Cercando te

Una ficlet di Mrs Bad Guy



Periodo di produzione: febbraio 2008

Paring: Spuffy

Genere: ficlet AU

Disclaimer: I personaggi utilizzati in questa storia appartengono a Joss Whedon, alla Mutant Enemy e a chi ne detiene i diritti.

Rating: Per tutti

Riassunto: Buffy rivive la sua storia d’amore con Spike attraverso ricordi e realtà




Buffy guardò il foglietto bianco, socchiudendo per un attimo gli occhi.

La luce accecante del giorno la confondeva. Sentiva ancora la notte nelle vene.

Chi aveva aperto le sue tende dorate?

Si stropicciò gli occhi, per poi tornare a guardare il fogliettino bianco. Era carta riciclata, piuttosto doppia, con sottili linee tratteggiate a definirne i righi. Un po’ stropicciato, forse persino umidiccio.

Lo poggiò sul cuscino vuoto accanto a lei, e si alzò.

La sera prima aveva indossato una semplice maglia in cotone che le arrivava un po’ sopra il ginocchio. Apparteneva a suo padre. Ed anche se suo padre era l’uomo che l’aveva abbandonata quando aveva sedici anni e aveva fatto piangere sua madre, le piaceva. La faceva sentire bambina. Fisicamente più piccola di quanto non fosse già.

Una bella sensazione.

Camminò scalza fino alla cucina, e prese una tazza di caffé. Cominciò a bere avidamente, mentre dava uno sguardo al quotidiano buttato sull’isola. Non che ci fosse qualcosa di interessante da leggere, voleva semplicemente risvegliare la sua mente intorpidita dal sonno. Rendersi conto della realtà.

Mise la tazza accanto al giornale, senza lavarla nel lavello. Era sicura che di lì a poco sarebbe tornata per berne ancora. Aveva bisogno di almeno due caffé per ingranare.

Quel giorno era sicura ne sarebbero serviti di più.

Tornò in camera da letto, buttandosi a peso morto sul materasso, e prendendo di nuovo il foglio.

Quella calligrafia l’avrebbe riconosciuta tra tutte: aveva qualcosa di antico e romantico.

Non che di lui amasse soltanto il modo di scrivere.

Spike era un coacervo di dettagli da amare.

Ma questo non glielo avrebbe mai detto. Già troppo pieno di sé il ragazzo.

Lo conosceva da anni, ormai. Ma all’inizio erano stati troppo impegnati a farsi la guerra per amarsi.

L’aveva odiato dal primo momento in cui aveva incontrato quegli occhi blu. Oh.. quanto lo aveva odiato! Così pieno di sé, così sorridente con le ochette che gli facevano il filo, così tenero con le tettone, così acido con le anonime.

Lui era uno dei responsabili nel centralino telefonico in cui aveva cominciato a lavorare.

Lei, che odiava stare al telefono.

Ma alle bollette a casa e al frigo vuoto non interessava dove lei prendesse i soldi, o quante volte volesse sprofondare pur di non lavorare in quel posto.

C’è qualcosa che la infastidisce signorina Summers?”

Mi infastidiscono le persone che lavorano senza professionalità, signor Shelby”

Quello era stato il primo contatto più lungo che avessero avuto. Uno scambio equo di acidità.

Aveva meditato per giorni di lasciare il lavoro. Come poteva sottostare ad un tipo così?

Poi però aveva desistito. Non poteva passare altro tempo senza lavoro.

E si erano succeduti i mesi. Era passato il tempo fra una battuta di scherno ed un litigio, fra un dispetto e uno scherzo.

Era arrivato l’inverno, e con l’influenza che girava lei era stata a casa per una settimana. E al suo ritorno aveva trovato quel biglietto, accanto ad un giglio bianco.

Per la mia centralinista preferita, colei che rende le mie giornate interessanti”.

Non aveva sorriso Buffy. Aveva ristretto le labbra, cercandolo con lo sguardo. Forse credeva davvero che lei ci sarebbe cascata, che avrebbe fatto il suo gioco.

Illuso.

L’aveva raggiunto alla sua scrivania, mettendogli il fiore e il biglietto sulla scrivania.

E’ un peccato pensare che un ragazzo come lei abbia una vita così noiosa, signor Shelby”

Cosa?”

Bè se è solo questo a rendere le sue giornate interessanti!”

E poi lui aveva sorriso. Un sorriso sincero, non di scherno. Un sorriso per lei.

E Buffy aveva sentito mille punzecchiamenti nella pancia. Dio, quanto era bello.

Stare senza te questa settimana è stata una noia, raggio di sole!”

E se n’era andata. Con i pugni stretti e la faccia arrabbiata. E quel giorno al telefono aveva gridato, aveva anche spedito a quel paese qualche cliente, aveva risposto male ad una sua collega.

Cosa pensava, lui? Che era una biondina senza carattere che gli moriva dietro? Che bastava un fiore e una battuta per farla capitolare?

Che si fottesse, povero illuso!

E aveva proseguito le sue giornate, sotterrando il ricordo di quel sorriso, il ricordo di quel brivido.

Aveva continuato con la sua acidità, senza dargli spazio per altro.

Guardò il bigliettino: era lo stesso di quel giorno. Sorrise, ricordando i loro scontri. Non l’avrebbe mai ammesso, ma adorava battibeccare con lui. Era il suo pane quotidiano.


Per la mia centralinista preferita, colei che rende le mie giornate interessanti”.

Ho esordito così, per far colpo su di te. Poche semplici parole, con la speranza che bastassero a farti cadere nelle mie braccia. Che illuso. Alla fine ho capito che serviva ben altro. Sei stata una conquista sofferta! Eppure è così dolce pensare che, dopo tutto questo tempo, continui a rendere le mie giornate non solo interessanti, ma perfette. Ogni. Singolo. Giorno. Ed oggi voglio stupirti. Torna nel posto dove hai trovato questo biglietto la prima volta, e cominciamo a giocare. Ti fidi di me, Buffy?


Sorrise, alzandosi di scatto. Certo che si fidava di lui. Gli avrebbe donato la sua vita, sicura che lui l’avrebbe tenuta come un tesoro prezioso. Altra cosa che non gli avrebbe mai detto.

Alcune cose non avrebbe dovuto mai saperle.

Come il fatto che era ormai totalmente e irrimediabilmente innamorata di lui.

Del modo in cui arricciava la lingua dietro i denti, del modo in cui alzava il sopracciglio sinistro, quello con la cicatrice, del modo in cui sorrideva, e del modo in cui si arrabbiava.

Si tolse la maglia di suo padre, aprendo l’armadio. La ventata che le arrivò dritta sul petto la fece rabbrividire, facendole indurire i capezzoli. Si strinse nelle braccia, sorridendo.

Se lui fosse stato lì, come ogni mattina, a quel punto l’avrebbe spinta sul letto e avrebbero fatto l’amore. Anche se l’avevano fatto la sera prima, ma poco importava. Avrebbe fatto l’amore con lui ininterrottamente.

Sentirlo dentro, stringere le sue spalle, guardare la sua pelle così eccessivamente bianca sulla sua, sentire i suoi sussurri, i suoi ansimi durante l’orgasmo, inalare il suo odore.

Prese il jeans chiaro che era così aderente da stare male, e la maglia nera scollata che le faceva sembrare il seno più voluminoso. Per quelle poco dotate come lei bisognava in qualche modo camuffare…

Entrò in bagno, girando la manopola al massimo sul trattino rosso.

Non era una doccia se non usciva il fumo caldo anche dalla sua pelle, e se non si guardava allo specchio con le guance arrossate.

Si vestì in fretta, indossando le ballerine comode ma carine e lasciando i capelli liberi sulle spalle. Borsa e occhiali da sole, si chiuse in macchina, alzando il volume allo stereo e accelerando per quanto consentito nella sua piccola cittadina. Storse le labbra riconoscendo l’ennesimo cd dei Ramones nel suo lettore. Spike non riusciva mai a capire che oltre alla musica spaccatimpani che ascoltava lui, ne esistesse anche altra.

Sorrise ancora Buffy, mentre si fermava al semaforo rosso. Da quando aveva aperto gli occhi il nome del suo ragazzo si era ripetuto all’infinito nella sua testa.

Oh.. era sicuramente questo il suo intento.

Megalomane.

Accostò la macchina un isolato prima dell’edificio dove aveva lavorato per tanto tempo, per poi proseguire a piedi.

Era sabato, sicuramente non avrebbero opposto obiezioni a farla passare, anche se era il giorno libero di Spike.

Entrò con piglio sicuro, fermandosi alla reception.

- Salve, vorrei..

- Si, signorina Summers, può andare.

Buffy guardò la segretaria: no, non la conosceva.

Eppure l’aveva chiamata col suo cognome, come se sapesse chi lei fosse e cosa volesse.

Fece spallucce, avanzando nella sala. Subito Max, il collega di Spike, la raggiunse.

- Buffy cara, che piacere vederti! – lei lo abbracciò sorridendogli.

- Ciao Max! Come stai?

- Bene, bene. Anche se senza te qui è una noia! Come ti trovi allo studio del dottore?

- Benissimo. In fondo è quello per cui ho studiato per tanto tempo! Però voi mi mancate…avevamo formato un bel gruppo!

- Puoi dirlo forte! So però che non sei qui solo per farmi visita..

- Già.. ti dispiace se..

- Vai, vai. Sicuramente ti ricordi qual’era il tuo posto!

Lei gli sorrise, dandogli un altro abbraccio, per poi passare avanti.

Si diresse alla sua postazione.

Vederla le fece uno strano effetto, simile a quello che ebbe quando andò a trovare i suoi insegnanti dopo il diploma. Una sensazione di nostalgia, la voglia prepotente di tornare indietro, per la sola paura di andare avanti. Per il bisogno di restare attaccata alle cose che le davano certezze.

C’erano ancora i suoi adesivi di Shrek attaccati alla scrivania, quelli che trovava nelle merendine che si portava al lavoro. Sfiorò con le dita anche la sua tastiera. Quella con i tasti scoloriti e la Z e la F che si incastravano e la facevano impazzire. Tanto che alla fine aveva deciso di portarsi stuzzicadenti e pinzette per tirarle fuori, mentre Jean, la sua collega e compagna di banco, come si chiamavano fra loro, rideva a crepapelle prendendola in giro.

Guardò il giglio poggiato sulla scrivania, mentre l’attacco di nostalgia cominciava a scemare.

Prese il fogliettino spiegazzato, e lo lesse.


Allora hai deciso di giocare? Bene, mi fa piacere.

Il gioco vero e proprio però comincia ora. Andrai dove ti porterò, e se sarai abbastanza brava avrai il tuo premio, alla fine. So che la tua parte orgogliosa si starà dibattendo come un’anguilla, ma so anche che la parte curiosa sarà più forte!

Ok… cerca di indovinare la prossima tappa.

C’era il sole a dicembre

Una giornata come tante

Eppure senza ombre

L’unica fu la nostra, bella e grande

Nella quale ci nascondemmo dal mondo

E ci guardammo più a fondo’



La vita, in fondo, gli aveva dato strane prove da superare, che avevano messo tutto in discussione. Più e più volte.

William era stata una di quelle.

Passare sopra ai suoi pregiudizi, accettare i suoi sentimenti, smettere la lotta immaginaria cominciata con se stessa. Era stato difficile.

Per i primi tempi l’aveva odiato in modo ancora più prepotente. Come se lui fosse l’unico responsabile di quello che sentiva nel petto quando lo vedeva.

Poi, man mano, la situazione aveva cominciato a cambiare. Certo, era dovuta scendere a patti con se stessa per accettare quel cambiamento.

E per una orgogliosa come lei era stato fin troppo.

La luce fuori dall’edificio la colpì in modo brusco, facendole socchiudere per un attimo gli occhi. Inforcò gli occhiali da sole grandi e neri, che le coprivano quasi metà del suo piccolo viso da bambolina, e si diresse al piccolo parco per bambini a qualche isolato da lì.

Non prese la macchina.

Buffy sentì il desiderio di camminare.

Di rivivere quei momenti, inalare il profumo di quella giornata di dicembre, sentire le voci e i clacson disordinati, rivivere i colori accecanti di quel giorno d’inverno.

Aveva il bisogno di sentire.

E successe.

Buffy cominciò a vedere i suoi occhi blu, prima di tutto, mentre gli diceva che quel giorno avrebbero pranzato insieme, come punizione per aver fatto pochi contratti il giorno prima.

E lei aveva sorriso istintivamente, a quella proposta.

Aveva sorriso perché si sentiva felice, perché sua madre si era ripresa bene e sua sorella si dimostrava più matura di quel che pensava. Aveva sorriso perché quella notte aveva finalmente dormito, e aveva sognato di sentire il calore sulla pelle e vedere il colore sul suo corpo minuto.

Aveva sognato aria fresca che risvegliava i polmoni e occhi blu che la guardavano sorridere.

E gli aveva detto che si, ci sarebbe andata con lui a pranzo. Senza perdersi l’espressione sbigottita e gli occhi lucidi.

E i ricordi continuarono ad invaderle la mente, mentre si sovrapponevano definitivamente con il presente. Si ricordava una macchina gialla che le era sfrecciata a un metro, scansandola per poco. Si ricordava una signora straniera che aveva chiesto indicazioni per un posto, ma non riusciva a capirli e alla fine avevano spiegato la strada a gesti. Si ricordava la voce di lui che gli raccontava aneddoti divertenti sulla sua vita da nerd. Si ricordava il piccolo fast food nel quale avevano mangiato un panino al volo e si erano sporcati le mani con la maionese. Si ricordava il viale alberato nel quale si erano fermati. E nel quale si erano baciati per la prima volta.

E… Dio, se si ricordava anche le emozioni che aveva provato. Farfalle, api, coleotteri e persino stambecchi. Tutti nella sua pancia. Quasi da stare male.

E non sapeva se giudicare meraviglioso o spaventoso il fatto di rivivere quella emozioni così come quel giorno.

La spaventava il potere che aveva su di lei. Ma allo stesso tempo la affascinava.

Guardò l’albero. La grande palma sotto la quale si erano difesi dal sole che li accecava, ridendo come bambini,e dove si erano baciati quel giorno.

Si avvicinò. Quasi potè vedere i loro piedi vicini, le impronte delle loro scarpe nel terreno, forse vide anche le loro ombre fuse.

Sicuramente vide il fogliettino bianco che spiccava sul tronco, attaccato con una gomma da masticare. Le scappò persino una smorfia di disgusto, per poi scoppiare a ridere.

Spike poteva essere terribilmente coraggioso e originale, se voleva. Ma questa della gomma gliela avrebbe fatta pagare.


Lo so che la gomma avrà fatto arricciare il tuo piccolo naso. Vorrei vederti in questo momento. Accarezzarti con lo sguardo mentre tu, inconsapevole, cerchi tracce di me, di noi… le stai trovando, amore mio? Io si. Io le ho ritrovate tutte…guarda bene questo albero. Parla di noi. Sembra quasi che ti sorrida. Il viaggio però continua…

Stelle dorate

Cielo dipinto

Se cerchi bene troverai i tuoi sorrisi

Sono ancora nascosti nelle lenzuola’



Flash.

Veloci. Alcuni colorati. Altri bicromatici. Buio. Luce. Sospiri. Risate. Parole sussurrate. Altre urlate. Odore di sesso. Sentore di felicità. Frusciare di lenzuola di seta. Braccia strette dopo aver fatto l’amore.


I ricordi continuarono ad arrivare a tratti nella sua mente.

Si, Buffy stava trovando ogni singola parte di quello che avevano vissuto. Pezzi di loro nascosti nei luoghi che li avevano visti assieme.

Era bello, inebriante, rivivere quelle emozioni.


Salì in macchina, stringendo tra due dita il foglietto, e sospirando pesantemente. L’albergo era distante, almeno venti minuti di macchina senza traffico.

L’emozione le stringeva lo stomaco. Non ci era più stata, dopo quella notte.

Come se volesse tenere quel ricordo e farne tesoro. Come se volesse continuare a pensare che si fosse trattato di un miraggio, qualcosa di inconsistente che era rimasto legato alle sue ossa. Qualcosa che l’aveva trascinata, facendola arrivare al punto in cui si trovava ora.

Innamorata.

Perdutamente innamorata.

Lei. Che aveva smesso di credere nell’amore.

Lei che era dannatamente orgogliosa.

Lei che diceva di odiare Spike.

Lei che voleva essere libera e indipendente.

Mia madre sta di nuovo male, mia sorella non lo capisce e si comporta come una bambina. Ed io devo finire ancora gli studi e non mi laureerò mai. Sono una fallita.”

Non è vero, non lo sei Buffy.”

Non essere accondiscendente con me…”

Non lo sono. Ora sei troppo tesa, tutto ti sembra terribile.”

Vorrei vedere te”

Che ne dici di una vacanza?”

Come pretendi che possa andare in vacanza lasciando questa situazione a casa mia?”

Una notte Buffy. Senza allontanarci da Sunnydale. Vieni con me. Andiamo nell’albergo all'inizio della statale. Stai con me per una notte Buffy. Ci chiudiamo in quattro mura e lasciamo il mondo al di fuori.”

E lei si era lasciata trasportare in quella piccola pazzia, quella piccola fuga. Aveva preso la sua mano protesa e si era lasciata guidare. In fondo era stressata, a pezzi, esaurita probabilmente.

Era da biasimare che cercasse un po’ di pace nelle braccia di un uomo?

Non perché quell’uomo fosse Spike. Non perché lei si sentisse rivivere nelle sue braccia, non perché non voleva altro che guardare i suoi occhi.

Buffy voleva solo scappare per una notte.

Ma sapeva che quella notte sarebbe stata speciale.

Sapeva che da lì in poi non avrebbe più potuto mentire. Non l’avrebbe più potuto odiare.

E avrebbe ostentato i suoi sentimenti. Forse li avrebbe persino urlati. Fra lenzuola di seta che odoravano di loro.

L’aveva portata in quell’albergo grandissimo, e lei era rimasta incantata nel guardare la stanza. Le pareti dipinte di azzurro, la tenda dai riflessi dorati, le lenzuola in seta blu. Le candele ad illuminare le ombre dei loro visi.

Lui l’aveva guardata a lungo, come se fosse un sogno. L’aveva accarezzata, baciata.

L’aveva presa tra le braccia e l’aveva stesa su quel letto freddo.

E lei aveva sentito i brividi invaderla. L’agitazione stringerle lo stomaco. Come fosse una vergine.

E si era sentita davvero una vergine in quella stanza.

Lasciamo il mondo al di fuori.

L’aveva lasciato davvero. Il mondo, la malattia di sua madre, la testardaggine di sua sorella, gli esami che non finivano mai, il lavoro che non si trovava, le bollette da pagare, le esperienze andate male, gli amori finiti e quelli mai cominciati, gli uomini che l’avevano usata, gli occhi che l’avevano dimenticata, la paura, l’orgoglio, la rabbia.

Buffy fu una nuova persona, quel giorno. Annullata dal suo passato. Stava vivendo il suo presente con Spike.

Aveva sentito le sue labbra su ogni parte del corpo. Aveva sentito gli slip neri scivolarle sulle gambe. Aveva sentito il gancio del reggiseno scattarle e caderle dalle braccia. Aveva sentito la sua lingua sul corpo. Lo aveva sentito spingere dentro di lei. Lo aveva sentito sempre più a fondo. Finchè aveva urlato. Perchè non c’era stato più niente da sentire. E il mondo era esploso, insieme a quella stanza fatata, in mille stelle colorate.

E lei poi le stelle le aveva viste.

Mentre erano abbracciati, dopo l’orgasmo, a guardare il soffitto.

Avevano immaginato tutte le stelle e le costellazioni possibili su quel soffitto blu.

E avevano fatto ancora l’amore. Per tutta la notte.

E la mattina dopo avevano consigliato al ragazzo alla reception di dipingere delle stelle sul soffitto della stanza 147. Perché quello era stato il loro Paradiso.

E il ragazzo, grandi occhi scuri e capelli ricci, aveva sorriso imbarazzato.

E loro erano corsi via, respirando l’aria del nuovo giorno. Respirando l’aia di quella nuova vita.

Perché per quanto tutto quello che avevano lasciato fuori da quella stanza, sarebbe tornato a tormentarli, loro sarebbero stati insieme.

Un porto sicuro nel quale tornare, quando tutto il resto andava male.


L’albergo era esattamente come ricordava: imponente, con la grande insegna blu sulle porte automatiche.

Buffy si bloccò all’entrata, indecisa sul da farsi. Non sapeva se entrare e chiedere di Spike, o cercare qualcosa lì fuori, o ancora chiamarlo direttamente e dirgli che il gioco stava durando troppo. Poi lo sguardo volò all’interno, e lei potè vedere il ragazzo dai grandi occhi scuri e i capelli ricci che rispondeva al telefono della reception. E sorrise, entrando con sicurezza.

Come se quel piccolo dettaglio le stesse dando sicurezza.

Sciocca.

Eppure quel ragazzo sembrò riconoscerla, e le sorrise. E lei sentì distintamente le gambe tremarle, senza capirne il motivo.

Come se avesse paura che lui sapesse perché si trovava lì, che lui ricordasse quella loro fuga e quello strano consiglio.

Come se quel ragazzo fosse un testimone della nascita del loro amore. Come se potesse leggerla dentro, pur senza conoscerla.

- E’ la signorina Summers?

- Cosa?

- E’ lei la signorina Summers?

- Si, sono io.

- Stanza 147, secondo piano.

Il ragazzo le offrì un mazzo di chiavi. La targhetta era doppia, in legno lucido, con le tre cifre incise da un lato.

Entrò nell’ascensore senza guardarsi indietro.

Il tremore non accennava a sedarsi. Cominciava ad avere paura. Cominciava a sentire il bisogno di vederlo, toccarlo. Di sentire Spike.

Anche se da quella mattina non aveva fatto altro. Eppure non avrebbe scambiato nessuna sensazione con la gioia di sentirlo sulla pelle e inalare il suo profumo.

Era stanca di quel gioco.

Voleva solo stare con lui.

Il bip dell’ascensore la risvegliò, e lei fu costretta a mettersi una mano sugli occhi, come se volesse riprendersi da quello stato di shock. Voleva calmarsi, riprendere il controllo.

Ma non fu facile.

Soprattutto quando vide i petali di rosa che dall’ascensore la conducevano alla stanza.

Sembrava quasi che fossero sparsi sul suo corpo. Ne sentiva il solletico.

Aprì la porta, e potè vedere chiaramente quanto le sue mani stessero tremando.

Come faceva?

Come poteva, quell’uomo, ridurla in quello stato con delle semplici parole scritte su un foglietto stropicciato, con quei gesti e quelle decisioni?

Ma lei non era la donna sicura e indipendente che non aveva bisogno di nessuno?

La stanza le apparve esattamente come quel giorno. Pareti azzurre, tende dorate, lenzuola blu, candele ai lati della stanza. Un piccolo miraggio che si costruiva nella sua mente e diventava realtà.

Qualcosa di irreale e splendido. Qualcosa che la costrinse a mettere una mano davanti alle labbra, per non scoppiare in rumorosi singhiozzi.

Si, perché Buffy, quando ebbe chiuso quella porta alle spalle, si accasciò sui petali di rosa, stringendo le labbra in un pugno. E pianse.

Per cosa piangeva, non lo capiva bene nemmeno lei. Ma ne sentiva il bisogno.

Forse pianse per sua madre, che era morta mesi prima, o per sua sorella che stava crescendo e viveva nel campus dell’università, o forse per i suoi amici, che ormai vedeva sempre più raramente, forse pianse per tutte le persone che aveva perso e per quelle che non ricordava più. Forse pianse per quegli anni della sua vita che l’avevano vista sola e disperata.

Forse pianse per Spike, per l’amore devastante che li legava.

Forse pianse perché sapeva che, se l’avesse perso, non sarebbe mai potuta andare avanti.

E continuò a piangere, mentre tremante prendeva tra le mani la rosa rossa poggiata sul letto, e sfilava il bigliettino arrotolato sullo stelo.


Ci hai messo un po’ ad arrivare, passerotto.

Io ti sto aspettando. Ti aspetto da una vita. Ti aspetterò in eterno se sarà necessario.

Ma sarò lì. Mi troverai dentro te. Nei posti che ci hanno visto assieme, persino in quelli che ci hanno visti separati. Sarò nelle macchine che ti passeranno accanto, nella pioggia che bagnerà il tuo viso, nel sole che ti illuminerà, nelle foto che conserverai, sarò nei tuoi figli e nipoti, sarò nel pavimento che calpesterai, e nel cielo che ti sovrasterà.

Per ora, invece, sono solo nel punto dove ho capito che senza di te non sarei mai andato avanti.

Ti ricordi amore mio? Eravamo lì, quando abbiamo deciso di andare a vivere insieme. Ed io ti ho presa tra le braccia, sollevandoti da terra, e ti ho detto che ti amavo da morire.

Ed ho sentito l’asfalto sotto di me diventare improvvisamente morbido. Ho sentito il mondo girarmi attorno. Ho sentito la vita crescere insieme a noi.

Ti aspetto, amore mio. Inondato dalla luce di un sole di febbraio. Illuminato dall’attesa di te.’


E Buffy corse via. Facendo volare via alcuni petali. Chiedendo all’ascensore di scendere più velocemente. Salutando con un sorriso il ragazzo dai capelli ricci, e mettendo in moto la macchina.

Spingendo sull’acceleratore, e sorridendo fra le lacrime.

Lui era lì. Lui la stava aspettando.

E sapere che ci sarebbe stato sempre, la inondava di certezze.

Arrivò in dieci minuti, il posto era a qualche isolato dalla loro casa.

Si ricordava bene anche quel momento.

Parlavano di convivenza da un’eternità, ma non si era ancora decisa. Per Dawn, perché non voleva dare a sua sorella una figura maschile che la destabilizzasse. Per lei, perché era un’eterna indecisa.

Ma quel giorno, mentre la accompagnava a piedi al lavoro, l’aveva guardato. E aveva deciso. Improvvisamente.

Perché Dawn ormai era grande e stava per andare all’università. Perché lei ormai era una donna, ed era stanza di essere indecisa.

Penso che sarebbe una buona idea se ti trasferissi da me.”

L’aveva detto all’improvviso, mentre aspettavano che il semaforo pedonale diventasse verde e la gente gli passava a fianco.

E aveva visto i suoi occhi diventare enormi. Splendere di luce propria. Illuminarsi di un sentimento nuovo, che l’aveva rinfrancata.

La speranza, la fiducia.

Le promesse di un nuovo futuro.

Lasciò la macchina in doppia fila, Buffy, correndo verso quel semaforo.

La gente in quella zona era sempre troppa, eppure tra tutti vide la sua testa spuntare. I suoi assurdi capelli platinati, tenuti fermi dal gel.

Vide le sue spalle, prima. Poi lo vide anche girarsi, mentre lei gli correva incontro.

Vide i suoi occhi assumere quella stessa espressione. Ma era sicura che non fosse un sogno, o un semplice ricordo.

Lui era lì. Ne poteva sentire la presenza.

E gli sorrise, finendogli tra le braccia.



- Ma quanto tempo ci hai messo ad arrivare?

Buffy singhiozzava piano, spingendo il viso contro la sua spalla. Continuava a piangere Buffy, e si sentiva una bambina.

Una bambina felice.

- Buffy?

- Spike..io…

- Hey piccola… - e gli alzò il viso, prendendola per il mento.

Era bellissima.

La sua mente, il ritratto che si portava dentro, non gli avrebbe mai reso giustizia.

- Perché piangi?

- Io..sono…felice.

Era forse la prima volta.

La prima volta che sentiva quelle parole dalle sue labbra.

Felice.

Buffy era felice.

- Buon San Valentino, amore mio.

E vide il suo viso alzarsi di scatto, e guardarlo interrogativamente.

Ovvio che se ne fosse dimenticata.

- Oh amore…grazie! – e lo abbracciò ancora, stringendolo forte.

Per quanto la riguardava, avrebbe voluto non lasciarlo mai più.

Vivere in quelle braccia. Respirare quell’aria, quella impregnata di lui. Sentire la sua voce nella testa, nella pancia, in tutto il corpo.

Si. Si sarebbe abbandonata volentieri a tutto quello.

Ora. E per sempre.

- Buffy?

- Si?

- Vuoi sposarmi?



E sorrise, Buffy. Da lì cominciava qualcosa di nuovo, ma fondamentalmente uguale.

La sua vita. Legata a Spike.

Indissolubilmente.





Fine