A TALE FROM HEAVEN


1 - Prologue


La incontrai, una sera d’autunno. Ero alla stazione, alla ricerca di un buon pasto. Avevo la vaga idea di andare a Los Angeles, a far cosa, non deve interessarvi. Non voglio essere scortese. Ma interessa poco anche alla mia memoria, che ne fa scherno e cela il ricordo. Non so perche’ sto raccontando tutto questo. Faro’ la cosa migliore, e smettero’ all’istante di chiedermelo. Sara’ il suo racconto, io daro’ solo voce, ed occhi e mani e corpo alle sue parole.

Saro’ solo il narratore, sfigurato dalle parole. Conteranno molto di piu’ del mio volto e della mia storia, ve ne accorgerete, se avrete la pazienza di aspettare.

Aspettare che l’affollato circo dei miei pensieri trovi il proprio palcoscenico, senza rubare l’ordine di scena e tenendo a bada i bambini che imbrattano le sensazione con l’unto del loro zucchero filato.

La incontrai su di un treno. A dire il vero potrei chiamarlo pezzo di ferro arrugginito, ma non sarebbe forse opportuno. E’ bene che a narrare questa storia sia il poeta che ancora vige in me, sebbene per tanto nascosto ed odiato. Avrei potuto dunque chiamarlo pezzo di ferro arrugginito, ma forse non sarebbe stato opportuno. E non certo per il veicolo in se’, ma per coloro che quella sera vi salirono, con i loro sogni, e le loro illusioni. Ed il loro sangue, ma questa e’ un’altra storia...

Per me era solo un mezzo, o meglio, un ristorante con le ruote...per lei era la zucca trasformata in carrozza di una fiaba.

Arrossirebbe, probabilmente, se sapesse che sto parlando di lei. Ed in fondo non ho ancora cominciato a farlo.

Sono un distratto, lo sono sempre stato, e perdo di tutto. Occhiali, appuntamenti, libri, ma soprattutto, l’attenzione. Mia madre, al tempo, soleva dirmi, con un radioso sorriso di dolce rimprovero, che avrei potuto perdere anche la testa, se non fosse stata saldamente attaccata al resto del corpo.

Esagerava, ma solo perche’ non sapeva che la testa la perdo di continuo, pur lasciandola fisicamente dov’e’. Sono sempre stato un sognatore...e’ solo che per un po’ ho dimenticato di esserlo. Ecco, vedete? Mi sono ancora una volta dilungato con le parole. E’ un vizio che ho sempre avuto. Lei lo ripeteva spesso...sono sempre stato restio ad arrivare brevemente al punto. Ma adesso basta. Che abbia inizio la storia.

E non preoccupatevi se a volte vi sembrera’ d’esser lontani, da cosa, non sta a me dirlo, sappiate solo che e’ normale.

Con lei, tutto e’ normale.

Fu la prima cosa che mi disse, su quel treno.

La incontrai una sera d’autunno. Non era molto tardi, la vidi correre sulla banchina della stazione, binario dieci.

La stazione era semideserta, non era un giorno festivo, erano solo le sette e mezzo del pomeriggio. Avrei detto che era l’alba, per i miei ritmi giornalieri, quando il sole era appena calato. E lei correva verso il treno.

Aveva una grossa borsa di tela bianca, appoggiata alla spalla destra. A giudicare da come era riempita, doveva contenere degli abiti. Sulla spalla sinistra una piccola borsa di tela indiana, colorata dei colori della terra e del sole. In mano aveva un lettore cd ed un bicchierino di plastica con del caffe’. Non seppi mai cosa mi prese, vedendola. Sentivo solo che dovevo salire anch’io su quel treno. La seguii, stando bene attento a non farmi scorgere. Si sedette. Ed io presi posto accanto a lei. Non so cosa mi prendeva, in quel momento. Tutt’ora, non ho la risposta. E, sinceramente, non credo sia poi cosi’ importante.

La vidi trafficare con la grossa borsa, mentre tentava di farla entrare nel piccolo vano apposito. Non so cosa mi prese in quel momento, ma mi alzai dal mio posto, e l’aiutai, con una naturalezza che non era certo la mia. Lei non disse niente, l’unica sua reazione fu una furtiva occhiata che mi lancio’, sedendosi.

Mi risistemai accanto a lei, e mi accesi una sigaretta, come ormai era mia abitudine, con la solita strafottenza di sempre. Lei sembro’ ricalcare il mio gesto. Aveva finito il caffe’ e probabilmente voleva gustarsi il sapore della nicotina mista a quel sentore a meta’ tra il dolce e l’amaro. Porto’ la sigaretta alla bocca e mi guardo’. Capii che voleva accendere, e quasi senza pensarci le passai l’accendino. Provo’ una volta, poi una seconda, infine una terza.

L’accendino pareva aver esaurito la voglia di funzionare. Lei me lo ridiede, un po’ delusa, ma serena, e sorrise.

E’ normale. Con me e’ normale...”

Mi si dipinse sul volto un sorriso interrogativo. Sul mio volto che da anni aveva visto solo sorrisi di scherno e smorfie lascive. Ma quel sorriso fu quasi gentile. Ed io continuavo a chiedere a me stesso cosa mi stesse succedendo. Ma dal profondo del mio essere non arrivava nessuna risposta. Solo un sorriso interrogativo. Non capivo cosa volesse dire, e le porsi la mia sigaretta, perche’ potesse accendere la sua con la cenere viva.

Con me tutto smette di funzionare. Non ho mai capito perche’. Orologi, cellulari e, come vedi, accendini. Ma e’ normale, non preoccuparti. Credo dipenda dal fatto che sono inversamente polare al flusso normale della terra.”

Mi ridiede la sigaretta e porto’ la sua alle labbra, aspirando profondamente. Si volto’ verso il finestrino, sparendo tra i suoi pensieri e la musica punk che usciva dal suo lettore. Pensai che era un po’ matta, e non ci andai lontano. Probabilmente lo penso’ anche lei, dopo la frase che aveva detto, ma sembro’ sorridere di se’ stessa.

Amo le persone che sanno sorridere di se’ stesse. Ne trovi raramente, e quelle che trovi, solitamente lo fanno cosi’ bene che sembrano dei dati di fatto, non esiste nessun altra verita’ da quella che ti propinano loro. Lei era naturale, in questo. Tremendamente, pericolosamente naturale.

Iniziai a guardarla. Di sfuggita, non era uno sguardo insistente, lo avrebbe notato. E magari chissa’ cosa avrebbe pensato. Perche’, stranamente, mi importava quello che avrebbe potuto pensare. La guardavo con la coda degli occhi. Io che di solito scruto le persone fino a consumarle. E’ una mia abitudine. Devo sempre sapere chi ho intorno. Come sono, dove vanno, che fanno. E’ un misto tra morbosa curiosita’ ed un’analisi grafica di cio’ che mi circonda. Ed e’ un buon modo per scegliere le prede migliori, ma questa e’ un’altra storia.

Era molto bella. Anche se forse bella non e’ la parola adatta per descriverla. Era magnetica. Dovevi guardarla. Il suo volto pareva essere stato dipinto da un pittore daltonico. I suo capelli erano lisci, lunghi e scuri. Non direi neri, perche’ erano tinti di riflessi violacei, ma si avvicinavano molto al colore del mare di notte.

I suoi occhi erano verdi, un bosco di salici, se mai ne esistessero. E come un bosco erano pericolosi. Nascondevano qualcosa, cosa ancora non potevo dirlo.

Le sue labbra erano vermiglie e carnose, la pelle era di luna, bianchissima ed elegante. Il naso piccolo e ben disegnato. Due piccole fossette le impreziosivano le guance.

Aveva poco trucco. Sicuramente, se le avessi chiesto il perche’, mi avrebbe risposto che non sarebbe cambiato niente, sarebbe stata solo lei a colori.

Tra i capelli sciolti aveva legata una bandana lilla, un po’ stinta e consumata. Indossava un abito nero, che le lasciava scoperte le gambe in piu’ punti. Erano belle, lunghe e bianche, le sue gambe, e mi ritrovai a fissarle, sempre chiedendomi cosa mi stesse succedendo. Ai piedi aveva degli anfibi neri e lucidi. Molto simili ai miei, ma piu’ femminili. Sul vestito, a coprirla goffamente, un lungo maglione di filo nero. Vecchio, anzi, direi quasi antico. Riuscivo a vedere qualche cucitura un po’ allentata e qualche buco qua e la’. Ma non le stava male. Anzi.

Chiudendo gli occhi, ora, non saprei immaginarla diversa da cosi’. Da quando la incontrai, per caso, in quel treno, una sera d’autunno.

All’anulare portava un solitario d’ametista. Doveva essere la sua pietra preferita, tirai ad indovinare.

E’ il mio cristallo...”

Alzai lo sguardo, ed ebbi la sensazione di arrossire, anche se non era possibile. Ma fu cio’ che sentii. E mi diedi dello stupido, perche’ la mia potenziale cena mi faceva avere la sensazione di arrossire.

Alzai lo sguardo, dunque. Lei doveva essersi accorta che le guardavo con insistenza l’anello che portava al dito.

E’ una pietra molto luminosa”, dissi, con un imbarazzo che mi lascio’ perplesso.

Si’...beh, l’ametista ha un potere calmante e consolante. Ha l’abilita’ di mutare il negativo in positivo!”, disse con entusiasmo. “Sai, i greci credevano che facesse passare l’ubriachezza.”

Alzai il sopracciglio sinistro, sul quale spiccava una lunga cicatrice.

In che senso?”

La mia domanda mi lascio’ confuso. Perche’ stavo conversando con lei? E perche’ avevo l’impulso irresistibile di sorriderle? Erano domande delle quali, in realta’, non volevo conoscere la risposta.

Nel senso che quando bevevano grosse quantita’ di vino mettevano una pietra come questa nel bicchiere. Pensavano che evitasse le sbornie!”

Sembrava molto convinta di quel che diceva. E probabilmente lo era.

Rimasi a fissarla per qualche secondo, e lei non sembrava per niente infastidita dal mio sguardo. D’un tratto parlai, ma le parole che uscirono fra le mie labbra non erano quelle che avevo in mente.

Come ti chiami?”

Lei mi porse una mano, sorridendo. Aveva un sorriso enigmatico. Non riuscii ad interpretarlo, e tutt’ora credo di non essere mai riuscito ad interpretare i suoi sorrisi.

Morgana”

Era un bel nome, un nome che portava con orgoglio. Le strinsi la mano. Era morbida e calda, e il contatto con la sua pelle mi fece rabbrividire, senza apparente motivo. Aspettai vanamente che continuasse. Quando capii che non avrebbe parlato, lo feci io.

Solo Morgana?”, chiesi, sorridendo.

Solo Morgana...”, e tramuto’ con naturalezza la mia domanda in un affermazione.

Scese di nuovo il silenzio, mentre lei volgeva i suoi occhi al monotono paesaggio dietro il finestrino. Non mi aveva chiesto il mio nome, notai, quasi con rammarico.

Non vuoi sapere chi sono?”, chiesi, e non c’era la solita arroganza, nella mia voce.

Lei si giro’ di nuovo verso di me. Sorrideva. Sorrideva sempre, Morgana, ed aveva un sorriso bellissimo. Un raggio di quel sole di cui mi era preclusa la vista.

So gia’ chi sei...”, mi disse con sicurezza.

Ed io non ebbi dubbi che dicesse la verita’. Sapeva chi ero. Ed era normale.

Con lei tutto era normale...


Il treno scorreva leggero sulle rotaie, dondolando pigramente. Le luci affisse sopra di noi tremolavano, illuminando debolmente i nostri volti. Nella carrozza c’eravamo solo io e lei. E, badate bene, non era una mia sensazione. Non lo sto dicendo perche’ ‘mi sembrava’ che ci fossimo solo noi. Fisicamente, in quella carrozza, c’eravamo io, e lei, che dondolava sulla sua poltroncina allo stesso ritmo del treno, mentre con una mano giocherellava con una ciocca di capelli scuri. Era un gioco ipnotico, e scoprii di non poter quasi staccare gli occhi dalle sue dita, che s’attorcevano attorno a quei capelli tinti di riflessi violacei, e percorrevano la ciocca per tutta la sua lunghezza, creando spirali color del mare di notte.

Chiusi gli occhi. Ed ancora una volta quel ritornello che m’accompagnava da quando ero salito su quel treno, sedendomi vicino a lei, mi rimbombo’ nelle orecchie, facendomi tremare. Che mi stava succedendo? Era questo che mi chiedevo ormai da due ore, che sussurravo sottovoce, come se la risposta potesse discendere giu’ dal cielo e presentarmisi davanti agli occhi. Ma non arrivava mai, ed io continuavo a non capire.

Eravamo solo io e lei, in quella carrozza. Mi sarebbe bastato allungare una mano, tapparle la bocca, ed affondare i miei canini nella carne tenera e bianca del suo collo. Sarebbe bastato un secondo, e non avrei piu’ avuto fame. Ma non volevo. O forse non potevo, ma dopotutto che differenza fa? Il fatto e’ che non riuscivo nemmeno a pensare, di poterla mordere. Era un concetto che il mio essere respingeva, senza fornirmi spiegazioni. E mi ritrovai a fissarla, mentre lei ancora una volta ascoltava il cd nel suo lettore, e ancora una volta giocava con i suoi meravigliosi capelli scuri.

Non mi guardava. E non aveva paura. Lo sentivo nell’aria. Quell’aria attorno a me, satura del suo respiro. Sapeva di menta, l’aria attorno a me. Ed io, che non respiravo da oltre un secolo, mi sorpresi ad aspirare con forza, attirando nei miei polmoni morti quanta piu’ aria potevo.

E poi, Morgana mi guardo’. No. Guardare non e’ esattamente il termine giusto. Certamente non e’ quello che pensai allora, ammesso che allora abbia pensato. Non mi guardava. Mi leggeva dentro. Sentii chiaramente i suoi occhi che scrutavano nei miei. Era una sensazione fisica. Non spiacevole, non avrei potuto dire che fosse spiacevole. Era...qualcosa che non avevo mai provato prima. E che forse, allora, non ero pronto a provare. Quello sguardo, quegli occhi, mi spaventarono. E non potei fare altro che abbassare i miei, e fissarmi ostinatamente la punta degli stivali. Dovevo essere parecchio ridicolo, perche’ la sentii ridere.

Aveva una risata bellissima, Morgana, e sembrava il rintocco di campane d’argento. Poi tacque, improvvisamente, e sentii qualcosa che mi costringeva, dolcemente, ad alzare lo sguardo su di lei. Ed i miei occhi furono di nuovo nei suoi.

Dove stai andando?”, mi chiese, come se fosse stata la cosa piu’ normale del mondo, chiedere ad una persona che si e’ conosciuta solo poche ore prima, dove sta andando.

Avrei potuto risponderle che non erano affari suoi. Avrei potuto risponderle che non mi interessava fare conversazione. Avrei anche potuto risponderle di lasciarmi semplicemente in pace.

Dove vai tu...”, le risposi, e la mia stessa risposta mi spavento’. Non potevo essere stato io a parlare. La mia risposta era ancora rinchiusa nel mio cervello, in attesa di uscire...non potevo averlo detto...

Dove vai tu...

La vidi sorridere. Non era in imbarazzo. Non era spaventata. Neanche se fossi stato in grado di ragionare decentemente, avrei potuto interpretare il suo sorriso. Era solo lei. Morgana in Morgana. Con un sorriso unico, che in qualche modo esprimeva cio’ che aveva dentro. In un modo che, tutt’ora, non ho mai capito...un modo unicamente Morgana...

Non disse niente, limitandosi a quel sorriso enigmatico e sfuggente. E torno’ con gli occhi a quel paesaggio che sembrava piacerle tanto, e che era sempre lo stesso dal momento in cui avevamo lasciato New York. Campi verdi, girasoli immensi, strade affollate e pareti di gallerie. Ed era tutto nero. Era tenebra, fuori da quel treno. Mi sistemai meglio, sulla mia poltroncina, guardandola. Non riuscivo a staccarmi dalla sua figura. Ed era strano.

Morgana, era strana.

Ma non strana nel senso di ‘inquientante’. Strana nel senso di ‘misteriosamente bella’. E in quel mistero, in quella bellezza, i miei occhi si posarono, e non l’abbandonarono piu’.

Mi sorpresi a pensare che quello spaventato ero io. Mi chiesi se anche questo fosse normale, con lei. E mi risposi che si’, anche questo era normale.

Era tutto normale, con lei.

Non e’ splendida, la notte?”

Si volto’, indicando con entusiasmo la volta del cielo, blu scuro, immenso, sul quale brillavano miliardi di stelle. La luna non era altro che una virgola, che uno scrittore distratto aveva calcato troppo. Ed era bello. Il cielo, le stelle, la luna, tutto. Ed era strano, pensare che, in centoventi anni, non mi era mai successo. Di alzare gli occhi al cielo, e meravigliarmi per quel semplice spettacolo.

Le sorrisi. E mi accorsi che aveva la luna riflessa negli occhi. Uno spettacolo bellissimo...

E’ magnifica, si’...”, le dissi guardandola, e pensai che quel complimento era realmente rivolto a lei. La notte era bella...ma lei...lei era magnifica.

Una stella, caduta per sbaglio sulla terra. Forse fu allora, che lo pensai. Certamente pensai qualcosa, in merito a quella bellezza semplice che lei era, qualcosa che non avrei dovuto pensare, perche’ sentii un’ondata di terrore serrarmi la gola. E, cosa che mi atterri’ ancor di piu’, non lasciai che quel terrore mi invadesse. Lo ricacciai indietro, ingoiandolo assieme al ringhio del mio demone. E scoprii che, con lei, era assurdamente facile, mantenere il controllo.

Rialzai gli occhi, e mi accorsi, senza stupirmene piu’ di tanto, a dir la verita’, che lei era rimasta a fissarmi tutto il tempo, con quegli occhi pericolosi come un bosco di salici, se mai ne esistessero.

Non sei di New York, vero?”, le chiesi. Stavolta, con uno sforzo immane, non sorrisi. E lei nemmeno, con mio inconscio rammarico.

Puo’ darsi...”

Rispondeva sempre cosi’, quella ragazza. Non sembrava avere nulla di definito. Cercai qualcosa per risponderle, ma lei mi precedette.

Sono orfana...non so da dove provengo...”, mi disse, con un’ombra di sorriso malinconico a scurirle il volto.

Oh...mi dispiace...”, ed era la verita’...

Lei lancio’ una breve occhiata al vagone vuoto, come studiandone ogni dettaglio. Poi fisso’ di nuovo i suoi occhi nei miei. Sorrideva, adesso. E la carrozza, e la notte, parevano all’improvviso piu’ luminose...

A me no...sono crescitua in Alaska”

Parlava come se fosse stato perfettamente normale, per lei, scambiarsi confidenze con uno sconosciuto. Probabilmente, lo era. Chissa’ se era normale anche il sorriso che mi era spuntato sulle labbra, un sorriso che aveva avuto il mio uomo, e che il mio demone aveva dimenticato...

Ed e’ bella, l’Alaska?”

Socchiuse gli occhi, come se volesse ricordare meglio. Sembrava che solo chiudendo quei suoi occhi avrebbe potuto rivedere le valli e i monti innevati della sua terra. Pensai che poteva essere cosi’. Forse, dietro i suoi occhi, c’era realmente l’Alaska.

Oh, si’...nessuno puo’ dire di aver visto realmente la luce, o le tenebre, se non e’ stato in Alaska...la respiri, la luce, nell’aria. E bevi tenebre nell’acqua...e mangi tramonti straordinari nel pane...”

Pensai che come poeta valeva molto piu’ di me, Morgana. C’era passione, nelle sue parole, ed amore. Quella passione e quell’amore che non ero mai riuscito a trasmettere con pagine e pagine di inutili componimenti. Mentre lei, con una semplice frase, era riuscita a farmi rabbrividire. Avrei voluto trovare il modo per impressionarla. E mi parve di scorgere qualcosa, in fondo alla mansarda affollata dei miei pensieri.

Non hai mai voluto sapere da dove vieni? Sai...potresti perfino essere il frutto dell’amore tra un re ed una semplice donna ungherese...dopotutto, ne hai l’aspetto...”

Lei mi guardo’, e non sorrideva. Si mordicchio’ un labbro, mentre con una mano giocherellava con l’anello. Quello d’ametista, il suo cristallo...

Dell’ungherese?”, mi chiese, inclinando di lato la testa.

Della figlia dell’amore...”, chiarii io, non senza un leggero sorriso di soddisfazione.

Ma lei non sembro’ gradire il complimento. Sorrise, ma stavolta fu un sorriso educato, quasi forzato. Ed io seppi che con le frasi fatte non sarei arrivato da nessuna parte...

Ma io dove volevo arrivare? Alla matassa intricata delle mie preoccupazioni, si era aggiunto un altro filo...


Il treno fischio’, stridendo per fermarsi. Una voce dagli altoparlanti ci informo’ che eravamo arrivati a Los Angeles. Morgana carezzo’ per un’ultima volta la sua bellissima ametista, in un gesto che pensai dovesse farla sentire protetta. Non mi guardo’, ne’ mi rivolse la parola, e mi chiesi se non se la fosse presa per quel complimento che le avevo fatto. Come se mi avesse letto nel pensiero, Morgana si volto’ verso di me. Rise.

Il suono di mille campane d’argento...

E’ la mia fermata...”, disse, calcando volutamente quel ‘mia’.

Le avevo detto che sarei andato dove sarebbe andata lei. Adesso dovevo scegliere. Lasciarla andare e tornare a New York, o seguirla. Volevo, desideravo ardentemente andare con lei...ma il modo in cui la guardavo, il modo in cui le sorridevo, e come mi sentivo se le stavo accanto, non promettevano niente di buono. La fissai, mentre prendevo la mia decisione...

Mi sono chiesto spesso cosa sarebbe cambiato, se l’avessi lasciata andare da sola. Probabilmente niente, negli anni in cui ho imparato a conoscerla mi ha parlato spesso di una cosa chiamata ‘destino’. E mi ha fatto capire che da esso non si scappa, volenti o nolenti, siamo tutti sue pedine, e niente di cio’ che facciamo accade perche’ siamo noi a volerlo. C’e’ un ordine prestabilito in tutte le cose. Immagino sia stata il mio destino, Morgana, quella sera, su quel treno. Il mio destino venuto a reclamarmi.

La seguii, mentre lei gia’ scendeva elegantemente i due scalini che la separavano dall’asfalto, e dalla sfolgorante Los Angeles. Le balzai accanto. Lei mi vide, e sorrise, come se sapesse gia’ da tempo che l’avrei seguita. Forse lo sapeva davvero. Sorrisi, cercando di comportarmi naturalmente.

Lei comincio’ a camminare, ed io le andai dietro, come un cagnolino al guinzaglio. Una voce dentro di me continuava a darmi dell’idiota, ma decisi che stavolta non l’avrei ascoltata. Urlasse pure quanto voleva, questa volta avrei fatto a modo mio. Ne’ umano, ne’ demone. Semplicemente me stesso. Morgana si volto’ a guardarmi.

Hai intenzione di seguirmi fino a casa?”

Sobbalzai, preso alla sprovvista da quella domanda posta col sorriso sulle labbra. Mi passai una mano fra i capelli, sorridendo in imbarazzo.

Le strade sono buie, piccola...credo ti farebbe comodo, un cavaliere...”

Alzo’ le spalle, con la sua solita eleganza, e mi fece cenno d’assenso con il capo. Non l’avevo mai vista camminare, e lo faceva con la stessa pudica grazia con cui parlava. Sembrava si muovesse insieme con l’aria, tanto era leggera. E guardava Los Angeles con occhi sgranati, come se volesse memorizzare ogni anfratto, ogni negozio chiuso, ogni strada. Lei camminava, ed io le camminavo al fianco, facendo del mio meglio per non inciampare. Sembrava...una fata...una di quelle creature magnetiche con le alette e il volto delizioso. Non riuscii a tenere quel pensiero per me.

Secondo me sei una fata...”

Morgana rise...rabbrividii, ma mi convinsi fosse solo per il forte vento che spazzava monotono le vie di Los Angeles.

Solo ogni tanto...”, mi rispose, continuando a fissare la strada davanti a noi, col suo buio illuminato da lampioni luminescenti.

Allora una strega...”, si’, come le incantatrici di cui avevo letto nei libri, quando ero ancora un bambino, e poi, attratto da quella figure misteriose, anche da ragazzo, cercando invano l’ispirazione per le mie poesie.

Solo ogni tanto”, rise lei. Mille campane d’argento risuonarono alle mie orecchie...

E adesso, cosa sei?”, le chiesi infine, guardandola.

Solo Morgana...”, soffio’, voltandosi finalmente a guardarmi.

Di nuovo la luna brillava nei suoi occhi, come se le avessero colato argento nelle iridi. Le sorrisi. Non potevo farne a meno.

Dopo un quarto d’ora passato in silenzio (ma dopotutto il tacere non e’ sempre silenzio...), arrivammo davanti ad un vecchio condominio in stile gotico, decorato con terribili quanto meravigliosi fregi che rappresentavano draghi, e serpenti, e gargoille. E, accanto a queste mostruose apparizioni, statue di pietra raffiguranti piccole fatine aggrappate a foglie di granito. Rimasi a fissare l’imponente complesso, dicendomi che non avrebbe potuto scegliere abitazione piu’ appropriata a quell’alone di mistero che la circondava. Morgana accarezzo’ la pietra fredda con una mano, come volendo salutare un amico che non vedeva da molto. Poi, ci guardammo, non sapendo bene che dire. Fui io, capendo che lei non l’avrebbe fatto, a parlare per primo.

Beh...allora...ciao!”

Ciao”, mi fece eco lei, alzando una mano. Quella con la pietra violetta. I suoi capelli volteggiarono, spinti da una folata di vento. Mi voltai, sapendo che se avessi indugiato un secondo di piu’ non ci sarei riuscito, e comincia ad allontanarmi, mentre un ringhio scaturiva dal mio essere come una protesta. Protestava perche’ non ero riuscito a mordere quella ragazza. E perche’ sapevo di non volerlo fare. E mi sembrava normale.

D’un tratto, sentii una mano che, dolcemente, mi costringeva a voltarmi. Senza opporre resistenza, feci quello che voleva. Sapevo che la mano era la sua, anche se ci trovavamo a qualche metro di distanza, e lei non s’era mossa. La guardai. Lei mi guardo’. E poi sorrise. Interpretare quel sorriso? Mai.

Grazie per non avermi morso, Spike...”

Le sorrisi. Non le chiesi come faceva a sapere chi ero, o meglio, cos’ero. Non le chiesi come sapeva il mio nome. Avrei potuto. Ma non lo chiesi. Perche’, probabilmente, mi avrebbe risposto che lo sapeva. E basta.

Prego...”, le dissi invece, e mi girai, incamminandomi per le strade illuminate di Los Angeles.

Sapevo, come lei sapeva, che quello non sarebbe stato il nostro ultimo incontro...


No! No, no, no, no, no, no!”

Ed ogni no era una cuscinata sul letto. Ogni no era sperare che quel letto, quella casa, quelle persone che avevo ucciso per prendere quella casa, quel cuscino, non esistessero, per poter sbattere la testa contro il muro senza niente che potesse fermarmi. L’avrei fatto, probabilmente, se non fossi stato spaventato dall’idea di farmi ancora piu’ male.

Qualche piuma vorticava attorno a me, sfiorandomi, in una carezza che mi faceva irritare ancor di piu’. Il mio volto era una maschera d’angoscia e rabbia. I lineamenti giovani del mio uomo non si scorgevano, sotto la maschera perfetta del mio demone. Ringhi gutturali provenivano dal fondo della mia gola, accompagnando quella disperata negazione. L’immagine che si presenta adesso davanti ai miei occhi, e’ ridicola, ma suppongo che allora abbia pensato che non esistesse dramma peggiore del mio.

Io, Spike, William il sanguinario, il vampiro con decenni di omicidi sulle spalle sempre leggere, non riuscivo a liberarmi dell’immagine di quella strana ragazza, conosciuta per caso, su un treno.

Per caso, mi dissi allora...ma, ora, credo che quell’incontro possa essere chiamato in molti modi, ma non casuale. Assolutamente, non fu qualcosa di casuale. E, se caso fu, allora non posso non pensare che ‘Caso’ sia lo pseudonimo di Destino, quando esso non vuole firmare. Non posso, e non voglio pensare che la mia vita, tutta la mia esistenza, sia mutata a causa di un banale incrocio di vite.

Qualunque fosse la natura del mio incontro con Morgana, non riuscivo a fare a meno di pensare a quei capelli color del mare di notte e a quegli occhi, come boschi di salici, se mai ne esistessero. Non potevo, semplicemente mi era impossibile, cavare dal mio cervello il suo sorriso, il raggio di quel sole di cui mi era preclusa la vista. E piu’ pensavo a tutto questo, piu’ la mia disperazione piantava radici nel mio essere, contagiando il mio demone quanto il mio uomo.

Avrei voluto piangere per la frustrazione. Cio’ che sentivo mi lasciava disgustato, eppure colmo di un’inspiegabile tenerezza.

Ero innamorato, cotto come un adolescente, folgorato a prima vista da una ragazza della quale conoscevo solo il nome, ed il fatto che con lei tutto fosse normale. Solo che un vampiro innamorato (quanto mi costava anche solo pensare, questa parola), non era affatto normale. Era qualcosa che trascendeva l’ordine naturale delle cose, che spezzava la catena d’insensibilita’ che avrebbe dovuto unirmi agli altri vampiri. Era qualcosa di impensabile, eppure era una verita’ semplice quanto, per me, orribile.

Mi sentivo nauseato. Ancor di piu’ per il fatto di non poter negare che cio’ che sentivo era reale. Era vero come e’ vera la pioggia, e la notte, ed il sole. Vera com’era vero che se fossi uscito di giorno di me non sarebbe rimasto che un mucchietto di polvere fumante. Era vero. L’amavo, amavo una mortale, una donna viva, con un cuore che batteva ed un’anima ad impedirle di essere assassina come me. E l’amavo non come avevo amato altre vampire. Con loro era sesso, era sangue, era morte...erano cose che il mio demone riconosceva, ed apprezzava per la loro contorta, spietata bellezza. Ma cio’ che sentivo in quel momento, per Morgana, era qualcosa di dolce, qualcosa di struggente, qualcosa che minacciava di farmi diventare matto, se gia’ non lo ero. Era un sentimento limpido, puro come non avevo il diritto ne’ la possibilita’ di sentirlo. Ma qualcosa dentro me doveva funzionare male, pensai, poiche’ lo sentivo. E quanto avrei voluto non sentirlo. Quanto avrei voluto, in quegli interminabili istanti, che parevano gocciolare da una clessidra con estenuante lentezza, quanto avrei voluto strapparmeli via dal mio cuore morto, e lanciarli nel vento, perche’ tornassero ai mortali ai quali quei sentimenti erano destinati. Non potevano essere per me, io che avevo sulle labbra il sapore del sangue e negli occhi il gelo della luna. Non erano fatti, quei sentimenti struggenti e delicati, per una creatura della notte. Pensai che mi avrebbero ucciso. Che andare contro la mia natura sarebbe stato un suicidio, e che dovevo liberarmi di quella creatura al piu’ presto.

Ma stavo bluffando. Non pensai nemmeno per un istante di uccidere Morgana, ne’ per un solo istante pensai di andarmene seriamente da Los Angeles. Eppure le uniche soluzioni plausibili per riprendere la mia non vita di sempre, sarebbero state quelle. Invece decisi di restare. Quella ‘cotta’ sarebbe sparita cosi’ com’era arrivata. E sarebbe tornato tutto alla normalita’. Gia’ che c’ero, avrei anche potuto pensare di fare una passeggiata sotto il sole di Los Angeles. Le illusioni che mi ripetevo come formule magiche erano altrettanto irrealizzabili.

E, cosa ancor piu’ incredibile, sapevo che fossero solo illusioni. Probabilmente la pazzia la dovevo al mio Sire. Tant’e’ che decisi di restare. E che avrei evitato quella ragazza in tutti i modi, pur sapendo che ogni notte uscivo dal mio appartamento ‘ereditato’ col segreto desiderio d’incontrarla.

Passarono due settimane, senza che ombre dagli occhi belli e pericolosi come boschi di salici, incrociassero la mia strada. Mi sembrava di poter davvero ritornare alla vecchia vita di sempre. Uccidevo, bevevo, avevo quasi smesso di pensare a lei.

Poi, una fresca sera di fine ottobre, decisi di andare in spiaggia, a godermi l’aria salmastra della sera. E due settimane di sforzi si infransero come onde contro gli scogli...


L’aria era fresca e profumata di mare. Pizzicava le mie narici, delle quali ultimamente mi servivo spesso, come se improvvisamente avessi avuto voglia di tornare a respirare. Il pezzo di spiaggia che avevo scelto per la mia solitaria passeggiata era deserta, c’eravamo solo io, e il mare, che s’agitava e ruggiva, sospinto dal vento.

C’era un campo sterminato di stelle, sopra di me, e la luna, ormai piena, che si specchiava sulla superficie increspata dell’oceano come una donna vanitosa, impreziosendo quella distesa immensa d’acqua con luminosi riflessi argentati. Era bella, la luna. E sembrava cosi’ vicina che pareva di poterla toccare, solo alzando le braccia.

Se chiuso gli occhi, ora, posso ricordare tutto nei minimi particolari, come se tutto cio’ fosse successo ieri. Anni si sono aggiunti alla mia eternita’, eppure e’ tutto qui, nella mia testa. Chiaro e limpido come il riflesso della luna nello specchio lucido del mare. Forse, perche’, come lei diceva alle volte, il tempo non passa lentamente in altro luogo se non nei ricordi. Nella realta’ puo’ fuggire e correre a perdifiato, cosi’ tanto che fatichi a starvi dietro. Ma, nella mente, un solo istante puo’ essere eterno.

Stavo dunque in piedi, mentre la brezza faceva ondeggiare il mio spolverino di pelle nero, e guardavo il monotono quanto splendido spettacolo del mare, quell’eterno ondeggiare, ciclo infinito che mi infuse calma e quasi pace. Mi sentivo leggero, ed un sorriso involontario mi increspo’ le labbra, e li’ rimase, mentre contemplavo la distesa immensa davanti a me, e vedevo ovunque capelli del colore di quel mare solcare l’oceano al posto delle onde, alzandosi in ciocche scure fino ad infrangersi contro il volto pallido di una ragazza.

Sentii la sabbia dietro di me sfrigolare all’improvviso, e seppi di non essere piu’ solo. C’era lei, ed aveva rotto la perfezione del mare, e, soprattutto, aveva appena vanificato ogni mio sforzo per dimenticarla. Credetti di essere furioso, con quell’ombra che avanzava dolcemente, mentre in realta’ erano stati pochi i momenti in cui mi ero sentito cosi’ felice. Tremai, quando sentii la sua voce. Una sensazione che neanche duemila anni, potrebbero indurmi a dimenticare.

Il mare corteggia la spiaggia...sono mille anni che giocano, e non sono mai stanchi...ti piace?”

Quella voce ed il mormorio del mare in sottofondo...mai una musica tanto dolce aveva sfiorato le mie orecchie. E tuttavia avevo ancora paura dei sentimenti che provavo, e che erano tornati a reclamarmi, piu’ forti di prima. Non staccai gli occhi dal mare, convinto che, se li avessi posati nei suoi, sarei irreparabilmente annegato.

E’ molto bello...”, dissi, cercando di mantenere fredda e distaccata. “Come mi hai trovato?”

Ed allora sentii di non poter fare a meno di guardarla. Mi voltai. Era appena dietro di me, intanta ad osservare rapita il mare. Le mani dietro la schiena, ed i capelli che frusciavano leggeri attorno al suo volto. Era vestita di nero, e sembrava un tutt’uno con la notte. Ed era bella...anche se, come ho detto, bella non e’ la parola esatta per descriverla. La sua era una bellezza da guardare, senza la presunzione di volerla descrivere.

Cosa importa?”, mi disse senza guardarmi. “Sono qui...”

Non avevo sperato in una risposta diversa. Pensai che stavo imparando a conoscerla. Ma forse erano solo le mie speranze che prendevano la forma di un pensiero, e mi convincevano di questo. Tuttavia, mi chiesi, e mi chiedo tutt’ora, se una persona come lei si potesse davvero conoscere. La si puo’ forse, capire, ma credo che anche dopo anni, io non l’abbia mai conosciuta del tutto...le sue sorprese erano sempre li’, ad attendermi, appena pensavo che non avesse piu’ segreti.

Mi si avvicino’, Morgana, fermandomisi accanto, ed io avvertii nell’aria profumo di menta. Sorrise.

Cosa vedi?”, mi chiese dolcemente.

Credetti che mi stesse prendendo in giro, ma quando mi girai a fissarla, il suo volto era serio, voltato verso il mare, ad osservarlo come se lo vedesse per la prima volta. Risi.

Vedo...il mare...vedo...la sabbia...il cielo...e, oh, certo...anche la luna...ed il tempo che scivola via.”, dissi.

La guardai. Anche lei mi guardava, e sembrava che la mia risposta non l’avesse soddisfatta.

E tu? Cosa vedi?”

Morgana si chino’, e raccolse una manciata di sabbia. Granelli dorati le scivolavano lentamente tra le dita strette a pugno.

Vedo il mondo in un granello di sabbia...ed il cielo in un onda del mare...l’infinito sul volto della luna...e l’eternita’ in un campo di stelle...”

Sorrideva, mentre parlava. E non era un sorriso superiore. Era un lampo di vita nella notte. Vedeva molto piu’ in la’ di me, quella ragazza...

Le cose vanno guardate anche con gli occhi del cuore...”, disse semplicemente, in risposta al mio sguardo trasognato.

Io scoppiai a ridere, e lei non sembro’ imbronciarsi per questo. Credo sapesse che la mia era una risata a sostituire una di quelle frasi fatte che lei odiava tanto. Era il mio modo per dirle che era straordinaria. E lei sembro’ capirlo. Guardo’ la luna...ed io guardai lei.

Sai, bellezza, potresti arrivare molto in alto, se solo lo volessi...”, le dissi. Lei sorrise, senza staccare gli occhi dal volto pallido ed etereo della luna.

Vorrei arrivare fino alle stelle...”, mi disse piano.

E stavolta toccava a me stupirla. Rilegai in un angolo il mio demone che continuava imperterrito a ringhiare, e le sorrisi.

Fino alle stelle non posso portarti...ma forse fino alla luna si’...”

Si volto’ verso di me, Morgana. Sorrideva. Si sposto’ con una mano una ciocca capricciosa che le copriva gli occhi, ridendo. Mille campane d’argento, che in quelle due settimane avevano popolato i miei sogni...

Lo vuoi?”, le chiesi, porgendole una mano. Per un attimo ebbi una paura folle. Paura che, ora che mi ero esposto, ed ero riuscito a tenere calmo il mio demone, lei mi respingesse. Ma non fu cosi’. Morgana afferro’ la mia mano, con decisione, sorridendomi.

Portami fino alla luna...”, sussurro’.

Dovunque vuoi...”, dissi, tremante. “Dovunque vuoi...”


La presi dolcemente per mano. Avevo paura, questo lo ricordo nitidamente. Di cosa, pero’, non so piu’ dirlo, e forse non lo sapevo neanche allora. Probabilmente avevo paura che sarebbe sparita, cosi’ com’era arrivata, lasciandomi solo, a stringere una mano impalpabile. O forse avevo paura di perdere il controllo. O forse avevo paura che per un sospiro, un solo sospiro, uno spostamento d’aria di troppo, lei sarebbe andata in frantumi, come una coppa di cristallo. Probabilmente avevo paura di tutte queste cose, e molte altre ancora. Avanzai verso il bagnasciuga, portandola con me. Morgana mi fissava, e sembrava sapere perfettamente cosa avrei fatto.

Dovevo portarla sulla luna...glielo avevo promesso...

Le mie mani erano gelide, strette sulle sue. Le sue...che non erano fredde, ne’ calde. Sembrava non avessero temperatura e, se il battito del suo cuore non mi fosse arrivato alle orecchie come la piu’ dolce melodia al mondo, avrei potuto pensare fosse anche lei una vampira. Non so se cio’ mi avrebbe arrecato dispiacere o felicita’. Probabilmente entrambe le cose, mischiate in un sentimento contraddittorio come lei.

Sapevo esattamente cosa fare. Potevo portarla sulla luna. E stavolta sarebbe stata lei quella stupita. Era una scommessa giocata piu’ con me stesso, che con lei. Irrazionalmente, volevo provare al mio demone di essere ancora in grado di dimostrare umanita’. L’idea avrebbe dovuto farmi orrore...eppure, con lei, mi sembro’ normale...

Chiudi gli occhi...”, le dissi.

Pensai che non l’avrebbe fatto. Insomma, chiudere gli occhi davanti ad un vampiro! Era chiedere troppo a chiunque. Non ci sperai piu’ di tanto...

Invece, inaspettatamente, Morgana inclino’ la testa di lato, stringendo gli occhi con curiosita’. E poi, incredibilmente, li chiuse, affidandosi completamente a me. Sbattei le ciglia diverse volte. Ancora una volta era riuscita a spiazzarmi. Nessuno l’avrebbe fatto. Ma, ovviamente, nessuno era Morgana. E Morgana l’avevo fatto. Aveva chiuso gli occhi, e si era fidata di me. Probabilmente sapeva benissimo che non sarei stato mai capace di morderla. Probabilmente era certa di essere al sicuro. Eppure, il suo gesto non fu meno dolce...e direi quasi commovente. Una cosa cosi’ semplice, farsi guidare ad occhi chiusi, tra persone normali, ma cosi’ complicata se la persona che dovrebbe guidarti e’ un vampiro. Eppure lei non sembrava aver fatto differenze...era davvero unica, Morgana...

Anni, dopo, riparlando di quell’incontro, le chiesi perche’ si fosse fidata cosi’ di me. E lei, con la sua solita grazia, con quell’innocenza che ho sempre adorato, scrollo’ le spalle e sorrise.

Non mi sono fidata di te, Spike...mi sono fidata di me...”, disse, senza smettere di sorridere.

Ma torniamo al mio racconto, che come mio solito ho interrotto...

Mi posi di fronte a lei, accompagnandola verso la riva. Sul bagnasciuga sentii l’acqua solleticarmi le caviglie. Era calda, l’acqua dell’oceano. Ed io andavo verso di lei, mentre Morgana ad occhi chiusi, mi seguiva docilmente. D’un tratto la sentii rabbrividire, e mi accorsi che anche i suoi piedi erano circondati da una corona di spuma argentata. Rise, Morgana, ma non apri’ gli occhi.

Dove mi stai portando?”

Dove volevi...sulla luna, dolcezza...”, risposi, sorridendole, anche se lei non poteva vedermi.

E per andare sulla luna e’ necessario attraversare l’oceano?”

La trascinai nell’acqua, mentre lei opponeva una dolce resistenza. Ormai l’oceano era arrivato a lambire entrambi fino al bacino. Guardai indietro, verso il largo...mancava poco, alla luna.

Assolutamente necessario!”

Non disse piu’ niente, limitandosi ad annuire, ad occhi chiusi. Arrancai sulla sabbia, con il mare ormai fino al collo, ancora per qualche secondo, mentre lei si muoveva con una leggiadria che mi sbalordi’, restando aggrappata gentilmente alla mia mano. Spirali concentrice disegnavano tele sull’acqua attorno a noi. Finalmente, arrivai esattamente dove volevo, e mi voltai verso Morgana. Dalle labbra strette uscivano nuvolette bianche di condensa. Faceva abbastanza freddo, notai solo allora. Ma dopotutto lei non sembrava molto infastidita. Il mare la copriva interamente, lasciando fuori solo la testa, ed i capelli le si spargevano attorno, confondendosi con l’oceano. I suoi occhi, quei boschi che avrei voluto conoscere, gia’ mi mancavano. Le strinsi la mano, stando piu’ attento possibile a non farle male. Potra’ sembrarvi strano, o contronatura, e lo era, ma ero terrorizzato, alla sola idea di poterle fare del male. Inavvertitamente, magari. Ma ne ero terrorizzato. E avrei preferito lasciarmi bruciare dal sole, piuttosto che sfiorarla con cattive intenzioni. Mi guardai attorno. Era perfetto. Eravamo sulla luna...

Ok...ora apri gli occhi...”

Mi lascio’ la mano, e, lentamente, apri’ quegli occhi verdi che adoravo. Potevo averli visti anche solo due volte, ma li adoravo, e la mia massima aspirazione sarebbe stata quella di perdermi in quei boschi che celavano, e non far piu’ ritorno al mondo reale...quella, si’, sarebbe stata perfetta perdizione...

Dicevo, quegli occhi si aprirono piano, con estenuante lentezza. Fino a che non furono spalancati, e la luna non vi si fu nuovamente specchiata al loro interno, per mia somma invidia. La vidi guardarsi intorno, mentre si rendeva conto del mio trucco, per poterla portare dove lei desiderava. Sulla luna...o, meglio, nella luna. Eravamo in quel punto esatto dell’oceano in cui il volto della luna si specchia nel mare, donandogli bagliori argentei. E in quei bagliori noi stavamo immersi, e sembrava appunto di essere sul viso della regina della notte.

Morgana rise, schizzando acqua dai riflessi perlacei attorno a lei, guardandomi divertita. Ero riuscito ad impressionarla, e questo mi faceva sentire orgoglioso come non lo ero mai stato. Sentivo il mio demone urlare e contorcersi, e non avvertivo altro che fastidio, in tutto quello. Per la prima volta da oltre un secolo, desiderai tornare umano. Per la prima volta dopo oltre un secolo, desiderai non essere dannato. Per la prima volta dopo oltre un secolo, desiderai avere un cuore che batte, ed un volto unico, ed un’anima e sentimenti degni di essere chiamati tali. Perche’ io, allora come adesso, non mi sentivo degno ne’ meritevole di provare quel qualcosa di dolce e struggente, qualcosa che non fosse voglia di sangue e morte e sesso, qualcosa di delicato, ecco, delicato, che provavo per Morgana, ed al quale non volevo dare un nome.

Dai miei pensieri mi stacco’ lei, che prese la mia mano tra le sue, e mi guardo’ gentilmente, con quella calma e quella grazia che erano una sua prerogativa.

Grazie...”, sussurro’, facendomi sorridere.

Per cosa?”, le chiesi, certo che avrei dovuto essere io a ringraziarla.

Per avermi regalato un sogno...”

Non saprei descrivere, neanche volendo, la valanga di sensazioni che provai in quel momento. Non tentero’ nemmeno, per non rischiare di annoiare o, peggio ancora, di far cadere nel banale qualcosa di assolutamente unico.

Sorrisi, cercando di ignorare le fitte quasi dolorose al petto. Era il mio cuore, a farmi male, o solo un muscolo capriccioso? Indicai il riflesso della luna, tutt’attorno a noi.

Beh...solo il riflesso, di un sogno...”, dissi sorridendo, cercando di minimizzare.

I sogni non sono che il riflesso di noi stessi...e’ perfetto...”

Cosi’ dicendo, si volto’, ed io potei sorridere, piacevolmente sconvolto dalla sua complessa semplicita’. Era unica, quella ragazza...fu allora, forse, che cominciai a capirlo...


Un’ora dopo, circa, eravamo entrambi distesi sulla sabbia, in attesa che i nostri abiti si asciugassero, almeno in parte. L’aria era frizzante, profumata di mare. E di menta.

Stavamo distesi sulla sabbia dorata, ascoltando in silenzio il rumore dell’oceano. L’uno accanto all’altra, cosi’ vicini che le nostre guance quasi si sfioravano, mentre contemplavamo la volta blu del cielo, e le mille ballerine luccicanti che danzavano attorno alla luna. Una ciocca dei suoi capelli mi sfioro’ il viso, portando con se’ qualche granello di ruvida sabbia bianca. E tuttavia non cercai di spostarla, ma lasciai che giocasse con le mie labbra, in un malizioso andirivieni, e mi sfiorasse le guance, la fronte ed il naso. Profumavano di mare, i suoi capelli. Un odore pungente e delizioso. Sorrisi, senza motivo. E lei sembro’ fare lo stesso. Sospiro’, lasciando che la sua voce dolce si perdesse nel vento, insieme al ruggito perenne del mare. Ascoltai la melodia che intrecciava nel tacere. Non c’erano sussurri, ne’ parole, ne’ rumore di alcun tipo, salvo il monotono mormorio dell’oceano, eppure quello tra noi non era silenzio! Era musica, pur senza suono. Una musica d’altro mondo...

Perche’ a volte ho l’impressione che tu non appartenga a questo mondo?”, le chiesi improvvisamente, rompendo quel perfetto silenzio, come con un accordo stonato.

Lei scosse leggermente la testa, mentre un timido sorriso le increspava le labbra, e con gli occhi continuava a rimirare le stelle.

Forse perche’ e’ cosi’...forse non appartengo a questo mondo...o forse, semplicemente, non appartengo al tuo mondo...tutti viviamo in un mondo tutto nostro. Proprio tutti. Ovunque. Non importa quanto sembriamo stupidi, o noiosi, all’esterno. Dentro ognuno di noi ha il proprio mondo, stupefacente, inimagginabile, magnifico...non uno solo, ma centinaia, forse migliaia di mondi, esistono...e’ solo che non riusciamo a vedere oltre il nostro piccolo mondo privato...”

Lasciai che le sue parole provocassero in me la solita sorpresa. Era un pozzo di saggezza, quella ragazza...probabilmente era poco piu’ che una ragazzina, le avrei dato non piu’ di ventidue anni, eppure, se voleva, sapeva parlare come una donna...ed era diversa...meravigliosamente diversa...

Ma tu...sei cosi’ diversa...c’e’ qualcosa, in te, qualcosa che non ho mai visto...cos’hai, che tutti gli altri non hanno?”, le chiesi, dolcemente.

Era incredibile quanto la mia voce, che era sempre stata poco meno di un ringhio, divenisse tenue e dolce, quando mi rivolgevo a lei. Anche questo, ovviamente, era normale, o almeno a me sembrava cosi’, accanto a Morgana.

Volo...”, rispose semplicemente.

In che senso?”, riprovai, con piu’ decisione.

Lei sospiro’, poi si volto’ verso di me, stesa su un fianco, tenendosi la testa con una mano.

Ho visto troppe persone camminare come morti viventi, per le strade della terra. I loro piccoli mondi, cosi’ banali, cosi’ veri, cosi’ tristi...vedi, il fatto e’ che pochi hanno ali per volare…ad alcuni le spezzano fin da piccoli, ad altri strappano le penne ad una ad una. Altri ancora le ali le tengono chiuse, strette al corpo, nascoste. Per loro volare significherebbe l’allontanamento dalla comunita’, dalla sicurezza...paura, angoscia...quanti hanno il coraggio di aprire le ali e volare veramente? Dovrebbero farlo tutti, chi possiede le ali, deve volare, altrimenti rinnega la propria natura! Chi possiede le ali non deve avere paura di cio’ che e’. Deve buttarsi dall’alto, lanciarsi verso l’ignoto. Fendere l’aria mentre intorno mille parole cercano di tirare verso il basso...calunnie, cattiverie, pessimismi, sfiducia...chi le ascolta precipita, o cade nuovamente tra le braccia di giorni banali, con le ali mozzate e pesanti di lacrime di pioggia...quando invece avrebbero potuto volare piu’ in alto delle nuvole, giocare con un raggio di sole, credere davvero che oltre l’arcobaleno vi sia un mondo dalla consistenza del sogno. Sentire fremere l’aria sotto le ali, colpirla con forza e salire piu’ in alto, superando tutti gli ostacoli. Ascoltare le grida di chi rimane a terra, e ridere di chi non conosce l’ebrezza del volo...ma non importa, chi ha le ali deve volare...deve volare anche per chi non le ha, per chi ha le ali spezzate...”

Sorrise, riprendendo fiato, mentre io la guardavo, in attesa...

E’ tutto qui...”, mi disse, infine. “Io volo...”

Si’ non era difficile crederle...lei era una di quelle poche persone che possedeva le ali per volare in alto...ed era tutto li’, quello che io le leggevo dentro, e che aveva solo lei...lei volava...e l’unica domanda che mi assillava, in quel momento, era: riuscito’ mai a volare insieme a lei?


Lasciate che interrompa per pochi minuti il mio racconto...lasciate che vi racconti, per poco, anche solo per il tempo di prendere un respiro, di me. Della mia vita e, soprattutto, della mia non vita. Sono sempre stato egocentrico, non smettero’ di esserlo proprio adesso...nei miei ricordi e’ salita ormai da tempo una nebbia oscura, come resa sporca dal sangue e dagli affanni della mia immortalita’. Credete che un immortale non si affanni, o non invecchi? Oh, vi sbagliate! Ho vissuto da mortale per venticinque anni, e ancora non so se considerarli i migliori, o i peggiori della mia esistenza. Certamente allora il mio cuore batteva, le mie vene pulsavano, ed il mio corpo non era una stanza lasciata vuota e sfatta dalla sua anima. Ma...ero incompleto. Ed infelice. Forse noi vampiri nasciamo gia’ vampiri, ma dentro, aspettando il momento buono per lasciar emergere il nostro demone, e nel frattempo, viviamo un’esistenza vuota...certo e’ che nei miei venticinque anni da William, detto ‘il sanguinario’ per le sue orribili poesie, non mi sentii mai vivo come quando mi risvegliai, senza battito e pallido come il volto della luna, in una bara, nel cimitero di Londra. Sotto tre metri di umida terra. Avevo il mio abito migliore, lo ricordo, quando mi risvegliai...ma forse sto andando troppo in fretta. Debbo pur cominciare dall’inizio, una buona volta!

Ebbene...era una fresca sera di fine novembre, quella che segno’ per sempre la mia esistenza...non uso quasi mai, come potete certamente vedere, il termine ‘vita’, poiche’ son certo che tra l’esistere ed il vivere v’e’ una differenza abissale...ed e’ forse questo, da sempre, il motivo della mia infelicita’...una persona, per essere felice, dovrebbe vivere, e non v’e’ cosa piu’ rara al mondo...la maggior parte della gente esiste, nulla di piu’. Io ho sempre creduto di essere tra le persone che esistono, e passano la loro esistenza cercando invano un barlume di vita, quando basterebbe guardarsi dentro per trovarlo. Morgana, lei si’, era viva. Era l’essenza stessa della vita, ma di questo raccontero’ in seguito, cosi’ come ho gia’ ampiamente raccontato della sua natura emblematica e misteriosa. Io non ho mai posseduto altro che l’ombra, del mistero...tant’e’ che da sempre, tutto cio’ che provo si riflette nei miei gesti, nelle mie parole e nella mia espressione, per quanto cerchi strenuamente di evitarlo...poiche’ le persone che esternano i propri sentimenti cosi’ esplicitamente, ho imparato, sono quelle piu’ deluse dalla vita. Ma allora come potevo saperlo? Ero giovane, e terribilmente ingenuo. Credevo che nella vita tutto potesse essere semplice, se lo desideravo davvero. Credevo che nelle persone vi fosse sempre del bene, magari nascosto. Ma ci fosse sempre. Credevo sul serio che l’amore potesse vincere le battaglie che le armi non cominciano nemmeno, e che il cuore potesse aprire porte che la mente ignora. Credevo che le persone sapessero giudicare dai silenzi di una persona, e non dalle parole. Molti mi hanno trovato sciocco. Io trovo fossi un sognatore, un giovane, ingenuo sognatore. Ed e’ stata quella la mia condanna, o la mia salvezza...l’essere un sognatore mi ha portato all’estremo di un baratro e, quella sera di novembre, inevitabilmente, ho passato quell’estremo, precipitando nel vuoto. Ancora adesso la mia caduta non s’e’ fermata...ha solo rallentato durante gli anni passati con Morgana, ma non si e’ ancora arrestata.

Dicevo...eravamo a novembre, mia madre avava organizzato un piccolo ricevimento. Vi parteciparono la maggior parte dei ricchi borghesi londinesi (si’, allora vivevo a Londra...). Gentaglia che trovavo rozza e poco educata, snob e piena di pregiudizi. Furono loro, durante la mia giovinezza, ad insegnarmi che, se bonta’ c’e’ in tutti gli uomini, in alcuni e’ tanto nascosta che non la scorgi nemmeno. E, tra quella folla di gente che esisteva, e non sapeva nemmeno cosa fosse la vita, c’era una donna. Che credevo diversa da tutti. Che mi sembrava viva. Che, per citare Morgana, mi pareva potesse volare. Cecily, si chiamava, e non potrei dimenticare quel nome per niente al mondo. Fu lei, la causa della mia caduta. Almeno cosi’ pensai allora...ma forse, in quel baratro buio nel quale continuo a precipitare, vi sarei caduto lo stesso...i sognatori e gli ingenui a questo mondo non durano che la vita di una rosa. Ma allora, quando mi svegliai in quella tomba nel cimitero di Londra e in tutti gli anni avvenire, beh, allora trovai molto piu’ conveniente affibiare a lei la colpa della mia oscura natura. Tutt’ora, pur riconoscendo come mia la scelta di divenire cio’ che sono, non posso non pensare che in parte tutto cio’ sia dovuto a lei. Ma a questo dobbiamo ancora arrivarci...

Componevo poesie, da giovane, ed anche adesso, ricominciando per opera di chi credo possiate immaginarlo...componevo quindi poesie, da giovane. Non erano componimenti pretenziosi, o elaborati, erano semplicemente i miei sentimenti trascritti su carta. Talvolta senza senso, per altri all’infuori di me. Talvolta perfino io stentavo a capirli...i sentimenti si vivono, non si trascrivono...questo allora non lo sapevo, come non sapevo tante, tantissime altre cose. Un sentimento non puo’ essere descritto, e gia’ dargli un nome e’ voler minimizzare, far sembrare qualcosa di astratto come qualcosa di sensato e razionale. Un sentimento non lo si puo’ descrivere...e’ come voler evocare un profumo di rose...puoi visualizzare l’immagine, di una rosa, non il suo profumo. Ma io volevo rendere partecipi gli altri di quello che sentivo, senza curarmi del fatto che agli altri potesse non importare, cio’ che sentivo, e che trovassero ridicole sensazioni e pensieri che avevano provocato un brivido dentro di me. Quindi continuavo a scrivere, e la gente a ridere.

Quella sera, quella di fine novembre, il giorno del ricevimento, ero seduto in disparte, come mio solito, a comporre versi per Cecily, nella vana speranza di avere il coraggio per leggerli, finalmente, a lei. L’inchiostro che si asciugava rapidamente sul foglio mandava un odore forte, che permaneva nell’aria attorno a me. Il mio cuore era li’, su quel foglio bianco, trascritto in stupidi versi che non sto nemmeno a citarvi...la gente ha riso troppo a lungo di me, perche’ possa sopportare anche ora le risatine sommesse che, inevitabilmente, la mia poesia susciterebbe in voi che leggete.

Ecco, la mia mente ora sbiadisce il ricordo, lo rende quasi illeggibile...e’ un meccanismo di difesa che non sapevo nemmeno di avere...la rimozione assoluta del ricordo, che annulla tutto tranne l’incancellabile senso di smarrimento che dovette attraversarmi quella sera, quando, animato da non so quale coraggio o chissa’ quale folle idea, aprii il mio cuore, quel fiore troppo fragile, a quella donna per la quale non ero niente. Ma cosa ne potevo sapere io, accecato dall’amore, che non riuscivo nemmeno lontanamente a scorgere l’indifferenza che quegli occhi celesti avevano per me?

Siete troppo inferiore...”, mi disse, con un’ombra leggera di rammarico in volto.

Questo, oh, questo lo ricordo benissimo...come potrei mai dimenticarlo? O come potrei dimenticare i lampi violetti che attraversavano gli occhi di un’ombra, quando mi apparse, dopo appena qualche ora, in una stalla nella quale mi ero rifugiato per piangere solitario?

Erano, quegli occhi, l’essenza stessa della tenebra. Eppure io scambiai il suo buio per luce. E la seguii, e lasciai che mi portasse con se’, perche’ quell’essere, con il suo buio e la sua tenebra, pareva leggermi dentro, e nella sua pazzia, quella pazzia che ostentava come un dono, io ci vedevo qualcosa di geniale...non sono i migliori geni della storia, ad essere stati scambiati per pazzi da chi non vedeva la loro grandezza? Lasciai che mi trascinasse nel suo abisso, lasciai che mi prendesse per mano e mi mostrasse il suo mondo perverso ed assassino, che allora trovai...perfetto. Ero al di sopra di ogni essere umano. Io davo la vita. Io toglievo la vita. Sopra me, o, perche’ no?, sul mio stesso livello, solo Dio. Decenni, passati ad uccidere. A bere sangue, perche’ il sangue e’ la vita. Ed io mi cibavo della vita...ed era eccitante. Era dannatemente eccitante. Tanto eccitante che l’idea di dividere quella ‘vita’ con Drusilla, la mia Sire e la mia nera compagna, mi divenne quasi insopportabile. La sua pazzia, la sua sottile genialita’, la sua bellezza, e persino quei lampi violetti nei suoi occhi, che tanto avevo adorato, cominciarono a stancarmi. Finche’ un giorno, di punto in bianco, la lasciai, senza una parola, senza una spiegazione. Semplicemente uscii, e non tornai piu’ da lei. Passai decenni in totale solitudine, in quel mondo che ancora mi appariva perfetto...ma solo perche’ non conoscevo gli altri...

E poi, una sera d’autunno, incontrai Morgana...e quel mondo che avevo trovato perfetto smise di soddisfarmi...


Non hai paura di me?”

Mi guardo’ quasi con divertimento. Camminava con una tale grazia, Morgana, da lasciarmi senza fiato. Aveva ancora i capelli bagnati, appiccicosi di sale, mentre l’accompagnavo a casa. Ondeggiavano nel vento tenue della sera, e sembravano onde di quel mare che avevamo appena lasciato...solo...piu’ belle...

Dovrei averne?”, mi chiese con innocenza.

Era incredibile, per me, che una creatura tanto pura, tanto dolce come lei potesse trovarsi a proprio agio insieme ad un figlio della notte.

Ma con lei, tutto era normale...

Cominciavo a capire, questo concetto. Niente la lasciava sconvolta piu’ di tanto, niente sembrava toccarla. Niente le sembrava impossibile. Casca il cielo? Oh, e’ normale...

Mi strinsi nelle spalle, guardandola. Avevo alzato un sopracciglio, nel gesto che ero solito fare quando volevo sedurre una bella donna. Ma lei non sembro’ nemmeno farci caso. Ed anche in questo, nell’ignorare i miei comportamenti che le davano fastidio, era imbattibile.

Io ne avrei...”, dissi piano.

Ok...”

Ok cosa?”

Fece spallucce, sorridendomi.

Ok e basta!”

La fissai, senza capire. Mi piaceva quel suo modo di comportarsi, non potevo dare niente per scontato, ogni sua risposta, ogni suo sorriso, ogni suo gesto...era imprevedibile. Normalmente questo mi avrebbe seccato, se non fatto infuriare, ma, non so spiegarmi il perche’, con lei mi sembrava bellissimo. Con lei tutto mi sembrava bellissimo. Tranne quel mio mondo, fatto di omicidi e sangue, che cominciavo ad odiare. Senza un perche’, io che avevo amato uccidere piu’ d’ogni altra cosa al mondo, adesso mi ritrovavo a voler tornare umano. Ascoltavo il silenzio del mio cuore, e mi ritrovavo a sperare che ricominciasse a battere. Il suo cuore...oh, il suo cuore batteva...era una musica cosi’ dolce. Non mi sarei mai stancato di ascoltarla. Era lenta, sembrava seguire il ritmo dei suoi passi, scandendo ogni suo movimento con un fremito gioioso.

Los Angeles sembrava cosi’ piccola, quand’ero con lei. Arrivammo sotto casa sua, quell’emorme palazzo gotico che continuavo a trovare perfetto per lei. Mi guardo’ per un lungo istante, come se volesse capire cosa stessi pensando. Chissa’ se sarebbe stata sorpresa, nello scoprire che stavo pensando quanto fosse bella...

Allora...”, cominciai, titubante.

Allora ciao!”, continuo’ lei, bloccando le mie parole. Mi scappo’ un sorriso. Era presto, pensai tra me. Io che solo un mese prima non avrei aspettato una donna per nulla al mondo, mi ritrovavo a pensare che era presto...e lo ritenevo addirittura normale!

Ciao...”, sorrisi.

Stavo per andarmene, quando un sonoro rumore di passi attiro’ la mia attenzione. Scendevano le scale del palazzo, ansiosamente. Anche Morgana dovette sentirlo, perche’ si volto’, fissando stranita la donna in vestaglia che scendeva trepidante le scale e usciva velocemente dal portone del condominio, visibilmente preoccupata. Prese una mano di Morgana, sorridendo rincuorata.

Oh, Morgana...cominciavo a preoccuparmi...quando sei uscita hai detto che saresti solo andata a fare il solito giro e...”

Morgana le carezzo’ dolcemente un braccio, rassicurandola.

Sono qui, Justine, sono qui...mi sono solo fermata per un po’ con un amico...”

Io, ancora fermo di fronte le due donne, guardavo la nuova arrivata con diffidenza. Era molto alta, non piu’ molto giovane, ma pur sempre affascinante. Aveva lunghi capelli biondi ed occhi nerissimi, decisi ma dolci. Tuttavia mi ispiro’ solo diffidenza. Alla quale riusci’ come sempre a supplire Morgana, chiamandomi ‘amico’. Nessuno mi aveva mai chiamato ‘amico’. Era bello, sentirselo dire. Morgana mi guardo’, sorridendo, e spinse l’altra donna verso di me.

Justine, lui e’ Spike...”, ed aspetto’ che mi stringesse la mano. C’era la stessa mia diffidenza, nel suo sguardo, divenuto d’un tratto glaciale. “Spike...lei e’ Justine, la mia osservatrice...”

L’ultima parola tramuto’ il mio sorriso in una smorfia. Come aveva detto? Osservatrice? Il sangue mi si gelo’ nelle vene, per cosi’ dire. Fissai Morgana ignorando completamente l’altra.

Osservatrice? E tu...tu sei...”

Lei sorrise confusa, mentre gli occhi le si illuminavano, e capiva.

Una cacciatrice? Oh, no, no...e’ molto piu’ complicato...”

Stavo per chiederle di spiegarmi cosa c’era di piu’ complicato, ma sentii distintamente una voce, nella mia testa, paurosamente simile alla sua, che sussurrava...

Non chiedermelo, per favore, non chiedermelo...

Ed io non lo chiesi...

Invece la salutai, e mi incamminai verso casa...nella mia testa quelle parole continuavano a girare...era speciale, Morgana...non immaginavo neanche quanto, allora...


Sapevo che Justine mi odiava. L’avevo capito nell’istante in cui i miei occhi si erano posati nei suoi. Neri. Freddi. Diffidenti. Quasi rabbia, nei suoi occhi...non che mi fossi aspettato amicizia o un’accoglienza festosa, ma quegli occhi mi lasciarono turbato, come l’ombra di un brutto presentimento. Forse era solo perche’ avevo sperimentato l’amicizia incondizionata di Morgana, per me. Una mortale, che non sembrava minimamente ostica, ne’ minimamente spaventata, da me. Forse avevo perso di vista, a causa sua, il fatto che la mia natura di vampiro mi precludeva l’accoglienza dei mortali. Tuttavia lo sguardo di Justine pareva fuoco che bruciava lento nei recessi piu’ profondi del suo essere. Mi odiava, gia’ prima di conoscere il mio nome. Di un odio profondo, che sembrava quasi lo stesso che provava il mio demone per me. Eppure, poco alla volta, mi abituai anche a quello sguardo. Credo che dopo i primi due mesi non facessi nemmeno piu’ caso al fuoco che bruciava lento nei suoi occhi, e pareva volesse consumare me. Passavo quasi ogni notte con Morgana. Non parlavamo di niente, eppure non stavamo nemmeno in silenzio.

Era bello. Uscivo la sera presto, appena il sole calava, inabissandosi nel mare. Il cielo era ancora sfumato di rosso e violetto, quando chiudevo la porta di casa, trovandomi davanti le strade infinite, sfavillanti di luci e colori, della cara vecchia Los Angeles.

Insegne al neon lampeggiavano ad intermittenza, riflettendo sul mio volto pallido, luci fosforescenti, che lo facevano apparire piu’ ‘diverso’ di quanto gia’ non fosse. I miei occhi riflettevano come specchi il luccichio delle macchine decappottabili che mi passavano accanto, sfrecciando a centoventi allora in un tratto rettilineo da novanta. Musiche di ogni genere arrivavano attutite alle mie orecchie, e mi ritrovavo a canticchiarle, mentre percorrevo vicoli bui, illuminati flebilmente solo dai lampioni, attorno ai quali volteggiavano centinai di piccoli insetti biancheggianti. Battevano insistentemente contro la sfera del lampione, cercando disperatamente un buco per raggiungere la tanto amata luce.

Era tutto uguale, ogni notte. Eppure nell’aria, e in quei colori visti mille volte, e nelle musiche udite per mesi, e negli insetti apparentemente immortali che battevano costantemente contro la stessa sfera lucente dello stesso lampione dalla prima notte in cui ero uscito...eppure, in tutto questo, c’era sempre qualcosa di nuovo, qualcosa di impercettibilmente diverso. Ogni notte, a Los Angeles, era unica. Ogni cosa, a Los Angeles, la vedevi una sola volta. Poi scompariva, per tornare la sera dopo, apparentemente uguale, ma sempre diversa. Ogni notte, Los Angeles, era una citta’ diversa, sfavillante di mille colori, animata da mille suoni, solcata da milioni di auto, illuminata da milioni di lampioni, tutti diversi dalla sera precedente.

Ed anche le persone, quel groviglio intricato di etnie e religioni e tradizioni, anche le persone, ogni notte, erano diverse. Avevano sempre qualcosa in piu’. A volte, qualcosa in meno. Cambiavano, cambiavano a ritmo frenetico, proprio come la loro citta’, ed in tutto, erano uguali a Los Angeles. Brillavano di gioielli, cantavano agli angoli delle piazzette, offrivano sfere di sole artificiale sulle bancarelle. Il cuore palpitante della bella Los Angeles...la gente. Bella, brutta, povera o ricca...crescevano, si evolvevano, cadevano al ritmo della citta’, mutando drasticamente a seconda dell’umore capriccioso di quel pezzetto di paradiso in California. Ed era bello pensare che anche io facevo parte di quella gente. Mi nutrivo del cuore di Los Angeles.

Anche se non lo facevo piu’ come un tempo, e su questo e’ forse utile che perda due minuti del mio racconto...

Prima di Morgana, ero solito intrattenermi ore intere, se non intere nottate, con una vittima. La portavo sul baratro della morte, e poi la rinvigorivo con cibo e sangue, per poi ricominciare da capo, ore ed ore a creare il capolavoro della morte.

Dopotutto, se mi hanno soprannominato Spike, un motivo ci doveva essere...i chiodi. Ho perso il conto delle urla che ho ascoltato, mentre trafiggevo uomini e donne sfiniti con un chiodo. Solitamente era il mio numero finale, e ci mettevo tutto cio’ che ero, perche’ riuscisse bene e mi soddisfacesse appieno. Il piu’ delle volte era cosi’. Era orrido e disgustoso, ora lo so, ma allora non potevo immaginare godimento piu’ alto. Nemmeno la fredda presenza di Drusilla tra le lenzuola del mio letto mi dava tanto piacere.

Ero un assassino, ed ero diventato davvero William il sanguinario...ma stavolta in senso letterale. Dopotutto non posso dire che provo molto rimorso nei confronti di James Giles, che mi affibbio’ quell’odioso nomignolo, e fu il primo a constatare che forse sarebbe stato meglio ascoltare le mie poesie, che avere le orecchie trafitte da un chiodo. Certamente, sarebbe vissuto piu’ a lungo...

Torniamo al mio racconto, i miei pensieri stanno prendendo una brutta via, e non vorrei ritrovarmi a combattere nuovamente una strenuante battaglia contro quel demone ora sopito, ma non scomparso. Non scomparira’ mai, lo so. Fa parte della mia natura, come di quella di tutti gli esseri come me. E come tale l’accetto, pur combattendolo ogni giorno.


Torniamo dunque, ad una sera, ormai d’inverno. Doveva essere fine gennaio, o forse erano i primi di febbraio, non ricordo precisamente. E non mi pare, dopotutto, importante. Ero uscito, come tutte le sere.

Passeggiavo guardingo per le stradine illuminate, cercando con gli occhi la mia cena. Avevo sete, una sete che provavo raramente, poiche’ quello strano amore per Morgana mi impediva di cibarmi completamente degli esseri umani. Passavano intere settimane, senza che bevessi da piu’ di un umano. In quel momento, ricordo, ero senza sangue fresco da tre giorni, ed i crampi allo stomaco mi laceravano. Per non parlare del mio aspetto. Ero paurosamente pallido, molto piu’ del solito. Direi che la mia pelle aveva assunto il coloro cinereo dei morti prossimi alla putrefazione. E, in quel candore per nulla rassicurante, si scorgevano nitide le linee azzurrine delle mie vene, come una mappa celeste sul mio volto. Ero orribile, e dovevo bere. Cominciavo persino a vedere sfocato. Credo di aver perso la cognizione del tempo, perche’ il cielo ancora tenuemente illuminato che avevo visto quend’ero uscito di casa, divenne scuro, percorso da un tappeto infinito di stelle. Uno spicchio di luna vi brillava in mezzo. Ed io ancora non ero riuscito ad avvicinare anima viva.

Finalmente, dopo ore peregrinando per i vicoli malfamati della citta’, incrociai una ragazza, chiaramente disorientata. Doveva essersi persa. Era ben vestita, chiaramente non apparteneva alla gente rozza che costituiva l’altra faccia di Los Angeles. Non la ricordo esattamente, ma so per certo che aveva occhi neri, ed i capelli certamente biondi, poiche’ non avrei mai piu’ avuto il coraggio di uccidere una qualunque ragazza con occhi verdi o capelli neri. Mi ricordavano troppo Morgana, e mi facevano sentire sporco. Traditore. Percio’ mi dedicavo unicamente a ragazze bionde, o castane, e con gli occhi rigorosamente scuri. Non erano in molte, a Los Angeles, che corrispondevano a questa descrizione, e questo mi rendeva tutto dannatamente piu’ difficile.

Ma, per quella sera, l’avevo trovata. L’avvicinai, gentilmente, mentre lei si guardava intorno ansiosa, incerta su dove si trovasse. Le andai vicino, tenendomi nell’ombra, per non spaventarla col pallore innaturale del mio viso.

Ti sei persa, ragazza?”, le chiesi gentilmente, mentre l’adrenalina della caccia cominciava a scorrere nelle mie vene, al posto del sangue che scarseggiava.

Lei mi fisso’, sospettosa. Strinse gli occhi, per cercare di vedermi in volto, ma io restavo nascosto nell’ombra, e lei non poteva vedermi.

No, io...non riesco a trovare una strada...”

Notai che aveva tra le mani ferme una cartina piegata con cura. Una pianta di Los Angeles, certamente. Ebbi un’idea, e dovetti fare appello a tutte le mie forze per reprimere un sorrisetto crudele di soddisfazione.

Vieni qui. Hai una cartina, no? Tu dimmi dov’e’, ed io te la trovo...”

Quando cacciavo la mia voce diventava mielosa, cosi’ suadente che nessuna riusciva a dirmi di no e scappare. Venivano tutte a me, come attratte da qualche misterioso incantesimo. La ragazza bionda non fu da meno. Sorrise incerta, e venne verso di me, addentrandosi nell’ombra. Rimasi immobile, mentre i miei muscoli si tendevano. Lei mi arrivo’ di fianco, ma non parve accorgersi del mio aspetto insolito, presa com’era dallo spiegare davanti a se’ la piantina della citta’. Le sorrisi, mentre le mie mani si tendevano istintivamente a toglierle la cartina dalle mani.

Questa non servira’...”, le dissi, suadente.

Mi guardo’. Io le presi il viso tra le mani, e le baciai leggermente le labbra, come facevo sempre. Lei non oppose resistenza. Non lo facevano mai. Forse era una parte di quello strano incantesimo che sapevano intessere solo i vampiri. Erano calde, e setose, le sue labbra. Ma non suscitarono in me altro che fame. Erano altre che bramavo sfiorare. Scesi dalle sue labbra al mento, arrivando infine al collo, mentre lei socchiudeva gli occhi e si abbandonava contro di me, come drogata. Forse lo era. Mutai volto, senza che lei se ne rendesse conto. Fu una frazione di secondo, poi i miei denti affondarono nella carne tenera del suo collo, ed un fiotto di sangue caldo riempi’ la mia gola riarsa. Era dolce, il suo sangue, come quello di tutte le ragazze della citta’. Sapeva di vita. Ancora una volta, lei non disse niente, limitandosi a gemere debolmente. Sentivo la sua vita scivolare nel mio corpo. Si indeboliva sempre di piu’. Sentivo le sue mani tremare. Le gambe erano sul punto di cedere.

E poi, accadde l’impensabile. Mentre ancora risucchiavo tra i miei denti la sua vita, mi passo’ per la mente Morgana. Fu come una folata di vento. Passo’, si sporse per toccarmi e poi volo’ via. Morgana...

Non ce la feci. Qualcosa dentro di me si blocco’, inevitabilmente. Mi pervase un improvviso senso d’orrore per cio’ che stavo facendo. Era pazzesco, era contronatura, era qualcosa che avrei dovuto respingere con tutte le mie forze, era...

Era normale...

E mi spaventava, questo concetto nuovo di normalita’...mi sembrava un paradiso, si’, ma un paradiso senza uscita...e un paradiso dal quale non puoi uscire e’ un inferno...

Riuscii a riacquistare il controllo sul mio demone e, lentamente, mi staccai dal collo della ragazza, che cadde esausta fra le mie braccia. Respirava debolmente, ma sentivo il suo cuore forte di giovane, e sapevo che sarebbe vissuta. O sarebbe morta per bocca di un altro vampiro. Non io, pero’. Non io. Ero avvilito, ero spaventato, mi sentivo come non mi ero mai sentito. Ed avevo sete. Una sete consumante, poiche’ avevo assaggiato il mio nettare, ma non avevo bevuto abbastanza da dissetarmi, dopo tre giorni di digiuno. Quasi urlai, rivolgendo lo sguardo alle tacite stelle che brillavano nella volta scura del cielo. Quasi urlai. Ma l’urlo mi mori’ in gola quando intravidi, alla fine del vicolo, una figura biancovestita, che mi fissava con occhi innocenti, per nulla spaventati. I capelli mossi dal vento fresco della sera, e la luna che si specchiava dentro quegli occhi, verdi e pericolosi come boschi di salici.

Era Morgana...

E mi aveva visto...


Non c’era paura, ne’ ribrezzo, nei suoi occhi verdi. Incredibile, direste. Aveva appena assistito alla cena (non completa, tra l’altro) di un vampiro. Eppure, potrei giurarci, c’erano tante emozioni, in quegli occhi, ma non paura. O ribrezzo. Sembrava quasi attratta. Attratta dalla morte, come quasi tutti i mortali. Ma lei, non potevo non pensarlo, sembrava esserlo in maniera diversa, come era diversa in ogni altra cosa. Inclino’ la testa di lato, e si avvicino’ di qualche passo. Lentamente, come se il tempo fosse dilatato.

Mi sentivo sporco.

Lei avanzava verso di me, in quel vestito bianco, come volendo ribadire che lei era pura, lei era buona. Ed io no. Io ero malvagio. Perfido. Infido.

Io avevo bevuto sangue, da una ragazza come lei.

Io avevo sentito la sua vita sgretolarsi sotto i miei denti.

Io avevo saziato la mia sete con la vita.

Io ero quello sporco. Non lei. Ed io non avrei meritato mai nemmeno un’occhiata, da quegli occhi dolci e incuriositi che fissavano ora il corpo della ragazza ancora fra le mie braccia, ora i miei occhi. Non mi ero nemmeno accorto di avere ancora il demone sul viso. Ma nemmeno quello sembro’ spaventarla.

In un istante, mi fu cosi’ vicino che potei sentire il suo respiro caldo sul viso, contratto in una smorfia orrenda. Lei strinse gli occhi, con curiosita’, ed allungo’ una mano per sfiorare i lineamenti tozzi ed orribili del mostro che mi abitava dentro. Io mi scostai, incapace anche solo di tornare umano. La mia preoccupazione, i miei sentimenti, quella burrasca di sensazioni, mi impedivano di tornare umano.

Morgana sembro’ quasi contrariata, quando mi nascosi nell’ombra, impedendole di sfiorarmi il viso, o anche solo di guardarlo. Avanzo’, raggiungendomi nuovamente. Quando mi ritrassi ancora, lei mi afferro’ un polso, costringendomi a restare dov’ero.

No, no...”, mi disse, mentre una sua mano volava a sfiorarmi leggera una guancia dalla pelle tirata e raggrinzita. “Non nasconderti. E’ una parte del tuo viso...non la devi nascondere. Non a me...”

Ero piacevolmente sconvolto dalle sue parole. Mi chiesi quale angelo del paradiso mi avesse affidato un Dio misericordioso nel quale non credevo. Perche’, non c’era dubbio, Morgana doveva essere un angelo. Per me, almeno, lo era. Lasciai che sfiorasse il volto del mio demone, seppure con la paura nascosta che mi trovasse disgustoso. Ma lei aveva solo un dolce sorriso, sulle labbra. Non era disgustata. Era solo curiosa di sapere chi ero. O cos’ero. Fino in fondo. Non c’era nulla che potesse spaventarla. E anche questa fu una delle cose che imparai presto, su di lei. Non temeva niente. Tranne, forse, la morte. La incuriosiva, ed al tempo stesso le faceva orrore. Perche’ lei era viva, meravigliosamente viva. Ed anch’io avevo una paura folle della sua morte. Avrei voluto che quello splendore di gioiosa vita sulle sue guancie durasse per sempre.

Dopo qualche secondo, Morgana si chino’ sulla ragazza che giaceva supina accanto a me. Nell’arretrare, l’avevo fatta cadere. Le poggio’ delicatamente due dita sul collo. Ascolto’ il cuore della ragazza pulsare debolmente, poi si rialzo’, e mi guardo’. In tutto questo, il sorriso non si era mai spento, sul suo viso.

Vivra’. Non l’hai uccisa...perche’?”, mi chiese con innocenza.

La guardai, cercando nei recessi della mia mente una risposta adatta alla sua domanda. Una risposta che riuscisse ad avere qualcosa di altrettanto innocente. Ma non ce n’erano, ovviamente. C’era solo la verita’...

Non ce la faccio...”, dissi, sospirando. “E’ da un po’ che...non riesco piu’ ad uccidere...”

Mi vergognavo di quell’ammissione. Era come se avessi rinnegato la mia natura, ammettendo che non ero piu’ in grado di commettere omicidi.

Temetti per un attimo che mi chiedesse il perche’ di quell’improvvisa incapacita’ ad uccidere. Con mia somma gratitudine, non disse niente. Non mi derise, non mi compati’. Semplicemente, stette in silenzio, come aspettando che fossi io a parlare. Ma io ero cosi’ stanco. Avevo cosi’ sete che avevo paura di perdere il controllo ed azzannare lei. Mi sarei lasciato impalettare, piuttosto che farle del male...ma ero cosi’ stanco ed assetato...

Come al solito, lei parve leggermi nel pensiero. Mi prese una mano, trascinandomi gentilmente fuori dal vicolo. Era delizioso il contatto con la sua pelle. Sentivo le vene pulsare, il cuore batterle nel petto, ritmicamente, come se non esistesse niente capace di farlo correre o decelerare. Sentivo quel profumo di menta, dolcissimo. Ascoltavo in estasi il fruscio sommesso dei suoi capelli nel vento.

Dove...dove stiamo andando?”

Lei non si giro’ verso di me. Continuo’ a camminare, lentamente. Capiva che non ero in grado di correre, e che camminavo a stento. E, se non mi avesse tenuto per mano, piu’ di una volta sarei andato a sbattere contro il muro.

Non preoccuparti...solo, fidati di me”

Con tutto quello che sono, pensai, con tutto quello che sono. Mi fidavo di lei molto piu’ di quanto mi fossi mai fidato di me stesso.

Il ricordo del percorso e’ molto sfocato, fatto solo di linee in movimento e stelle da ogni parte. Stavo chiaramente male. Avevo bisogno urgente di nutrirmi, e sapevo di non poter attaccare esseri umani. Il solo pensiero mi dava la nausea. L’unica cosa che riusciva a calmarmi era la presenza calda della mano di Morgana nella mia.

Arrivammo sotto un condominio gotico. Ricordo che a prima vista mi sembro’, confuso com’ero, un terribile mostro pieno di teste a forma di gargoille e draghi. Mi ritrassi inorridito, e, se fossi stato mortale, avrei detto di essere stato febbricitante. Ovviamente, era impossibile, ma il bisogno impellente di sangue provocava in me gli stessi effetti della febbre. Morgana dovette letteralmente trascinarmi per le scale, su per quelle scale che non avevo mai percorso, fino ad una porta di legno e metallo che non avevo mai visto. Busso’ con forza, questo lo ricordo, perche’ il rumore dell’enorme battente d’ottone rimbombo’ nelle mie orecchie con l’intensita’ di un’orchestra di campane. Sentivo passi leggeri dietro la porta, e ricordo d’aver vagamente intuito fossero di Justine. Capii che Morgana mi aveva portato a casa sua, e le fui grato per non avermi abbandonato in quel vicolo, sopraffatta dall’orrore per quello che avevo fatto.

Justine apri’ la porta, e si fece rossa di collera non appena mi vide.

Morgana!”

La ragazza sfido’ lo sguardo altero della sua osservatrice. Perche’ era li’, mi era ancora sconosciuto. Lei mi aveva chiesto di non parlarne, ed io non ne parlavo. Ma la curiosita’ era forte, anche in quel momento, con la vista offuscata dal bisogno impellente di nutrimento. L’effetto benefico del sangue della ragazza era gia’ svanito del tutto.

Justine, ti prego...sta male, ha bisogno di sangue. Non ti fara’ niente, e non fara’ niente nemmeno a me...lasciami passare, per favore...”

La donna la squadro’ con diffidenza. Infine, si sposto’ dalla porta per farci entrare. La testa mi girava vorticosamente, e in un primo momento non notai nulla all’interno di quella grande casa. Mi sembrava tutto un’enorme buco nero.

Morgana mi porto’ in una delle stanze che affacciavano sul lungo corridoio e mi distese su un letto. Dopo aver dormito mesi su uno scomodissimo letto che pareva avere barre di ferro invece del materasso, quella morbidezza e quel calore mi avvolsero completamente. Sentivo la mano di Morgana sul viso, e la sua voce flebile che sussurrava.

Dormi. Io torno tra un po’...”

Mi chiesi come avrei fatto a dormire, quando persino chiudere gli occhi era una fatica indicibile. Un attimo dopo, dormivo profondamente.


Mi svegliai che era gia’ mattino fatto, e la finestra era sbarrata con persiane di legno, di quelle classiche italiane. Il sole filtrava flebile, e non mi sfiorava nemmeno, permettendo tuttavia una debole illuminazione.

Stavo ancora malissimo. I crampi allo stomaco erano lancinanti, e dovevo fare uno sforzo incredibile perche’ il mio demone non venisse allo scoperto. Mi fischiavano le orecchie e, pur sapendo che era impossibile, mi sentivo accaldato. Aprii gli occhi, lottando per mettere a fuoco la stanza. Era una bella camera rettangolare, col letto al centro, proprio davanti una grande porta ad arco, a soffietto. Il pavimento era di pregiato parquet lucidissimo. Il soffitto era immacolato, cosi’ bianco da accecarmi, e non c’era una sola crepa nell’intonaco. Sui muri, un distensivo parato azzurro e bianco, sul quale passava una striscia di fiori di pesco intervallati da roselline dai colori chiarissimi. Sorrisi stancamente a quella visione di quiete domestica, e voltai la testa vesro destra. C’era un comodino di legno scuro, forse ciliegio, su cui stava una foto. Era Justine, visibilmente piu’ giovane, abbracciata ad un ragazzo poco piu’ grande di lei. Sullo sfondo, la tourre Eiffel. Mi chiesi di nuovo cosa ci facesse un’osservatrice francese insieme a Morgana. Quale segreto nascondevano?

Chiaramente non era il momento adatto per pensarci, ma non riuscii a frenare un impeto irrazionale di gelosia nei confronti di quella donna, di Justine. Lei sapeva qualcosa di Morgana che a me era tenuto nascosto. Mi faceva sentire escluso. E geloso. Ormai avevo ammesso di essere innamorato cotto. Quindi, in confronto a quello, fu facile ammettere di essere geloso.

Il mio sguardo ancora assonnato si poso’ oltre la foto incorniciata con cura, e vidi qualcosa che fece sbocciare l’ennesimo sorriso ebete sulle mie labbra.

C’era un bicchiere di vetro trasparente, posato sul comodino, vicino ad una brocca enorme di cristallo. Dentro la brocca, c’era sangue. Caldo, anche, a giudicare dalla sottile scia di fumo che si levava pigramente dalla caraffa colma.

Mi misi a sedere con evidente sforzo, e versai nel bicchiere il liquido color rubino che brillava all’interno della brocca. L’accostai alle labbra, e bevvi lentamente, gustandomi il sapore dolce del sangue caldo –avevo visto giusto, era caldo–, sul palato e nella gola. Un senso di benessere generale mi invase lentamente.

Ero al secondo bicchiere, quando sentii quello sguardo. Due occhi, posati su di me. Sapevo gia’ chi era, eppure questo non impedi’ a quel nodo capriccioso di formarsi nella mia gola, e quasi l’ultima sorsata di sangue mi ando’ di traverso, quando la vidi.

Stava appoggiata allo stipite della porta, le mani incrociate in grembo, la gamba destra quasi sollevata da terra, il cui raschiava il parquet, quasi fosse in imbarazzo. I capelli le ricadevano morbidi e scuri sulle spalle, in una cascata di notte setosa. Indossava ancora il vestito bianco della sera prima, e dalla sua espressione capii che non aveva dormito. Eppure, nemmeno i cerchi scuri sotto gli occhi ne deturpavano la bellezza, anche se la sua, come ho detto, non era semplice bellezza, e non dovrebbe essere chiamata tale. Mi guardava, in silenzio, e sorrideva stancamente. Doveva essermi rimasta vicino tutta la notte, salvo poi uscire per andare a comprarmi il sangue dal macellaio. Le sorrisi, cercando di sembrare il ragazzaccio scanzonato di sempre, e le feci cenno di entrare. Lei lo fece in silenzio, come sempre, cosi’ silenziosamente che nemmeno i miei sensi da vampiro avrebbero potuto avvertire i suoi passi, se non avessi potuto vederli. Sembrava camminare sospesa a mezz’aria. Si sedette sul bordo del letto, osservandomi con attenzione. Aveva un non so che d’infantile, di magnificamente innocente. Inclinava la testa di lato, stringendo gli occhi, e aggrottava la fronte, curiosamente. Sembrava una bambina, eppure non lo era. Sorrise, apparentemente soddisfatta da quello che aveva visto.

Sei meno trasparente di prima...per un attimo ho pensato che stessi per sparire...”

Mi toccai il viso, sentendo finalmente pelle sopra le ossa lisce. Indubbiamente le vene azzurrine erano sparite, e dovevo essere...meno trasparente, si’, aveva preso il punto, come sempre. Le sorrisi.

E’ il sangue, bella...”

Per un attimo mi sembro’ a disagio. Storse leggermente la bocca, come se avessi detto qualcosa di assolutamente sbagliato. Volto’ la testa in direzione della porta, per un istante, poi torno’ verso di me. Sorrideva, si’, ma era quasi forzato.

Non chiamarmi ‘bella’...”, mi disse, gentilmente. C’era un che di freddo, ora, nella sua voce.

E’ quello che sei...”, soffiai, e mi sembro’ rabbrividisse. Ma fu solo un istante.

Non mi piacciono i complimenti.”

La guardai, sorpreso. Lo trovavo impossibile. Avevo conosciuto centinaia di donne, nella mia vita e nella mia non vita...e per loro i complimenti erano come il pane. Non vivevano senza, e ti guardavano male se mancavi di farglieli. Perche’ con lei sarebbe dovuto essere diversamente? Solo perche’ lei era Morgana? Perche’ era diversa, lei, e lo sapevo bene?

Non saresti una donna, se fosse vero...”, le dissi, con una punto di sarcasmo nella voce.

Lei sorrise, guardandomi negli occhi.

Non sono una donna...”, disse, senza ombra di malizia. “...Sono solo Morgana...”

Annuii, piacevolmente sorpreso dalla sua risposta. Aveva una risposta per tutto, dall’innocenza disarmante. Non era una donna, era vero. Le donne potevano essere ipocrite, potevano essere false, ostiche, pettegole, per quanto piacevoli...una donna poteva essere Justine. Ma non Morgana. Lei non era certamente una donna. Era una creatura innocente e pura come una bambina, seppur donna...una creatura, unica superstite della sua specie. Viva e palpitante, e piena di emozioni. La mia piccola Morgana...la mia salvezza...il mio angelo...


Restai tutto il giorno con lei. Justine non rimase che pochi minuti, per pranzo, e poi usci’ di nuovo, facendo prima mille raccomandazioni a Morgana, e lanciando varie occhiatacce in mia direzione.

Eravamo gelosi l’uno dell’altra, credo. Non ci potevamo nemmeno vedere. Vivere sotto lo stesso tetto, seppure per una sola giornata, doveva riuscirle troppo difficile. Mi vedeva come un rivale, qualcuno contro cui combattere perche’ l’affetto di Morgana rimanesse tutto per lei, unico. Per me era la stessa cosa. Odiavo veder Morgana sorridere a quella donna con una luce particolare nei begli occhi, una luce che con me non si accendeva, e credo che Justine odiasse, invece, il fatto che lei parlasse con me quanto che con lei, e che la sua bambina, per cosi’ dire, passasse quasi tutte le notti insieme a me.

Noi combattevamo per il suo affetto, e Morgana pareva non accorgersi di niente. Guardava gli occhi dell’osservatrice riempirsi di odio mentre mi guardava, ed ascoltava i miei ringhi quando incrociavo quello sguardo. Ma ci ignorava completamente, come se la ritenesse una cosa troppo stupida e senza importanza, per la quale non valeva la pena intromettersi. Probabilmente era cosi’, anche se per noi altri era una faccenda della massima importanza.

Comunque sia, Justine usci’ di casa appena dopo pranzo, lasciandomi beatamente alle cure di Morgana. Ero ancora debole, e fingevo di esserlo piu’ di quel che ero veramente, solo per attirare la sua attenzione. Arrivai al punto di chiederle di accostarmi alla bocca il bicchiere del sangue, poiche’ avevo terribili tremiti alle braccia, ed avevo paura di rovesciare il liquido rosso sulle coperte. A dire il vero volevo anche vedere la sua reazione di fronte lo spettacolo del vampiro che beve schifosissimo sangue. Ma lei non batte’ ciglio. Mi sorrise, annuendo, e verso’ nel bicchiere il sangue dalla caraffa, tastando la superficie di vetro per capire se fosse ancora caldo. Era tiepido, ed a me piaceva cosi’. Si sedette sul letto, accanto a me, mentre io reprimevo a stento una risatina di soddisfazione. Il bicchiere mi tocco’ gentilmente le labbra, ed io le socchiusi, mentre lei lo inclinava leggermente, ed il sangue mi inondava la bocca. E, intanto, lei restava imperturbabile. Anzi, guardava il sangue con curiosita’, e guardava me berlo come se volesse chiedermi che sapore avesse. Sperai che non me lo chiedesse, e lei non lo fece. Vuotai il bicchiere, e Morgana lo ripose sul comodino, sorridendo orgogliosamente. Capiva perfettamente, compresi allora, che stavo bluffando. Ma non disse niente. Anzi, la domanda che mi rivolse fu l’ultima che mi sarei mai potuto aspettare.

Com’e’ essere un vampiro?”

La guardai, aggrottando la fronte. Non volevo risponderle. Avevo il terrore che mi chiedesse di vampirizzarla. Ma lei, un attimo dopo, rise divertita, come se avesse intuito i miei pensieri. Avevo un viso cosi’ sconvolto, che non dovette essere difficile.

Non te lo sto chiedendo perche’ vorrei esserlo...e’...curiosita’, credo...allora, com’e’?”

Mi sfuggi’ un sospiro di sollievo. Ero un idiota. Come avevo potuto pensare che lei, proprio lei, volesse essere una vampira? Era cosi’ viva, cosi’ vera, cosi’ saggia...che mai, avrebbe voluto essere come me...ed era giusto cosi’. Ero io, a voler essere come lei, ora.

La guardai, poi guardai il sangue, poi le pareti bianche e le persiane chiuse. Com’e’ essere un vampiro? Me l’ero chiesto tante volte, nei momenti di sconforto...com’e’, realmente? Eccitante per tutte le cose che avevo, o triste e nostalgico, per tutto quello a cui avevo rinunciato? Sapevo di avere la risposta. Ed era piu’ semplice di quanto m’aspettassi.

Una cosa...una cosa triste...”

Incredibilmente, mi parve che lei non fosse d’accordo con me. Ma non era questo. Lei non accettava il fatto che qualcuno potesse trovare una cosa triste il fatto di esistere, non accettava che io trovassi insoddisfacente la mia non vita, la mia esistenza, insomma, il fatto di non essere polvere. Ed era misteriosamente attratta dai vampiri. Non da me in quanto tale, ma dal mondo intero dei vampiri, con le zanne affilate e il volto pallido. Non voleva farne parte, tuttavia li trovava superiori. Lo sapevo allora come lo so adesso.

Perche’?”

Non era semplice, spiegare il perche’. Era triste...perche’...

Perche’ e’ morte...smetti di esistere...non sei niente, capisci?”

Mi guardo’ fisso, aspettando che parlassi ancora. Ma non sapevo che dire, e rimasi in silenzio. E allora parlo’ lei.

Come puoi trovarlo triste? Tu...voi...siete qualcosa di superiore, uno scalino piu’ in alto dell’umanita’! Voi avete sconfitto l’unica cosa che nessuna medicina, nessuna mente mortale e’ mai riuscita a sconfiggere: avete vinto contro la morte! Andate oltre l’ordine naturale delle cose...immagina un orgoglio, una vittoria piu’ grande...voi vivete, e vi cibate della vita...”, disse, con convinzione.

Ma io ancora non la seguivo...come poteva trovare superiore qualcosa di cosi’ empio, di cosi’ buio? Aveva idea di cosa perdevamo, noi, per inseguire l’illusione della vita eterna? Morgana parlo’ di nuovo. Era un sussurro, stavolta, e mi fece rabbrividire.

Tu sei l’orizzonte, che solo la fine del mondo potra’ cancellare...”

Mi ripresi in fretta, dovevo farlo. e ribattei, con sarcasmo, anche se non avevo voglia di ridere.

O un paletto nel cuore...”

Sembro’ sorridere della mia risposta. Sospirai, e decisi di parlare ancora.

Vedi...tu hai reso la nostra condizione...quasi poeticamente. Era poesia, la tua. Ma la nostra e’ realta’. Noi non abbiamo sconfitto la morte. Ci siamo solo rifugiati tra le sue braccia, lasciandoci portare via. Con la sciocca convinzione che potesse spalancarci porte prima sbarrate...ma, vedi, non e’ cosi’. Forse all’esterno resti giovane, ma e’ dentro di te, che qualcosa muore irreparabilmente...non so se riesco a spiegartelo...”, sospirai.

Volevo farle capire che doveva essere felice di essere viva. Volevo farle capire che la morte non porta a niente. Erano cose che capivo nel momento stesso in cui le dicevo. Era la prima volta che pensavo a quanto fosse triste la mia condizione. Lei, col suo visetto grazioso, l’abito bianco e quell’aria innocente, mi ci facevano pensare. Io non sarei mai stato grazioso, o bianco, o innocente...non volevo che pensasse che i vampiri sono esseri superiori.

Ti piace il sole?”, le chiesi, dolcemente.

Mi guardo’, inclinando la testa.

Certo...”

Quando eri in Alaska...li’ la luce era incantevole, no?”

Sorrise, ripensando al sole carezzevole ed alle tenebre, ed alla neve dell’Alaska. Ne parlavamo spesso, ed io avevo quasi imparato a conoscerla, pur senza averla mai vista. Lei me la faceva vedere.

Oh si’...era meravigliosa...”

Sorrisi anch’io, intenerito dalla sua espressione assorta.

Immagina di non poterla piu’ vedere...immagina di essere maledetta dalla luce. Come ti sentiresti?”

Si strinse nelle spalle, e mi sembro’ che rabbrividisse.

Svuotata...privata di qualcosa di insostituibile...”, disse, senza nemmeno pensarci. Era esattamente cosi’ che mi sentivo io, in quel momento. Svuotato di un’immensa parte di me. privo di qualcosa di insostituibile. La osservai. Cominciava a capirmi.

E’ il prezzo da pagare per l’immortalita’...la vita eterna. E’ quello che l’uomo cerca dagli albori della storia, dopotutto...”, mi disse. C’era ancora innocenza, nella sua voce. Aveva ragione, certo. Gli uomini non fanno altro che cercare un modo per vivere piu’ a lungo. Fu in quel momento, che compresi cio’ che stavo per dirle. La folgorazione di un istante. una verita’ pura e semplice, alla quale non avevo mai pensato, e che mi lascio’ scosso, nel piu’ profondo angolo di me stesso.

Tu sai perche’ esiste la morte, Morgana?”

La chiamavo raramente per nome. Mi faceva uno strano effetto. Alzo’ di scatto gli occhi su di me, nel sentirlo. Scosse la testa, incerta. Forse lo sapeva gia’, ma voleva che fossi io a dirlo. Forse voleva che me ne rendessi conto, dicendolo.

Fu data a tutti l’opportunita’ di morire, perche’ suonasse piu’ dolce il vivere...”, dissi. “La vita non esiste, senza la morte. Per un mortale, ogni istante e’ l’ultimo, perche’ e’ unico. Per loro il tempo ha un significato...per noi non e’ niente. Tutto perde di valore. Ogni istante e’ uguale all’altro...senza la morte, non puo’ esistere vita...”

La guardai per un lungo istante. avevo gli occhi velati di lacrime, per quella ingrata verita’ che avevo rivelato a me stesso. A Morgana no, sapevo che lei aveva gia’ capito tutto quello che avevo detto. Per poco non mi scappo’ un gemito tra le labbra...mi presi la testa fra le mani, sospirando. Sentii la mano dolce di Morgana che mi carezzava la guancia. Sperai con tutte le mie forze che la voce non suonasse stridula.

Oh, Morgana...non desiderare mai di essere diversa da come sei...mai...”

Era assolutamente perfetta, cosi’ com’era. Fragile e forte, innocente eppure maliziosa. Era bellissima. Mai come in quel momento mi accorsi quanto era vero quello che provavo. Una lacrima mi rigo’ la guancia. Lei mi prese il viso tra le mani, e con il pollice la asciugo’.

Spike...guardami. Tu...sei diverso dagli altri vampiri...tu non sei il mostro che vuoi far credere...non sei il mostro che credi di essere.”

La guardai, tristemente. Un’altra lacrima mi scivolo’ sul viso. Sapeva di sale, e faceva male. Non volevo che mi vedesse cosi’. Eppure non potevo fare a meno di piangere...

Ah no? E perche’ non dovrei esserlo? Ho zanne ed artigli, dopotutto! Cosa ti fa pensare che possa essere qualcosa piu’ di un mostro?”

Aspettai la sua risposta. Lei si alzo’, dopo avermi fatto un’altra, impalpabile carezza. Si avvio’ alla porta, ed io temetti che non mi avrebbe detto perche’ pensava cio’ che aveva detto. Ne avevo bisogno. Mai, come in quel momento, ne avevo bisogno. Di un po’ di conforto. Una scintilla nel buio. Morgana arrivo’ sotto l’arco della porta, e si giro’ a guardarmi. I suoi occhi verdi luccicavano, ed aveva un sorriso bellissimo sulle labbra rosse. Un’apparizione...

I mostri non hanno lacrime da piangere, Spike...”

E se ne ando’, lasciandomi meravigliato dalla sua innocente risposta...la luce filtrava debole dalla finestra, e rischiarava il mio cuore...


Passo’ un altro mese. Ogni sera andavo via da casa di Morgana, frustrato, gridando dentro me stesso che quella notte sarei riuscito ad uccidere di nuovo. Passeggiavo affamato per le stradine illuminate di Los Angeles, mi spingevo nel cuore della citta’ per poi tornare nei vicoli malfamati pieni di gente lacera e disperata. Era un ristorante per vampiri, quel posto...nessuno poteva opporre resistenza, erano tutti stanchi...cosi’ stanchi. Stanchi di combattere. Stanchi di lottare per una vita ingiusta. Stanchi di provare. Stanchi di cadere. Stanchi della fame e delle sete costante che lacerava loro lo stomaco. Stanchi delle giornate passate accanto ai semafori, o all’uscita di ristoranti alla moda, nella vana speranza che i pochi spiccioli che riuscivano a racimolare potessero cambiar loro la vita.

Erano stanchi di vivere, a dirla tutta.

Ed io avrei dato un braccio, per poter essere uno qualunque di loro.

Un accattone lacero. Un ragazzo infreddolito. Un vecchio dalla barba bianca e la fronte segnata dalle preoccupazioni. Uno qualunque di loro. Erano poveri. Erano affamati. Erano assetati.

Ma erano vivi. Ed io volevo essere vivo. Lo volevo piu’ del sangue. Volevo vivere di nuovo. E non era possibile. Ero morto.

Ma, inspiegabilmente, non ero piu’ quello di prima.

Ero morto, come prima. Prima di conoscere Morgana, ero morto. Prima di innamorarmene, ero morto.

Non era cambiato niente, ma era cambiato tutto.

Ogni sera uscivo da casa di Morgana, dicevo prima che la mia mente si perdesse nuovamente in ragionamenti e congetture infruttuose. Uscivo dal suo appartamento, giurando a me stesso che avrei ucciso. Lei e Justine mi guardavano dalla porta, senza nemmeno provare a fermarmi.

Morgana diceva che e’ nella natura del vampiro uccidere. E la natura non si puo’ frenare. Diceva che non era un problema, per lei, essere amica di un vampiro.

Amica.

Quante volte avevo sognato inconsciamente che qualcuno si considerasse di nuovo mio amico? Non avevo mai avuto amici, io. Ne’ da vivo, ne’ da morto. Angelus, per un po’. Solo per un po’.

Sentire che lei mi considerava suo amico mi riempiva il cuore di gioia. Mi dava un motivo per sorridere, quando per me non c’era proprio niente da sorridere. Ero impotente nell’uccidere, ero frustrato, ero un reietto per tutti quelli come me, ero sperduto tra sentimenti che non riconoscevo miei.

Ero confuso. Molto confuso. Ed il mio cuore, che aveva tutte le risposte alle mie domande, si rifiutava di aiutarmi. Forse non ero pronto, a sapere. A capire. O forse non volevo essere pronto. Ero cosi’ spaventato. E quanto mi vergognavo, nell’esserlo.

Ma andiamo avanti, o rischiero’ di non concludere mai il mio racconto...

Uscivo da quel condominio gotico che mi ricordava ancor di piu’ il fatto che Morgana avesse un segreto. Era passato un mese, ma ancora non avevo capito di cosa si trattasse.

Uscivo, ed i miei occhi erano accecati dalle sfavillanti luci della citta’, ed il mio olfatto percepiva chiaramente gli odori della metropoli, la scia sottile del sangue, il profumo ricco e delicato della pelle umana. Restavo ore intere abbacinato, di fronte tutti quegli umani che mi passavano accanto, ai loro profumi, alle loro storie. Potevo leggerle come se fossero tutti libri aperti, ed io li sfogliassi col pensiero. Era normale, per un vampiro, ma io non vi avevo mai dato importanza. Ero stonato, da quel frastuono, nella mia testa. Erano come passi di elefanti, i passi di una donna leggera. Erano come urla, i sussurri di due innamorati. Mi assordavano, e volevo solo correre via da quel frastuono. Mi nascondevo negli angoli bui di Los Angeles, ed aspettavo che qualcuno passasse di li’.

Ma, quando succedeva, seppur riuscivo ad afferrare il malcapitato ed alle volte perfino ad affondare i miei denti nella sua gola inerme, ebbene, seppur riuscivo a fare questo, non riuscivo piu’ ad uccidere. Ed i fiotti di sangue vivo che mi inondavano la gola, quando mordevo, si portavano dietro un sapore troppo forte. Il sapore di quello che volevo ardentemente, e non potevo avere.

Quel sangue era vivo. La persona a cui lo stavo rubando era viva. Ed era diventato un pensiero raccapricciante, per me. Non riuscivo ad uccidere perche’ non potevo piu’ sopportare di togliere la vita. Non volevo privare nessuno di cio’ che per me era divenuta cosa cosi’ importante. Io, un morto, ero al punto di adorare la vita, e non potevo sopportare l’idea che, grazie a me, proprio a me, essa venisse sprecata.

Assurdo, direte. Lo so. E’ assurdo. Sono io il primo ad ammetterlo. E’ quello che potreste trovare scritto su qualche romanzo, o trascritto su qualche scandente telenovela televisiva. Eppure, per me, fu realta’.

Ma stavo vicino a Morgana...e non mi aveva detto lei stessa, che accanto a lei tutto smette di funzionare? Forse ero vittima del suo inconscio incantesimo. Era qualcosa che non dipendeva da me, mi illudevo. Ma sapevo che, se Morgana, c’entrava, era solo perche’ ero stato io, a volere che c’entrasse.

A volte, dopo aver bevuto solo pochi sorsi, abbandonavo la presa e cadevo in terra, inerme, scosso da unja sofferenza incontrollabile. Il mio demone urlava, ed io urlavo piu’ forte di lui, anteponendo la mia sofferenza alla sua fame.

Altre volte, colto da una rabbia incontrollabile, finivo per fare esattamente cio’ che non volevo. Uccidevo, ed uccidevo in modo lento e crudele, riversando la mia sofferenza sulla povera vittima. Sbranavo la loro gola tra i denti, e lasciavo che morissero dissanguati sul selciato. Spezzavo loro l’osso del collo, torcendo lentamente le loro teste, cercando di prolungare l’agonia. Usavo tutto cio’ che mi capitava sottomano. Ma non bevevo che pochi, sofferti sorsi, ed a volte nemmeno quelli. E, quando succedeva questo, quando uccidevo, restavo immobile di fianco al cadavere per intere ore, esaminandolo minuziosamente, cercando forse il motore di quella vita, spentosi per colpa mia. Lo cercavo per poterlo aggiustare, e magari trapiantarlo su di me. Cercavo, nelle vittime agonizzanti ed anche in quelle morte, il motivo della vita. Perche’ erano vive? E perche’ morivano? Cosa si inceppava dentro di loro? Era possibile resuscitarle? E, se si’, come?

Queste, le domande che mi struggevano. Questi, i quesiti che mi martellavano nel cervello, facendomi diventare matto.

Mi ridestava Morgana, da quel mio torpore suicida. Io, ogni notte, sarei rimasto a farmi uccidere dal sole. Non perche’ lo volessi...anzi, cercavo di conservare come meglio potevo quella parodia di vita che scorreva in me...era che non riuscivo a pensare lucidamente, dopo aver ucciso. Mi sembrava terribilmente ingiusto, terribilmente sbagliato. Mi vergognavo profondamente, mi sentivo sporco, sapendo tuttavia che non erano sensazioni che avrei dovuto provare. Eppure io mi sentivo cosi’...e cadevo in uno stato di trance, avvolto dai miei quesiti, cercando un modo, un modo qualsiasi, per tacere le grida dentro di me. Le mie grida disperate.

Ma Morgana mi trovava sempre. Non so come facesse, non l’ho mai saputo. Eppure mi trovava sempre. Scendeva su di me come un angelo, ogni notte, mi sorreggeva con le sue braccia esili, e mi trascinava fino a casa sua. Ogni notte.

Ogni sera uscivo, illudendomi di non dover pesare piu’ su quella casa, e di non dover sentire piu’ gli sguardi ostici di Justine. Ed ogni notte, un’ora prima dell’alba, Morgana mi riconduceva li’, senza farmi domande, senza deridermi, ne’ tentare di compatirmi. Semplicemente, mi teneva in vita, senza pretendere niente. Non mi tratteneva in casa, quando volevo uscire. Non mi scacciava, quando mi ritrovava accanto ad un cadavere.

Mi portava a casa sua. Lasciava che riposassi nel suo letto. Sul comodino ogni mattina c’era una brocca di sangue ed un bicchiere. Le persiane erano chiuse, e lei era accanto a me.

Sorrideva, e mi chiedeva se stavo meglio.

Ed io l’amavo. Di un amore totale. Che non aveva nulla di malvagio, o di buio. E l’amavo come non amavo me stesso, come avevo amato il sangue, come avevo amato la notte.

Allora non amavo piu’ il sangue.

Allora non amavo piu’ la notte.

E c’era lei, a riaccendere quell’amore, a sopperire a tutte le mie mancanze. C’era sempre, Morgana.

Ogni notte.

Perche’ lei, ogni notte, mi salvava...


Morgana, questa storia deve finire!”

Fui svegliato, una mattina d’inizio marzo, dai bisbiglii concitati delle due donne. La porta della mia stanza era semichiusa, e riuscivo a vedere indistintamente le sagome di Justine e Morgana. Sapevo che non avrei dovuto ascoltare. Ma il tono di Justine era aspro, quasi arrabbiato. Non resistetti alla tentazione, e finsi di dormire, quando sentii lo sguardo dell’osservatrice su di me. Come avevo previsto, non richiuse la porta.

Perche’? Che fastidio ti da?”

Il tono di Morgana, invece, era sempre lo stesso. Una controllata, pacata calma, quasi infantile. Ebbi l’impressione che stessero parlando di me. Sapevo che Justine mi odiava. Ed io l’odiavo quasi con la stessa intensita’. Ma Morgana l’adorava. Mi parlava spesso di lei, chiedendomi quasi in una supplica di provare ad andare d’accordo, noi due. Per lei era la madre che non aveva avuto, e le voleva un bene dell’anima. Glielo si leggeva negli occhi.

E’ un vampiro! Ti stai mettendo in pericolo, lo vuoi capire?”

Avevo ragione. Parlavano di me. Ed io non ero tra i partecipanti alla discussione.

Non mi fara’ niente.”, sussurro’ lei in tono calmo.

Come lo sai?”, sbotto’ l’altra, incrociando le braccia.

Lo so e basta!”

Sobbalzai, colto alla sprovvista. Stavolta aveva parlato con tono imperioso, come se quella frase fosse dovuta bastare alla yena di fronte a lei. Ma era chiaro che Justine non era soddisfatta. Tuttavia Morgana si ricompose subito, riacquistando la sua calma e la sua compostezza. Sorrise. Anche dalla mia posizione potevo vedere quel lampo di luce nel corridoio buio.

Justine...ascolta. So perfettamente cos’e’. L’ho saputo prima ancora che fosse lui a dirmelo. So cosa potrebbe farmi. L’ho visto con i miei occhi. E so che sono al sicuro. E non perche’ non riesce piu’ ad uccidere...e’ qualcos’altro. Lui non mi farebbe mai del male. Siamo amici, ecco...”

Volevo piangere...ero commosso dalla passione che lei metteva nel difendermi, dall’affetto che il suo tono esprimeva, e che il suo sorriso mandava a me. Siamo amici, ecco. Come se fosse stato perfettamente normale essere amica di un vampiro. Come se fosse stato perfettamente normale essere mia amica. Eppure l’aveva detto con una tale naturalezza, quasi ingenuita’...ed io non avevo dubitato fosse reale. Eravamo amici, ecco. Ed io speravo solo potessimo essere qualcosa di piu’, seppur gia’ la sua amicizia era per me come nettare, dolce e...naturale. Si’, naturale.

Amici? Morgana, ti rendi vagamente conto di cosa puo’ farti? Sai di cosa si nutrono, quelli come lui?”

Certo che lo sa!, avrei voluto urlarle. Ha appena posato una brocca di cio’ di cui mi nutro accanto a me!

Sangue. Lo so. Ma non pensi che se avesse voluto il mio sangue, l’avrebbe gia’ preso? Insomma, siamo rimasti da soli piu’ d’una volta, e lui non mi ha nemmeno sfiorata! Perche’ dovrebbe farlo adesso?”

Ancora pacata calma, nella sua voce. Come se stesse tentando di spiegare un concetto semplicissimo ad un’alunna un po’ tarda. Ed io le ero grato, che ci stesse provando, pur sapendo che non avrebbe sortito nessun effetto su Justine.

E’ imprevedibile! Quelli come lui sono intelligenti...cosa ne sai di quello che gli gira nella testa? Come puoi sapere che tutta questa ‘amicizia’ non e’ soltanto un piano per averti piu’ facilmente? I mostri come lui hanno...”

Si blocco’ improvvisamente, come se avesse ricevuto uno schiaffo. Le sue parole si persero nella risposta calma, ma non troppo, di Morgana.

Non e’ un mostro. Non so spiegartelo...e’ diverso...lui piange...sorride...soffre. Non e’ un essere umano, ok...ma non posso dire sia un mostro...non conosco cio’ che lui e’. Come non conosco cio’ che io sono...e’ per questo, forse, che m’affascina...noi siamo uguali...”

Noi siamo uguali...com’era possibile? Cosa c’era di uguale, in noi? Lei viveva, aveva un cuore che batteva e colore sulle sue guance. Cosa avevamo in comune, a parte una terribile solitudine, che tentavamo di compensare l’un l’altra? Sapevo che quell’affermazione aveva a che fare con quel suo segreto...ma ancora non capivo. E le seguenti parole di Justine non sembrarono chiarire le mie perplessita’.

Oh tesoro...io capisco che con lui tu ti senta libera...dopotutto delle persone che conosci e’ l’unico a non sapere...ma devi capire che...devi stare attenta, che non puoi concederti il lusso di essere egoista, nemmeno per una volta...sai cosa significherebbe perderti. E’ difficile, bambina mia, lo so...ma tu sei la cosa piu’ preziosa di questo mondo e devi aver cura di te stessa...”

Sentii una risata amara. Era Morgana. Dio, come mi sembrava diversa, ora, la sua risata. Era triste e vuota, come l’eco di qualcosa di bellissimo che si perde nel vento. Una risata stanca, malinconica, delusa, triste. Sembrava il riverbero della mia risata. Mi sentii rabbrividire.

Ecco, vedi Justine, e’ proprio questo...io sono la ‘cosa’ piu’ importante del mondo...per il consiglio non sono nemmeno una persona...e Spike e’ l’unico che non mi tratti come un oggetto, l’unico a non trattarmi come un dannatissimo vaso di porcellana, da maneggiare con i guanti di velluto perche’ sono la ‘cosa piu’ importante del mondo’! Lui e’ l’unico che mi parli, l’unico che mi sfiori senza sapere cosa sono, ne’ chi sono, ed a me va bene cosi’. Io non voglio che lui sappia. Sto bene, insieme a lui. Ho l’impressione di essere reale, e non solo un oggetto prezioso da difendere, quando sono con lui.”

Tacque. Se avessi avuto respiro, in quel momento mi si sarebbe fermato in gola.

Cosa voleva dire, cio’ che aveva detto Morgana?

La cosa piu’ importante del mondo...

Era solo un modo di dire? Solo una frase in codice per intendere qualcos’altro? Cos’era la cosa piu’ importante del mondo? Chi era, o cos’era, Morgana, la mia Morgana, il mio angelo custode, la carceriera del mio cuore?

E’ cosi’? Anch’io, dunque, ti tratto come un oggetto?”, chiese rabbiosa, delusa, triste, Justine.

Ancora una volta, vidi il sorriso dolcissimo di Morgana.

Non essere gelosa, ora, Justine, te ne prego. Tu sei come la madre che non ho mai conosciuto, non potresti mai trattarmi come un oggetto...mi hai dato tutto l’amore di questo mondo, hai sempre cercato di darmi una vita normale. Sei stata madre, amica, sorella, consigliera. Ma...non lo so...d’improvviso tutto questo...e’ come se non bastasse piu’...come se ci fosse un posto, nel mio cuore, che tutto il tuo amore non puo’ riempire...”

E lui puo’ farlo, invece?”, sentii Justine chiederlo con disprezzo, e tuttavia con affetto verso la sua bimba.

Comprendevo che se mi odiava, e mi odiava, era solo per proteggere Morgana. Non aveva realmente a che fare col fatto che ero un vampiro. Ma non per questo l’odiavo di meno.

Attesi tremante la risposta della ragazza. Sentivo il cuore schzzarmi in gola, e pure non poteva essere cosi’.

Immagino di si’...credo mi ci voglia un po’, per capirlo, sai? Io non so cosa sia l’affetto, se non quello per te. Ma questo, vedi, e’ diverso...”

S’interruppe, come se cercasse un modo per esporle cio’ che provava. Io...nel letto...non posso descrivere cio’ che provavo...ho l’impressione che, se tentassi di descriverlo, esso perderebbe d’intensita’, trasformandosi da sentimento incontrollato ad un suono privo di senso. Non voglio che succeda, dovete perdonarmi. Voglio conservare il ricordo intatto di quei sentimenti che mi scuotevano, e per far cio’, non posso dar loro un nome. Tentate d’immaginare, tuttavia, qualcosa di cosi’ forte da illuminare i vostri occhi fino a farli scintillare di luce propria, qualcosa di cosi’ intenso da annebbiare le vostre percezioni finche’ non c’e’ piu’ niente se non voi, e il vostro cuore che batte all’impazzata. Anche il mio lo faceva, seppur solo nella mia mente.

Lo ami? Morgana, sei innamorata di lui?”

Ed ora tentate di immaginare tutti quei sentimenti che vi hanno scosso secondi fa...li avete, come li avevo io?

Bene.

Triplicateli.

Io...”, rispose lei, confusa. “Non lo so...non chiedermelo, Justine, non ancora...”

Se avesse detto si’, sarei stato piu’ felice?

Non lo so. Tutto quello che so e’ che ero al settimo cielo, pur restando saldamente ancorato al letto. Quel ‘non lo so’ era perfetto. Perfetto nel modo confuso in cui l’aveva detto, perfetto in quell’inclinazione curiosa che aveva assunto la sua voce, come se fosse decisa a scoprirlo in breve tempo. Non lo so...andava bene...anche se avesse detto no, sarebbe andata bene. Bastava che mi stesse vicino.

Sentii un sussurro sommesso di Justine, ma non saprei dire cosa le disse. Sentii invece distintamente il trillo allegro del telefono. Morgana non si mosse, e sembro’ annuire spaventata verso l’osservatrice. Non capivo perche’ lo squillo del telefono creasse in loro tanto scompiglio. Justine corse a rispondere. Non sentivo niente, dalla stanza, ma vedevo dallo spiraglio Morgana, che andava avanti ed indietro, irrequieta, ed ascoltava attentamente le risposte dell’osservatrice. Aggrottai la fronte, e mi alzai sui gomiti, preoccupato. Vidi Justine tornare verso Morgana e bisbigliarle qualcosa che la fece sbiancare. Poi indico’ la camera dove io me ne stavo disteso, e sussurro’ all’orecchio della ragazza qualcos’altro. Morgana annui’, tremando, e venne verso di me. Apri’ la porta, sorridendo forzatamente nel trovarmi sveglio, il viso che cercavo inutilmente di rilassare. Ero preoccupato. Dietro di lei, entro’ Justine. Fu Morgana, a parlare per prima. Stranamente, aveva la voce inferma.

Ciao...ti sei svegliato...va meglio?”, mi chiese, senza che la sua voce smettesse di tremare.

Si’, meglio...tutto bene? Mi sembri preoccupata...”

Lei scosse poco convinta la testa, sorridendo. Justine avanzo’ verso di me, sorridendo. Un sorriso falso, che sapeva di preoccupazione. Ed io avrei solo voluto chiedere cosa avesse detto il misterioso interlocutore al telefono. Ma non osai. Justine parlo’.

Spike...perche’ non uscite insieme, stasera? Morgana mi sembra annoiata...potresti portarla da qualche parte, a bere qualcosa...ti va?”

Guardai Morgana. Mi supplicava con lo sguardo. Doveva essere successo qualcosa. Eppure non chiesi niente. Annuii, e mi alzai barcollando dal letto. La ragazza dai capelli del colore del mare di notte mi porse un bicchiere di sangue, nel vedere che stavo a stento in piedi. Le sorrisi, e bevvi.

Ci avviammo tutti e tre verso la porta, ed uscimmo. Morgana e Justine si salutarono in fondo alle scale, sussurrandosi concitatamente qualcosa, che per me era mistero. Poi la ragazza piu’ giovane venne verso di me, e ci avviammo per le stradine fatiscenti di Los Angeles.

Era tesa, Morgana. Si rigirava freneticamente le mani nelle mani, e si guardava intorno, preoccupata. Avrei voluto dirle qualcosa, chiederle cosa non andava. Ma avevo l’impressione che non mi avrebbe risposto.

Le presi una mano, tentando di calmarla. Lei mi guardo’, arrossendo leggermente, e mi sorrise.

C’era paura, nei suoi occhi.

Questo no, non era normale...

Sarebbe toccato a me salvarla, quella notte?


(wip)