Paradiso.

-No… ci sono altri posti in cui potrebbe stare niente male…-bisbigliai suadente, solleticandogli  la mascella con una scia di piccoli baci.

-Dimmene uno….- fece lui, riprendendo a pomparlo dentro e fuori, sollevandosi sulle braccia.

Io mi divincolai gentilmente, facendo uscire il suo pene per afferrarlo con delicatezza con la mano destra, accarezzandolo tra i nostri due corpi.

-Prova a mettermelo in bocca, Spike…-

Credevo di non essere più capace a lasciarmi andare! E invece….

William si lasciò cadere sul letto e piegò le braccia sotto la testa, tenendola così sollevata quel tanto che gli bastava per potermi guardare mentre mi inginocchiavo di fianco a lui.

Avvicinai il viso al suo membro paurosamente proteso verso di me, in attesa, ancora bagnato dei nostri liquidi mescolati insieme.

Ne aspirai profondamente l’odore agrodolce che ben ricordavo e ,dopo aver scambiato uno sguardo di complice attesa con William, iniziai a leccarlo, dal basso, risalendo fino alla sommità, una….due volte, leccandolo interamente, seguendone le involontarie pulsazioni di piacere. Sapevo che William soffriva e godeva insieme, spasimando perché lo avvolgessi completamente con la bocca per succhiarlo come piaceva a lui, ma io restai a torturarlo con la lingua ancora a lungo, prima di accontentarlo.

-Ti prego…Buffy…ti prego…succhiamelo, amore…cosa aspetti? Prendilo in bocca…- mi pregava, gemendo forte e scotendo a tratti il bacino, in preda al bisogno di far uscire ancora lo sperma.

-No…- accennai io, senza smettere di baciarne la punta tumescente.

-Buffy! –

-Lasciami giocare…vuoi?- domandai io, con voce da bambina.

-NO!-

E, prima che potessi reagire,mi bloccò la schiena con la mano sinistra,mentre con l’altra mano mi infilava due dita nella fica, invadendola da dietro.

Dalla posizione in cui mi trovavo, inginocchiata di fianco a lui per poter accedere meglio al suo membro, fu facile per William piegarmi carponi e impedirmi di  muovermi, premendo sulla mia schiena, mentre con l’altra mano, entrava in me a suo piacimento.

-Aahhii!- un grido mi sfuggì e William non sembrò dispiacersene affatto.

-Ti fa male questo, amore? Anche a me faceva tanto male prima…-mugolò , con fare infantile – Ma tu non hai voluto smettere di farmi male…- aggiunse, penetrandomi subito con un terzo dito, per masturbarmi ancora più velocemente.

-Aahhh…No… no… mi fai male…-dicevo sul serio e lui lo sapeva: mi stava facendo male, solo che entrambi sapevamo anche che non volevo che smettesse perché mi piaceva. E di lì a poco, mi avrebbe portato ad un altro fortissimo orgasmo.

Spike, in più, mentre io cercavo di continuare a leccare il suo membro sempre più esigente, si eccitava ancor maggiormente nel vedere la mia figura sottile, nell’ombra, piegata carponi accanto a lui, che si contorceva sopra la sua mano.

Stavo venendo senza controllo, mordendomi le labbra per non svegliare tutto il palazzo, bagnando la mano di William sino all’avambraccio, con i rigoli di liquido tiepido che fuoriuscivano dalla mia fica, sfiancata dalle abili dita di lui.

Si alzò di scatto, schiacciandomi allora, supina,  sulle lenzuola, bisognoso di condividere con me quel nuovo orgasmo e fece entrare il cazzo dentro di me, quando ancora stavo godendo. Afferrai le lenzuola con le unghie, per sostenermi, piegando la testa in avanti incredula: sospeso sulle gambe sopra di me, William mi stava scopando con il cazzo e con il dito indice insieme, strofinandolo in un modo assurdo dentro di me.

E riuscì nel suo intento: il mio orgasmo si protrasse come non mai e così facendo, Spike mi riempì una seconda volta del suo latte caldo e vischioso.

Cadde senza fiato sopra di me, lasciandosi adesso coccolare come un bambino, mugolando ad ogni nuova carezza sui capelli e sulla nuca.

 

-Da quanto tempo aspettavo questo momento….-bisbigliò con la bocca seminascosta dal mio seno, strusciandosi sinuosamente a me, evidentemente non ancora soddisfatto.

Per tutta risposta, lo abbracciai stretto, facendomi piccola sotto il suo peso.

Poi alzò il viso a guardarmi, con gli occhi limpidi e onesti, che  tagliarono a strisce leggere la mia anima, ricomponendola finalmente in quella della persona di cui si era perdutamente innamorato al liceo.

-Perché mi guardi così?-

-Così come?-

-Così!…Come fossi una specie di animale sconosciuto…-

-Ti sbagli, Buffy. Ti guardo così perché, ora, ho ritrovato me stesso nei tuoi occhi…non eri la sola ad esserti smarrita…-

-Che vuoi dire?- domandai in ansia, sperando che le mie speranze diventassero  certezze.

-……- ma William non disse più niente, forse pentendosi di quello cui aveva accennato, nel momento preciso in cui lo stava dicendo ed io, per timore o per orgoglio, non seppi insistere. Del resto, sapevamo che iniziare a parlare avrebbe turbato irrimediabilmente quello stato grazia e interrotto per sempre l’armonia ritrovata. Avevamo deciso che sarebbe stata l’ultima volta e nessuno di noi voleva rovinarla, non prima del tempo. Dalle tende, infatti, non filtrava più la luce giallastra dei lampioni in strada, segno che il buio della notte si stava schiarendo e che il tempo a nostra disposizione, troppo presto, sarebbe stato portato via dall’ arrivo del  mattino.

Mi accarezzò teneramente la guancia e continuò, molto lentamente, a far scivolare la carezza lungo il collo, indugiando in mezzo ai seni che si tesero verso di lui con le morbide e invitanti punte rosate; Spike sorrise loro e ne baciò prima una e poi l’altra, senza interrompere il sensuale cammino della sua mano. La fermò sopra la mia femminilità, aggirandola maliziosamente, per accarezzarmi l’interno delle cosce, divertito e lusingato dal mio respiro nuovamente affannato e dai miei tentativi di respirare con regolarità, quando, invece,già ansimavo per la voglia di fare di nuovo l’amore.

Con una mano cominciò a massaggiarmi un seno, stringendolo con forza, modellandolo come creta, mentre raccoglieva interamente nel palmo dell’altra mano la mia femminilità, strizzandola fino a farmi contorcere per il piacere.

Prese allora nel centro della mano il piccolo clitoride gonfio di sangue, schiacciandolo e movendolo contemporaneamente in cerchio, senza smettere di accarezzarmi tra le gambe con le dita, facendole scivolare sui miei liquidi sino alla giuntura estrema con le mie natiche.

Inebriato dal mio ansimare e dal serpeggiare incontrollato dei miei fianchi, lasciò il capezzolo, che aveva torturato tanto da renderlo congestionato e si sistemò a cavalcioni su di me, voltandomi le spalle.

Mi guardò, girato di profilo, con la coda dell’occhio, alzando il sopracciglio ed io annui vogliosamente, agognando i suoi baci per la mia fica.

Quando si chinò e cominciò a leccarla, sentii il sangue pulsare nelle tempie e il letto girare vorticosamente. Il modo in cui le sue labbra carnose avvolgevano il mio clitoride, tirandolo e aspirandolo come per staccarlo, il modo in cui la sua lingua, subito dopo, lo leccava dolcemente, come per placarlo, mi costringevano quasi a pregarlo di smettere, tanto le sensazioni erano intese e confuse.

William meritava di essere ripagato come più desiderava per il delirio in cui mi aveva gettata: presi in bocca solo la sommità del glande, baciandolo come fossero state le sue labbra, leccandolo appena, per poi divorarlo fin dove potevo arrivare.

Sbattevo velocemente la punta della lingua sul piccolo foro in cima al pene, come a volermelo scopare, continuando, con le labbra a massaggiarne la lunghezza ritmicamente, divisa tra volergli dare piacere e godermi quel turbine di sensazioni che la bocca insaziabile e dannatamente rovente di Spike mi regalava generosamente, lavorando tra le mie cosce. Sapevo che lui non si sarebbe fermato, sapevo esattamente cosa gli stava passando per la testa mentre quella era immersa tra le mie gambe. Ed io non avevo nessuna intenzione di dirgli di no. In fondo era quello che volevo: in passato, forse per la giovane età, glielo avevo sempre rifiutato né, tanto meno, mi ero mai piegata alle richieste assillanti di Angel. Se quella doveva essere l’ultima volta, allora, Spike doveva avermi tutta, completamente, senza riserve e senza vergogna.

Fui io a stuzzicarlo, dandogli il via libera, prendendolo piacevolmente alla sprovvista.

Lasciai scivolare via il cazzo dalla bocca e allungai il collo più in alto, insinuando la lingua dolcemente sotto i testicoli morbidi e pieni, girando loro intorno con voluttà, succhiandoli a tratti, mentre accarezzavo debolmente  la schiena di William con le unghie smaltate, sorridendo compiaciuta dei brividi che gli provocavo.

Dopo queste delicate attenzioni, posai le mani sul suo sedere scolpito e spinsi la lingua appena poco più in su, sollevandomi sui miei muscoli  addominali.

William si fermò di scatto:

-Co…cosa…-

-Ssshhh…. Non ti piace più? Una volta mi pregavi perché te lo facessi amore…-

Al tono della mia voce, Spike avvertì le giunture delle braccia cedere ed esitò, stupito oltre ogni limite da un erotismo che neppure io stessa sapevo di avere.

-Come vuoi….- concluse malignamente, pregustando il trattamento perverso che attendeva entrambi.

Quello non era certamente il momento per farlo, tuttavia, se ci fossimo fermati a pensare come avevamo fatto l’amore l’uno senza l’altro fino ad allora….

Con le mani gli divaricai appena le natiche, già rilassate per concedermi una agilità maggiore e iniziai a carezzargli la zona più interna con la punta della lingua, sentendolo gemere come mai aveva fatto sino ad allora.

Il piacere era così profondo e talmente proibito e perverso, da esser persino difficile da assaporare. William, per la prima volta, fu vinto da quelle sensazioni e reso incapace di continuare ad occuparsi di me.

Giocai  a lungo con le contrazioni dei nervi attorno al suo foro più geloso, in preda quasi ad una esaltazione di onnipotenza, per quello che stavo facendo e per i gemiti e suoni gutturali che lui emetteva e che mi guidavano nei movimenti ancora più arditi.

Esagerai, forse, quando infilai la punta della lingua, rigida e soda, proprio nel suo piccolo  buco, così che vi si affacciasse appena, solo per vedere la  reazione a quella invasione contro la sua natura.

A Spike, sfuggì un grido, breve e improvviso, mentre il suo seme schizzò incontrollato su di me, bagnandomi a grandi chiazze il collo e il seno, fino alla pancia, copioso e caldo.

Osare tanto, dunque, non era stato uno sbaglio e ne fui immensamente felice.

Non capivo perché stessi godendo anche io: però sapevo che quando riuscivo a far godere lui, toccavo il cielo con un dito.

-Adesso ricambio il favore….-grugnì da ultimo, soffocando i gemiti che accompagnavano gli ultimi fiotti di sborra.

Si alzò da quella posizione di sottomissione totale, con un guizzo di energia che credevo non potesse avere dopo tutto quello che gli avevo fatto, mi afferrò per i fianchi e mi voltò, premendomi la testa nelle lenzuola.

-Che vuoi fare…- replicai con finta disapprovazione mentre, invece, inarcavo la schiena come un gatto fa ad una carezza.

-Quello che ho sempre desiderato fare…ma che una bambina buona non si è mai fatta fare….-

Solo il pensiero di quello che gli stavo permettendo mi fece inzuppare ancora, strappandomi mugolii sensuali, senza che William mi stesse  toccando.

-Fammi sentire quanto ti stai bagnando….- e allungò la mano tra le mie cosce, sulle quali si era seduto, in modo che non potessi muoverle.

-Oooohhh…. Senti qui….- fece, soddisfatto come non mai.

-E’ perché ti voglio… ti voglio da impazzire….-ero sincera. Senza alcuna finalità di seduzione in quella frase.

William lo sapeva.

-Anche io ti voglio…Buffy, non ho mai desiderato nessuna come desidero te….-

Ed io, in fondo, lo avevo sempre saputo.

William continuò ad accarezzarmi la piccola sporgenza carnosa , stuzzicandola tra il pollice e l’indice, fino a che non gli sembrarono sufficienti i liquidi che fuoriuscivano dalla fica. Allora, con le dita, cominciò a sospingerli verso l’alto, allargandomi le natiche con l’altra mano, pregandomi di rilassarmi.

-Stai tranquilla, amore… ti farò male all’inizio…ma sarà solo un attimo….-

Umettò tutta la zona interna al mio sedere con i miei, fin troppo abbondanti,  umori, gustandosi i movimenti della mia schiena, con cui non facevo che donargli una visuale più eccitante del mio più minuto forellino.

Si chinò su di me e lo leccò, assaporandolo con avidità ma anche con dolcezza, accarezzandomi le cosce per tenermi buona, temendo che potessi improvvisamente irrigidirmi.

Poi si tirò nuovamente su  ed io  trattenni il respiro, aggrappandomi ai cuscini.

Quando appoggiò il pene appena sopra il mio buco, capii di desiderare che non fosse poi tanto delicato, sebbene fossi divorata dalla paura.

-Ehi…non aver paura….- i nostri corpi e le nostre menti giocavano assieme all’unisono: parlare era quasi superfluo…certo, se non fosse stato tanto eccitante sentire la nostra voce sussurrare parole volgari.

Entrò in me con fatica, lentamente e inesorabilmente. Io sentivo un dolore lancinante, come mi stesse tagliando con un coltello.

Ma le sue carezze leggere sulla schiena e i piccoli baci che depositava sulle mie spalle, erano così innocenti e rassicuranti da farmi sopportare il dolore. E poi, sentirlo ansimare così pesantemente, avvertire quanto potesse eccitarlo penetrarmi dietro, mi dava incredibilmente piacere, nonostante la sofferenza atroce per la grandezza il suo cazzo, decisamente fuori misura per quel tipo di cose.

Quando William fu dentro di me sino al bacino, i miei muscoli si erano dilatati incredibilmente ed il dolore di prima era diventata una sensazione che mi paralizzava dalla vita in giù.

Sentivo le gambe scosse da tremori interni, le sentivo leggere e frementi insieme, pur senza che fossero capaci del minimo movimento.

William dapprima non si mosse, attendendo che quella cavità stretta ed inesplorata si adattasse al suo cazzo, in modo da non farmi più male, per consentire invece a lui la più ampia libertà di movimento.

-Va meglio, amore….vero?- sussurrò, trattenendo a stento il piacere.

-Mmmmrgghh…..- emisi un gemito, che voleva dire ‘si’ e presi a scodinzolare sotto di lui. William, incredulo, non se lo fece ripetere.

Cominciò a spingere i fianchi contro di me ,come a volerlo far entrare ulteriormente, mentre lasciava che fossi io ad oscillare la vita sotto il suo peso.

Fummo inondati da un piacere a me sconosciuto, come un lungo orgasmo mancato, lungo, dannatamente lungo da sfinirci mentalmente prima che fisicamente, come fossimo sul punto di venire insieme…solo che durò un’infinità, scotendoci in movimenti forsennati e violenti, facendomi persino sanguinare, senza che né io e né lui vi badassimo, in preda a vibrazioni mai provate. L’unica cosa che potevo distinguere e che stava a significare che ci trovavamo ancora sulla terra, era il cotone delle lenzuola sotto di me. Fradicio al punto che, in un istante di lucidità, mi chiesi se non fosse una perdita di urina, cosa che sarebbe stata possibile, dato che i miei muscoli tutti si contraevano e si rilasciavano contro la mia volontà.

-E’ perché sei troppo eccitata, amore….- mi disse, accarezzandomi il clitoride lievemente, per riprendere a masturbarmi, infilandomi dentro due dita, mentre anche l’udito veniva piacevolmente stimolato dai soffusi gocciolii dei liquidi gelatinosi tra i suoi polpastrelli.

William mi sborrò dentro ben tre volte, senza mai toglierlo e senza mai trascurare che venissi insieme a lui.

 

Ben presto, tuttavia, raggi di sole rosati entrarono nella stanza e si stesero sul letto accanto a noi. E riaccesero i pensieri.

 

 

Capitolo 9.

 

Rimanemmo stesi fianco a fianco a fissare il soffitto, senza dire una parola.

La stanza quasi completamente illuminata dal mattino.

La notte appena trascorsa non era stato un ultimo premio concessoci, non era stato il consolatorio rimedio per due amanti che furono, come nella nostra intenzione iniziale. Avevamo fatto l’amore come fosse un miracolo, vivendolo con naturalezza ed innocenza, dimenticando completamente Angel e Fred, elevando il sesso più spregiudicato al pari degli altri mille aspetti del sentimento che lega un uomo e una donna. Quelle emozioni che avevamo condiviso non avevano nulla in comune con le gioie del sesso occasionale, il che rendeva le nostre storie fuori della porta della camera di William, minacciate da qualcosa di molto più serio di un tradimento qualunque.

La nostra intesa ci aveva travolto con la violenza delle correnti dell’oceano e non lo avevamo previsto: se avessimo saputo di essere ancora tanto vicini, se avessimo anche lontanamente immaginato la potenza delle nostre menti allacciate insieme,  probabilmente ne saremmo rimasti talmente spaventati da non metterci a chiacchierare alla finestra davanti ad una birra. Anzi, entrambi, saremmo fuggiti a tutta velocità da quelle forze imprevedibili che adesso, come era inevitabile, ci schiacciavano con tutta la loro crudeltà, sfracellando le nostre belle vite l’una contro l’altra. E i pezzi erano già cominciati a cadere, nonostante volessimo far finta di niente. Avremmo dovuto arrenderci a tanta maestosità di sentimenti, ringraziando il Dio che ce li aveva donati, anziché  aggrapparci alla nostra normalità e voltare loro le spalle .

-Devo portare mia sorella a scuola…-balbettai, tirandomi a sedere e coprendomi con il lenzuolo. Frase più stupida non avrei potuto trovarla neanche impegnandomi: eravamo a Los Angeles e Dawn era iscritta al liceo di Sunnydale. Ancor più stupidamente, William rispose:

-Certo. Altrimenti farà tardi.- e si sedette dalla parte opposta, fissando i suoi vestiti sparsi sul pavimento; si alzò e accese la luce, infilandosi un accappatoi di spugna color cremisi.

La camera era immersa nella luce e accentuava la nostra ottusità, ferma com’era rimasta al nostro passato: sulle mensole non potei fare a meno di notare alcuni vecchi album che avevamo riempito assieme, le sere d’inverno, quando William frequentava ancora la facoltà di economia. Accanto ad essi, riconobbi i miei  volumetti economici delle opere di Shakespeare, che credevo di aver perso chissà dove e che, invece, avevo prestato a lui.  Dall’anta aperta dell’armadio, un mobile di legno scuro assai antico, dato che il padrone di casa si era ben guardato dal rinnovare i mobili  di un appartamento da affittare a studenti, faceva capolino il lembo sdrucito di una mio cappotto celeste, che avevo completamente dimenticato di aver posseduto.

Accanto al poster dei Ramones, sulla parete di fronte al letto, c’erano tre segni rettangolari, più chiari della tinta del muro dove, una volta, stavano appese tre foto: una mia foto nel giardino della Sunnydale High, con il chupa chups in mano e una terribile minigonna rosa fuscia, in tipico stile anni 80, con scarpette da ginnastica in tela. Ricordai quanto litigammo per quella foto che non volevo assolutamente che lui appendesse, in bella vista, nella sua stanza, tuttavia Spike ne andava pazzo per  via del mio look da lolita e, dopo mille discussioni, lo lasciai fare.

La seconda era quella del diciannovesimo compleanno di Willow, foto che Oz ci scattò al Bronze ed era proprio la sera in cui Spike ed io ci mettemmo insieme.

Nella terza, c’eravamo io e lui a Sunnydale, seduti sulle scalette del portico dietro casa mia.

Adesso la parete era sporca e spoglia. Ed io non ero più la prima cosa che poteva vedere al mattino e l’ultima che avrebbe veduto la sera, prima di addormentarsi.

Mi alzai di scatto e mi vestii il più velocemente possibile, mentre William fumava nervosamente una sigaretta, sporgendosi dalla finestra.

Uscii silenziosamente e richiusi la porta.

William gettò la sigaretta, ancora a metà, in strada, senza neppure guardare sul marciapiede e si girò a fissare la porta, pieno di rabbia.

Improvvisamente, tornai indietro e la aprii lo spazio necessario per potermi affacciare con la testa.

William mi fissò con un espressione di disprezzo dipinta sul volto ed io ne fui profondamente ferita. Tuttavia, mi feci coraggio e mi ripetei che ne valeva la pena:

-William… io darei la mia vita per te, se  fosse necessario….- dissi, respingendo in gola il pianto, perché non vedesse le mie squallide e patetiche lacrime del giorno dopo.

-Anche io Buffy te l’avrei data una volta. Ma tu non l’hai voluta e mi hai tagliato fuori dalla tua vita.- fu tutto quello che mi disse, stringendo i pungi con ira e con disperazione.

Quindi chiusi la porta e, sola nel piccolo disimpegno, lascia le lacrime uscire liberamente.

Dawn si era addormentata sul divano e preferii lasciarla dormire. Arraffai la mia borsetta dall’attaccapanni e scrissi goffamente un biglietto per Willow che dormiva in camera con Oz: “Accompagna tu Dawn a casa, per favore, mentre vieni in ufficio. Grazie, Willow. Ci vediamo là.”

Pensai solo all’espressione di William quando ero rientrata in camera sua e quel disprezzo che c’era sul suo bel viso mi uccise lentamente, nella impotenza di chi sa di aver sbagliato e di meritare il trattamento  che riceve.

Quello che non sapevo e che i miei sensi di colpa mi impedivano di immaginare, era che la rabbia di William era rivolta a se stesso e alla sua ipocrisia, per aver vissuto per anni nella menzogna.

William si incolpava di non avermi saputo capire quando stavo male per il rapporto con mio padre, quando ero tanto spaventata dalle accuse di quello, da voler abbandonare gli studi all’università, inoltre, si accusava di molte altre cose che io non avrei potuto mai sospettare. Per me lui era la persona più speciale del mondo: non aveva nulla da rimproverare a se stesso.

Arrivai in ufficio molto presto, dopo essere passata da casa per sistemarmi e rendermi presentabile, nella paura tremenda che, da lì in poi, il mio lavoro e gli studi da notaio, che avevo intrapreso da privatista, non sarebbero più bastati a garantirmi tranquillità e stabilità emotiva.

Entrai nella mia stanzetta, sbattendo contro il solito archivio ma questo, stranamente, non si aprì. Mi soffermai su quel particolare, mentre accendevo il computer e scaricavo la posta: qualcosa stava cambiando? Perché quel dannato cassetto non si comportava come aveva fatto tutti i fottuti giorni lavorativi dell’anno, al mio passaggio davanti all’archivio? Un brivido freddo percorse rapidamente la schiena. Abbassando gli occhi alla posta elettronica vidi un inusuale mittente: “W&H”. Non che la Wolfram &Hart non ci mandasse posta, al pari di altri cento uffici legali di Los Angeles, solo che per quello c’era la casella postale di Anya ed Angel non mi avrebbe certo scritto una email.

L’aprii immediatamente e, leggendola, sentii il mio piccolo modesto mondo fluire via tra le mie dita, definitivamente:

“Buongiorno, amore. Ti aspetto a pranzo al club, non mancare per nessun motivo. Ti amo. Angel”.

-Ecco. Prima o poi doveva succedere. Era nell’aria da un pezzo.- inspirai profondamente ed espirai più volte, spostando la email nella cartella posta eliminata. Poi svuotai la cartella con un ‘clic’. Per la risposta alla lettera, invece, un ‘clic’ non sarebbe bastato.

Immersi la testa nelle pratiche dell’Avv.Giles, cercando quelle più urgenti ,con foga, scacciando l’immagine di William dalla mente.

-…Buffy…-la vocina di Willow tremava sulla porta del mio ufficio.

Mi voltai e le sorrisi con tristezza, sapendo che lei sapeva e che ciò che non sapeva, comunque, lo immaginava.

-Co..come stai, Buffy?-

-Dawn?-

-Oh,si…l’ho accompagnata a casa e le ho preparato la colazione… ho aspettato che si rinfilasse a letto.-

-Grazie.-

-Di niente…- concluse, guardandomi con compassione e sincero affetto.

-Che mi dici della Ditta K&W? – le chiesi bruscamente per toglierla dall’imbarazzo e dall’indecisione nei miei riguardi.

-Oh…la “Katryna & Warren  manifatture”?-

-Si…qui Giles non ha messo il verbale del pignoramento dei beni…-

-No, non può esserci! L’ufficiale giudiziario dovrà terminare oggi pomeriggio il sequestro…anzi, dovrei andare io in fabbrica, veramente…-

-No, Willow, fammi un favore, lascia andare me, tanto poi mi occuperò io della difesa del cliente pignorante.-

-Come preferisci, Buffy. Devi essere in ditta alle 15. Non dare troppa corda al titolare, mi hanno già riferito in diversi che ha i nervi a pezzi.-

-Eh! Che vuoi fare, il ‘fallimento’ ha questi effetti collaterali…- non stavo parlando più di lavoro.

La conversazione continuò tra me e Will, ma parlammo solo delle pratiche da sbrigare, per tutta la mattina, concentrandoci sui nostri casi per approntare al meglio le difese e le prove per le prossime udienze in tribunale.

Ad ora di pranzo, mi recai all’esclusivo club sportivo di Angel, un centro polisportivo di gran classe, con complesso di bar e ristorante annesso, nel mezzo di un grande giardino all’italiana, pieno di fontane e siepi verdissime, tagliate con gran precisione.

Il portiere mi disse che il mio fidanzato mi attendeva nel privè, ove aveva riservato una saletta apposta per noi.  Mi fermai davanti alla porta laccata di bianco e posai la mano sulla maniglia dorata: mi accorsi che le dita non stavano tremando, come la mia fatidica risposta avrebbe imposto, in quella circostanza che viene una sola volta nella vita.

Sentii un gran sollievo, cosa che non provavo da… non ricordavo neppure quando era stata l’ultima volta che ero stata orgogliosa e sicura delle mie scelte.

Angel mi attendeva tra mazzi di rose rosse e musica classica, scintillante in un abito scuro che lo rendeva magnetico e molto sensuale. Tra le dita, una deliziosa scatoletta di velluto blu che dischiuse davanti ai miei occhi, offrendomi  il suo cuore  e tutta la sua vita.

 

William si affannava lungo la galleria della stazione del metrò, deciso a prendersi i suoi maledetti mobili e spedirli il giorno stesso a Sunnydale col primo tir disponibile: avrebbe perfino caricato tutti i mobili dell’Hotel sul sedile posteriore della Desoto, pur di andar via da quella città che si divertiva a gestire la sua vita, come un pessimo e rozzo burattinaio, strattonando i fili delle sue decisioni.

Appena avevo chiuso il portone di ingresso, lui aveva acceso il cellulare, intasato dalle telefonate di Fred e dai messaggi d’amore e l’aveva chiamata, cercando un po’ di pace nella sua voce. Invero, dopo pochi minuti, istintivamente, tagliò corto con lei, irritato dalla conversazione e dalle sue manifestazioni d’affetto continue. Si convinse che la stizza fosse dovuta proprio al fatto che era lontana e che aveva solo bisogno di tenerla nuovamente tra le braccia, nei suoi baci avrebbe ritrovato la  ragione e la serenità.

Salì con un balzo sulla metropolitana, all’ultimo momento, mentre le porte si stavano chiudendo: se avesse perso quella corsa, temeva che il titolare della ditta di forniture alberghiere si sarebbe dileguato, come già precedentemente, parlandogli per telefono, William aveva compreso essere nelle sue intenzioni.

Mi trovavo in fabbrica da due ore, chiusa nell’ufficio della direzione con la proprietaria, la signora Katryna, una brava donna, pensavo con compassione, mentre illustravo le ragioni legali del cliente dello studio Giles che aveva richiesto la procedura fallimentare. Unico problema della poveretta, problema di lavoro e affettivo, insieme, era il marito.

-Signora, mi creda, se ci fosse un altro modo per tutelare gli interessi del nostro cliente, opteremmo certamente per quello! Ma, come sta scritto negli atti che le ho sottoposto, il pignoramento è la conclusione logica dell’iter legale cui suo marito ci ha costretti.- provavo pena per quella ragazza che piangeva a dirotto sulla scrivania, incurante della mia presenza e di quello che le stavo spiegando.

-Non è per me …sa io mi arrangerò con altri lavori …ma mio marito!-

-Suvvia, signora, non faccia così! Dalla vendita all’asta potrete magari ricavare qualcosa anche per intraprendere una nuova attività…per favore, non renda le cose ancor più spiacevoli di quanto già non lo siano….firmi le carte…ecco, vede…là..- tentavo di consolarla e di fare il mio lavoro bene, cose non esattamente conciliabili dato che era il mio lavoro a farla piangere.

-Vede, avvocato Summers…vede come si affanna Warren? Guardi! Guardi là! E’ un uomo distrutto!!- singhiozzava a gran voce,i ndicandomi il marito di là dal vetro che separava il bell’ufficio dalla ricca sala delle esposizioni.

-Ehh….-sospiravo, nel panico totale, combattuta tra la voglia di prendere a schiaffi Katryna e quella di falsificare io la sua firma, per porre fine a quello strazio di incarico che io avevo deciso di sobbarcarmi al posto di Willow.

-Ma perché non ho lasciato venire lei, quando me lo ha detto stamani? Perchè! Accidenti a me!-

-Come ha detto, avvocato?- la signora Katryna, evidentemente, prestava alle mie parole più attenzione di quello che voleva far credere.

-Nulla. Firmi le carte, per favore!- il mio tono si fece duro, stavo per perdere la pazienza, senza contare che, dopo  di lei, avrei dovuto vedermela con Warren, le cui imprecazioni, mentre i creditori portavano via i mobili dalla sala delle esposizioni, arrivavano ben scandite fino a noi in ufficio.

William entrò dalla porta principale, direttamente nella sala dove erano esposti i begli arredi, non ci volle molto perché il gran movimento di gente gli facesse capire che il suo Hotel a Sunnydale non era l’unico a cui i mobili non erano stati consegnati nel rispetto delle scadenze.

-Ah! Bene bene…ecco …ora si spiega il ritardo…- fece tra  sé e sé, scrutandosi intorno, in cerca di qualcuno che potesse dargli le indicazioni per arrivare in direzione.

-Lei chi è?- ringhiò ferocemente Warren, raggiungendolo a grandi passi.

William arretrò un attimo e si mise istintivamente sulla difensiva: il modo concitato e iroso in cui quel tizio gli si era rivolto non prometteva nulla di buono.

-Chi è lei!- rispose William, mostrandosi niente affatto intimidito.

-Io sono il padrone qui! E lei è entrato in una proprietà privata senza permesso.- Warren gridava contro William, tremando e sfregandosi continuamente le tasche, asciugandosi il sudore dalle mani.

-Bene. Allora: cercavo lei! Sono venuto a prendere i mobili che lei avrebbe dovuto inviarmi un mese fa a Sunn…-

Un pugno colpì William alla mascella, sbalzandolo a terra con un tonfo sordo che risuonò fino all’ufficio in cui mi trovavo, attirando la mia attenzione e quella della moglie di Warren.

Mi ci vollero alcuni attimi per comprendere cosa stesse accadendo: riconobbi immediatamente William, ma faticai a rendermi conto della gravità della situazione.

-Oddio! Warren!! NO!!- la signora Katryna si era precipitata la vetro divisorio, continuando a urlare verso il marito –Non farlo!! Warren!!! Non sparare!-

Vidi estrarre dalla tasca della giacca un pistola e lo vidi impugnarla con entrambe le mani, con la bocca spalancata e gli occhi spiritati, Warren inveiva contro William che stava rialzandosi, nella mia testa rimbombavano solamente le urla agghiaccianti di Katryna.

Uscii correndo fuori dalla direzione, aggirando la vetrata divisoria in attimi che mi parvero ore, credevo di non arrivare mai e di non arrivare in tempo da William.
-Buffy!! Vai via!!! VIA!- strillò William, facendo ampi cenni con la mano.
Il colpo di pistola fece tremare il capannone e poi calò il silenzio.
La corsa convulsa di Warren batté, implacabile, il ritmo del risveglio dal terrore.
William si accasciò a terra, mentre io gli stringevo debolmente il torace.
-Buffy….-sussurrò con gli occhi sgranati, colmi di lacrime, mentre mi circondava con le braccia.

-Ti ha fatto male qui….- dissi in un soffio triste, indicando il segno violaceo sulla sua mascella. Il mio dito indice, non arrivò a sfiorargli la guancia. La mia mano cadde, colpendomi sulla gamba.

-Buffy….Dio…NO!-

-Ho freddo…- provai a rannicchiarmi tra le sue braccia, ma non mi mossi affatto. William vide il sangue allargarsi da sotto la giacca del mio tailleur chiaro, calare sulla gonna e sui suoi jeans neri. Le sue mani, che mi sorreggevano gentilmente, erano imbrattate completamente di sangue e con esse i suoi occhi azzurri. Lo vedevo piangere come un bambino, mentre mi sforzavo di udire la sua voce:le sue labbra si muovevano ma non emettevano alcun suono che io riuscissi a distinguere. Non importava però, perché ora mi teneva tra le braccia e mi coccolava, tenendomi avvolta nella sua giacca di pelle.
Così mi addormentai.

 

Capitolo 10.


Un chiarore si sollevò dalle tenebre ferme, come un sipario lento e pesante, circondandomi della sua luce. Non avvertivo il peso del mio corpo e, per quanto i miei occhi si sforzassero, non intravedevano la sagoma della mia testa o quella del naso o delle labbra: non riuscivo ad alzare le braccia, così non potei neppure vedere le mani. Una luce bianca, sfocata e soffusa, era tutto ciò che si mostrava alla mia vista. Mi guardavo intorno e mi chiedevo perché non fossi terrorizzata: pareva che la vista fosse l’unico senso rimastomi, non percepivo altra sensazione. Trapelava dal pulviscolo di quella luce qualcosa di più del silenzio, era privazione dei suoni conosciuti, completa mancanza di rimandi familiari per ogni udito, solo il rumore del pensiero fluttuava nella nebbia dorata. Così, decisi che dovevo essere immersa nell’acqua. Alzai lo sguardo, dunque e vidi, sopra di me, la superficie del mare e, di là da quella, più luminoso, il cielo. Era molto più bello di come lo ricordassi. Non sentivo il bisogno di nuotare verso l’alto, anzi, ero incantata dai giochi di luce che da sopra provenivano a me: fasci di luce turchese e onde d’argento, trasparenti moti sinuosi tingevano l’acqua di riflessi indefiniti, mostrandomi colori nuovi nell’iride. Mi chiesi cosa ci fosse fuori dall’acqua ma non mi mossi per raggiungere la superficie. Come in un sogno, restai a guardare quei raggi misteriosi danzare in forme sempre diverse, per scomparire sotto di me, n un bagliore accecante sul fondo lontano, dove brillava, forse, un astro d’argento più grande del sole.

Avvertii la presenza della mano destra ,non appena la mia pelle fu coperta gentilmente da dita sottili, posatesi su di essa dal nulla, tirandomi un poco. Allora un tremore lieve percorse il mio braccio e lo mostrò alla vista, con esso, ai miei occhi ritornò la sagoma del mio volto e, subito dopo, apparvero i miei piedi e tutto il corpo.

Davanti a me, il sorriso di una giovane donna,dal volto sereno e calmo che mi guardava con grandi occhi dal colore chiaro. Era vestita di bianco, con un semplice abito liscio lungo i fianchi, sino alle ginocchia. I capelli dovevano essere castani ma i riflessi più biondi, li avvolgevano tutti in una candida opacità, che rendeva difficile soffermarsi a lungo sui lineamenti del viso, lasciandoli in ombra.
-Ciao….-sorrisi.
-Ciao Buffy…..-mi rispose, senza parlare, giungendo a me il suo pensiero portato dall’acqua.
-Dove siamo?- provai io, senza troppa curiosità, trovandomi a mio agio in quel luogo irreale.
-Sei fuori dalla vita, Buffy….fuori dalla tua vita…..non la riconosci, forse?- mi domandò sorridendomi, ancora comunicando in quel suo modo silenzioso eppure stranamente naturale. -Ohh….- feci io, senza capire.

-Guarda meglio,tesoro….-

Alzai gli occhi: il bagliore argenteo del fondale aveva preso il posto della superficie del mare, una luce bianca senza fine e senza inizio, accecante per l’anima e indicibilmente dolorosa per lo spirito; solo per gli occhi era possibile fissarla.
Abbassai lo sguardo spaurita, angosciata dalla mia povertà e miseria, dall’inadeguatezza del mio essere e caddi in ginocchio, sorretta da terra inesistente, sospesa nel nulla.

Con la testa reclinata tra le mie spalle fragili e tremanti, allora vidi la superficie del mare: stava sotto di me, ancora trasparente e luminosa nei suoi giochi colorati, ondeggiando debolmente per mostrarmi il cielo azzurro fuori dall’acqua.
-Buffy….- la voce di quella fanciulla delicata mi rassicurò, ma non alzai la testa, vergognandomi del pianto liberatorio cui mi ero abbandonata.
-Allora, Buffy? Non vuoi guardare la tua vita? Non vuoi che te la mostri?-
La ragazza vestita di bianco mi si fece vicina e, sfiorandomi appena i capelli con la mano, mi invitò ad alzarmi.

-Io …io… –singhiozzavo come una bambina, senza riuscire a controllarmi.
-Lo so, lo so. Non temere! Piangi pure, cara, ma sappi che non è qui che il tuo pianto cambierà la tua vita….-

-Che vuoi dire?-

-Che da qui nessuno può udire il tuo pianto ….né i sentimenti che lo muovono, qualunque essi possano essere….-

Esitai un attimo e la fissai, visibilmente crucciata, non perché interpretassi le parole di lei come un rimprovero, ma perché non riuscivo a comprenderne il significato, mentre ne avvertivo, l’enorme importanza.

-Guarda ….- e mi indicò, con la mano distesa, la fine dell’acqua sotto di noi.
Allora mi resi conto di non essere mai stata immersa nelle acque del mare, l’oceano era sotto di me. Una distesa infinita di blu, calma e placida come un piccolo lago durante una tiepida primavera, ma di cui l’occhio non vedeva la fine.
-Vieni….abbassiamoci un poco…- fece lei, tenendomi per la mano. Stavamo volando sopra quel mare con la maestria dei gabbiani, ma leggiadre come farfalle sui boccioli dei fiori, quando vi si posano e non fanno tremare i petali più sottili. Né l’aria rallentava il nostro andare. I capelli non ondeggiavano mossi da vento, né gli abiti che avevamo indosso, né sulla pelle sentivo alcuna brezza ad accarezzarmi, eppure ci muovevamo sopra quell’infinità azzurra e verde, che ci oltrepassava veloce sotto il mio sguardo tranquillo.
-Io non vedo niente….- osai timidamente, incontrando gli occhi della giovane.
-Ooohhh….si che vedi…..- sorrise lei, fermando il nostro volo in un punto più chiaro del blu –Non riconosci quella bimba laggiù?- domandò divertita.
Sotto di me, il colore profondo del mare si accendeva di un celeste sempre più luminoso, scoprendo una nuvola dietro l’altra e, giù giù, dal cielo, scese sui tetti delle case, fino all’erbetta verde di un giardino.

Là, una bambina saltellava attorno ad un uomo che scavava una buca nel terreno, mentre una donna dai dolci occhi nocciola, teneva tra le mani un piccolo arbusto.
-Oddio….-tremò la mia bocca e con entrambe le mani la coprii, per soffocare un grido. Quella bimba ero io.

Con i miei genitori, eravamo appena giunti a Sunnydale, stavamo ancora facendo il trasloco, quando feci i capricci fino a convincere i miei a piantare un albero davanti alla nuova casa.

-…dicevo che non avevo amici…e che sarebbe stato quell’albero il mio primo nuovo amico….- non potei fare a meno di ricominciare a piangere, per la commozione di un ricordo felice, ritrovato nella memoria.
-Coraggio….Buffy, ci sono ancora tante cose che voglio mostrarti….-
Seguii il volo di quella ragazza senza più curiosità su dove mi trovassi, senza più chiedermi come ci fossi arrivata.

Poco ancora e di nuovo lei mi pregò gentilmente di aguzzare un po’ la vista:
le acque silenziose lasciarono che vedessi la nascita di mia sorella, la gioia che portò nella nostra famiglia l’arrivo di Dawn era impossibile da descrivere. Ad essa mia madre affidò tutte le sue speranze di salvare un matrimonio già in discussione da anni, destinato, inesorabilmente a finire, solo dopo avere dispensato dolore e lacrime a tutti quelli che ne furono coinvolti. Tuttavia, le acque non mi svelarono subito quei risvolti più tristi, donandomi, invece, tante altre emozioni bellissime, che avevano riempito la mia infanzia.

Man mano che avanzavamo su quel mare fatato, non mi accorgevo come la mia vita stesse scorrendo sotto di me: di lì a poco, mi sarei trovata ad essere travolta da tutta la sua forza.

-E adesso?…-ero ansiosa e felice, cercando con gli occhi in ogni punto delle acque, sfuggendo alla guida sapiente di quella fanciulla che sapeva farmi volare senza ali, aggirandomi confusamente sopra l’immensa distesa.

D’un tratto mi fermai. La giovane donna mi si fece accanto, riprendendo la mia mano tra le sue, stringendola un pochino di più, per essermi vicina, nonostante lei, meglio di chiunque altro ,sapesse che solo io dovevo trovare in me la forza di non lasciarmi sopraffare dal dolore.

Qualcosa di più azzurro di quelle stesse mistiche acque apparve tra le onde leggere.
Nel buio fittizio del vecchio Bronze, tra la folla agitata e confusa, incrociai gli occhi di William, mentre mi dimenavo al suono di una musica assordante. Mi trapassavano sicuri e accattivanti, facendomi piegare le gambe sui primi tacchi dell’adolescenza.
Li potei sentire fasciare il mio corpo, avvolgermi lentamente dalle caviglie e scorrere, lascivi e golosi, fino alla nuca, per fermarsi ad assaporare le mie labbra, ingenuamente lucidate dal rossetto della mamma.

Allora, trascorrevo le mie giornate cercando di apparire sensuale e provocante per i ragazzi della scuola e solo in quel momento, quando William posò gli occhi su di me la prima volta, capii che non era servito a niente. Compresi cosa significava essere bella e mi spaventò a morte che fosse un ragazzo a farmi sentire in quel modo, anziché i miei abitini alla moda o il trucco pesante. Il respiro mi si fermò in gola, mentre continuavo a ballare con Willow, fingendo indifferenza quando, invece, senza riuscire a seguire più il ritmo della musica, scampai miracolosamente ad una caduta sulle ginocchia in mezzo alla pista.

-Era bellissimo….- mormorai, provando una grande tenerezza per la ragazzina innocente che ero , ma anche un’immensa gioia perché, quelli a seguire, sarebbero stati gli anni più felici della mia vita.

Rividi me stessa alla festa di compleanno di Willow, ancora al Bronze,lei e Oz erano già una coppia allora ed io, quella sera, ricevetti il primo bacio da William. Gli altri stavano ballando e lui ed io ce ne stavamo in disparte, a parlare, in un angolo più riparato del locale, sotto le scale del mezzanino.

Non avevo mai dimenticato la posizione in cui era sistemato Spike, di fronte a me che me ne stavo appoggiata al provvidenziale sostegno in ferro della balaustra delle scale. Averlo tanto vicino, mi impediva di reggermi da sola sulle gambe. C’era un faro giallo alla mia sinistra, che illuminava il bancone del bar ed alcune poltroncine…. La luce si mise un istante tra di noi…e poi….mi baciò.
A lungo, dolcemente, sotto quelle scure scalette del mezzanino del Bronze.
Non avevo dimenticato alcun particolare di quella scena e le acque del mio strano sogno me lo confermavano, ciò nonostante, non potevo fare a meno di commuovermi.
-Perché piangi, Buffy?- domandò la ragazza – Non è un bel ricordo quello che vedi?-
-Si si…è bellissimo…solo che….-non riuscivo a parlare, o meglio,mi vergognavo terribilmente della mia vita e mi sarei vergognata ancora di più se avessi dovuto spiegarne i motivi.

A seguire, mi furono mostrati i momenti più divertenti degli anni trascorsi con Spike e con tutta la allegra compagnia del Sunnydale High, ore felici e spensierate di un passato che era stato veramente generoso con me.

Man mano che ci addentravamo verso quello che reputai essere il centro dell’oceano, i colori sotto di me sembravano farsi più ombrosi e il turchese chiarissimo si scurì lentamente, mentre sparivano le venature luminose della cielo fuori dalla superficie.

Un brivido di freddo improvviso salì dalla schiena sino alle mie guance.
L’acqua adesso era lievemente increspata ed era più difficile scorgere cosa nascondessero le sue onde più profonde. Vidi mio padre.

Era seduto sul divano del salotto, io scendevo le scale rapidamente, poco prima mia madre aveva sbattuto la porta di camera e si era chiusa all’interno.
Mio padre mi vide e venne verso di me.

Avrò avuto circa 20 anni, dal taglio di capelli che portavo.

Compresi che cosa stava per accadere e collocai facilmente la scena al tempo del secondo anno del college. Ero a Sunnydale per le vacanze di Natale.
-Sei tale e quale a tua madre, tu! Non combinerai niente di buono! Ed io che mi ostino a pagarti le rette universitarie! Per cosa, eh? Finirai a scarabocchiare tele nel corridoio di una qualche deprimente galleria di provincia! Altro che avvocato!-
-….ma cosa…. Perché? Cosa è successo? Io non….-

Rivedendomi aggrappata con entrambe le mani al passamano di legno, sentii ancora le dita bruciarmi dallo sforzo per sorreggermi e il sapore di quelle lacrime ingiuste, mai piante per orgoglio, mentre venivo ferita dalla persona di cui mi fidavo di più al mondo.

-Pretendo i risultati migliori di tutto il tuo corso, se vuoi che io ti paghi la retta annuale, dovrai dimostrarmi che vali i miei soldi? Ci siamo capiti? Oddio! Quanto ha ragione la mia segretaria! Sei una succhia soldi ingrata: ecco cosa sei! Vergognati!-
Udite quelle ultime parole, lascia la mano della fanciulla e mi lasciai cadere nel vuoto per tuffarmi nell’acqua e raggiungere me stessa. Volevo aiutarmi. Senza pensare ,senza neppure capire cosa stesse accadendo: volevo solo essere di conforto a me stessa in quella terribile situazione, proteggere la ragazza indifesa e inconsapevole che ero a quel tempo.

Sprofondai nell’acqua per riemergere dall’altra parte. L’oceano scuro era ancora sotto di me. E sopra ancora la luce bianca.

-Buffy, non puoi cambiare quello che accaduto….- mi disse la giovane donna, con rammarico.
-Ma… ma…non è giusto …io non meritavo quella cattiveria…-
-Lo so, Buffy. E neppure tutte le altre che da tuo padre ricevesti nei mesi a venire.-
-Lui pensava solo alla sua segretaria…giravano il mondo per lavoro…e per piacere …e lei lo manipolava come fosse un ragazzino…ed io e la mamma …e Dawn..-
-Cosa accadde in seguito?-

-Fu l’inizio della fine, per me. Mio padre fece quanto di peggiore potesse fare: continuò a pagarmi il college, per liberarsi la coscienza che gli rimaneva, trattandomi come se gli rubassi il suo denaro. Io, invece, puntavo tutta la mia vita sullo studio. Immaginavo il mio futuro accanto a William, entrambi laureati, avremmo potuto finalmente gestire il suo hotel insieme, forse, addirittura,aprirne altri in California… Sapevo che il college mi avrebbe preparato al lavoro dirigenziale cui aspiravo,al fianco di William…. Ma non riuscii più a studiare: ogni libro che acquistavo…ogni corso a cui mi iscrivevo…pensavo solo che lo stavo facendo con i soldi di un padre che non credeva valessi un solo centesimo di quelli che mi mandava… Non potevo sopportarlo. Così, smisi di frequentare le lezioni e mi trovai uno squallido impiego in un fast food. Ero distrutta. Arrabbiata con il mondo e con Dio. Soffrivo per come venivano trattate mia madre e la mia sorellina. E vedevo il mio bel futuro sfuggirmi tra le dita.

In qualche assurdo modo, credo di aver cominciato ad incolpare anche William.
Lui aveva da tempo lasciato il college, del resto non era tagliato per qual tipo di studi economici, tuttavia il lavoro nell’hotel di famiglia gli riusciva incredibilmente facile.
Ed io? Io non ero nulla. Non sapevo fare nulla. A stento riuscivo ad emettere gli scontrini fiscali tra gli hamburger e le patatine disegnati sui tasti della cassa.-
Per un tempo che non sapevo come scorresse realmente, restai in silenzio a fissare le acque ormai nere sotto di noi. Di tanto in tanto, qualche onda agitava di viola chiaro le onde lievi.

-Ho tradito chi mi amava di più al mondo.- dissi a bassa voce, nascondendomi allo sguardo della ragazza immobile accanto a me.

-Tuo padre?-

-No. Ho tradito William. Capisci? Il suo amore incondizionato e leale, che mi seguiva nei miei umori e nei miei problemi. Una sera conobbi un ragazzo, Riley. Molto bello, del tutto diverso da Spike, nei modi di fare. Mi colpì non so nemmeno io perché o ,adesso, non me lo ricordo più. Ma per me era l’occasione perfetta per scacciare da me l’ultimo amore rimastomi accanto. Era molto meglio che lo distruggessi io, prima che fosse William stesso a mandarlo in frantumi.-
-Capisco. Tu avei paura che ti venisse a mancare l’amore di William, un giorno o l’altro. Quindi hai preferito privartene subito. –

-Credo di sì. E’ accaduto qualcosa del genere. L’ho ferito nel modo peggiore che conoscessi. Così se ne sarebbe andato. Avrebbe sofferto un po’ all’inizio, ma poi si sarebbe rifatto una vita. Le donne non erano certo un problema per Spike.-
-Così vi siete lasciati.-

-No. E’ accaduto quello che io non avrei mai immaginato.-

-Mi stavo sbagliando, ti rendi conto? Il suo amore era più forte della mia stupidità e dell’ombra scura che si stava avvolgendo attorno al mio cuore.-

-….cosa mi stai dicendo,Buffy?-

-Che William mi perdonò. E quello mi ha segnato per sempre. Compresi che era amore autentico. Uno di quelli che il resto del mondo trascorre la vita a sognare di incontrare. Ma come potevo io meritarlo? Ero sbagliata, sai? Completamente sbagliata. Non ero riuscita a frequentare il college. Non sapevo trovarmi un lavoro decente. Non ero neppure capace di ottenere la fiducia di un padre. –

-Ma le cose non stavano così! Non era colpa tua! –

-Si. Con gli anni, credo di averlo capito. Ma in quel momento ero disperata. Avevo la cosa più preziosa tra le mani e non sapevo cosa farmene. Provavo solo rabbia per me stessa. L’unica cosa che pensai di fare, fu di salvare William da quella rabbia. Lui mi amava ed io lo tradii di nuovo. Cercai di mostrargli i miei lati più riprovevoli e meschini, sperando che si sarebbe convinto che non ero la donna che doveva amare.-

-E funzionò?-

-Non l’ho mai capito.-

-Vediamo….-sussurrò la fanciulla e, accostando la mano alle labbra, soffiò gentilmente sulle dita, sprigionando dal palmo una lucente polvere, tra il rosso e il rosa. Il nero sottostante divenne lentamente grigio e andò aprendosi sempre più,in un celeste chiaro. Apparvero delle nubi vaporose e in basso,tante luci colorate.
-Los Angeles…-feci io, con un filo di voce.

La Desoto parcheggiata in strada, davanti al mio appartamento, sotto una pioggia battente di smog e fumo. I vetri appannati. Dentro, io piangevo, implorando Spike di non cercarmi più. Dovevo stare sola. Sarebbe andata bene. Oppure male. Ma non potevo amarlo come lui amava me. Prima avrei dovuto amare me stessa.
-Tu devi continuare a vivere. Solo così uno di noi può vivere. Questa è l’ultima cosa che mi disse….prima di uscire dalla mia vita.- conclusi io, trovando, da ultimo, il coraggio di incontrare gli occhi trasparenti di quella strana amica.
-E’ una bella storia, sai?- il tono disteso della sua voce mi stupì e mi rasserenò, senza che sapessi il motivo.

-Trovi? Non so…non credo …per me non lo è.-

-E per quale ragione, se è lecito domandare?-

-Finisce male, ti pare?- feci io, con tristezza.

-No, se sei tu a scrivere la fine.- disse, sorridendomi sicura.

-Che vuoi dire?- per quanto mi impegnassi, non comprendevo mai appieno quello che le parole della ragazza tentavano di dirmi.

-La vita continua, al di là delle tue tenebre e tu la stavi portando ad un lieto fine.-
-Che?…Oh, no. Non direi proprio. L’unica cosa buona che ho fatto è stata lasciare libero William di costruirsi un futuro lontano da me.-

-Se lo dici tu. E del tuo futuro? Cosa ne hai fatto?-

-Non ho scritto “ Si sposarono e vissero tutti felici e contenti.” Ho rifiutato la proposta di Angel.-

-Lo so bene.- e lei sorrise apertamente, stavolta, nel rispondermi.

-Lo sai?-

-Hai creduto di rifiutare l’amore, Buffy. Ma ne hai dato, senza che te ne accorgessi, la più grande prova: hai rinunciato all’amore, per amore di chi ami. Ecco perché hai lasciato William. E poi, dopo la preziosa nuova vita che vi siete costruiti, lontani l’uno dall’altro, tu gliela hai donata alla prima occasione che ti è presentata. E questo, cara, è Amore.-

-……..- cosa potevo dire?

-Adesso, Buffy, io ho fatto del mio meglio. Attorno al tuo grande cuore, la ferita si sta rimarginando…. Devi fare tu il resto….se vuoi scrivere un bel lieto fine per questa storia.-

 

Sentivo le palpebre pesanti e le braccia pungermi all’altezza dei gomiti. Le guance erano intorpidite e non riuscivo a parlare.

Aprii gli occhi dopo non so quanto tempo che tentavo di farlo.

Dapprima c’era solo un’ombra. Era tutto sfocato e debolmente illuminato di colori bluastri.
La fanciulla era davanti a me, sorridente come sempre, nel suo semplice abito bianco.
Un odore acre di disinfettante batteva nella mia gola.

-Dove sono….-biascicai con la bocca impastata, senza scandire bene le parole.
-Ciao, Buffy…-

-Ciao…-risposi a fatica, provando un sorriso.

-Io sono Tara. Ti ho tolto un bel peso dal cuore, sai? Però, la più brava sei stata tu.-
-…..che…co…-
-Fuori c’è il tuo fidanzato. Vado a dargli la bella notizia! Non ti ha lasciato da sola un attimo …..-

 

Capitolo 11.

Non appena la giovane chirurga toccò la maniglia di metallo, al primo lento cigolio, un nevrotico calpestio risuonò per il corridoio deserto dell’ospedale, giungendo nitido sino ai degenti dei piani inferiori.

Dawn, Willow ed Angel si pararono davanti alla dott. Mac Clay , con il volto contrito e gli occhi sgranati.

-E’ sveglia? Mia sorella è sveglia? –

-Come sta?-

-Le ha parlato? Possiamo vederla?-

Parlarono insieme, alzando ciascuno la voce per coprire quella dell’altro ed avere la risposta sperata.

Tara aggrottò un momento la fronte e scrutò la corsia, prima a destra, poi a sinistra, in cerca di qualcuno. Sospirò, delusa.

-Buffy è molto debole e frastornata. Il coma farmacologico lascia confusi e spossati. Non aggreditela: è l’unica cosa che vi raccomando. Potete entrare, ma solo due minuti…il tempo che io vada a chiamare i miei colleghi.-
-Grazie!- fecero in coro, urtandola nella foga di oltrepassare la soglia della mia stanza.
La dottoressa si pentì immediatamente di aver permesso loro di entrare a farmi visita e pensò che sarebbe stato meglio affrettarsi a chiamare i colleghi per potermi visitare quanto prima e sottrarmi allo stress di parenti e amici.
Solo un passo mosso verso lo studio dei medici e un’ombra sottile si allungò

lungo una delle colonne dell’atrio.

Senza esitazione, certa di chi fosse, Tara gli rivolse subito la parola:
-Stavo chiedendomi dove fosse…dopo che ha trascorso gli ultimi giorni senza mai lasciare la clinica, ero veramente stupita che se ne fosse andato proprio adesso!-

William si era defilato rapidamente quando aveva visto arrivare dalla finestra le auto di Willow e di Angel, cercando di nascondersi per non incontrarli, senza però mai voler uscire dall’ospedale dove ero ricoverata. Aveva fatto così per tutti i sei giorni trascorsi da quello in cui ero stata ricoverata per la ferita da arma da fuoco, infertami da Warren.

 Non voleva essere visto. Non sapeva bene cosa lo spingesse a sparire quando arrivavano Dawn e Willow, ma non poteva farne a meno. Forse non voleva condividere con nessuno il suo dolore, forse era geloso di quella sofferenza, forse temeva che fosse l’ultimo filo che lo legava a me.

La notizia si era sparsa velocemente e i giornali avevano spiegato che ero stata ferita al posto di un'altra persona, alla quale avevo volutamente fatto da scudo.
Quindi Angel sapeva. Ciò nonostante e, soprattutto, nonostante il mio rifiuto alla sua proposta di matrimonio, lui era venuto tutti i giorni in ospedale per avere mie notizie.
William si sottraeva a quegli incontri anche per non dover affrontare Angel: se,certamente, non lo temeva, tuttavia lo impensierivano le spiegazioni che lui avrebbe potuto pretendere. Cosa avrebbe dovuto rispondere ad Angel che gli chiedeva cosa mi avesse spinto a mettermi tra lui ed un proiettile?

 Oh, beh, l’amicizia. Sì. Come no. Angel non era uno stupido e William lo sapeva: troppo poca una frazione di secondo perché un sentimento di amicizia sospinga il tuo cervello ad ordinarti di morire! E allora, William avrebbe dovuto probabilmente spiegare ad Angel tutto quello che era accaduto nei cinque anni precedenti, anni trascorsi al mio fianco, inconsapevole e felice, per un amore che non c’era. Anni in cui William ed io mai ci eravamo parlati o incontrati. Come spiegare ad un uomo innamorato che la donna, con cui progetta di passare il resto della sua vita, non è mai stata sua? Nemmeno per un momento, quando la stringeva tra le braccia. Come spiegargli che io non ero mai stata lì con lui?

E comunque, anche se Spike fosse stato armato di tutte le buone intenzioni,in quella situazione in cui io lottavo tra la vita e la morte, non avrebbero certamente avuto una conversazione sana e normale. Avrebbero, entrambi, sfogato la rabbia repressa che li attanagliava da tutti quegli anni. Questo valeva anche per Angel: lui era così sicuro di me e del mio amore… da volermi sposare subito dopo che ero tornata sa Sunnydale per il funerale della mamma. Ero convinta che Angel, nonostante non riuscisse ad ammetterlo, nel profondo del suo cuore, avvertisse che qualcosa era cambiato…o che non era mai stato quello che poteva sembrare.
C’erano troppe emozioni fuori dalla camera in cui dormivo profondamente: stati d’animo contorti e confusi, pensieri grigi e paure recondite negli animi di tutti, una forte carica di amore che si sarebbe potuta sprigionare in ogni imprevedibile manifestazione.
Meglio allora nascondersi dietro una colonna.

In fondo era solo per qualche ora : quando Dawn e gli altri venivano a farmi visita. Il resto del giorno, Spike mi aveva tutta per sé. E sedeva accanto al mio letto, guardandomi e tenendomi la mano tra le sue. Alle volte mi parlava di lui e di quello che aveva fatto a Sunnydale da quando vi aveva fatto ritorno per lavorare nel suo Hotel. Diceva di essere stato bravo a gestirlo, anche senza che i suoi genitori se ne occupassero più a tempo pieno, ma….neppure lui aveva mai smesso di sognare di aprirne un altro in California, uno che fosse proprio tutto suo. Alle volte, invece, mi aveva parlato del periodo del college oppure,altre volte, non mi parlava, mi sussurrava all’orecchio le canzoni che più gli piacevano, carezzandomi le dita immobili sul lenzuolo …per poi fermarsi e fissare le gocce maledette che scendevano, lente da fargli male, nel flacone di vetro e scivolavano viscide nel tubicino di gomma che entrava nel mio braccio livido e ossuto.
-…come sta?- domandò alla dottoressa.

-Meglio…quasi bene. Potrebbe star bene se si facesse vedere da lei. Credo che sperasse di trovarla lì, al suo risveglio.- osò Tara, guardandolo attentamente.
-E lei cosa ne sa?- le rispose in malomodo, mentre un pianto incontrollato e scomodo spingeva nella gola per uscire sulle guance, scavate e pallide, di William.
-Lo so e basta. Sono io il medico, ricorda? E comunque, mi scusi se sono stata indelicata. Se vuole vederla, dovrà tornare domani però. Stanotte non può restare, Buffy dovrà essere a lungo visitata dai miei colleghi e da me e….io non potrò, di nuovo, far finta di non averla vista, dietro una tenda o accucciato dietro un macchinario, quando chiuderò la porta della corsia! Mi sono spiegata?-
-No..no..aspetti, non volevo essere maleducato…mi perdoni! E,l a prego! Non mi mandi via! Mi lasci restare vicino a Buffy, solo stanotte, poi me ne andrò.-
-Mmh. Ecco, così va meglio! Non quanto alle scuse ma riguardo al fatto di starle vicino …-
-Grazie.-

Quando mia sorella entrò nella stanza, si gettò in lacrime sul letto e mi mancò il respiro, da quanto accusai qual sobbalzo incauto sul materasso. Ma non la rimproverai: non ne avevo la forza! E poi mi faceva pena, povera piccola, aveva da poco perso la sua mamma ed io ero? Già! Come ero finita in ospedale?
Willow con le lacrime agli occhi mi disse qualcosa che dimenticai subito,mentre Angel mi strinse le dita della mano con dolcezza, con gli occhi lucidi, senza parlare. Ma io capii che sarebbe stata l’ultima volta in cui lo avrei visto.
Dopo quelle che a me parvero interminabili ore, la giovane dottoressa entrò nella camera, seguita da altre tre o quattro persone vestite di bianco, dal volto sereno e soddisfatto.
-Oh, Buffy, sono tanto felice…-piangeva ancora la mia sorellina.
-Adesso andiamo, Dawn- fece prontamente Will-Torneremo domani!-
Angel era uscito per primo, salutandomi con un debole cenno del capo e tanta tristezza negli occhi.

Rimasta sola con i dottori che si muovevano coordinati e precisi intorno a me, attaccandomi una flebo e staccandomi l’altra, tra ventose appiccicose di gel per elettrocardiogramma e sfigomanometri manuali, dopo una lunga serie di iniezioni e di domande a cui non sapevo rispondere con l’esattezza che si aspettavano, lasciarono la stanza, uno ad uno. Tara per ultima, abbassò le luci e chiuse la porta. Mi parve vederla farmi l’occhiolino prima di uscire, regalandomi uno dei suoi luminosi e rasserenanti sorrisi.

Provai a prender sonno, ma mi risultava molto difficoltoso dato che non ero libera di muovermi come volevo nel letto, già scomodo di per sé, a causa di quegli aghi infilati nelle braccia che mi iniettavano antidolorifici e antibiotici.

Girai gli occhi in su, osservando quanto rapidamente scorressero i liquidi nei flaconi.
Sbuffai. “Segno buono!” pensai: se comincio a trovare cose che non mi vanno bene, deve significare che non sono messa tanto male!

Fuori dalla finestra doveva essere notte fonda: dall’avvolgibile sollevata, potevo intuire quel buio nero nero, quello che sta a metà tra il tramonto e il sorgere del sole, quando solo i raggi artificiali dei lampioni ti indicano la strada, illuminando tutto di quel colore giallastro orribile. Però sentivo il fruscio degli alberi, i rami si piegavano al vento, coprendo i rumori delle poche auto e questo era bello.
Poi la porta si aprii lentamente, sembrava non volersi mai aprire del tutto, a dir la verità ed io strinsi poco più forte gli occhi, per vedere chi fosse, sollevando, come mi riusciva, la testa che non era mai stata tanto pesante.

Fu un riflesso a farmi commuovere.

Il riflesso argentato dei suoi capelli che venne da me prima di lui. E mi portò una lacrima di gioia.

Come se tutto fosse sempre stato lì, da qualche parte, nella mia testa, ricordai d’un tratto cosa era accaduto quel pomeriggio alla K&W, poco dopo le 15. Risuonò lo sparo nelle mie orecchie ed accostai la mano al torace, sentendo la spessa fasciatura che mi avvolgeva, sensibilmente più alta sul seno sinistro.
William si fermò ai piedi del letto, incerto sul da farsi, intimidito da quella lacrima piccola e sola che rigava il mio viso, temendone le ragioni.

-Ti prego….-bisbigliai io,mentre altre lacrime, pian piano, raggiungevano quell’unica.
-…passerotto….-

-Mi abbracci un pochino….- mugolai io.

 

William mi strinse delicatamente. Restammo così. Un po’. Fino a quando ci andò di farlo.  Mentre pensavamo alle parole da dirci quando fossimo tornati a guardarci negli occhi. Ero felice. Avevo il cuore bucato per davvero adesso, comunque sia, c’era mancato poco. Ma ero incredibilmente felice.

Capitolo 12

Il peso del corpo di William su di me, coccolata in quell’abbraccio quanto più delicato possibile, divenne troppo presto doloroso per la ferita ancora aperta a seguito dell’intervento e fui costretta a chiedergli di sollevarsi, mio malgrado: sarei rimasta sotto di lui fino all’indomani, se fosse dipeso dalla mia volontà.
-Scusa…- disse preoccupato, scostandosi prontamente da me al mio lamento.
-Mi dispiace tanto…ma sento male…-

-Buffy ….io…-

-Non devi dirmi niente, amore…e non devi preoccuparti per me, come vedi, non sono così fragile come sembro…-cercai goffamente di alleggerire l’atmosfera tra di noi e il nostro enorme imbarazzo, dovuto proprio alle cose che ci ostinavamo a non dirci.

William si oscurò in volto e rimase in silenzio a guardare il mio viso.
Dovevo avere un aspetto terrificante, lo sentivo in tutta la sua bruttezza sulla pelle e sui capelli, per non parlare di quell’orrenda camiciola che indossavo.
Eppure lui mi fissava rapito, naufrago nei miei occhi, tra le onde incessanti e tumultuose dei suoi pensieri che lo sospingevano, oramai furiose, da una parte all’altra, tra le convinzioni di sempre e l’immenso bisogno di verità.
Pian piano che i miei occhi ritrovavano l’abitudine alle immagini vicine e lontane, riducendone l’opacità e le sfocature, potei osservare con calma William, il suo volto e i suoi abiti.

I capelli erano scompigliati e ispessite le ciocche alla radice, sicuramente da residui non eliminati di gel e, sulla fronte, credetti di vedere una ruga appena accennata alla quale non avevo mai fatto attenzione, prima di allora. Le guance erano scavate e gli zigomi, sagomati in una maniera deliziosamente ammiccante dalla mano di un angelo, apparivano sensibilmente più pronunciati. E i suoi occhi erano così segnati!

Quanto tempo aveva trascorso accanto a me? Per quanti giorni avevo dormito?

E William? Aveva dormito William?

Mossi poco la testa verso di lui, non riuscivo a vedere bene, per colpa della poca luce nella stanza e perché non potevo sollevarmi dal cuscino come avrei voluto, tuttavia notai che lui portava una camicia annodata attorno alla vita. Non saprei dire se la vidi realmente o se solo la immaginai, però fui certa che ci fosse una grande macchia, molto più scura della stoffa, forse marrone o nera addirittura, sulle maniche di quella camicia.

Spike era stato sempre con me, dunque?

-Sai…io…non ti ho lasciata mai sola, Buffy, sono rimasto sempre accanto a te.- sussurrò incerto, guardandomi ancora più intensamente.

-Lo so, Spike. – gli sorrisi, cercando di non ricominciare a piangere di gioia.
Allungai una mano verso di lui, per toccargli la guancia, ma sentii pungermi l’ago nel braccio e mi fermai senza poterlo raggiungere.

William, allora, accostò la guancia alla mia mano, per farsi accarezzare, premendola contro il mio palmo freddo, strofinandola con tenerezza come cercasse in essa tutte le conferme dei nostri sentimenti.

Vedevo lui che chiedeva il mio amore e pensai che non mi sarebbe importato di rischiare nuovamente la vita se, al risveglio, avessi potuto, ogni volta, sentirmi amata da Spike.

-Non dovevi farlo…- William cominciò a piangere proprio quando era convito di non avere più lacrime da versare, dopo aver vegliato, tanti giorni e tante notti, sul filo di fiato che usciva a stento dalle mie labbra, temendo che cessasse se avesse lasciato la mia mano.

-Non dovevi farlo..-ripetè confusamente –Potevi morire, Buffy, lo sai? Hai rischiato di morire…e poi? Cosa avrei fatto io senza te? Eh? Cosa?-
-Amore, io lo rifarei cento volte…. Perché …Tu dovevi vivere, Spike, perché uno di noi continuasse a vivere…- gli parlavo mentre piangeva e mi sentivo terribilmente in colpa, perché il mio cuore, pur ricucito dal filo di sutura, traboccava di felicità.
Un sorriso incredulo, nato da una smorfia di tristezza, fece capolino per quello che gli dissi, tramutando il ricordo doloroso che segnò la nostra separazione in semplici parole d’amore.

Si chinò su di me e mi baciò le labbra.

-…Quindi tu, nel frattempo, puoi farti sparare quando ti pare…-

-…uh?- aggrottai le sopracciglia, certa di aver capito male.

-Stupida. Dannatamente stupida. Ecco cosa sei. Stupida.- ringhiò sulla mia bocca, mentre rifletteva sui baci che mi dava.

 

La convalescenza sarebbe stata lunga e Dawn fu ben felice di tornare a Sunnydale per trascorrere a casa il tempo necessario a rimettermi completamente in forze.
Dal giorno del mio risveglio dal coma, ne passarono almeno altri quindici prima che la dottoressa Mac Clay firmasse la mia cartella clinica e acconsentisse alle mia dimissione dalla clinica.

William, intanto, aveva lasciato Los Angeles per tornare da Fred e,mi disse, spiegargli con calma le cose.

Quali cose volesse spiegargli, esattamente, io non lo domandai.

Ero certa che mi amasse, finalmente, ma non ero del tutto sicura che, una volta a Sunnydale, di fronte a quella ragazza che lo amava con tutto il cuore e che viveva per lui, trovasse il coraggio di dirle la verità. Dovevo ammettere di essere ancora insicura. No, non era proprio insicurezza, solo era troppo bello per essere vero. E poi, per essere del tutto precisi, William non mi aveva espressamente detto ‘ti amo’…ero io che lo avevo capito…dunque potevo sbagliarmi! In passato,con Angel, non mi ero forse sbagliata sui MIEI sentimenti? Meglio potevo sbagliarmi su quelli di un’altra persona! No! Non potevo, se si trattava di Spike! E se, in ospedale, si fosse solo fatto prendere dalla commozione?

-Celebrale, sorella! Celebrale, ce l’hai celebrale 'la commozione', se ti fai tutte queste paranoie su Spike!- mi rimbeccò Dawn, seduta di fianco a me sull’aereo che già sorvolava, basso e lento, le campagne fuori Sunnydale.

-Oh? Come ?- sobbalzai a quell’invasione della mia intimità mentale.

-Stavi borbottando ad alta voce, Buffy….pure quello davanti se la stava ridendo…- spiegò Dawn, sfogliando distrattamente una rivista, senza degnarmi di un’occhiata.
-Beh, comunque, sta male lo stesso origliare…-feci, raccogliendomi, offesa, vicino al finestrino. Mia sorella aveva ragione.

Appena fuori al nostro cancello, tra la folla di gente che attendeva lo sbarco dei passeggeri, era ben riconoscibile una testa ossigenata.

William si fece largo tra tutte quelle persone, dimenticando le buone maniere e meritandosi insulti conseguenti, ma mi raggiunse prima ancora che oltrepassassi le barriere girevoli. In un balzo fu da me, saltando le sbarre di metallo, circondandomi nel suo spolverino di pelle.

Dawn, incantata a fissarci, scodinzolava soddisfatta, finalmente.

-Allora? – ero in ansia, nonostante tutto, ero terribilmente in ansia per quei giorni

che lui aveva passato da solo con Fred.

-Ti amo, Buffy.-

E mi diede un lunghissimo bacio, davanti ai passeggeri che si erano fermati a guardarci.
Poi si staccò, mentre io, con gli occhi chiusi, continuavo ad allungarmi verso di lui, chiedendone ancora.

-E ora mi sposi.- ordinò, con un tono che non ammetteva replica.

Aprii un occhio, con il collo proteso al massimo per cercare i suoi baci, mentre, gradatamente, mi sforzavo di esaminare quello che avevo appena sentito.
-Abbiamo perso già troppo tempo noi due.-

Aprii entrambi gli occhi innocenti e riacquistai un espressione dignitosa.
-……- solo che le parole per rispondere non le avevo ancora trovate.

Spike alzò il suo irresistibile sopracciglio e mosse la bocca in quel modo pronunciato tutto particolare, ghignando, consapevolissimo dell’effetto devastante di quel suo atteggiamento.

-Non c’è bisogno che fai così- ecco avevo trovato una cosa da rispondere, pensai e provai ad imbronciarmi, almeno per temporeggiare e decidere il da farsi

 –Ti sposo lo stesso, sai?-

 

 

Epilogo.

William cullava lievemente il mio pancione, tenendomi sulle ginocchia, seduto alla scrivania del suo ufficio, mentre gli mostravo sul monitor il consuntivo dell’anno finanziario appena trascorso. Mi prestava attenzione molto svogliatamente, tutto assorto nella forma della mia enorme pancia di nove mesi.
-Secondo me, nasce stanotte….-

-Lo hai detto anche ieri amore…. Quindi c’è un profitto notevole, vedi? Anche nei mesi invernali…credo che potremmo azzardare un investimento su un altro immobile a questo punto…- gli indicavo il grafico colorato, spostandomi gli occhiali affusolati sul naso.

-Mi fai eccitare da morire con i capelli raccolti e gli occhiali da vista…-mi sussurrò all’orecchio, salendo con disinvoltura, dalla pancia al se

-MMhhh… senti com’è grande… -

-Ehi! Non è serio! E poi, adesso, potrebbe essere pericoloso per il bambino…-
-Mmmrrrggghhh…- mordendomi il collo, gli sfuggi un gemito voglioso: William non mi considerava proprio.

-Oddio! Spike! Mi si sono rotte le acque!- strillai in un acuto teatrale, agitandomi sulle sue ginocchia.

-Maledizione! Andiamo ! Presto!- lui gridò più di me, sollevandomi di peso tra le braccia, mentre io mi contorcevo dalle risate per aver ottenuto, decisamente, tutta la sua attenzione.

Avevo sofferto tanto, forse, per certi aspetti, anche meritatamente. Ma trovai dentro di me una forza che avevo dimenticato di possedere, con cui riuscii a compiere le scelte giuste, dopo tante decisioni sbagliate….

 

Cosa sto scrivendo? No.

Balle. Niente forza.

Poche le scelte e, comunque, sbagliate.

Ha fatto tutto il cuore. Come io non esistessi.

Un lieto fine per la mia storia, lo ha scritto la sua penna, grazie a Dio.

Fine.