SHADOWS FROM THE PAST



Capitolo I


Il mondo scorreva monotono oltre il finestrino dell’auto, scintillando vivacemente nel chiarore del primo mattino.

Dietro un paio di sottili lenti quadrangolari, Faith Jamie Shreve osservava corrugando la fronte l’ingorgo creatosi sulla Broadway Street, a pochi isolati dal suo posto di lavoro.

Guardo’ l’orologio d’oro che portava al polso destro ed impreco’ mentalmente, pigiando senza convinzione le dita snelle ed eleganti sul clacson.

Come s’aspettava, non ci fu nessuna reazione da parte degli automobilisti incolonnati davanti a lei, a parte qualche gridolino ed un clacson piu’ forte del suo che le risuono’ prepotente alle orecchie.

Era in ritardo, come sempre.

Il cellulare prese a squillare la sua trillante melodia, ammorbidita dalla stoffa della borsetta.

Faith allungo’ una mano e digrignando i denti in una muta protesta cerco’ a tastoni il piccolo portatile.

Lo estrasse dalla borsa e guardo’ titubante il numero che tremolava sullo schermo di un monotono, fastidioso azzurro.

Era l’ufficio. Evidentemente era piu’ in ritardo di quanto s’aspettasse.

- Maledizione! –

Un elegante indice circondato da un anello d’oro bianco volo’ a premere il tasto per l’avvio della comunicazione, mentre Faith sentiva gia’ nelle orecchie la voce aspra del suo capo.

Non aveva nessuna voglia di sentirlo, quella mattina.

Si massaggio’ la fronte, mentre, proprio come s’aspettava, appena accosto’ all’orecchio il portatile, una voce dal forte accento russo esplodeva

- Ma dove cazzo sei finita, Shreve? –

- Buongiorno a te, Vlad. –

Senti’ una scossa di elettricita’ statica vibrare tra loro, e poi l’inconfondibile sospiro irritato di Vladimir Trervezkov. La ragazza sorrise, certa che l’uomo avrebbe avvertito quel sorriso anche senza vederla.

- E’ un piacere sentirti. -, aggiunse, mielosa.

- Non ci provare, ragazzina, non ci provare! Questa settimana e’ la quarta volta che arrivi in ritardo. Faresti bene ad inventare una buona scusa, perche’ sei ad un passo dall’essere licenziata! –

La mano sinistra di Faith scivolo’ tra i suoi lunghi capelli rossi, riavviandoli indietro.

- Licenziami pure, se ti va’, Vlad. Non ho nessuna buona scusa. Se ti accontenti della verita’ vedro’ cosa si puo’ fare. –

Le sembro’ di vedere il viso stravolto del suo capo, rosso di rabbia per non essere riuscito a spaventarla.

In fondo a lei quel lavoro non serviva affatto. Con le sue abilita’ poteva benissimo trovarne uno migliore in una settimana.

La macchina davanti a lei avanzo’ di qualche metro, e lei premette dolcemente l’acceleratore per fare lo stesso. Vlad rimase in silenzio per qualche secondo, poi sospiro’.

- Dove sei? -, disse.

Un sorriso di trionfo illumino’ il bel viso di Faith. Si rilasso’ contro il sedile in pelle e rispose.

- Quasi in ufficio. –

- Bene. Quando arrivi vieni nel mio studio, c’e’ un cliente che vuole parlarti. –

Si gusto’ il tono quasi supplichevole che aveva assunto la voce di Vlad e decise che poteva persino permettersi di stuzzicarlo un altro po’, quella mattina.

- Non lo so...ho un mucchio di lavoro, non so se riesco a trovare anche il tempo per un altro cliente... -, disse, impastando le sue parole con un accenno di sorriso che arrivo’ brillante ed intatto alle orecchie dell’uomo dall’altro capo del telefono.

- Non tirare troppo la corda, bambina. Ti aspettiamo. –

Con un leggero bip metallico la comunicazione s’interruppe, e Faith pote’ tornare a concentrarsi sulle macchine davanti a lei che restavano a vibrare immobili la loro protesta. Poso’ il cellulare nella borsetta e ne tiro’ fuori il pacchetto di Merit, dicendosi che per smettere c’era sempre tempo, per essere nervosi, no.

L’accendino d’argento emise uno stridio irritante e poi una calda fiamma azzurrata accese la sigaretta tra le labbra della ragazza.

Faith aspiro’ una lunga boccata di fumo, sentendo gia’ ogni muscolo del suo corpo piu’ rilassato.

Finalmente l’auto che la precedeva aumento’ leggermente l’andatura, permettendole di corprire in un tempo ragionevole i tre isolati che la separavano dalla ‘Trervezkov Inc.’, sulla Van Nesse Avenue, agenzia che si occupava di fotografia e ritratti personalizzati.

Faith usci’ con un sospiro dall’abitacolo e si immerse nell’aria opprimente di San Francisco. Apri’ lo spazioso bagagliaio della sua utilitaria e ne estrasse il suo materiale da lavoro: nelle sue mani scivolo’ lentamente un borsone tubolare di quelli usati per tenerci le mazze da golf.

Sorrise a quell’idea, lei che il golf l’odiava, e apri’ la zip per sbirciare che tutto fosse a posto ed intatto. Il legno lucido di un cavalletto brillo’ quando un raggio di sole lo colpi’ nel suo spazio angusto. Faith accarezzo’ con lo sguardo lo strumento e poi, richiuso il borsone, se lo mise in spalla, in una posa che la faceva apparire in tutto e per tutto una giocatrice di golf in trasferta, non fosse stato che per le grosse tele immacolate che teneva sottobraccio e che tradivano il suo vero mestiere. Infine prese dal fondo del bagagliaio una piccola macchina fotografica digitale e se la mise al collo a far compagnia alle tre collane che impreziosivano il suo decollette.

Sali’ frettolosamente le scale, immaginando solo vagamente la rabbia che avrebbe invaso Vlad se non si fosse presentata nel suo studio prima di subito.

Non si preoccupo’ nemmeno di posare l’attrezzatura nel suo studio, e corse attraverso il lungo corridoio del terzo piano fino a trovarsi davanti la porta chiusa dell’ufficio del signor Trervezkov.

Si diede tre secondi per riprendere fiato e cercare di mimare un perfetto sorriso professionale. Si tolse gli occhiali da sole, rivelando due meravigliosi occhi verdi e poi busso’ gentilmente, attendendo l’inevitabile risposta.

- Avanti. –

Faith sospiro’ ed afferro’ la maniglia metallica della porta. Entro’.

Lo studio del boss della compagnia era assolato e terribilmente caldo, nonostante l’aria condizionata fosse impostata al massimo. Faith senti’ chiaramente la morsa opprimente del calore, e si ritiro’ contro la porta come se questa potesse fornirle un qualche ristoro.

Appoggiato con i gomiti alla scrivania di ciliegio c’era un uomo basso, dall’aria severa e quasi completamente calvo. Gli occhi azzurri scintillavano nel riflesso di un raggio di sole e, come Faith si aspettava, erano placidi e calmi, e nascondevano perfettamente la seccatura d’aver dovuto attendere per un quarto d’ora un’impiegata ritardataria. Faith noto’ che il nodo della sua cravatta era allentato, segno che anche lui sentiva perfettamente la temperatura insopportabile della sala, e solo in parte riusciva a fingere di ignorarla.

Lasciando cadere l’occhiataccia che il suo capo le riservo’ per quel modo tanto trasandato di presentarsi, con il cavalletto in spalla e le tele sottobraccio, la ragazza sposto’ la sguardo da Vlad all’uomo che stava accanto all’enorme finestra chiusa da pesanti tende che lasciavano filtrare l’afa ma non la luce, in un impeccabile completo gessato come se non avesse fatto nemmeno caso al caldo terrificante che ristagnava in quella stanza.

O forse, semplicemente, dissimulava la sofferenza molto meglio di loro due.

- Faith, voglio presentarti il signor Robert Breackman, rinomato scrittore inglese. –

Faith lo guardo’ attentamente, ancora una volta ignorando il palese fastidio che il suo sguardo indagatore suscito’ in Vlad.

Robert Breackman. Impeccabile nel suo completo grigio cenere, con i corti capelli biondi pettinati alla perfezione e gli occhi neri come la pece nascosti dietro un paio di occhiali che dovevano servire piu’ a regalargli un’apparenza intellettuale che a facilitargli il difficile compito di vedere.

Ci penso’ attentamente, ma non riusci’ a ricordare d’aver mai visto nessun libro firmato dalla penna d’oro di Robert Breackman.

Ma dopotutto lei aveva poco tempo, per leggere.

Si fece avanti e gli tese una mano, sorprendendosi del modo deciso con cui l’uomo gliela strinse.

- Molto piacere, signor Breackman. Io sono Faith Jamie Shreve, e lei sicuramente conosce la mia occupazione. Cosa posso fare per aiutarla? –

Senti’ su di se’ lo sguardo compiaciuto del suo capo e si congratulo’ con se’ stessa per il tono altamente professionale che la sua voce aveva assunto.

Robert le sorrise, ma lascio’ che fosse Vlad a rispondere per lui. Faith penso’ che avrebbe dovuto attendere per sentire la voce di quell’uomo.

- Il signor Breackman ha attraversato l’oceano per chiederti di curare la copertina del suo prossimo libro. –

Faith corrugo’ la fronte, guardando prima Robert, poi Vlad, poi le tele che stringeva sotto il braccio. Infine alzo’ i suoi occhi verde bosco sull’uomo che non aveva ancora parlato.

- Oh, beh...sono lusingata, ma forse il signor Trervezkov non le ha spiegato con esattezza il mio lavoro. Io sono solo una ritrattista, non ho mai fatto nulla del genere, e non credo che ne sarei capace. –

Faith sorrise dispiaciuta all’inglese, e poi lancio’ un’occhiataccia a Vlad, che si strinse nelle spalle e scosse la testa, neanche lei stesse rifiutando l’offerta di lavoro della sua vita. Torno’ a guardare Robert.

- Forse puo’ parlare con Charleen, lei e’... –

- Ho avuto il piacere di ammirare alcune delle sue opere, signorina Shreve... -, la voce dal marcato accento inglese di Robert interruppe il suo tentativo di scrollarsi di dosso quella faccenda. – Un mio amico di Londra possiede un ritratto fatto da lei e devo ammettere che la somiglianza era sorprendente ed il lavoro nel complesso davvero ammirevole. E vorrei davvero che fosse lei a trovare il soggetto adatto alla copertina del mio libro. –

Faith stava per ribattere, quando la mano dell’uomo si alzo’ impercettibilmente ad indicare che non aveva ancora finito.

- So che questo non rientra esattamente nelle sue mansioni, e le assicuro che verra’ adeguatamente ricompensata. –

La ragazza appoggio’ le pesanti tele contro la scrivania di Vlad, e si massaggio’ il braccio dolorante, a disagio.

- Io non so se...non e’ quello che so fare, davvero. –

Alzo’ gli occhi su Robert, trovando ad attenderla un dolce sorriso.

In quel momento si accorse che, nonostante l’aria ingessata ed i modi quasi eccessivamente raffinati, lo scrittore inglese era un bell’uomo.

- Allora mettiamola cosi’. -, disse una voce che sembrava impastata nel miele. – Lei legga il mio libro, e poi dipinga cio’ che la lettura le ha ispirato. D’accordo? –

Faith lancio’ un’occhiata a Vlad, che annui’ impercettibilmente, e poi scruto’ negli occhi di Robert e sembro’ soddisfatta di cio’ che vide.

Sorrise, e porse nuovamente la mano al suo nuovo cliente.

- Affare fatto, signor Breackman. Leggero’ il suo libro e poi vedro’ cosa posso fare. –

L’uomo sorrise soddisfatto e copri’ la piccola mano di Faith con la sua in una vigorosa stretta.

- Sara’ un lavoro molto lungo? -, s’informo’. – Sa, io ho delle scadenze. –

Faith ci penso’ su un istante, calcolando mentalmente il tempo che le ci sarebbe voluto per leggere un libro e poi pensare al soggetto per la copertina ed infine dipingerlo.

Tre settimane, calcolo’, giorno piu’ giorno meno.

- Tre settimane. Di meno non posso. –

Robert socchiuse gli occhi, annuendo pensieroso.

- Tre settimane. Bene, vedro’ di tenere buoni gli editori. –

Faith sorrise e striscio’ via dalla sua stretta, ansiosa di tornare alla tiepida oscurita’ del suo studio.

Aveva tre appuntamenti, quella mattina, ed il primo si avvicinava pericolosamente.

Stava per voltarsi quando avverti’ il rauco brontolio del suo capo e si accorse che stava dimenticando di ringraziare il cliente.

Dio, com’era stupida quell’usanza.

Loro avrebbero dovuto ringraziare lei. In fondo era lei che lavorava...

Comunque si giro’ e rivolse il suo piu’ professionale sorriso di circostanza.

- La ringrazio per quest’opportunita’, signor Breackman. E’ un piacere trattare con clienti come lei. –

Guardo’ Robert annuire per qualche istante, e si accorse che nemmeno Vlad avrebbe potuto intuire che neanche una delle sue parole era stata pronunciata con sincerita’.

Odiava leggere libri che non le interessavano, odiava fare gli straordinari per uno scrittore capriccioso, e odiava doversi scervellare per creare un capolavoro da copertina. Non gli era per niente grata per l’opportunita’ e, anzi, ne avrebbe volentieri fatto a meno.

Ma non si rinuncia mai ad un lavoro, soprattutto quando il compenso e’ ben piu’ alto del normale.

Raccolse le tele dal pavimento e se le rimise sottobraccio. Accenno’ con la testa ad un saluto educato ed usci’ dal torrido territorio di Vlad, sospirando la sua personale soddisfazione.

La penombra del corridoio la disoriento’ per un attimo. Mentre tentava di mandar via quei fastidiosi riverberi di luce davanti agli occhi, le parve di intravedere un uomo fermo al centro del corridoio. Le sorrideva. Aveva lunghi capelli scuri e gli occhi...rossi?

Faith rabbrividi’ violentemente e scosse la testa, con forza, ed il capogiro passo’. Alzo’ gli occhi sul corridoio, ma non c’era traccia dell’uomo che le sembrava d’aver visto.

La luce le faceva male, considero’, inforcando nuovamente i suoi adorati occhiali da sole.




Capitolo II


Parigi, 1466

La ragazza si chino’, fino a che le ginocchia non sfiorarono i fili d’erba ondeggianti nel vento.

Una cascata di capelli corvini le incorniciava il viso, rendendolo piu’ pallido di quanto non fosse in realta’.

I suoi intelligenti occhi viola seguirono incuriositi il lento volteggiare di una farfalla fino a quando questa si poso’ su un fiore dai petali di un tenue rosa, come il cielo nell’attimo appena precedente l’alba.

Le sue dita furono velocissime, e la farfalla si ritrovo’ imprigionata in una gabbia di carne.

- Siren, cosa stai facendo? –

Una voce familiare precedette di qualche istante l’eco ravvicinato di passi sull’erba, ed un attimo dopo un uomo dai profondi occhi neri si inginocchio’ accanto a lei, e poso’ una mano sulla sua.

Le guance di Siren avvamparono, diffondendo un caldo rossore sul suo viso.

Alzo’ gli occhi su di lui, e fu tentata di passare le sue mani tra quei capelli della stessa sfumatura del buio. Con uno sforzo si trattenne, ricordando a se’ stessa la presenza dell’enorme castello dietro di lei, delle guardie affacciate alle torri e di un’ombra che la osservava imperturbabile da una delle tante finestre.

Rabbrividi’ al pensiero di quell’ombra che la seguiva passando da una finestra all’altra e della quale solo lei sembrava accorgersi.

Sorrise al cavaliere accovacciato con lei nell’erba e senti’ il fremito delle ali della farfalla contro la pelle candida della sua mano stretta a pugno.

- Voglio la polvere delle sue ali, Raphael. Le fate dicono che puo’ esaudire qualsiasi desiderio, sai? –

Il giovane le sorrise, apparentemente disteso. Un brivido lo percorse mentre ascoltava ancora le fantasticherie di quella ragazzina sui fantasmi e le fate, e si chiedeva quale destino crudele avesse voluto infierire su una creatura tanto fragile e delicata. Circondo’ la sua mano con la propria, parlandole con calma.

- No, Siren. Non puoi prendere la polvere dalle ali di questa povera farfalla. La uccideresti. –

La ragazza sembro’ per un attimo incerta, e corrugo’ la fronte con aria preoccupata.

- Perche’ invece non la lasci andare, e chiediamo alle fate di suggerirci qualche altro modo per esaudire i tuoi desideri? –

- Loro hanno detto che se prendo la polvere, lui la smettera’. –

Raphael si sporse di piu’ verso la giovane, attento a non esagerare per non sembrarle sconveniente.

- Lui chi, Siren? -, le chiese dolcemente.

Si domando’ per un attimo perche’ starsene li’ a perdere tempo con una ragazza che aveva perso il dono della ragione anni prima, e non sembrava in grado di riacquistarla. Ma, guardando nei suoi grandi, spauriti, innocenti occhi viola, non riusci’ a non provare un immenso amore nei suoi confronti, che per troppo tempo aveva confuso con la pieta’.

- Lui...mi spia...sta dietro le finestre e mi spia, qualunque cosa faccio lui e’ sempre li’... –

Un tremore la scosse per alcuni istanti, facendo ondeggiare i suoi bei capelli neri. Gli occhi le si riempirono di terrore, e Raphael fu tentato di abbracciarla e lasciar perdere la convenienza che si addice ad un cavaliere.

Ma poi lei smise di tremare, e lui rimase immobile.

- Dove, piccola? Non c’e’ nessuno alle finestre, guarda tu stessa. Forse cio’ che vedi non e’ altro che un riflesso, e ti sembra qualcosa di spaventoso... –

Siren osservo’ il viso di Raphael con un’accuratezza quasi medica, ed una risata amara le fruscio’ fra le labbra quando riusci’ ad interpretare cio’ che vedeva nei suoi occhi.

- Tu non mi credi. Credi che io sia pazza, come tutti gli altri. –

- No, non lo credo. –, menti’ il ragazzo.

- La farfalla. Ho bisogno della farfalla. –

Lentamente, con reticenza, la mano stretta a pugno si allento’, fino a schiudersi come un fiore a primavera, ed una splendida farfalla sbatte’ per un attimo le ali, confusa.

Siren la osservo’, riconoscendosi nello smarrimento che provava la bestiola. Con un dito le carezzo’ le ali ma, quando provo’ a staccare da loro la polvere, la farfalla si divincolo’ dalla sua carezza e prese il volo, lasciando il giardino per un cielo piu’ tranquillo.

La ragazza gemette, cercando di afferrare quel che era ormai solo il miraggio di una farfalla.

- Ne avevo bisogno... -, singhiozzo’. – Cosi’ non potro’ esaudire il mio desiderio. –

Raphael le cinse le spalle con le braccia, curandosi di mostrare alle guardie appollaiate sulle torri la castita’ di quel contatto.

- Calmati, ora, bambina. Non posso forse esaudire io ogni tuo desiderio? Non me lo permetterai? –

Siren si lascio’ stringere, totalmente indifferente, mentre qualche lacrima coraggiosa precipitava dai suoi occhi sulle sue guance, in una corsa suicida verso l’erba del prato.

Alzo’ il viso e fisso’ il cavaliere negli occhi.

- Mandalo via, Raphael. Fa’ in modo che se ne vada, prima che sia troppo tardi... –

Raphael si ritrasse lentamente, ora che la ragazza sembrava piu’ calma. La guardo’ attentamente ma, come ogni volta, gli fu impossibile notare ogni accenno di follia nel suo sguardo.

Erano gli occhi di una persona in pieno possesso di ogni sua facolta’ intellettiva.

Eppure cio’ che gli diceva, quelle farneticazioni su fate e demoni, quelle non avevano senso.

Erano parti di una mente malata.

O che forse la malattia aveva risparmiato i suoi occhi, donando loro un’apparenza sana?

Scosse la testa, irritato e spaventato dalle parole di Siren e dai suoi stessi ragionamenti.

- Troppo tardi? Troppo tardi per cosa? –

Gli occhi di Siren si tinsero di una sfumatura di lavanda quando il sole fece per un attimo capolino dalle nuvole per sfiorarla con un suo raggio.

Raphael lesse in quello sguardo tutto il terrore di questo mondo, mentre, lentamente, Siren si alzava e gli rivolgeva un’ultima, terrorizzata supplica.

- Mandalo via, Raphael...presto, o sara’ tardi...per tutti noi... –




Capitolo III


Faith apri’ gli occhi, ed una tagliente lama di luce le artiglio’ il cervello, costringendola a richiuderli ed a cercare a tentoni gli occhiali da sole sulla superficie lucida della scrivania.

Se li mise, stiracchiandosi le gambe indolenzite.

Si era addormentata.

Mantenne gli occhi chiusi, pensando allo strano sogno che aveva fatto.

Quella ragazza...

Sorrise tra se’, dicendosi che lavorava decisamente troppo.

Quando fu certa che il sole non l’avrebbe accecata di nuovo, apri’ gli occhi, lentamente.

Qualcosa dai contorni sfocati stava appoggiata sulla sedia di fronte a lei.

Strinse gli occhi, ancora intontita dal sonno, finche’ non le fu chiaro che era un uomo.

Quei capelli biondi...quegli occhi li aveva gia’ visti...a dissipare ogni suo dubbio, una voce dolce come il miele ruppe il silenzio della stanza.

- Ben svegliata, miss Shreve. –

Faith balzo’ a sedere, completamente sveglia, ed un innaturale rossore le colori’ le guance.

Mantenne lo sguardo fisso davanti a se’, pero’, sfidando gli occhi divertiti di Robert Breackman.

Non doveva giustificarsi, e di certo non con lui. Quello era il suo ufficio, e non avevano certo un appuntamento. La sua voce assunse una sfumatura stizzosa che irrito’ lei prima ancora di lui.

- Mi scusi, signor Breackman, devo essermi addormentata...non la aspettavo nel mio studio. Credevo ci fossimo detti tutto. –

Lo fisso’ con curiosita’ mentre sorrideva, e noto’ una deliziosa fossetta formatasi sulla sua guancia.

L’uomo indico’ con un vago cenno della mano lo stanzino in disordine, con i muri coperti di quadri completi e non, post it ingialliti e vecchi poster.

- Qui e’ dove lavora? –

Faith mantenne la voce fredda, mentre assecondava quell’ispezione interessata.

- E’ il mio studio. –

- Ma non e’ dove dipinge. –

La ragazza fece spallucce, osservando quei profondi occhi neri che dardeggiavano per il suo ufficio.

- No. C’e’ una stanza a parte, per quello. Al piano di sopra. E’ li’ che dipingo. –

- Capisco. –

Faith lo osservo’ ancora per qualche istante, in silenzio. Poi decise che la sua razione di pazienza era esaurita.

- Puo’ dirmi cosa ci fa’ nel mio studio? –

L’uomo sorrise in imbarazzo ed infilo’ una mano sotto la propria giacca. Ne estrasse un grosso fascio di fogli racchiuso in una consunta cartelletta verde.

Porgendogliela, Robert non pote’ fare a meno di pensare che il verde degli occhi di Faith era venti volte piu’ brillante di quello della cartellina.

- Si’, beh, avevo dimenticato di darle il libro. –

Faith lo prese dalle sue mani, soffocando a stento una risatina.

- Oh...avrei dovuto ricordarglielo io, mi scusi. –

- No, e’ colpa mia. Dimentico di tutto...mia madre diceva spesso che avrei potuto dimenticare persino la testa, se non fosse stata saldamente attaccata al resto del corpo! –

La ragazza sorrise, riponendo la cartellina in un cassetto della scrivania.

- Beh, e’ uno scrittore...a lei e’ concesso perdere la testa, no? –

Robert annui’ leggermente, rivolgendole un sorriso abbagliante.

- La maggior parte delle volte, si’. Come per una pittrice, giusto? –

- Giusto. –

Robert si alzo’ e le rivolse un lieve cenno della testa, prima di porgerle la mano.

Faith la strinse.

Era la terza volta, quel giorno.

- Arrivederci, signor Breackman. –

Lui si scherni’ con le mani, sorridendo.

- La prego di chiamarmi Robert, perche’ io ho tutta l’intenzione di chiamarla Faith. –

Faith annui’, mentre una folata di vento le scompigliava i capelli rossi. Li sistemo’ alla meglio con la mano libera.

- Bene. Allora arrivederci, Robert. –

Lui le sorrise di nuovo e le porse un piccolo rettangolo di cartone plastificato.

Faith lo prese e vi lesse sopra il numero di telefono e l’indirizzo di Robert Breackman. Lo guardo’ interrogativa.

- Nel caso dovesse finire prima il lavoro, o se le servisse piu’ tempo...o anche solo per fare due chiacchiere...non esiti a chiamare, d’accordo? –

Faith annui’, rigirandosi tra le dita il biglietto da visita. Poi alzo’ gli occhi verso l’uomo di fronte a lei, e sorrise.

- Non credo ce ne sara’ bisogno. Sono molto puntuale. –, disse, restituendogli il biglietto.

Lui la respinse gentilmente, con un accattivante sorriso sulle labbra sottili.

- Lo tenga, la prego. Non si sa mai... –

- D’accordo. A rivederla tra tre settimane, Robert. –

Robert annui’, avviandosi verso la porta. Afferro’ la maniglia e la fece girare.

Prima di uscire, tuttavia, si fermo’ sulla soglia, come se si fosse appena ricordato di qualcosa di importanza vitale.

Giro’ il viso verso Faith, che, curva sulla scrivania, cercava dieci centimetri di spazio dove appoggiare il suo biglietto da visita.

- Lei verra’ alla festa di domani sera, Faith? –

La ragazza sollevo’ la testa verso la porta, incontrando gli occhi scuri e penetranti dello scrittore.

Penso’ alla festa che l’attendeva quella sera, una noiosissima festa organizzata dalla compagnia per farsi pubblicita’.

Sarebbe rimasta volentieri a casa in compagnia di un bel film e stava quasi per rispondere di no quando si ricordo’ l’espressione corrucciata di Vladimir Trervezkov e si disse che non era il caso di irritarlo piu’ di quanto gia’ non fosse.

Non avrebbe tollerato l’assenza della sua migliore impiegata, questo era certo.

Sulla bilancia, il peso della sfuriata di Vlad batteva di gran lunga quello della noia della festa.

Percio’ sospiro’ e rispose come doveva.

- Si’, certo. –

Un sorriso illumino’ il volto di Robert, come se una lampadina vi fosse stata accesa al suo interno.

- Allora credo che potro’ rivederti molto prima di tre settimane. Buona giornata. –

Senza aggiungere altro, richiuse con garbo la porta alle sue spalle, lasciando Faith sola nel suo studio.

La ragazza riordino’ alla meglio le carte sparse sulla scrivania, le diapositive e gli schizzi, gia’ dimentica del sogno di poco prima.

Mentre appoggiava alcune fatture nel secondo cassetto della scrivania, il suo sguardo volo’ alla cartelletta verde che conteneva il romanzo di Robert Breackman.

Le torno’ in mente il suo dolce sorriso ed i suoi splendidi occhi scuri.

Sorrise, pensando che, dopotutto, un motivo per andare a quella festa c’era.



Capitolo IV


Buio.

Nemmeno una lampadina illuminava la tela bianca dove un carboncino stretto tra dita femminili stava lentamente dando vita ad un ritratto.

Su uno sgabello accanto alla finestra chiusa da pesanti tende nere, una donna dall’aspetto gradevole stava immobile, con le mani intrecciate in grembo e negli occhi azzurri un’espressione serena e rilassata.

Gli angoli delle pallide labbra erano leggermente rialzati, ad indicare che si sforzava di mantenere intatto un sorriso spontaneo che stava perdendosi man mano che i minuti passavano.

Faith Shreve sbircio’ oltre la tela, grattandosi distrattamente il mento con un dito sporco di colore. Annui’, come se qualcosa l’avesse pienamente soddisfatta, e col carboncino traccio’ una precisa linea verticale. Il nero del carboncino si impose sul bianco della tela, lasciando la sua indelebile traccia morbida e sinuosa.

Faith sorrise, pensando distrattamente alla donna seduta di fronte a lei, ed alla motivazione che le aveva fornito commissionandole il ritratto.

- Ho appena finito di leggere “Il ritratto di Dorian Gray”. –, le aveva semplicemente detto.

Anche allora Faith aveva sorriso, trovando quella risposta pienamente degna di Diane, la sua migliore amica.

Quel libro l’aveva letto anche lei.

Il ritratto che invecchia ed imbruttisce ed il giovane uomo che resta immutato negli anni. Era un concetto affascinante, anche se impossibile.

La donna dagli occhi azzurri si mosse leggermente, forse per sgranchirsi le gambe, ma Faith la blocco’ con un gesto deciso della mano.

- No, non muoverti, o non ne verremo piu’ fuori! –

La ragazza aveva annuito, incerta, ed era tornata ad appoggiarsi le mani in grambo, docile, nella posa da ricca ragazza quale era.

Con un sospiro, Faith prese il pennello che aveva sull’orecchio, osservando attentamente il suo schizzo finche’ non fu sicura di esserne soddisfatta.

Si volto’ verso la donna che la fissava inespressiva dallo sgabello e le sorrise.

- Cinque minuti di pausa, mentre scelgo i colori. –

- Grazie al Cielo! –

La donna si alzo’ faticosamente dalla sua postazione e si avvicino’ alla tela, sbirciando.

Mentre Faith armeggiava con tavolozze e colori ad olio, l’altra soppeso’ con accuratezza maniacale la donna ritratta nella tela, ed un sorriso le illumino’ il viso non bello ma affascinante, quando vi si riconobbe perfettamente.

- E’ identico! -, sussurro’ sorpresa.

Faith la fisso’. Fisso’ il disegno col carboncino e le varie diapositive attorno alla tela che ritraevano Diane Stokes da ogni angolazione possibile.

Sfoggio’ il suo miglior sorriso professionale, mentre mescolava due tonalita’ di blu per avere la sfumatura giusta.

- Oh...e’ il mio lavoro! –

- Hai talento. Davvero, dovresti aprire una mostra o che so io. La gente pagherebbe di sicuro, per vedere quadri come questo! –

Il pennello mescolava freneticamente mentre Faith seguiva con occhi luccicanti le infinite sfumature che l’azzurro poteva rendere.

- No, Diane. Non mi sento pronta, non ancora. Per ora mi accontento dei ritratti. Poi...si vedra’. –

Diane annui’, chinandosi per osservare meglio la donna fissa sulla tela che le somigliava spaventosamente.

Si concesse un malinconico pensiero ispirato alla lettura appena conclusa.

Quel ritratto sarebbe rimasto per sempre giovane, mentre a lei toccava ingrigire e sfiorire con l’eta’.

La giovinezza...quella i soldi non la potevano comprare.

Almeno, non per sempre.

Il filo dei suoi pensieri fu spezzato dalla voce di Faith.

- Ok. Puoi tornare a sederti, adesso. –

Lancio’ un ultimo sguardo al disegno, poi cammino’ lentamente fino allo sgabello e riprese l’esatta posizione di prima, congiungendo le mani in grembo e alzando altezzosamente il mento.

Faith la osservo’ attentamente per cinque minuti, passando i suoi intelligenti occhi verdi da lei alle diapositive fissate attorno alla tela, e poi lascio’ che il pennello si muovesse sul dipinto, mentre lei lo fissava, quasi noncurante.

Una serie di rapide linee contorte colorirono le guance di Diane, sfumandosi di pesca sotto lo sguardo rilassato di Faith.

La pittrice rialzo’ gli occhi un altro paio di volte, sempre studiandola attentamente, con rigore medico, fino a quando sembrava soddisfatta e riproduceva ogni esatta sfumatura sulla tela.

Diane ebbe l’impressione che man mano che il dipinto si riempiva di colori, lei stessa scolorisse, come se Faith avesse avuto il potere di portare i suoi colori direttamente dalla sua figura al suo ritratto.

Quel pensiero fece accentuare il sorriso che le traballava sulle labbra.

Faith pensava.

Mentre dipingeva, pensava a quanto fossero simili un pittore ed uno scrittore.

Come fossero simili lei e Robert Breackman.

Robert trasferiva le sue idee, le sue emozioni su un romanzo esattamente come lei trasferiva le sue idee e le sue emozioni su tela.

Erano due artisti, a modo loro.

E a modo loro non erano assolutamente niente.

Diede un’altra decisa pennellata sulla gonna blu della donna che la fissava dalla tela, guardando distrattamente l’originale per essere certa di aver scelto la sfumatura giusta.

Come s’aspettava, non era identica, ma c’andava molto vicino.

Non se ne sorprese.

I colori sono come le persone, le aveva detto Vlad, un giorno, quando l’aveva trovata nel suo studio che cercava spasmodicamente di arrivare ad un’esatta combinazione di blu e rosso che le desse quell’esatta sfumatura di viola che vedeva sul vestito di una donna che doveva ritrarre. Sono come le persone, i colori: non ce ne sono due uguali nemmeno a pagarli.

Da allora Faith non badava piu’ alle sfumature, ma all’effetto complessivo.

E, nel complesso, la gonna del ritratto era praticamente identica a quella dell’originale.

Afferro’ un pennello pulito dalla punta sottilissima tra i tre che teneva dietro l’orecchio destro, e lo immerse nella pozza giallo-oro che brillava al centro della sua tavolozza.

Con schizzi precisi dipinse i bottoni dorati che s’inseguivano ordinatamente sulla giacca dell’elegante tailleur di Diane.

- Come sta venendo? -, s’informo’ la donna.

Faith guardo’ il ritratto e sorrise.

- Molto bene. Altri cinque minuti ed ho finito. –

Sulla tela, le labbra di Diane si colorirono di un forte rossetto color prugna quando le setole del pennello vi passarono sopra con delicata maestria.

Faith inclino’ la testa verso destra. La riporto’ al centro con lentezza. La inclino’ verso sinistra, senza mai staccare gli occhi dal dipinto. Infine si raddrizzo’, poso’ la tavolozza cosparsa di chiazze di colore, si puli’ alla meglio le mani completamente sporche di colore sul grembiule, un tempo bianco ed ora dal colore indefinibile, e poi si alzo’ con studiata lentezza, mentre un leggero sorriso di soddisfazione le faceva brillare gli occhi.

- E’ quasi finito. Puoi venire a vedere, se vuoi. Dimmi che ne pensi! –

Diane salto’ giu’ dallo sgabello con un gridolino, e corse ad osservare se’ stessa guardarla placidamente dal fondo di una tela.

Teneva le mani incrociate in grembo, con le dita grondanti di anelli dalle pietra che parevano scintillare di un reale luccichio. Sul viso aveva un’espressione rilassata ma solenne.

Si disse che sembrava vera, la donna nel ritratto.

Sembrava potesse muoversi da un momento all’altro. Sbattere le ciglia, o torcersi le mani.

Non se ne sarebbe nemmeno tanto sorpresa, se fosse successo.

L’unica cosa che stonava, noto’, era lo sfondo, di un lucente bianco.

Si volto’ verso Faith.

- Lo sfondo restera’ bianco? –, chiese, incerta.

Faith la guardo’ con un sorriso.

- No, no. Questa e’ la parte che mi piace di piu’.Fidati di me. ti trovero’ un sfondo adatto! –

Diane annui’, strofinandosi i palmi delle mani come una bambina il giorno di Natale.

- Non vedo l’ora di portarlo a casa. So gia’ dove sistemarlo, fara’ un figurone! –

Faith sorrise all’entusiasmo della ragazza, dicendosi che nessuno rinuncia all’illusione d’esser giovane per sempre, anche se solo attraverso un ritratto.

Prese delicatamente la tela e la poso’ su un grosso ripiano, lasciandola ad asciugare insieme ad altre sue creazioni che aspettavano di essere completate e ad altre che non lo sarebbero mai state.

Ando’ alle finestre ed apri’ le pesanti tende, lasciando che la luce del sole inondasse la sala.

Per un attimo tutta quella luce l’acceco’, com’era successo nel suo studio e nell’ufficio di Vlad quella mattina.

Chiuse gli occhi, voltandosi verso Diane e, quando li riapri’, per un istante alla figura della donna si sovrappose un’immagine sfocata, che sembrava quella dell’uomo che aveva intravisto nel corridoio...quegli occhi...

Sbatte’ le palpebre, scuotendo forte la testa, finche’ la luce non fu piu’ un problema.

Quando rialzo’ lo sguardo, Diane era l’unica figura umana nella stanza.

Sospiro’, chiedendosi se per caso non stesse impazzendo.

E poi una voce di uomo, una voce incantevole, le rimbombo’ nelle orecchie.

Sta cominciando, Faith...

La ragazza sobbalzo’, guardandosi intorno.

Fisso’ Diane china sulle tele, corrugando la fronte.

- Hai detto qualcosa, Diane? –

La ragazza smise di fissare il suo ritratto, sollevo’ gli occhi sull’amica e scosse la testa.

- No, niente. Perche’? –

Il viso di Faith sbianco’ paurosamente, e la stanza le vortico’ intorno come se stesse per svenire.

Si riprese e si diede della stupida. Lavorava troppo, ecco cosa c’era.

Ed ora aveva le allucinazioni e sentiva le voci.

Si ripromise di chiedere a Vlad una settimana di permesso, e solo allora alzo’ gli occhi su Diane e rispose al suo sguardo preoccupato con un sorriso.

- Niente, scusami. Mi era sembrato di sentire qualcosa, ma...non era niente! –

Diane la guardo’ per qualche secondo ancora, poi, rassicurata dal suo sorriso, fece spallucce e torno’ a fissare con cupidigia il suo bellissimo ritratto.

Faith sorrise di se’ stessa, liasciandosi i capelli con le dita.

Scosse nuovamente la testa, dicendosi che aveva seriamente bisogno di una vacanza, e si sfilo’ l’ingombrante grembiule ormai inutilizzabile.

Lo arrotolo’ e lo getto’ nella piccola pattumiera accanto alla finestra, piena fino a scoppiare di indumenti come quello, tutti sporchi di colore all’inverosimile.

Guardo’ i suoi vestiti, ma non c’erano macchie di nessun genere, come sempre.

Sorrise alla sua amica che l’aspettava accanto alla porta, pienamente soddisfatta del suo lavoro.

- Allora, mi offri o no un bel caffe’ e mi fai fare un tour di questo bel posto? –

Faith le ando’ incontro, gia’ dimentica di quella voce che le aveva sibilato una sorta di benvenuto nella testa.

- A tuo rischio e pericolo, Diane. Qui il caffe’ fa schifo. –

- Sempre meglio di quello che mi ostino a bere a casa! Andiamo! –

Faith non si scomodo’ nemmeno a pensarci su ancora, e si richiuse alle spalle la porta dello studio ed ogni possibile dubbio.




Capitolo V


L’uomo apri’ gli occhi, ritrovandosi a fissare l’oscuro coperchio di legno di una bara.

La prima volta che l’aveva fatto il suo primo ed unico impulso era stato quello di gridare, e gridare fino a quando avesse avuto aria nei polmoni. L’assurda vicinanza della sua testa a quella superficie senza uscite l’aveva quasi fatto impazzire, portando la claustrofobia a livelli insopportabili.

Si era ritrovato a battere disperatamente i pugni contro le pareti liscie, a sbattere la testa contro il cuscino di velluto e pizzo e a slanciare le lunghe gambe contro il legno freddo del coperchio.

Non aveva ottenuto altro risultato che l’eco delle sue urla disperate a rimbombargli nelle orecchie.

Allora aveva fatto cio’ che ogni uomo fa’ quando si trova in una situazione piu’ che spiacevole ma non e’ ancora impazzito.

Aveva riflettuto.

Cos’era, dov’era, come poteva uscirne e quali erano i reali pericoli che correva.

Si era sforzato di rilassarsi, finche’ persino il tremore alle mani non era cessato del tutto e lacrime nervose non avevano smesso di scorrergli sulle guance.

Per un attimo la spiacevole sensazione di essere in trappola lo fece sobbalzare. Ma poi, pensando lucidamente, si rese conto della sensazione di protezione che inconsciamente ricavava dal restare steso in quel nido di pizzi e legno.

Dopo il primo attimo di smarrimento, una calda sensazione di casa, di protezione, si era insinuata in lui. Con occhi nuovi era riuscito a fendere un buio che sembrava impenetrabile ed aveva notato una piccola fessura sul lato sinistro del coperchio, da cui non entrava luce ma aria.

Aveva sorriso, tendendo i sensi, ed aveva scoperto che restando fuori dal mondo, chiuso in quella scatola di legno, per la prima volta poteva davvero sentire il mondo sopra di se’. Era rimasto ipnotizzato, ascoltando i rumori di passi di uomini che si trovavano dall’altra parte della cittadina, aveva sentito distintamente discorsi che nessun orecchio umano avrebbe potuto sentire da dove si trovava.

Ora, fissando l’immobilita’ sinistra del legno sopra la sua testa, il vampiro sorrise soddisfatto, pensando a quanto sia utile riflettere anche quando si e’ ad un passo dalla follia.

Era quello che doveva fare lui, in quel momento.

Doveva riflettere, e riflettere attentamente.

Qualcosa dentro di lui, nelle sue profondita’, si era mosso, segno inequivocabile che qualcosa stava per iniziare.

I suoi occhi divennero ghiaccio pensando a cosa stava per succedere.

Ed allora non pote’ fare a meno di ricordare. I giorni, le notti, il sangue, gli occhi di una splendida ragazza fissi nei suoi, dapprima speranzosi.

Poi spauriti.

Poi umidi.

Poi disperati.

Infine folli.

Le mani tremanti di una bambina alla quale non era stato permesso crescere.

E poi quella sera.

Il fuoco, la paura, le lacrime.

La sua spada che passava attraverso un’essere candido come la neve senza nemmeno scalfirlo.

Le sue stesse urla quando aveva capito che, qualunque cosa avesse fatto, quella era la fine di tutto.

Il suo sangue che si spargeva sul pavimento e sfiorava i capelli di una ragazza che fissava con occhi muti il soffitto.

La patina che era scesa sui suoi occhi quando quell’essere gli si era avvicinato ed aveva le labbra sporche di rosso.

La sua sorpresa quando quell’uomo dalla pelle di latte l’aveva guardato e non l’aveva ucciso.

La sua incredulita’ quando aveva guardato per la prima volta dentro quegli occhi e aveva visto cio’ che contenevano.

Niente.

Quegli occhi nemmeno mille anni sarebbero riusciti a farglieli dimenticare.

Quegli occhi che restavano gelidi ed indifferenti mentre...

Scosse forte la testa, li’ nella sua bara, ed il ricordo sguscio’ via dal suo cervello, lasciandosi dietro una sola, terribile immagine.

Si mosse impercettibilmente, ascoltando il fruscio delicato che il pizzo produceva a contatto con il suo vestito di velluto nero.

Un lampeggiare sinistro gli illumino’ lo sguardo, ed il coperchio della bara ruoto’ lentamente, fino a quando l’apertura non fu sufficiente.

Si alzo’ a sedere ed attese.

Il vento, come ogni sera, volo’ a spazzare la cappella.

L’uomo chiuse gli occhi, tendendo all’infinito i sensi, cercando di percepire il piu’ piccolo spostamento d’aria sulla sua pelle.

La folata di vento smosse la fiamma di due candele accanto a lui, ma il suo pallido viso non senti’ altro che gelo.

Nessuna novita’, dunque, erano ottocento anni che non sentiva piu’ niente.

Con una smorfia rabbiosa si chiese perche’ mai ad ogni risveglio cercasse spasmodicamente un miracolo che non sarebbe mai avvenuto.

Un grumo gelido gli si rimesto’ nello stomaco, e lui l’ignoro’, come faceva ogni sera da ottocento anni.

La luce soffusa delle candele illumino’ la sua pallida figura mentre scavalcava la bara con un balzo, facendo frusciare il mantello nero.

Il suo sguardo vago’ per la piccola cappella circolare, guardando senza interesse cose che restavano immutate nei secoli esattamente come lui.

Da una finestra si vedeva sparire l’ultimo riverbero di tramonto con una reticenza che aveva in se’ qualcosa di malinconico.

L’uomo guardo’ le prime stelle accendersi coraggiosamente nel cielo senza il minimo interesse.

Non spero’ in una stella cedente.

Non aveva nessun desiderio da esprimere.

Non ne aveva piu’ da secoli.

Fu con la stessa gelida indifferenza che i suoi occhi azzurri si posarono sulla ragazza incatenata al muro, che gemette debolmente nel sentire quello sguardo su di se’.

Guardandola, il vampiro si disse che non sapeva nemmeno come si chiamava.

Sbatte’ le palpebre, e si rese conto che non gli importava.

C’era ben poco che gli importasse, dopotutto.

Si avvicino’ alla ragazza, pero’, e le sollevo’ il mento perche’ potesse guardarla negli occhi.

Aveva occhi color del grano, limpidi e spaventati. Cerco’ coraggiosamente di reggere lo sguardo gelido del vampiro ma, inevitabilmente, dopo qualche istante abbasso’ gli occhi, vinta da quel ghiaccio che non poteva essere sciolto.

Non e’ lei, penso’ rabbiosamente il vampiro, sospirando.

La donna che stava cercando avrebbe potuto reggere il suo sguardo.

Questa ragazza a malapena era riuscita a guardarlo negli occhi.

Scosse la testa, mentre qualche lacrima rigava il viso della giovane donna.

- Ma cosa vuoi da me? -, gli chiese, in lacrime.

L’uomo abbasso’ gli occhi, guardando quella patetica figura tremante che si rannicchiava contro il muro, sperando forse di esserne inghiottita.

Non voleva nulla, da lei.

Non voleva nulla da nessuno.

Le porse una mano, senza farle sentire la sua voce.

La giovane guardo’ quella mano pallida, su cui si indovinavano le vene sotto uno strato di pelle simile a pergamena.

Eppure era una bella mano.

Timorosamente, lascio’ che l’aiutasse a rialzarsi, anche se non era affatto sicura che le sua gambe avrebbero retto.

Il vampiro la guardo’, soppesando ogni particolare di quel viso spaventato.

Non era bella, concluse infine, ma irradiava un fascino sottile.

Ovviamente questo non la rendeva esattamente desiderabile.

Non poteva reggere il confronto con il ricordo perfetto di lei...non era come...

Scosse forte la testa, come volendo scacciare un pensiero indesiderato, e punto’ i suoi gelidi occhi azzurri sulla ragazza che tremava incerta accanto a lui.

La vide osservarlo attentamente, quasi quanto aveva fatto lui, ed i suoi occhi nocciola si posarono su una piccola cicatrice sul sopracciglio destro che, invece di sminuire il suo fascino, lo aumentava a dismisura.

Di nuovo lo stuzzico’ il pensiero di poco prima. Non sapeva nemmeno come si chiamasse.

Le passo’ una mano sul viso, avvertendo appena l’umido delle lacrime a contatto con la sua pelle.

- Cosa vuoi da me? -, ripete’ nuovamente la ragazza, in un sospiro impaurito.

Il vampiro le sorrise. I suoi occhi rimasero immutati, ma le sue labbra si stirarono leggermente.

Quella che ad un osservatore piu’ attento sarebbe parsa una smorfia curiosa, alla ragazza sembro’ esattamente un sorriso.

- Come ti chiami? –

La ragazza sussulto’ nel sentire la voce del vampiro.

Sembrava il frusciare del vento fra le foglie. Ebbe l’impressione che se l’uomo avesse urlato, il suo grido sarebbe stato gelido e tagliente come la fredda brezza invernale.

Degluti’.

Mentre ancora il vampiro restava assolutamente immobile, in attesa della risposta alla sua domanda.

- Anne. -, disse piano la ragazza. – Mi chiamo Anne. –

Nessun segno esterno di reazione a quel nome.

Per quell’uomo ogni nome era solo un suono privo di importanza.

Erano lontani i tempi in cui quel pugno di lettere erano state sensazioni, e non la voce sterile di una donna spaventata.

Eppure aveva sempre bisogno di saperlo.

Come se fosse un ultimo, piccolo segno di misericordia, o solo per scrivere quella manciata di lettere sull’epitaffio di una tomba.

Un atto dovuto, insomma.

Il vampiro sospiro’, pensando che per quella ragazza non ci sarebbe stato nessun epitaffio tombale.

E nemmeno una tomba.

Solo l’oscurita’ di uno stanzino.

Le prese il viso fra le mani, guardando il volto pallido e tremante della ragazza con qualcosa di simile al rammarico.

- Mi dispiace, Anne. –

La ragazza spalanco’ gli occhi, ma il vampiro non pote’ vederli. Affondo’ i denti nel collo della giovane e senti’ un fiotto di sangue caldo inondargli la gola.

Come ogni volta, qualcosa di simile alla disperazione deformo’ i suoi lineamenti, ma non gli impedi’ di continuare a bere.

Senti’ la ragazza gemere ed abbandonarsi contro di lui, esausta.

Il sangue passava dalla sua gola a lui, eppure non provo’ nessun genere di eccitazione, nessuna esaltazione da cacciatore, nessun fremito lungo la spina dorsale.

Il sangue lo saziava, ma non provava alcun piacere nel prenderlo.

Non provava nessun piacere nell’uccidere.

Non provava piacere in niente, tranne, forse, nel dormire nella comoda intimita’ della sua bara, tra i pizzi ed i velluti di cui conosceva l’odore caldo e penetrante.

Dormire era l’unico modo per non pensare.

Al passato, al presente, ma, soprattutto, al futuro.

Mentre beveva passarono davanti ai suoi occhi ottocento anni di ragazze dissanguate dalla sua bramosia, esattamente come la piccola Anne tra le sue braccia.

E saettarono davanti ai suoi occhi anche frammenti contorti di quello che la sua vita avrebbe continuato ad essere per altri ottocento anni, e poi per altri ottocento e per sempre.

Aveva l’eternita’ davanti, e nessun interesse a viverla.

Era solo un’inutile certezza per chi, di certezze, ne aveva fin troppe.

L’uomo passa la vita a rincorrere le certezze e, quando le ha, scopre che era molto meglio restare nel dubbio...

Il cuore della ragazze batte’ disperatamente contro il suo petto e, dopo un ultimo, disperato balzo, tacque.

Il vampiro lascio’ scivolare il corpo esanime sul pavimento freddo, indifferente come la luna che sbirciava pallida e schiva dalla finestra.

Qualcosa si torse in lui, qualcosa di quasi doloroso, se gli fosse stato concesso di provare dolore, ed allora seppe con rinnovata intensita’ che c’era solo un motivo per il quale continuare a strisciare nella nera eternita’.

Una ragazza.

Una ragazza che non avrebbe abbassato gli occhi quando lui vi avrebbe posto i suoi dentro.

Una ragazza ed una vendetta che aspettava da ottocento anni.




Capitolo VI


Faith estrasse dalla borsetta un mazzo di chiavi, prendendo tra il pollice e l’indice la piu’ piccola.

Guardo’ indecisa la serratura di casa e decise che era la chiave giusta.

Fece un giro, sperando ardentemente che non decidesse d’incastrarsi e, quando continuo’ a girare senza problemi, sospiro’ di sollievo.

Quando senti’ il familiare scatto metallico tiro’ versi di lei la porta e poi la spinse in avanti, aprendola sul piccolo vestibolo spoglio del suo appartamento.

Entro’, richiudendosi lentamente la porta alle spalle e fece nuovamente girare due volte la chiave nella serratura.

Accese la luce e rimase per un istante ad osservare impietrita davanti a se’, come se temesse che qualche figura di uomo dai capelli corvini (e quegli occhi...), potesse improvvisamente materializzarsi davanti ai suoi occhi, come d’altronde le era gia’ successo.

Si riscosse, massaggiandosi distrattamente la fronte.

- Ho davvero bisogno di una vacanza. -, ripete’, come se quella frase fosse un mantra protettivo.

Si avvio’ verso la camera da letto, lanciando il leggero cappotto su una poltrona in soggiorno.

Entro’ nella sua stanza, e la trovo’ esattamente come l’aveva lasciata.

Fu un sollievo solo per meta’.

Era un disastro.

Non era mai stata una ragazza ordinata, ma quel macello mise i brividi persino a lei.

C’erano fogli e post-it sparsi su quasi tutta la superficie del letto, biancheria appesa alla lampada al neon accanto al comodino e sul comodino i resti della colazione di due giorni prima.

Un grosso peluche che un tempo rappresentava un enorme gattone viola, ora solo una forma senza baffi e senza naso, la fissava con due occhioni liquidi da una poltroncina gonfiabile accanto alla finestra.

Faith lo prese e, stringendoselo al seno, sprofondo’ nella poltrona con un sospiro pieno di sconforto.

Giro’ il gattone verso di lei e guardo’ dentro le grosse pietre nere che aveva negli occhi.

Sorrise, pensando che somigliavano in maniera quasi spaventosa agli occhi di Robert.

Non sapeva se fosse tenero come il suo peluche, ma era sicura almeno di una cosa.

Aveva gli occhi dolci di un gattino.

Lancio’ in aria il pupazzo e lo riprese al volo, di nuovo di buon umore.

Fisso’ la palla di pelo, sfiorando con un dito lo spazio vuoto dove un tempo c’era stato un naso di plastica.

- Ok, Neville. Mettiamoci al lavoro! –

Si alzo’, lasciando cadere il gattone di peluche sulla poltrona, con la testolina leggermente reclinata da un lato in una posa quasi comica.

Sorrise di nuovo e comincio’ a mettere un po’ d’ordine, se non nella sua vita, almeno nella sua stanza da letto.

Getto’ tutti i post-it inutili nel cestino della carta straccia e la stessa fine fecero i suoi appunti, alcuni vecchi addirittura di mesi.

Con una smorfietta di disgusto si chiese com’era possibile aver dormito in quella pattumiera per tutto quel tempo.

Rispose a se’ stessa con un’alzatina di spalle e con una piroetta lancio’ un reggiseno impigliato alla tastiera del letto nel cestino della biancheria sporca.

Quando il letto fu piu’ o meno a posto passo’ al comodino, e porto’ una tazza ed una caraffa ancora piena per meta’ di uno schifoso liquido semi-trasparente che un tempo era stato latte, nella sua vecchia e funzionale cucina, dove lascio’ cadere il tutto nel lavandino, fregandosi poi le mani come se non sopportasse d’aver toccato quella roba.

Soddisfatta del suo lavoro, torno’ trottando allegramente in camera da letto.

Proprio in quel momento, il suo telefono prese a squillare allegramente, ed il led rosso che segnalava la chiamata in arrivo s’illumino’ con decisione.

Faith aggrotto’ la fronte, chiedendosi chi potesse essere a quell’ora.

Fece spallucce ed alzo’ il piccolo cordless, portandoselo titubante all’orecchio.

- Pronto? –

- Oggi non mi hai parlato del tuo cliente scrittore... –

Faith sorrise e scosse la testa, ascoltando la risatina maliziosa di Diane, dall’altra parte del telefono.

- Devo dedurne che sia un gran bel tipo... –

La ragazza si lascio’ cadere sulla poltroncina gonfiabile, carezzando distrattamente la testa pelosa di Neville.

- E’ uno qualunque. Non te ne ho parlato perche’ non mi sembrava importante... –

- Vuoi scherzare? Hai la piu’ pallida idea di chi sia Robert Breackman? –

- Come sai il suo...? –

- Me l’ha detto Vlad. E’ stato tutto il giorno in giro a vantarsi di avere Breackman tra i suoi clienti. –

Faith alzo’ gli occhi al cielo, pensando al suo capo ed alle sue manie di grandezza.

- Dev’essere piuttosto famoso questo scrittore, per rendere cosi’ felice Vlad... –

- Faith...sul serio non sai nemmeno lontanamente chi sia Robert Breackman? -, la voce di Diane aveva assunto un tono quasi di rimprovero.

Faith si strinse nelle spalle.

- So solo che per vivere scrive romanzi... –

- Beh, dovresti guardare di piu’ la TV, o leggere qualche rivista! Robert Breackman e’ il piu’ popolare scrittore inglese, i suoi romanzi sono tradotti in tutto il mondo e lui e’ pieno di soldi...ma cosa vuole da te, esattamente? Il solito ritratto? –

Stringendo il telefono tra l’orecchio e la spalla, Faith si sfilo’ velocemente le scarpe, lanciandole svogliatamente in un angolo della stanza. Poi rispose.

- Non sapevo che fosse uno tanto importante...mi era sembrato un tipo qualunque. Insiste perche’ sia io a curare la copertina del suo prossimo romanzo. Me l’ha dato da leggere, ma io proprio... –

- Ti ha dato da leggere un romanzo in anteprima mondiale?? -, la interruppe Diane, eccitata.

- Si’. E cosi’... –

- E vuole che curi la copertina di questo romanzo? –, si senti’ nuovamente interrotta da Diane.

- Si’, ma... –

- Santo Cielo, Faith, sei la ragazza piu’ fortunata di tutta la California! Hai idea di quanta pubblicita’ positiva puo’ farti uno come lui? Ci sara’ gente che comprera’ quel libro e guardera’ la tua copertina dal Giappone all’Italia! –

- Ok, ma... –

- Non ci sono ma che tengano! Devi assolutamente accettare questo lavoro! –

Faith sorrise all’apparecchio che stringeva nella mano destra e scosse impercettibilmente la testa, facendo ondeggiare sulle spalle i suoi bei capelli rossi.

- Di’ la verita’, Di, te l’ha chiesto Vlad di telefonarmi, giusto? –

Un momento di incertezza dall’altro capo del telefono, poi l’inconfondibile risata di Diane soppresse le scariche di elettricita’ statica.

- Certo che no! Perche’ avrebbe dovuto? –

- Perche’ io non avevo intenzione di accettare quel lavoro. –

- Ma adesso sei tentata di accettarlo, vero? -, la soddisfazione trapelava libera dalle parole di Diane.

Faith rise.

- Siete diabolici. D’accordo, accettero’ la proposta di Robert. –

Senti’ distintamente il gridolino di gioia dell’amica e sorrise al pensiero di lei che saltellava allegramente per la stanza, felice di aver fatto un favore a Vladimir Trervezkov.

Poi il gridolino si trasformo’ lentamente, fino ad assumere un vago tono malizioso.

- Di’ un po’, e’ carino? –

Gli occhi verdi di Faith si spalancarono, e le sue guance avvamparono di scarlatto, prima che riuscisse a rispondere.

- Beh...sembra proprio di si’...e’ gradevole... –

- Gradevole sta forse per ‘gran figo’? –

- Gradevole sta per gradevole. –

La rossa sorrise, pensando che stavolta non le avrebbe dato soddisfazioni. Difatti Diane non insiste’, voltando l’argomento in modo da non allontanarsi troppo dal bel Robert Breackman.

- Che hai deciso per la festa? Ci vieni? –

- Non lo so... –

- Vlad ti ammazza se non vieni. Lo sai? –

Faith si alzo’ con un balzo dalla poltrona, ridendo.

- E’ incredibile, quello schizzato ti ha chiesto anche di convincermi a venire alla festa?? –

- Beh, no...mi ha solo chiesto di dirti che se non ti presenterai potrebbe ammazzarti. Ha detto anche che viene anche Robert. –

- Lo so. –

Un istante di silenzio. Un irritante ronzio fischio’ nelle orecchie di Faith, e lei allontano’ per un secondo il telefono dall’orecchio.

- Come lo sai? –

- Me lo ha detto lui. E’ venuto nel mio studio e me l’ha detto... –

Faith poteva quasi vedere la sua amica distesa sul letto mentre s’attorceva curiosa una ciocca di capelli biondi. Sapeva gia’ quale sarebbe stata la sua prossima domanda.

- E cos’altro t’ha detto? –

- Mi ha allungato il suo biglietto da visita e mi ha detto che avremmo potuto vederci alla festa. Tutto qui. –

- E tu cosa gli hai risposto? –

Con il tono piu’ casuale che riusci’ a trovare, Faith rispose

- Gli ho detto che sarei venuta. –

- Quindi vieni? –

- Non lo so. –

- Come non lo sai? Gli hai detto che ci vai! –

Faith sospiro’, togliendo con una sola mano il pesante piumone invernale dal letto.

- Si’, ma non so ancora se ci vado. Non ne ho voglia... –

Diane si prese un secondo di pausa, poi riparti’ spedita all’attacco.

- Faith, hai almeno due motivi validi per venire: prima di tutto, se non vieni il tuo capo ti fara’ il culo a strisce, e poi c’e’ Robert Breackman! Quando ti ricapita un’occasione come questa? –

Un secondo di silenzio.

- E va bene. Mi hai convinta. –

- Ah! Lo sapevo! Vlad ne sara’ entusiasta! –

Faith sorrise sarcasticamente, grata che il telefono non permettesse alle due di vedersi.

A Diane non piacevano i suoi sorrisi forzati.

- Certo che lo sara’...Vlad e’ sempre entusiasta quando riesce ad incastrarmi...quasi quanto lo sono io quando riesco ad evitare le sue feste... –

Diane non sembro’ accorgersi del suo tono scocciato.

O, molto piu’ probabilmente, lo ignoro’.

- D’accordo, ci vediamo domani sera, allora! E non preoccuparti, tesoro...ti divertirai! –

- Certo, come no...ci vediamo domani, Di... –

La comunicazione s’interruppe con un bip metallico, e Faith lascio’ andare un lungo sospiro esasperato.

Odiava le feste di Vlad.

Certe volte riusciva ad odiare persino Vlad.

Soprattutto odiava quando si metteva in combutta con la sua migliore amica per convincerla a fare tutto quello che non avrebbe mai voluto fare.

Come accettare quel lavoro per quello scrittore...

O andare ad una festa di cui avrebbe volentieri fatto a meno.

- Oh, Neville, devo proprio imparare a dire di no! -, sussurro’ afferrando l’enorme gattone di peluche dalla poltrona.

Con quella calda presenza pelosa stretta contro il seno, si accoccolo’ sotto le coperte.

Il suo ultimo pensiero prima del sonno fu che aveva una grande, inspiegabile voglia di uscire.




Capitolo VII


Era veloce.

Maledettamente veloce.

Cosi’ veloce che Raphael nemmeno riusciva a vedere il suo braccio muoversi e la spada che scendeva su di lui cosi’ rapida da apparire solo un vago, irreale scintillio.

Un clagore metallico scoppio’ furioso quando riusci’ a deviare il colpo del suo avversario ad una spanna dal suo viso.

Per il contraccolpo ricadde all’indietro, battendo contro il duro pavimento di pietra della sala grande del castello.

Mantenne salda la mano sulla spada, e fece leva sul braccio sinistro per rialzarsi, approfittando del fatto che il suo avversario stesse riprendendo fiato dopo lo spaventoso colpo.

Una fitta dolorosa si propago’ come una scarica nel suo corpo, partendo dal braccio destro fino ad arrivare al collo.

Ignorandolo ostentatamente, Raphael si rimise in piedi. I capelli neri si spandevano come una nube sulla sua testa, ricadendogli a riccioli scomposti sul viso stravolto.

Ansimando, si mosse verso destra. Nello stesso istante, l’uomo dal viso coperto da un pesante elmo di ferro si sposto’ verso la sua sinistra.

Nonostante l’armatura pesante l’impacciasse nei movimenti, l’uomo davanti a lui si muoveva con straordinaria eleganza, al contrario di Raphael, che avanzava quasi barcollando sotto il peso di tutta quella bardatura di ferro.

I suoi occhi azzurri seguirono la figura del suo avversario mentre giravano l’uno intorno all’altro come due avvoltoi.

Raphael non riusciva a vedere i suoi occhi.

Ma sapeva di che colore erano.

Rossi.

Come il sangue.

Come l’odio.

Ed era quasi un sollievo non poterli vedere.

Si concentro’ sulla spada dell’altro, lasciata pendere mollemente lungo un fianco come se fosse stato troppo stanco per utilizzarla nuovamente.

Con un grido, Raphael si getto’ contro il suo sfidante, dicendo a se’ stesso che era impossibile che quello riuscisse a portare la spada in alto abbastanza velocemente da parare il suo colpo.

E infatti l’uomo non provo’ nemmeno ad alzare la spada.

Invece scarto’ lateralmente con una velocita’ quasi disumana, sbilanciando Raphael. La sua spada colpi’ l’aria nello stesso istante in cui l’elsa della spada del suo avversario cozzava con forza contro la sua armatura, all’altezza dello sterno, procurandogli un dolore cosi’ intenso da mozzargli il respiro.

Raphael ricadde pesantemente sulla pietra del pavimento, lottando per ogni nuova boccata d’aria.

La spada gli cadde dalle mani.

Chiuse gli occhi, avvertendo distintamente il freddo metallo della spada dell’altro puntata alla sua gola, come se volesse affondare da un momento all’altro.

Mormorando a mezza voce un’imprecazione furiosa, si rese conto di aver perso.

Di nuovo.

Non era stato abbastanza astuto.

Non era stato abbastanza veloce.

Non era stato abbastanza forte.

E Ser Lionel l’aveva battuto ancora una volta.

Ancora una volta ridicolizzato da un bastardo dagli occhi rossi.

Colpi’ la lastra di pietra sotto di lui con un pugno, facendo rimbombare tra le volte del soffitto un basso suono metallico.

L’uomo ritto dinanzi a lui si sfilo’ l’elmo con un unico rapido gesto della mano libera.

Una cascata di capelli lisci, lucenti e neri come l’ebano gli ricadde lungo la schiena, donandogli quell’aspetto sinistro accentuato dai suoi occhi infuocati.

Raphael lo scruto’ con la solita diffidenza, e rifiuto’ con un gesto stizzoso la mano che gli veniva offerta.

Faticosamente si rimise in piedi, ansimando per il duello ed il pulsante dolore allo sterno.

- Bella sfida. -, la voce atona di Lionel rieccheggio’ come un’eco sinistra tra le pareti della stanza quasi buia.

- Sara’ stata una bella sfida quando saro’ riuscito a battervi, Ser Lionel. -, ribatte’ a mezza voce Raphael, lanciando all’altro uno sguardo torvo.

- Allora prenderete parte solo a sfide poco piu’ che mediocri, Ser Raphael... -, sorrise Lionel, lasciando scintillare nella luce quasi inesistente due file di denti bianchissimi.

Prima che Raphael riuscisse a trovare qualcosa con cui controbattere, la porta della grande sala si spalanco’, ed una splendida ragazza dai capelli corvini irruppe all’interno urlando di gioia.

Raphael conosceva bene quella ragazza.

E conosceva bene il motivo di tanta gioia.

Senza badare al cavaliere ritto davanti a lui, lei gli butto’ le braccia al collo, ridendo.

- Raphael, oh Raphael! E’ caduta la prima neve, guarda! La prima neve! –

Siren amava la neve.

Ed ogni anno sembrava sempre che la vedesse per la prima volta.

Ogni anno i corridoi del castello risuonavano della sua allegra risata, e tutti sapevano che l’inverno era giunto.

Quel giorno era il tredici novembre. Ed era appena caduta la prima neve.

- E’ meraviglioso, bambina. Ma ti prego di frenare la tua esuberanza, o finirai per stritolarmi! –

Senza smettere un attimo di ridere, la bellissima dama dagli incantevoli occhi viola lascio’ andare il collo del giovane.

Solo allora sembro’ accorgersi delle armature e dalla nota ansimante nel respiro di Raphael, ed il suo sguardo si adombro’.

- Hai duellato, Raphael? –

Il giovane cavaliere sorrise rassicurante, lasciando scivolare la sua mano tra i lunghi capelli della ragazza.

- Non preoccuparti, piccola mia, e’ tutto a posto. –

Siren annui’, ma un lampo di preoccupazione rimase a brillare nelle profondita’ dei suoi splendidi occhi.

Si volto’ verso Ser Lionel con un amabile sorriso sulle labbra rosse.

- E posso sapere il nome di colui che ha battuto Ser Raphael in duello? –

Gli occhi rossi di Ser Lionel lampeggiarono di interesse, un sentimento che ben raramente Raphael aveva visto in quello sguardo.

In realta’, ben raramente Raphael aveva scorto l’ombra di un sentimento in quello sguardo.

Un brivido gli corse lungo la schiena, ma non vi bado’.

- E come potete essere certa che sia stato lui lo sconfitto, damoiselle? –

Siren sorrise con noncuranza, lasciando che l’uomo potesse vedere l’intelligenza brillare nei suoi occhi dal colore quasi impossibile.

- La vostra corazza e’ intatta, Ser, e voi portate la spada nella vostra mano. L’armatura di Ser Raphael e’ ammaccata all’altezza del cuore, e la spada e’ li’, lontana, persa durante il duello certamente. Che il vincitore siate voi e’ piu’ che mai scontato, monsieur. –

Rapahel scosse la testa, impressionato dalle capacita’ d’osservazione di Siren, mentre il viso impenetrabile di Lionel non mostrava nessuna espressione.

Siren attese con gli occhi piantati negli occhi di quest’ultimo, finche’ un sorriso non comparve sulle labbra dell’uomo, e questi si chino’ a sfiorarle una mano con le labbra.

- Ser Lionel. Enchanter. Siete una donna molto intelligente, damoiselle...? –

- Siren. Siren de Chateau Tourriel. –

Raphael passo’ un braccio dietro le spalle della giovane dama, come a sottolinearne la proprieta’.

Lionel non sembro’ nemmeno farci caso, ed i suoi occhi non abbandonarono un solo istante quelli di Siren.

C’era una sola cosa positiva, nell’arrivo di Ser Lionel a Chateau Tourriel.

Da quando lui aveva messo piede nel castello, presentandosi e venendo riconosciuto come figlio di un parente del Signore della Magione, Siren non era stata piu’ tormentata dai suoi attacchi d’ansia, non aveva piu’ visto ombre dietro le finestre e non aveva piu’ tentato di strappare polvere dalle ali delle farfalle.

Da quando quel cavaliere freddo come l’inverno che l’aveva portato era giunto li’, Siren era tornata la ragazza dolce e gentile di sempre, perfettamente sana, e sembrava non ricordare nemmeno piu’ gli inquietanti giorni in cui farneticava di voci che le sussurravano all’orecchio e figure umane che la spiavano da dietro ogni finestra.

Ma questa era una coincidenza che non permetteva a Raphael di prendere in simpatia Ser Lionel.

Aveva quegli occhi...un uomo che porta in giro occhi del genere non puo’ portarsi dietro nulla di buono.

Eppure ora, negli occhi viola di Siren ed in quelli rossi di Lionel, Raphael scorse sconcertato l’interesse.

Era cosi’ immerso nelle sue congetture che nemmeno s’accorse di Siren che gli rivolgeva una domanda.

- Raphael? Ti senti bene? Raphael? –

Il Cavaliere si riscosse, scuotendo violentemente la testa.

Guardo’ i begli occhi di Siren e sorrise.

- Si’, sto bene...sono sprofondato nei miei pensieri. Mi hai chiesto qualcosa? –

- Stavo dicendo a Ser Lionel che la sua presenza al ballo di domani sera sarebbe piu’ che gradita. Ti stavo chiedendo se sei d’accordo. –

Non era affatto d’accordo.

Aveva dovuto fare fuoco e fiamme per fare in modo che Ser Lionel non venisse invitato.

Pensava di potersi risparmiare la vista dei suoi terribili occhi per almeno qualche ora.

Ma non avrebbe mai negato niente a Siren, cosi’ sospiro’ e disse cio’ che doveva dire.

- Ma certamente, Ser Lionel. Sarete il benvenuto, domani sera. A meno che non abbiate altri impegni. –

L’ultimo barlume di speranza si spense negli occhi di Raphael quando un sorriso sinistro illumino’ il viso di Lionel, facendo brillare il rosso acceso dei suoi occhi.

Possibile che Siren non li trovasse orribili?

- Nessun impegno potrebbe impedirmi di prendere parte al ballo di domani. –

Siren sorrise, e quel sorriso sarebbe potuto bastare ad illuminare l’interno castello, penso’ Raphael, sorridendo a sua volta.

La ragazza si avvicino’ alle tende, col preciso intento di spostarle per permettere ai due cavalieri ed a lei stessa di guardare lo splendido spettacolo della prima neve.

La voce imperiosa di Ser Lionel la blocco’, un attimo prima che avesse potuto farlo Raphael.

- Vi sarei grato se non apriste le finestre, domoiselle. –

Siren aggrotto’ la fronte, fissando con curiosita’ l’espressione piatta di Lionel.

Quando si convinse che da lui non sarebbe arrivata nessuna spiegazione, volse la sua attenzione sull’altro.

- Perche’ mai, se mi e’ concesso chiederlo? –

Raphael guardo’ Ser Lionel. L’uomo annui’ silenziosamente, ma non parlo’.

- Ser Lionel soffre di una grave malattia della pelle, per la quale la luce del giorno potrebbe essergli fatale. –

- Oh...e’ una cosa orribile, ne sono immensamente dispiaciuta. –

Ancora una volta, Ser Lionel non parlo’, limitandosi ad un gesto della mano che poteva voler dire tutto il mondo o niente.

Siren gli si avvicino’, ignorando l’espressione risentita di Raphael.

- Cosi’ voi non potete esporvi alla luce del sole? –

Con un blando sospiro, Ser Lionel ruppe il suo silenzio.

- Purtroppo no. Tre anni or sono mi e’ stata diagnosticata una grave malattia proveniente dall’Oriente di cui si sa ancora troppo poco per poter anche solo sperare in una cura. –

Siren annui’, fissando Ser Lionel con il suo solito sguardo indagatore che aveva fatto indietreggiare piu’ di un uomo e che su quell’uomo non ebbe nessun effetto se non uno sguardo ancor piu’ profondo. Ma lei era una donna forte.

Come la voleva suo padre.

Come la voleva Raphael.

Come la volevano tutti.

E non abbasso’ lo sguardo.

Invece disse senza sorridere

- E’ strano. –

- Cosa? -, le chiese gentilmente l’uomo.

- Non sembrate malato. –

- Siren! -, si affretto’ Raphael a richiamare la ragazza.

Lei non si volto’ nemmeno, quando parlo’ di nuovo. I suoi occhi restarono piantati in quelli di Ser Lionel, come se volesse leggervi dentro.

- Non intendevo mancarle di rispetto, Ser. Sono stata sconveniente? –

Ser Lionel le sorrise, e quel sorriso provoco’ a Raphael una fitta allo stomaco.

Qualcosa di simile alla paura.

Perche’ quello era il sorriso di serpente velenoso.

- Niente affatto, damoiselle. E’ un piacere parlare con una donna che dice cio’ che pensa. Se ne trovano davvero poche, di questi tempi. –

Siren chino’ la testa in un rispettoso inchino che fungeva insieme da scusa per le sue parole di poco prima e da ringraziamento per quelle appena pronunciate da Ser Lionel.

- Sono lieto che nonostante la malattia voi mi troviate alla pari di un uomo sano. Spero di potervi rivedere al ballo, domani sera. –

- Senz’altro, Cavaliere. Uscendo diro’ alla servitu’ di accostare le tende al vostro passaggio, Ser. Vogliate scusarci. Raphael? Dobbiamo andare. –

Congedandosi con un cenno del capo, Siren e Raphael lasciarono la stanza buia per ritrovarsi nella luce morbida del corridoio, dove un raggio di sole tagliava a meta’ il pavimento, e sembrava cosi’ vivido da poterlo toccare.

I due giovani camminarono per un tratto in silenzio, con una sincronia di movimenti che pareva essere stata studiata.

Passarono accanto un’enorme finestra che dava su un cortile gia’ coperto di neve per meta’. Siren si fermo’ a contemplare lo spettacolo dell’inverno, e nuovamente parlo’ senza voltarsi. Ma nella sua voce aleggiava un sorriso.

- Mi piace. –

Raphael le si affianco’. Ma, quando parlo’, la sua voce era seccata.

- A me no, Siren. A me non piace per niente. –

- Perche’ ti ha battuto o perche’ mi ha sorriso? –

Per entrambe le cose, penso’. Ma non lo disse.

- No, nessuna delle due. Non mi ispira fiducia. –

Siren continuo’ a guardare fuori, i suoi occhi viola che seguivano le evoluzioni che i fiocchi bianchi compivano nel cielo color piombo.

- Non ti capisco. Se ti ha battuto e’ un bravo Cavaliere. Ed e’ un gentiluomo. Cosa ti infastidisce di lui? –

Raphael si fece silenziosamente la stessa domanda. La risposta era rossa.

Come il sangue.

Come l’odio.

Come il fuoco.

- I suoi occhi. Uno che porta in giro occhi cosi’ non puo’ portare altro che guai. –

Un secondo dopo gli occhi si Siren si posarono su di lui, e per un attimo lui dimentico’ tutto.

Ser Lionel. Il duello. La diffidenza. Il modo in cui le sorrideva.

Per un attimo fu tutto sommerso dal viola perfetto di quegli occhi fissi nei suoi.

- Staremo a vedere. –

Poi si volto’, e, in un soffice rumore di stoffe sovrapposte, si incammino’ lungo il corridoio, fermandosi solo per un istante, per chiedere ad una serva di accostare le tende.




Capitolo VIII


Non sa esattamente dove sta andando.

Sa solo che non e’ importante la meta, ma cio’ che dovra’ fare li’.

Ovunque sia li’.

Una mano prettamente femminile cambia con sicurezza le marce.

Dal finestrino il vento entra sibilando nell’abitacolo.

Lo sguardo della donna vola alle stelle posate alla rinfusa nel cielo.

Da dietro un paio di lenti scure, i suoi occhi seguono la luce di una stella cadente.

Ma non ha desideri da esprimere. Cosi’ resta in silenzio, immobile, mentre il suo piede sinistro si allontana lentamente dall’acceleratore. Con uno stridire di freni, la macchina si ferma.

Non ha importanza dove.

Ne’ quando, ne’ perche’.

La portiera cigola e si apre con uno scatto metallico.

I tacchi delle sue scarpe ticchettano contro la strada asfaltata, mentre, ormai fuori dall’abitacolo, si china sul sedile posteriore per afferrare qualcosa.

Si raddrizza languidamente, facendo sbattere pesantemente la portiera per chiuderla.

Mentre si allontana, la donna sente la rassicurante presenza della pistola contro le dita snelle della sua mano.

Se qualcuno avesse visto la donna correre per i corridoi del castello, certamente l’avrebbe scambiata per uno spettro.

La leggera gonna color lavanda le vorticava attorno alle caviglie ad ogni passo, lasciando intravedere la forma snella delle sue gambe magre.

Non portava la sottoveste. A cosa sarebbe servita, sotto un vestito da notte?

La donna passo’ accanto ad una finestra. Le tende erano accostate, ma lei sapeva perfettamente che fuori il sole non c’era piu’.

Attraverso il tessuto quasi trasparente dei tendaggi riusciva ad intravedere uno scorcio di luna piena, pallida e tonda come il viso di un morto.

Si soffermo’ un istante su quel paesaggio evanescente, mentre il vento gonfiava le tende. Il suono degli schiocchi le ricordo’ vagamente un osso che si spezza.

Si volto’ velocemente e riprese a correre lungo il corridoio, stringendo con piu’ decisione il lungo pugnale che teneva nella mano destra.

Su in Jackson Street non c’e’ nessuno.

Prevedibile, alle tre del mattino.

La donna sposta curiosamente lo sguardo dalle insegne spente alle saracinesche abbassate dei negozi.

Centinaia di finestre la scrutano come occhi nel buio.

I suoi occhi registrano automaticamente due finestre con la luce accesa, circondate da un corollario di luci spente, su per gli imponenti grattacieli o nei piccoli condomini.

La donna avanza lentamente. Non ha fretta.

Nella sua mente vortica la visione dell’eternita’. Sono solo cento metri a separarla dalla sua meta, qualunque essa sia, ma sente che potrebbe anche impiegarci l’eternita’ per coprirli.

Invece ci vogliono solo cinque minuti...e cinque minuti non potrebbero essere forse l’eternita’?

O non potrebbe essere l’eternita’ un’ora? C’e’ qualcuno che ha stabilito quanto debba durare un tempo, per essere eterno?

Chi l’ha vista, davvero, l’eternita’, per poterla riconoscere?

La donna scuote la testa.

Non deve distrarsi.

All’eternita’ pensera’ piu’ tardi.

Rinforza la presa sulla pistola, mentre con dita ferme suona il campanello del numero 1123, Jackson Street.

A volte per trovare una stanza in un castello ci vogliono anni.

La donna svolto’ al secondo corridoio a destra della tredicesima rampa di scale che aveva dovuto salire.

Aveva il respiro affannoso, ma non importava.

Una torcia brillava, appesa al muro, lanciando ombre scure e minacciose lungo le pareti di mattoni crudi.

La donna osservo’ per un istante la fiamma, che saltava e danzava come una ballerina.

Inclino’ di lato la testa, mentre la chiara immagine del fuoco le rimaneva impressa negli occhi.

Li richiuse, sorridendo soprappensiero nel notare che il colore caldo delle fiamme restava sempre li’, un’indistinta macchia rossa nell’oscurita’.

Rossa.

Come il sangue.

Come l’odio.

Rossa.

Scosse la testa, mentre la macchia scompariva lentamente.

Riprese a camminare lungo il corridoio, senza correre, o avrebbe potuto svegliare un servo o, peggio ancora, la persona che stava cercando

Passo’ velocemente in rassegna le stanze, senza trovare quella che cercava.

Maledizione, non era nemmeno li’.

Per trovare una stanza in un castello ci vogliono anni, a volte.

Ma a lei basto’ un’ora.

Svolto’ lungo un altro corridoio, e la stanza che aveva precedentemente segnato le apparve davanti agli occhi.

Nascose il pugnale tra le pieghe della gonna mentre, con mano ferma, bussava alla porta della sua prima vittima.

- Ma chi diavolo e’ a quest’ora? –

Una voce impastata di sonno le arriva attutita da dietro la pesante porta in finto legno.

L’odore della vernice ancora fresca e’ nauseante.

Dei passi risuonano leggeri, lungo qualcosa che sicuramente somigliera’ ad un tappeto.

La porta si apre con lentezza, come se lo stesso gesto di aprirla fosse troppo per l’uomo assonnato che la guarda con un’espressione truce dalla soglia.

La donna si prende il tempo di pensare che e’ davvero un uomo patetico.

Indossa una calzamaglia di cotone rossa e una vestaglia ricamata con motivi floreali che non riesce a chiudere a causa della prominente pancia da bevitore di birra.

Due minuscoli occhi grigi la fissano irati, la bocca storta in una smorfia di disappunto.

Una barba vecchia di almeno una settimana gli chiazza di scuro il viso abbronzato.

Una mano tozza si stringe sulla maniglia della porta, come se stesse facendo uno sforzo immane per non prenderla a pugni.

L’uomo stringe gli occhi, irritato dal suo silenzio, e la donna nota compiaciuta delle profonde rughe attorno ai suoi occhi.

L’eternita’ lavora su di noi con mani mai delicate...

- Beh? Che e’ venuta a fare a casa mia a quest’ora? –

La voce burbera dell’uomo la fa’ sorridere.

Spiana la pistola davanti a se’, fissando con un diabolico piacere il viso dell’uomo stravolgersi dalla paura.

La paura ci rende irriconoscibili persino a noi stessi, pensa.

La voce della donna sembra un’eco lontana.

Qualcosa di non umano.

Qualcosa che viene direttamente dall’eternita’.

- Scusi l’ora. Sono qui per ucciderla. –

Quando non impugna una spada e non indossa la protezione sicura della sua corazze, un Cavaliere vale quasi meno di un servo, in quanto a coraggio.

Anche Ser William.

Non appena aveva scorto il coltello abilmente nascosto tra le piaghe del vestito della donna, anche lui si era comportato come uno stupido vigliacco.

- Che cosa vuoi? -, aveva chiesto, rannicchiandosi contro la tastiera del letto, comunque troppo lontano dalla corda che richiamava l’attenzione della servitu’.

La donna calcolo’ mentalmente la distanza tra quella corda e la mano di Ser William.

Decise che non c’era di che preoccuparsi. Se si fosse mosso in quella direzione, sarebbe morto ancor prima di sentire la fragile sicurezza della corda tra le dita.

- Uccidervi. -, rispose la donna con una voce che non aveva niente a che fare col suo aspetto angelico.

La sua mano rigiro’ lentamente l’impugnatura del pugnale, fino a quando non fu certa di averlo saldamente tra le dita.

Esattamente come la donnetta che era, Ser William comincio’ a gemere forte e a chiamare aiuto.

Ma la donna sapeva che nessuno sarebbe accorso.

Quell’ala del castello era praticamente deserta, quella sera.

Per questo aveva deciso di cominciare da lui.

L’uomo si strinse ancor di piu’ contro la parete, forse nel vano tentativo di passarvi attraverso, e la donna soffoco’ una risata crudele.

- Ascoltate...non c’e’ bisogno del pugnale, davvero! Vi daro’ tutto quello che volete! Terre, soldi...qualunque cosa! Faro’ finta di non aver visto nulla, faro’ finta di essere sordo e cieco, sara’ stato solo un brutto sogno, io vi giuro... –

- Tacete, Ser! -, disse perentoriamente la donna, alzando il pugnale su di lui. – E morite con dignita’, se ve ne rimane. –

- Che cosa? Sta scherzando? Quella e’ una pistola, lei e’...? –

- Mi faccia entrare. Subito, o le sparo qui fuori. Non vorra’ macchiare di sangue questa bella porta, no? –

La donna sente il signor Curtis deglutire a vuoto, alla disperata ricerca di aria, e per un attimo ha paura che gli stia venendo un infarto.

Il che avrebbe reso tutto maledettamente meno divertente.

Spingendo la canna della sua Colt contro il petto dell’uomo lo costringe ad indietreggiare, fino a ritrovarsi nel suo soggiorno.

- Sei solo? –

L’uomo si guarda un attimo intorno, come se non lo sapesse, o come se sperasse che qualcuno potesse miracolosamente apparire davanti a lui e salvarlo.

- Si’. Non c’e’ nessuno. -, dice, mentre rivoli di sudore dall’odore rivoltante gli colavano lungo le guance grassocce.

La donna si guarda intorno per un lungo istante, indecisa se controllare di persona quanto le ha detto l’uomo.

Alla fine decide di credergli.

Osserva l’uomo fissarla con il terrore dipinto nei piccoli occhietti grigi. Le mani gli penzolano scompostamente lungo i fianchi, tremano come foglie al vento.

Come siamo piccoli e stupidi, di fronte alla morte, pensa.

Punta la pistola. Socchiude un occhio per prendere meglio la mira.

Immagina mentalmente il proiettile placcato in ceramica uscire sibilando dalla pistola, portandosi dietro qualche frammento di cotone dal silenziatore. Il volo silenzioso che dura un millesimo di secondo per chi spara e un’eternita’ per colui a cui si spara.

L’eternita’...non deve pensare ancora all’eternita’.

Si concentra sul suo volo immaginario. Il proiettile che trapasse con un leggero pop la stoffa della calzamaglia di cotone, lasciando solo un foro bruciacchiato sulla perfezione del tessuto. Infine la donna immagina la pallottola che passa attraverso la carne. Un bel po’ di carne, a giudicare dalla stazza. Ed il cuore che esplode, senza un suono, niente.

Un piccolissimo fascio di muscoli e sangue che puo’ decidere quando un uomo smette di esistere.

Scuote la testa, la donna. La mira e’ perfetta.

L’uomo batte freneticamente i denti, i suoi occhi dardeggiano per la stanza alla ricerca di una scappatoia e si posano indecisi su una cassaforte a combinazione.

Quando i suoi occhi grigi e stanchi si posano sulla figura della donna, dentro vi e’ una speranza nuova.

- Ok, ascolta. So perche’ sei qui... –

- Ma davvero? –

La voce della donna lo fa sussultare.

L’uomo sa che non puo’ esserci niente di umano in quella voce. I millenni risuonano in quel tono piatto.

Deglutisce a vuoto, nuovamente, rifiutandosi di pensare che potrebbe essere l’ultima volta che lo fa.

- E’ per la cassaforte, giusto? Per il diamante. Ok, va bene. Ti daro’ il diamante. La combinazione e’... –

- Non voglio la combinazione. Sono qui per il castello. –

Gli occhi dell’uomo si riempiono di rinnovato terrore.

Non avrebbe mai immaginato che la sua morte sarebbe stata causata da una cosa cosi’ insignificante.

Una risata isterica fruscia per un attimo tra le sue labbra, e poi si spegne nel vento lieve che scuote le tende alla finestra.

Ancora le tende..., pensa la donna, in un istante, ripensando ad un punto imprecisato dell’eternita’.

Altre tende che schioccavano. Altre vite che finivano.

Un lungo corridoio...un pugnale che scintillava.

- Accendi la luce. –, ordina.

L’uomo annuisce concitatamente, cercando con lo sguardo l’interruttore piu’ vicino.

Lancia uno sguardo interrogativo alla donna, come a chiederle il permesso di muoversi, e lei annuisce.

Barcollando, l’uomo raggiunge l’interruttore, e mentre lo accende, sente la sua stessa voce pregare la donna

- Senti, se e’ per quel castello...beh, ne possiamo parlare. Ci ho ripensato, lui...lui puo’ prenderselo, il castello e tutto quello che vuole! Possiamo farlo subito, tutto! –

La luce li investe in un lampo bianco, illuminandoli come se dietro le finestre ci fosse il sole.

L’uomo si gira verso la donna, ripetendosi mentalmente tutto quello che le avrebbe detto, ripetendosi che ne sarebbe uscito e ne sarebbe uscito vivo.

Ma poi incrocia gli occhi della donna.

Un lampo di terrore piu’ scintillante di qualsiasi luce artificiale gli sfreccia negli occhi. E allora sa che e’ un uomo morto.

- Mi dispiace. -, dice la voce gelida della donna. – Troppo tardi. –

Quegli occhi...

- No! No,vi prego! Cosa vi ho fatto? –

La voce supplichevole e patetica di Ser William rimbombo’ tra le pareti di pietra della stanza, e tra quelle pareti si spense.

La donna lo fisso’ con aria gelida, solo leggermente disgustata dalla sua aria da bambino indifeso.

- Dimenticate presto le vostre colpe, Ser... –

Il pugnale calo’ con la velocita’ di un lampo, sotto gli occhi semichiusi per il terrore di Ser William.

Nemmeno il coraggio di guardare la morte negli occhi, penso’ la donna, modificando all’ultimo momento la traiettoria del pugnale.

L’uomo getto’ un grido acuto di dolore nell’istante in cui un largo fiotto di sangue si levava dalla sua mano, trapassata ed inchiodata al materasso dal coltello.

Un filo di sangue gli colo’ dalla bocca, e quando l’uomo parlo’, la sua voce era ridotta ad un sussurro smorzato.

- Quali...? Quali colpe? –

Hanno difficolta’ a ricordare l’immediato passato, penso’ la donna, cosa farebbero se dovessero ricordare l’eternita’ per l’eternita’?

- Devo rinfrescarvi la memoria, a quanto pare... –

Estrasse il pugnale dalla mano dell’uomo, che rispose con un rauco gemito, e roteo’ gli occhi, come se fosse gia’ sul punto di svenire.

Ma non svenne.

Si prese la mano tagliata in quella sana, gemendo, mentre grosse lacrime gli rigavano le guance.

La donna alzo’ nuovamente il pugnale e, seguendo il nuovo urlo dell’uomo, lo calo’, colpendolo violentemente sulla spala destra, lontano dal cuore. Sangue caldo le scivolo’ fra le mani.

Uccidere e’ un lavoro dannatamente sporco, si disse fra se’ mentre estraeva il pugnale insanguinato dalla ferita.

Guardo’ i contorni slabbrati della coltellata e si disse che sembrava una bocca spalancata.

- Ticking Hill. Vi dice niente questo nome, Ser? –

Il volto dell’uomo, gia’ stravolto dal dolore, si trasformo’ in una maschera di terrore puro, ed i suoi occhi si ridussero a due minuscole fessure dalle quali guardava sbalordito quella donna.

Come faceva a sapere di quello?

- Cosa...cosa c’entra Ticking...cosa c’entra Ticking Hill? Sono...sono morti tutti... –

Ancora una volta, il pugnale calo’ per ferire.

Sulla gamba dell’uomo si apri’ uno squarcio, dal quale fuorisci’ un corposo getto di sangue rosso scuro, che imbratto’ le coperte gia’ umide di sudore.

Le braccia, le mani ed il collo della donna erano completamente tinte di scarlatto.

Un nuovo urlo’ irruppe dalla gola torturata dell’uomo.

La donna sorrise e si avvicino’ di piu’ alla sua vittima.

L’uomo ansimante alzo’ gli occhi, mentre con le mani cercava inutilmente di fermare il sangue che stava portandosi via anche la sua vita, e incontro’ gli occhi di lei, momentaneamente illuminati dalla candela sul comodino.

Un bruvido di terrore gli corse lungo la spina dorsale fino alle radici dei capelli, ed i suoi occhi si spalancarono, mentre un altro urlo usciva prepotentemente dalla sua bocca.

- A quanto pare no, Ser! –

Quegli occhi...

Il colpo e’ forte, ma non forte quanto sarebbe stato senza il silenziatore.

Un fruscio, come foglie smosse dal vento.

Il proiettile passa agilmente l’eternita’ che c’e’ tra la pistola ed il petto dell’uomo.

Con un suono sinistro, il cuore dell’uomo si spacca.

Il pugnale calo’ di nuovo.

Per l’ultima volta.

Per uccidere e non per ferire.

Sotto lo sguardo terrorizzato di Ser William, non piu’ per la morte ma per quegli occhi, mentre il pugnale gli spaccava in due il cuore non poteva fare a meno di pensare a quegli occhi.

Neri.

Come se...

...La pece avesse inghiottito...

...L’azzurro dell’occhio...

...Il rosso delle vene...

...Il viola dell’iride...

...Il verde dell’iride...

Due occhi..

...Completamente neri...

Siren si allontano’ dal corpo martoriato dell’uomo...

Faith si chiude alle spalle la porta dell’appartamente dell’uomo che ha ucciso.

Lentamente, scivolo’ fino alla sua stanza. Il pugnale torno’ nel suo cassetto, lavato del sangue cosi’ come le sue braccia ed il suo collo.

Un sonno innaturale l’avvolse, e cadde addormentata sul letto.

Guidando senza fretta, torna nel suo appartamento.

Ripone con cura la pistola nell’armadietto, dopo averla ricaricata del proiettile mancante, come se questo potesse bastare a farle dimenticare l’omicidio.

I suoi occhi piatti e neri non lasciano trapelare la minima emozione, e crolla esausta sul letto.

Un attimo prima che il sonno potesse rapirla,

Faith riapre gli occhi, e sono...

Viola.

...Verdi.




Capitolo IX


Erano le sei e venticinque minuti di un sabato mattina qualunque, quando il detective apri’ la porta appena accostata dell’appartamento 1123 Jackson Street.

L’aria frizzante del primo mattino era tagliata dalla lancinante melodia delle sirene della polizia che si affrettavano a raggiungere il luogo dell’omicidio, e le luci dell’alba erano smorzate dall’azzurro irritante delle luci d’ordinanza.

Un infermiere stava caricando sull’ambulanza una barella con sopra un lungo sacco lucido e nero, simile a quelli dalle spazzatura, con due uniche eccezioni: era attraversato verticalmente da una cerniera lampo rigorosamente chiusa e conteneva un cadavere.

Il cadavere di Albert Curtis, per essere precisi, un’agente immobiliare tragicamente deceduto. A quanto il detective aveva appreso, un proiettile calibro 9 gli aveva spaccato in due il cuore.

- Con una cazzo di precisione, anche! -, aveva commentato un infermiere, solo pochi secondi prima.

Merda, penso’ il poliziotto, entrando nel soggiorno di casa Curtis.

Era in citta’ per qualcosa di totalmente diverso, ed ora si trovava a dover lavorare su...questo. Come se la sua personale razione di morti non fosse gia’ finita.

Beh, in meno di dieci anni aveva visto cose cosi’ orribili da bastare per due vite.

Con un’alzata di spalle, Jason Sharpe, agente speciale sotto copertura dell’FBI, penso’ che avrebbe potuto cavarsela anche questa volta.

A patto che fosse l’ultima...

Un ragazzo con indosso una divisa da poliziotto gli sfreccio’ accanto, mentre un tecnico della CS spolverava di ninidrina una superficie sopra il costoso caminetto rifinito in marmo.

Dall’espressione corrucciata del tecnico, Jason capi’ che li’ non c’erano impronte digitali.

Ne’ li’, ne’ da nessun altra parte.

Il detective guardo’ curiosamente l’uomo di mezza eta’ che gli si stava avvicinando.

Indossava un impermeabile beige perfettamente in ordine ed aveva una cartelletta sotto il braccio destro.

Omicidi e burocrazia...che inferno...

- Detective Sharpe. -, l’uomo gli strinse la mano, senza bisogno di presentarsi.

Jason sapeva perfettamente chi era.

- Allora, Thom...cosa abbiamo? –

Thom Burrows, capo tecnico della scientifica, si guardo’ intorno, scuotendo la testa. I suoi capelli neri scintillarono nel riflesso di una torcia elettrica e a Jason sembro’ di scorgervi riflessi blu.

- Un sacco di merda, Jason. Chiunque ha fatto questo, l’ha fatto in modo perfettamente pulito. Non ha toccato niente, a parte quella maledetta pistola che non riusciamo a trovare e che quasi sicuramente non e’ qui. Cosa dice il medico legale? –

- Che ci vuole tempo. Capisci, Thom? Tempo! Come se ne avessimo! –

Thom fisso’ Jason negli occhi.

- Ti ha fatto vedere il cadavere? –, domando’ infine.

Jason strinse gli occhi, aggrottando la fronte. E questa che domanda era?

- No, perche’? –

L’uomo dai capelli quasi blu sembro’ rabbrividire.

Jason si ritrovo’ ancora piu’ sorpreso.

Un tecnico CS rabbrividisce raramente, davanti ad una scena o un cadavere.

Ancor piu’ raramente succedeva che proprio quel tecnico CS rabbrividisse.

- Ecco...forse dovresti dargli un’occhiata... –

- Perche’? C’e’ qualcosa di particolare sul cadavere? Qualche strana traccia, qualche strano segno, qualche strana ferita? –

- E’...l’espressione del suo viso, Jason...e’ terrorizzata... –

La risata che irruppe dalla bocca del detective dell’FBI non aveva niente di allegro.

- Beh, se ti puntano una pistola contro e ti sparano...cazzo, e’ normale che quello sia stato terrorizzato! Anch’io lo sarei, se un pazzo psicopatico arrivasse in casa mia e mi sparasse contro. –

Thom scosse la testa, e nei suoi occhi lampeggio’ la preoccupazione.

- Si’...ma questo e’...diverso. Ti assicuro, ne ho viste di facce terrorizzate, ma come questa nessuna. Era come se avesse visto il Tristo Mietitore in persona, con la falce e tutto il resto...sul serio, dagli un’occhiata, quando esci di qui. Fatti una passeggiata all’obitorio. Ho detto al medico legale di non toccargli il viso per niente al mondo. –

Jason annui’.

- D’accordo, ci faro’ un salto. I giornalisti ne sanno niente di tutto questo casino? –

Il tecnico magro e alto come un palo della luce si gratto’ esattamente il centro della testa, storcendo il naso in una smorfia disgustata.

- Non ancora. Ma lo sapranno tra meno di un’ora, te lo assicuro. Anzi, mi sorprende che non siano gia’ qui. E’ un caso che fara’ scalpore, fratello. Quello era un pezzo grosso. –

Jason annui’, come a dire che lo sapeva.

Eccome, se lo sapeva.

Quella sarebbe stata manna per i giornalisti.

E la sua testa sarebbe stata la prima a finire su una picca, se non si fosse dato una mossa.

Era assegnato a quel caso da meno di un’ora, e gia’ sentiva il peso opprimente della responsabilita’ sulla sua testa, pronta a schiacciarlo.

- Questo e’ tutto quello che abbiamo? Un maledetto ‘niente’? –

- Abbiamo il proiettile. –

- Beh, fa’ che serva a qualcosa, maledizione! –

Thom Burrows si strinse nelle spalle, e, quando parlo’, la sua voce era un sussurro preoccupato.

- Beh, Jason...a meno che su quel frammento di piombo non ci sia stampato in bella mostra il nome della donna che ha sparato, non credo che sara’ di grande aiuto... –

- Donna? Hai detto che e’ stata una donna a sparare? –

Thom corrugo’ lo fronte, sorpreso che nessuno avesse ancora avvertito il detective.

- Non te l’hanno detto? Abbiamo l’elettrostatica delle impronte sul pianerottolo fuori la porta e quelle nel soggiorno. Sono scarpe col tacco, e che tacco! Almeno sette centimetri, mi dicono. –

Jason fece una risata sarcastica, continuando a guardare i tecnici CS spargere le loro polverine e le loro soluzioni chimiche e sperando che per un miracolo potessero trovare il certificato di nascita dell’assassino.

Oh, pardon...dell’assassina, a quanto pareva...

- Bene, Thom, ottimo lavoro...questo restringe il campo delle ricerche a circa...dieci milioni di individui a San Francisco e dintorni... –

Thom lascio’ scorrere i suoi occhi (scuri quasi quanto i capelli), per la stanza, come se stesse cercando qualcosa.

Jason penso’ che quelli come lui, quelli della scientifica, sono sempre alla ricerca di qualcosa.

Il problema e’ che non sempre trovano cio’ che stanno cercando.

- Mi dispiace, detective. Non sai cosa darei per una bella impronta... –

Il detective Sharpe getto’ un’ultima, vaga occhiata alla stanza, decidendo che quello non era il lavoro per lui.

Lasciamo alla CS cio’ che e’ della CS e squagliamocela prima che arrivino i giornalisti...

Fece qualche passo verso la porta, rimpiangendo per la millesima volta in un’ora di non poter trovarsi dietro la sua scrivania a New York o a Londra, o ad una conferenza stampa per uno dei suoi libri.

O in un qualunque altro posto dove non ci fossero cadaveri, proiettili ed eleganti donne psicopatiche...

Si disse che una volta finita questa storia avrebbe comprato un casale in cima a qualche montagna sperduta ed avrebbe passato li’ i successivi trent’anni della sua vita in totale solitudine e tranquillita’, senza avere nelle orecchie il continuo rimbombare degli spari o il fastidioso fruscio delle carte che seguivano inevitabilmente ogni dannatissimo omicidio.

Ne aveva abbastanza, dei morti.

E certe volte pensava di averne abbastanza anche dei vivi...

- Ok, Thom. -, disse, mentre apriva la porta dell’appartamento. – Trova qualcosa...qualsiasi cosa, ma trovala! Voglio qualcosa su cui lavorare! Trovami questa dannata pazza coi tacchi di sette centimetri e lascia che le inchiodi il culo! –

Il tecnico sorrise, non troppo convinto e per niente contagiato dal falso entusiasmo di Jason, e poi si giro’, latrando qualche ordine ad uno dei suoi agenti.

Il detective si chiuse la porta alle spalle, riflettendo sulla sua prossima mossa.

Penso’ alla misteriosa donna assassina, ed un’immagine sfocata gli attraverso’ la mente.

Succedeva sempre cosi’.

L’assassino avvolto nella nebbia. Ora doveva solo dargli una forma piu’ netta.

Chiuse gli occhi, ma non ci fu nessuna illuminazione, nessuna idea geniale ad attenderlo dietro le sue palpebre chiuse.

Solo il seccante lavoro del detective.

Usci’ in strada, osservando attentamente i condomini adiacenti quello dello sfortunato imprenditore.

Risenti’ nella testa le parole di Thom...

La sua espressione, Jason...era come...terrorizzata...come se avesse visto il Tristo Mietitore in persona, con la falce e tutto il resto...

Fece spallucce, dicendosi che avrebbe davvero dovuto andare a dare un’occhiata.

Cosi’, tanto per vedere questo terrore che aveva fatto rabbrividire Thom.

Doveva essere davvero un bello spettacolo se il tecnico aveva chiesto al medico legale di non toccare il viso della vittima per niente al mondo.

Il sole si scorgeva appena dietro gli enormi grattacieli di Jackson Street.

Jason getto’ una vaga occhiata al palazzo esattamente di fronte a quello in cui fino al giorno prima aveva abitato il signor Curtis.

Conto’ sei finestre sullo stesso piano dell’appartamente 1123.

Tre appartamenti, calcolo’, notando che le tende accostate si diversificavano ogni due finestre.

Con i vicini di casa non aveva avuto fortuna.

Erano diventati di botto ciechi e sordi, come tutti i testimoni.

Non avevano sentito grida, ne’ spari, ne’ strani rumori, e non si erano nemmeno accorti delle luci accese.

Con un’alzatina di spalle si disse che poteva provare con quel palazzo.

Avrebbe controllato solo tre piani, sperando di avere fortuna: quello alla stessa altezza dell’appartamento della vittima, quello immediatamente precedente e quello immediatamente successivo.

Forse avrebbe dovuto dare una strizzatina anche al piano terra.

Jason Sharpe si incammino’ fischiettando verso il condominio, sebbene il buon umore l’avesse lasciato nella sua camera d’albergo poco piu’ di un’ora prima, quando l’avevano informato dell’omicidio e gli avevano chiesto (no, il termine giusto era ordinato), di prendere parte alle indagini.

E cosi’ addio semplice lavoro sotto copertura e ‘ciao ciao’ signor Curtis...

Come se avesse visto il Tristo Mietitore...- Ah, non ora, Thom... -, borbotto’ a se’ stesso, cercando di calmare la curiosita’.

Con la falce e tutto il resto...

All’obitorio ci sarebbe andato dopo.

Suono’ i campanelli di diciotto appartamenti disposti al quarto, quinto e sesto piano, senza ottenere nessuna informazione utile.

C’era chi stava dormendo, chi stava guardando la TV, chi aveva le cuffie nelle orecchie e chi, semplicemente, non ne sapeva assolutamente niente.

Cosa? Un omicidio? Una donna con i tacchi a spillo? No, non mi sembra...cosa? Mi sta chiedendo se alle tre del mattimo me ne stavo affacciato alla fienestra? Mi dispiace non posso esserle d’aiuto...

Il meno cortese gli aveva semplicemente sbattuto la porta sul naso.

- Senza un mandato e il mio avvocato io non dico una parola! -, aveva detto, alimentando la convinzione di Jason che gli americani sono tutti matti...

Fortuna che lui era inglese...cioe’, almeno era nato in Inghilterra...e molti dei suoi personaggi erano inglesi.

Come...

- Hey, lei! Detective! –

Jason si fermo’, un attimo prima di aprire il portone ed uscire in strada con il suo taccuino completamente bianco.

Si giro’ verso la voce e vide un uomo alto, ben piazzato, con lunghi capelli neri, che gli faceva cenno di avvicinarsi.

Stava nell’ombra dell’androne.

Jason gli si avvicino’. Istintivamente, porto’ la mano destra vicina al calcio della pistola che gli pendeva da un fianco, nella fondina.

Quel tipo lo inquietava.

Aveva degli occhi di un marrone stranissimo.

Sembravano rossi, nell’ombra.

- Dice a me? –

L’uomo annui’, sorridendo. O meglio, mimando un sorriso, col solo risultato di apparire grottesco.

- Si’, a lei. E’ qui per l’omicidio di ieri notte? –

Cautamente, Jason rispose.

- Si’, quello. Lei puo’ dirmi qualcosa di interessante, signor...? –

L’uomo alzo’ una mano, come a voler fermare l’avanzata del detective.

- Il mio nome non ha importanza, detective. –

- Lei ha visto qualcosa? –

Di nuovo, l’uomo nell’ombra ripropose il suo grottesco tentativo di sorridere.

Un senso di repulsione spinse Jason ad indietreggiare di qualche passo, senza staccare gli occhi dalle mani dell’uomo, che si torcevano nervosamente.

- Forse ho qualcosa di interessante per lei, detective. –

- Bene. Mi dica. –

Una penna spunto’ fra le mani di Sharpe e lui la punto’ sul taccuino come se fosse stata una pistola.

- Sono il portiere di questo condominio. Ieri notte, verso le quattro, ho sentito lo stridire di gomme in una brusca frenata. Pensavo si trattasse di un incidente, quindi mi sono avvicinato alla finestra, ed ho visto una donna –una bella donna, non so se mi spiego-, camminare lentamente lungo la strada. –

Jason lo interruppe con un gesto della mano.

- Mi sa dire che tipo di scarpe indossava la donna? –

Gli occhi dell’uomo lampeggiarono, e quello strano tono di marrone scintillo’ di una luce strana.

- Certo. Lo ricordo perfettamente. Erano scarpe da sera, col tacco molto alto. Lo ricordo perche’ sulla strada facevano parecchio rumore, sa... –

E’ lei, penso’ Jason, scrivendo con mano ferma le informazioni sul taccuino.

- Ricorda anche com’era vestita? –

- Beh, era buio... -, disse l’uomo, abbassando la voce. – Ma sono piuttosto sicuro che indossasse qualcosa di chiaro. Azzurro, forse, o bianco. Si’, una camicetta bianca, credo. E pantaloni neri, molto stretti. –

Stiamo andando a meraviglia...continua cosi’...

- Capelli, occhi, qualche segno particolare? –

L’uomo strinse gli occhi, come se stesse cercando di ricordare, e poi sospiro’.

- Ero lontano, detective. Non saprei dirle di che colore aveva gli occhi nemmeno se da questo dipendesse la mia vita. Ma sono quasi sicuro che avesse i capelli rossi. –

Per un attimo, gli occhi di Jason si strinsero fino a diventare due fessure. Si irrigidi’, mentre poneva un’altra domanda.

- Rossi...intende tinti? Rosso fuoco? –

- No...un rosso carico, si’, ma alla luce dei lampioni non sembrava una tintura...magari mi sto sbagliando, non lo so... –

Jason prese nota di tutto, ma stavolta la penna tremolo’ leggermente.

Trovare una ragazza dai capelli rossi era decisamente piu’ semplice che trovarne una con i capelli castani o biondi.

Incredibilmente piu’ semplice, penso’ per un secondo.

Sorrise di se’ stesso per l’assurdita’ che gli era appena passata per la mente e richiuse il taccuino.

- Grazie mille, signore. Lei ha appena contribuito ad arrestare un’assassina. Congratulazioni. E Dio benedica i portieri! –

I suoi occhi seri tradivano in parte la giovialita’ delle sue parole, ma l’uomo in ombra non sembro’ farci caso.

Sorrise.

Un sorriso velenoso.

Come quello di un serpente.

Si diresse con passo svelto al portone e lo apri’, tenendo ben stretto fra le mani il suo bel taccuino che profumava di cuioio e di nuove interessanti scoperte.

Mentre usciva, si volto’ a guardare indietro, incrociando per un attimo un paio di occhi dal colore impossibile che lo scrutavano sorridenti nell’ombra dell’androne.




Capitolo X


La sveglia sul comodino prese a trillare il suo antipatico messaggio, ed una mano femminile striscio’ sopra le coperte per spegnerla.

Gia’ le otto e mezza...

Faith si giro’ su un fianco, sentendosi stranamente spossata.

Non aveva nessuna voglia di alzarsi, quella mattina.

Un dolore feroce le attanaglio’ la testa quando apri’ gli occhi. Si sentiva come...come se fosse rimasta sveglia tutta la notte.

Come se fossero passati solo pochi minuti da quando aveva posato la testa sul cuscino.

Sbatte’ le palpebre.

No, non voleva proprio alzarsi.

Uno sbuffo di vento fece sollevare le tende alla finestra, lasciando entrare un raggio di sole del primo mattino.

Inconsciamente, Faith sorrise per quel calore improvviso, e si stiracchio’ sotto il leggero piumino di cotone.

Cosa doveva fare, quella mattina?

Perche’ aveva messo la sveglia alle otto e mezza?

Dio, non se lo ricordava.

Aveva solo lo strano ricordo di un incubo.

Solo qualcosa di sfocato, che non perse nemmeno tempo a ricordare. Aveva a che fare col sangue, le sembrava.

Strofino’ distrattamente la nuca contro il cuscino, allungando le gambe e le braccia.

Miagolo’ soddisfatta e si alzo’ seduta, guardandosi intorno.

Solo allora si accorse che non indossava il pigiama con cui era andata a letto la sera prima, ma una camicetta bianca ed un paio di attillati pantaloni grigio scuro.

Aggrotto’ la fronte, guardando ai piedi del letto. Li’, era posato un paio di eleganti scarpe col tacco alto.

Quelle che avrebbe voluto mettere alla festa, quella sera.

Ma non ricordava di averle provate la sera prima.

Ne’ tantomeno di averle messe fuori.

E poi...da dove spuntavano quei vestiti? Quand’e’ che se li era messi?

Faith sbatte’ le palpebre un paio di volte, sorpresa.

Ma cos’altro aveva fatto la sera prima, che ora non ricordava?

Fece spallucce, senza riuscire a trovare una spiegazione ai vestiti, alle scarpe, allo strano senso di stanchezza che aveva addosso.

- Santo Cielo... -, sussurro’ a se’ stessa, alzandosi con un balzo dal letto.

I piedi le facevano male.

Guardo’ le scarpe accanto al letto. Era come se vi avesse camminato dentro per chilometri.

Barcollo’ svogliatamente fino alla cucina, ancora stordita dalla sua momentanea perdita di memoria.

Cos’altro avro’ dimenticato?

Prese un’arancia dal cesto della frutta poggiato sul tavolo e comincio’ a sbucciarla.

Erano le nove meno venti. Giusto in tempo per il telegiornale del mattino.

Erano anni che non vedeva il telegiornale delle nove meno venti, il sabato mattina.

Peccato, avrebbe potuto tranquillamente battere un record.

Invece afferro’ il telecomando e accese la TV su Channel Five.

Una elegantissima giornalista stava seduta dietro una scrivania con davanti pagine e pagine di notizie.

Faith addento’ uno spicchio d’arancia, godendosi la sensazione di una goccia di succo che le scivolava lungo il mento.

La voce della giornalista si fece grave, e Faith alzo’ leggermente il volume.

Senti’ uno strano brivido lungo la schiena, mentre una reporter appostata davanti ad un condominio in Jackson Street, raccontava della tragica morte di un uomo.

- E’ stato rinvenuto questa mattina presto, il cadavere del noto immobiliare Albert Curtis. –

Una foto formato tessera si ingrandi’ sullo schermo, mostrando il volto sorridente dell’uomo ucciso.

Faith corrugo’ la fronte, alzando ancor di piu’ il volume.

La notizia, che normalmente non avrebbe destato in lei alcun interesse, la mise fortemente a disagio.

Come se il colpevole fosse stata lei.

- Secondo fonti attendibili, la morte e’ avvenuta tra le tre e le quattro di questa notte. L’arma del delitto e’ una Colt calibro 9. –

Come la mia, penso’ Faith.

Sorrise al pensiero assurdo che le attraverso’ la mente.

E’ impossibile, si disse. Alle quattro del mattino dormivo.

Tanto per togliersi quell’orribile sensazione di essere in qualche modo coinvolta, ando’ a prendere la piccola pistola dal cassetto in cui la teneva. La alzo’ e controllo’ i colpi.

Erano cinque, esattamente quanti avrebbero dovuto essere.

Faith si lascio’ scappare un lungo, lunghissimo sospiro di sollievo.

Rise.

Rise cosi’ forte da farsi male alle orecchie.

Come poteva esserle venuto in mente un pensiero simile?

Lei...lei un’assassina?

Nemmeno tra un milione di anni!

Si lascio’ cadere lungo la parete, ridendo il suo personale sollievo.

Decise che quella mattina stessa avrebbe chiamato Vlad per farsi dare quella tanto sognata vacanza.

Aveva come l’impressione che l’esaurimento nervoso fosse proprio dietro l’angolo.

Spense il televisore, dicendosi che non avrebbe piu’ guardato il telegiornale di sabato mattina per altri nove anni.

E poi, di botto, ricordo’ perfettamente il sogno che aveva fatto quella notte.

Era quella ragazza...quella che stava ossessionando i suoi sogni.

Aveva sognato quella ragazza che pugnalava a morte un uomo.

Un senso di nausea le striscio’ nello stomaco, e Faith lotto’ per trattenere un conato di vomito.

Le sembrava di sentire l’odore metallico del sangue.

Tutto quel sangue...

Ricordo’ nei minimi dettagli il pugnale sporco, le coperte, il volto terrorizzato di quell’uomo.

Gli occhi senza vita di quella donna...

Si ritrovo’ ad avere paura.

Era una sensazione che non provava da quando aveva otto anni.

Da quando, proprio come quella ragazza del sogno, le sembrava che un uomo la sbirciasse dietro le finestre.

Dai sei agli otto anni era stata terrorizzata da quelle apparizioni.

E poi, cosi’ com’era venuta, la faccia alla finestra era scomparsa.

Niente piu’ uomini che la spiavano dietro un vetro sporco.

Da allora, Faith non aveva piu’ avuto paura di nulla.

Ed ora quel senso strisciante di angosciosa impotenza la stava invadendo di nuovo.

Chi era la donna del sogno?

Quegli occhi...

Si massaggio’ le tempie finche’ non senti’ il suo respiro farsi piu’ lento, ed avverti’ i battiti di nuovo regolari del suo cuore.

Non voleva avere paura.

La paura non serve a niente.

E poi...perche’ mai avrebbe dovuto avere paura di un incubo?

Non era reale.

Il tavolo sul quale stava appoggiata era reale.

Diane era reale.

Vlad era reale.

Robert Breackman era reale.

Sarebbe stato quasi plausibile avere paura di loro. Loro potevano toccarla. Potevano farle del male.

Un incubo, a parte tenerla sveglia la notte, cosa mai poteva farle?

Poteva avere paura di se’ stessa, persino, ma non poteva avere paura di un incubo.

Non poteva avere paura di qualcosa che non poteva ne’ toccare ne’ vedere ad occhi aperti.

Non aveva piu’ sei anni.

A sei anni non ti ritieni stupida se urli per un incubo.

Ma a venti si’.

Si infilo’ le dita tra i capelli, ridendo di se’ stessa.

Niente paura, Faith, e’ solo un incubo...

Annui’ verso se’ stessa, e si raddrizzo’.

C’era la festa, quella sera.

Era meglio mettersi al lavoro...




Capitolo XI


Stava facendo la spola tra la centrale ed il luogo del delitto da ormai otto ore.

Ininterrottamente.

Con la camicia spiegazzata ed i capelli in disordine (il suo modo per sfogare l’ansia era passarsi continuamente le mani nei capelli, riducendoli ad una nube bionda nel giro di poche ore.), Jason Sharpe entro’ con passo spedito nella stanza dell’obitorio riservata ai corpi i cui possessori erano morti in circostanze...misteriose, per cosi’ dire.

La chiamavano ‘la Cripta’, e in effetti non era molto differente da una puzzolente, disordinata, impolverata camera mortuaria sotterranea.

Una decina di barelle vuote aspettavano in un angolo, una dopo l’altra come se fossero carrelli per la spesa in un supermercato di quart’ordine.

Una delle celle frigorifere era stata aperta molto di recente. Jason riusciva ancora a vedere le leggere volute dei fumi del ghiaccio.

Sbircio’ all’interno. Ovviamente la cella era vuota, ma anche se dentro vi si fosse trovato il suo macabro contenuto, Jason era pronto a scommettere che con tutta quella condensa e quel vapore gelido non sarebbe riuscito a vedere niente.

Infine getto’ un’occhiata al centro della stanza.

C’era una barella di metallo, simile alle altre in tutto tranne che per il fatto che sopra si indovinava il profilo di un uomo sotto uno spesso lenzuolo azzurrino.

Per le donne useranno lenzuola rosa?, si domando’, in un attimo di inopportuna allegria.

Osservo’ il cadavere senza spostare il telo.

Era un uomo piuttosto corpulento, a giudicare da come quell’improvvisato sudario si tendeva sul ventre, ma aveva le gambe molto magre e piuttosto lunghe.

Giro’ attorno al corpo, notando un paio di ciocche castane che spuntavano da sotto il lenzuolo.

Tutt’attorno al cadavere, e per la verita’ in tutta la grande stanza, permeava l’odore greve del sangue.

Jason avrebbe saputo riconoscere quell’odore dovunque. Nonostante il forte sentore di candeggina (probabilmente usata per pulire celle e pavimenti), il posto sembrava aver affrontato un’alluvione di sangue.

Non da quel cadavere in particolare, pero’, era piu’ un qualcosa che si era accumulato nel tempo.

Dopotutto, quell’uomo steso sulla barella era morto decisamente troppo in fretta per poter sanguinare.

Finalmente la porta della ‘Cripta’ si apri’, e ne entro’ un uomo grasso e tozzo, sui cinquant’anni.

Indossava un camice bianco immacolato, senza nemmeno una piega, che gli regalava piu’ l’aria del banchiere che del medico legale.

Ma a Jason basto’ guardarlo negli occhi per capire che il macellaio di turno era lui.

Si capivano un sacco di cose guardando negli occhi una persona. Se era simpatica, se era pericolosa, se aveva bevuto, se era sposata, se aveva commesso un omicidio, se lo avrebbe imbrogliato.

O se aveva visto troppi morti.

Gli occhi di quel medico dicevano chiaramente che tra un po’ avrebbe persino dimenticato che esistevano anche i vivi, fuori da quelle mura di piastrelle verdi.

Esattamente cio’ che dicevano anche gli occhi di Jason, ogni volta che si guardava allo specchio e capiva che almeno lui era ancora vivo.

Invece, e questo non riusciva a toglierselo dalla testa, gli occhi di quel portiere a Jackson Street non gli avevano detto niente.

Erano stati muti dal primo all’ultimo istante.

E Jason aveva pensato: questi sono gli occhi di un morto...

La voce squillante del dottore lo riporto’ alla realta’, all’obitorio ed al caso a cui stava lavorando.

- Ah, detective Sharpe, la stavo aspettando. Sono il dottor Alex Tundstall. –

Jason strinse la mano dell’uomo, che portava spessi guanti di lattice.

Erano viscidi e sudati.

Sorrise.

- Molto piacere, dottore. Sono qui per... –

- Il cadavere, certamente. Quello di Jackson Street. –

Quello di Jackson Street.

A volte (non spesso, ma a volte), Jason Sharpe riusciva ancora a trovare spaventoso il senso di distacco che medici legali, scientifica, giornalisti e poliziotti erano in grado di manifestare davanti alla morte.

E cosi’, un uomo che aveva lasciato una vita dietro di se’, che non avrebbe piu’ abbracciato i figli, la moglie o la fidanzata, che non avrebbe piu’ comprato il giornale la domenica diventava semplicemente: quello di Jackson Street.

Ma, ovviamente, non era venuto all’obitorio per discutere di psicologia col dottor Tundstall.

Pero’, quando parlo’, lo fece senza sorridere.

- Si’, quello. Avete scoperto definitivamente l’ora e la causa del decesso? –

Conosceva le risposte ad entrambe le domande, ma, dopotutto, perche’ non dare un po’ di soddisfazioni a gente che passava la vita a sminuzzare corpi umani morti in cerca del perche’ fossero morti?

Il dottor Alex (Alexis?, si chiese Jason, Alexander?) Tundstall comincio’ a girare in tondo attorno alla barella, fissando il lenzuolo azzurro posato sopra il cadavere come se non avesse la forza per alzarlo.

O come se non ne avesse voglia.

Sospiro’.

- Si’, certo. E’ morto intorno alle quattro di questa mattina. Colpo di arma da fuoco al petto, gli ha spaccato il cuore. –

Con una cazzo di precisione, anche.

Jason scaccio’ le parole di quell’infermiere di Jackson Street scuotendo impercettibilmente la testa.

Il medico continuo’.

- Il proiettile e’ entrato e uscito con una certa potenza, quindi chiunque abbia sparato l’ha fatto da molto vicino. A quanto pare la vittima ha fatto entrare il suo assassino. Forse la conosceva. –

- O forse e’ stato obbligato a farla entrare. -, sussurro’ Jason fra se’.

Il medico osservo’ per un attimo il cadavere disteso sotto il sottile lenzuolo, come se si aspettasse una qualche conferma da quel corpo morto.

Poi annui’.

- Si’, anche. E’ probabile. –

Rimasero in silenzio per un istante, poi il dottor Tundstall sembro’ ricordarsi di qualcosa.

- Ah, certo. Ho trovato minuscoli frammenti di cotone sia sul foro d’entrata che in quello d’uscita. Trovera’ gli stessi frammenti anche sul proiettile. –

- Un silenziatore. Beh, non c’e’ molto d’aiuto. –

Il medico legale si strinse nelle spalle.

- Ho pensato che avreste dovuto saperlo comunque. –

- Si’, ha fatto bene. C’e’ altro? Non so, strane ferite, parti del corpo mancanti? –

Alex Tundstall fece spallucce e scosse la testa.

- Niente. Un lavoro pulito. Non un solo proiettile di troppo. L’assassina e’ arrivata, gli ha spappolato il cuore con un unico colpo preciso e se l’e’ svignata. Non ha preso nessun souvenire. –

Jason alzo’ gli occhi al cielo, sorridendo sarcasticamente.

- Ma dove sono finiti gli psicopatici di una volta? –

- Non lo dica a me. Personalmente preferirei avere venti corpi dilaniati da un uomo lupo piuttosto che uno solo con questa faccia... –

Ancora la faccia, penso’ Jason, corrugando la fronte.

I suoi occhi neri si posarono sul lenzuolo.

- Perche’? –, chiese. – Cos’ha questa faccia? –

Tundstall rise quasi istericamente.

Di nuovo, Jason si chiese cosa mai ci fosse di cosi’ terrificante sul viso di un morto.

Lui aveva visto ogni tipo di smorfia di sofferenza su visi di persone morte in modi cosi’ terribili da far avvertire un lungo brivido giu’ per la schiena.

Cosa poteva esserci di diverso, in questo?

- Oh, questa si’ che e’ una cosa che vale la pena di vedere, mi creda! –

Stava per chiedere al medico di alzare il lenzuolo, quando la porta della sala si apri’ ed apparve Thom Burrows, in disordine quasi piu’ di lui.

Jason gli ando’ incontro, speranzoso.

- Allora? Trovato qualcosa? –

L’espressione sul volto di Thom gli disse chiaramente: niente.

- Niente di importante. La tipa ha sparato con un silenziatore, l’esame balistico ha stabilito che si trattava di una Colt calibro nove, ma fin qui ci siamo arrivati anche da soli. C’e’ una sola cosa insolita: il proiettile era rivestito di cera. Cera per candele, capisci? Abbiamo trovato quel che restava del rivestimento appiccicato ai vestiti della vittima come se fosse stato un sigillo. –

Jason ascoltava con la massima attenzione.

Il particolare della cera avrebbe senz’altro potuto aiutarli, ma solo se fosse stato possibile un confronto con i proiettili di un sospetto. Se i proiettili provenienti dalla pistola Colt calibro nove di un sospetto avevano lo stesso rivestimento in cera, al novantanove per cento quella Colt calibro nove aveva sparato il colpo che aveva ucciso Curtis.

Ma non avevano sospette. Ergo, il particolare della cera per il momento si rivelava inutile.

- Qualche immagine stampata sulla cera? Magari il vecchio sigillo di qualche vecchia casata? -, chiese Sharpe.

Thom alzo’ una bustina di plastica trasparente. All’interno si vedeva un dischetto di cera rossa.

- Niente. Solo un filo d’oro appiccicato sopra. –

Se avessero avuto un vecchio sigillo avrebbero potuto risalire ai discendenti della famiglia che in passato aveva posseduto quel sigillo, e quindi a potenziali sospette.

Ma su quel sigillo c’era soltanto un filo d’oro, a quanto pareva.

- Beh, fa’ comunque qualche ricerca. –

Burrows annui’, riponendo il sacchetto di plastica in una borsa.

I suoi occhi scuri si posarono per un istante sul lenzuolo che copriva il cadavere.

Torno’ a guardare Jason.

- Hai scoperto qualcosa sulla vita privata di questo poveraccio? –

Jason annui’, prendendo da una tasca della giacca un taccuino dalla copertina di cuoio.

- Ancora meglio, Thom. Ho un testimone che dice di aver visto una ragazza alta, con i capelli rossi, che passeggiava in Jackson Street piu’ o meno all’ora del delitto. Indossava una camicetta, forse bianca, e pantaloni attillati scuri. Ah, e aveva i tacchi molto alti. –

Thom fischio’, recuperando d’un botto il buon umore.

- Fantastico, Sharpe! E chi e’ il tuo nuovo Babbo Natale? –

Jason rabbrividi’ ripensando agli occhi rossi di quell’uomo.

- Un tipo inquietante. Il portiere del condominio di fronte quello della vittima. Non so il suo nome... –

- Il portiere? -, chiese Thom, aggrottando la fronte.

Jason annui’.

- Ma li’ non c’e’ nessun portiere. Ho controllato personalmente. Ti ha imbrogliato, detective. –

Jason sbatte’ le palpebre, incredulo. Succedeva di rado che riuscissero ad imbrogliarlo.

Ma lui si basava sugli occhi delle persone, e gli occhi del finto portiere non gli avevano dato nessun indizio che stesse dicendo o meno la verita’.

- Beh...almeno ho la descrizione. Questo e’ l’importante. –

- Hai ragione. Che dice Curtis? Qualche vecchia fiamma dai capelli rossi che avrebbe avuto piacere nell’ucciderlo? –

Jason consulto’ il taccuino, pensando alle possibili identita’ dell’uomo dagli occhi rossi con cui aveva parlato. Trovo’ cio’ che cercava.

- Vediamo...Albert Curtis...e’ divorziato, senza figli. Ho controllato l’ex moglie. Non posso dire che piangera’ la morte dell’ex marito, ma e’ pulita. Non si sentivano da un anno, lei prendeva cinquemila dollari al mese di alimenti (forse per questo piangera’...), e non avrebbe avuto nessun motivo per ucciderlo. Inoltre non possiede armi ed ha i capelli biondi. Curtis ha avuto un paio di amanti, sia nel periodo del matrimonio che successivamente, ma solo storielle senza importanza. Una ha i capelli rossi ma vive a Singapore. Ho controllato ugualmente, ma per l’ora del delitto ha un alibi di ferro. –

Thom annui’ lentamente, pensando tra se’.

- Eliminiamo il movente sentimentale, dunque. Come siamo messi sul professionale? –

Jason sfoglio’ il suo blocchetto, spandendo nell’aria attorno a lui il sentore del cuoio e dell’inchiostro ancora fresco della sua stilografica da settemila dollari.

Il suo unico capriccio da uomo normale.

- Niente neanche da quel lato. Era un uomo pulito, non passava denaro sottobanco, non aveva contatti con la mafia locale ne’ con qualunque tipo di associazione criminosa. Faceva l’agente immobiliare. Insieme a dei colleghi aveva appena rilevato un vecchio castello appena fuori Parigi. A quanto pare vogliono demolirlo e costruirvi un centro commerciale. Tutto legale al cento per centro. E avevano gia’ diviso gli eventuali profitti dell’attivita’, anche. Parti ugualissime. Nessuno scontento. Curtis non aveva avanzato nessuna pretesa che potesse giustificare l’omicidio. A quanto pare era felicissimo della parte di denaro che gli sarebbe toccata. –

- Il progetto andra’ avanti? -, chiese Thom.

- Si’, non vedo nessun collegamento tra il progetto e l’omicidio. –

Thom annui’, d’accordo con l’amico.

Da un punto dietro di loro provenne un leggero colpo di tosse, ed in quel momento Jason ricordo’ la presenza in camice dietro di loro.

Si volto’ verso il dotto Tundstall. Thom fece altrettanto.

Il dottore sorrise, felice di essere nuovamente al centro dell’attenzione.

Prima che Thom potesse uscirsene con una battuta, pero’, il vecchio medico riporto’ sul suo viso un’espressione impassibile, tipica di chi ha a che fare con i morti ventiquattr’ore al giorno.

- Bene, signori. Se non avete piu’ bisogno di me, io andrei... –

Jason annui’, rivolgendo all’uomo un sorriso, mentre l’ispettore Burrows semplicemente lo congedo’ con un freddo gesto della mano.

Alex Tundstall fece per portare via la barella su cui giaceva inerte Albert Curtis, ma Jason lo fermo’.

- No, lo lasci dov’e’. C’e’ una cosa che vorrei vedere. –

Dopo aver vigorosamente annuito, il medico lascio’ la “Cripta”, lasciandosi alle spalle solo il rumore lieve di un sospiro di sollievo.

Burrows guardo’ Jason. Lui teneva lo sguardo fisso sul telo azzurro, mentre s’avvicinava lentamente alla barella.

- Non l’avevi ancora...? -, comincio’ a chiedere Thom, ma fu zittito.

- No, non ancora. Vediamo cos’abbiamo qui... –

Fece scivolare una mano lungo il bordo del telo, indeciso per un attimo su cio’ che avrebbe fatto.

Come se avesse visto il Tristo Mietitore...

La sua mano si strinse con forza attorno al lembo di tessuto e tiro’ con forza, liberando l’orrenda visione che giaceva sotto di questo.

...Con la falce e tutto il resto...

Niente era mai stato cosi’ terribile da spaventarlo.

Niente era mai riuscito a farlo tentennare.

A fargli chiudere gli occhi, desiderando che cio’ che aveva visto sparisse dalla sua mente.

Niente era mai riuscito a terrorizzarlo.

La sua mente era fredda e lucida, davanti alle terrificanti espressioni dei morti e davanti le stupide facce dei vivi.

Perche’ se non hai una mente fredda e lucida e vuoi lavorare alla sezione Omicidi dell’FBI, finisci davvero male...

Niente l’aveva mai sconvolto.

Niente prima che il lenzuolo azzurro scivolasse sul pavimento per mostrare il volto sfigurato dal terrore di Albert Curtis.

Sembravo uscito dal film “The Ring”.

Sembrava un’orrenda maschera presa dalla “Commedia dell’arte”, tanto che il suo primo impulso fu quello di strapparla per rivelare la vera pelle, i veri occhi, la vera bocca di quell’uomo.

Forse l’avrebbe anche fatto, se le sue mani non fossero rimaste paralizzate a mezz’aria.

Quello non era piu’ un uomo.

Era terrore allo stato puro.

Gli occhi di Jason si posarono sugli occhi di Curtis. Erano aperti (spalancati), e fissavano un punto imprecisato dell’alto soffitto della sala. Le pupille dilatate all’inverosimile, il grigio delle iridi che sembrava continuare a brillare di follia.

La bocca era storta in una smorfia terribile, e Jason penso’ che nemmeno le mani del piu’ esperto chirurgo in circolazione avrebbero mai potuto cancellare quella smorfia dal viso di quell’uomo.

Un paio di denti gialli spuntavano tra le labbra ridotte ormai ad un filo pallido.

La pelle del viso era ceregnola, tesa tanto che sembrava sul punto di sfaldarsi.

Tutti i muscoli facciali erano tirati in posizioni del tutto innaturali, e la testa si piegava ad angolo retto, poggiando sulla spalla destra.

Jason indietreggio’, sgomento.

- Oh, Santo Cielo... –

Thom gli si avvicino’, e rimise il lenzuolo sul corpo dell’uomo morto.

Ma nemmeno la piu’ spessa delle coperte avrebbe piu’ potuto nascondere a Jason la vista di quello scempio.

Come se avesse visto il Tristo Mietitore...

Come se avesse visto il Tristo Mietitore...

Come se avesse visto il Tristo Mietitore...- Ma chi diavolo puo’ essere stata, questa donna, per spaventarlo cosi’? –

Jason scosse la testa.

A meno che non fosse stata la Morte in persona, non aveva idea di chi potesse suscitare in un uomo un simile terrore.

Ma aveva intenzione di scoprirlo.

Non aveva intenzione di vedere altri cadaveri con il volto ridotto in quella maschera d’angoscia.

Quando si volto’ verso Thom, i suoi intensi occhi neri erano tornati calmi e determinati come sempre.

L’ispettore Burrows fu quasi tentato di sospirare di sollievo.

- Dammi una pista, Thom. La voglio domani mattina sulla mia scrivania. Vaneggia, se necessario. Ma voglio una pista. –

Thom Burrows annui’ energicamente, contagiato dalla determinazione negli occhi nuovi dell’agente dell’FBI.

Guardo’ il Rolex d’oro che brillava sul suo polso sinistro.

- Sono le sei e tre quarti, Jason. Non avevi quella specie di festa? –

Sharpe annui’, ricordando solo vagamente l’altro incarico a cui era sottoposto.

Era passato completamente in secondo piano, dopo quella mattina.

Comunque si’, aveva una specie di festa...e magari sarebbe anche stato fortunato ed avrebbe trovato una pista.

- Si’. Un tipo sulla Van Nesse Avenue. C’e’ un po’ di bella gente, magari me ne esco con una pista. –

- Speriamo. E’ davvero una brutta faccenda, Sharpe. -, sospiro’ Thom.

E Jason non pote’ fare a meno di pensare:

Davvero una brutta faccenda, Burrows...



Capitolo XII


Erano ottocento anni che il vampiro non partecipava ad una festa.

Eppure, da mortale, andare ai balli di corte era stata un’occasione felice.

Gli piacevano i balli.

Lo sfarzo, i lampadari di cristallo che pendevano dal soffitto lasciando cadere una cascata di lacrime dai mille colori.

Le dame dal viso coperto dalle maschere.

Come se lo stesso viso di ogni uomo non fosse gia’ da se’ la piu’ perfetta delle maschere.

I suoi occhi cerulei caddero sul giornale aperto sulla scrivania di legno vecchio.

Aveva visto giusto.

Il primo uomo era morto.

E lui non aveva ancora trovato quella dannata donna.

Dove sei, per l’Amor del Cielo?

Sorrise, subito dopo averlo pensato.

Di certo il Cielo se ne infischiava di lui.

In Cielo non c’era amore per i dannati. Tantomeno per un dannato in cerca di vendetta.

Non era da li’ che poteva venire un qualche aiuto. Tutto l’aiuto di cui poteva disporre si trovava su quella stessa terra che calpestava da secoli.

Quella stessa terra su cui posava la cappella in cui viveva.

C’erano miliardi di lettere incise nei muri. Lettere che forse formavano parole.

Lettere che formavano nomi.

Nomi che incideva il vampiro.

Notte dopo notte.

Sangue dopo sangue.

Nomi di donne.

La figura in nero, pero’, non si soffermo’ su quei nomi, ne’ sul loro significato.

Sposto’ lo sguardo su un segno nel muro, laddove solo duecento anni prima, quando lui era arrivato li’ ed aveva ucciso i monaci che vi abitavano, si trovava un piccolo crocefisso d’argento.

La polvere aveva ricoperto di uno spesso strato tutto il muro, ma sembrava restia nel toccare quella minuscola porzione di parete, dove restava intatta la sagoma di quell’icona sacra che ora non c’era piu’.

Per un po’, al vampiro era parso quasi un monito.

Qualcosa tipo: ti osservo. Ci sono.

Ovviamente era un’idea folle.

Eppure per qualche tempo non aveva potuto fare a meno di pensarci.

Svegliarsi durante il giorno, e pensarci.

Un tempo.

Adesso non gli interessava piu’ nemmeno quello.

Pian piano si perde interesse per tutto.

E’ solo una questione di tempo...

Richiuse ermeticamente il coperchio della bara, come se davvero qualche mortale avesse potuto avere il fegato di scendere in quel buco puzzolente e, come se non bastasse, di aprire la sua bara.

Quella era un’idea folle.

Mentre apriva la pesante porta di legno della cappella, gli vennero in mente versi di una poesia di un qualche autore straniero, letti in chissa’ quale gelida notte di chissa’ quanti secoli prima.

- Stai quieto, mio Dolore, stai calmo. Invocavi la sera: eccola, scende... –

Sorrise tra se’.

- E un’atmosfera scura avvolge la citta’, arrecando agli uni pace, ad altri affanno. –

Una moltitudine di ricordi gli invasero la mente ed il vampiro, come ormai era diventato abilissimo a fare, li ricaccio’ indietro.

Centinaia di frammenti di immagine di cio’ che era stato si sovrapposero nei suoi occhi a cio’ che era.

La citta’ nella quale camminava divenne un piccolo borgo fatiscente.

Le strade, viali alberati e spazzati dal vento.

I grattacieli, le torri di un vecchio castello.

E le donne che incrociava (tutte le donne che incrociava), avevano il volto di lei.

Se gli fosse stato concesso di provare dolore, adesso che per lui il dolore era solo l’eco di un ricordo, avrebbe certamente sentito quella familiare fitta alla bocca dello stomaco, e quella stretta alla gola che i mortali sentono quando si approssimano le lacrime.

Lui senti’ solo il niente, nella sua testa.

Il niente bianco. Come una leggerissima esplosione, quasi impercettibile, e bianca.

Sterile.

Questo era il dolore, per il vampiro.

Questo era tutto.

Che l’emozione di turno fosse gioia, ebrezza, odio, rabbia o dolore, nella sua testa avevano tutte la stessa forma.

Erano inutili, sterili e bianche esplosioni.

E per quanto cercasse di riportare alla mente com’era provare qualcosa, non c’era verso di ricordarlo.

Il vampiro scosse la testa, stringendosi nel mantello nero di velluto.

Il pallore del suo viso sembrava quasi fuori luogo, nell’uniformita’ nera del suo abito.

Ed anche se aveva fame, quella notte non era per cacciare.

Per aggiungere un altro nome alla lista dei tanti.

Per incidere un'altra manciata di lettere sui muri della cappella.

Quella notte era per trovare lei.

Chiunque lei fosse.

Dovunque si trovasse.

Il vampiro si fermo’.

Alla sua destra c’erano eleganti villette a schiera.

Ma era alla sua sinistra che stava guardando.

Verso un lungo grattacielo sulla Van Nesse Avenue.

Verso finestre illuminate per una festa.

Ed a quella festa, ne era certo, c’era anche lei.