27 gennaio 1945

AUTRICE:THE GIFT

 

Sembra sia sempre inverno, qui.

Un freddo pungente non abbandona mai le mie ossa, la neve cade copiosa sui tetti di legno, e il vento si sposta a raffiche.

Il sole spunta di rado, oltre le nubi. Sembra che voglia chiudere gli occhi… che non voglia vedere neppure lui quello che qui accade.

Egli conosce l’odore del fumo che sale nel cielo.

Egli ode le urla di rabbia, e sofferenza, e paura.

Per questo non si affaccia mai.

Ne è schifato. Come me.

Ma io sono legato a questo posto. Incatenato in corpo, ma non in spirito.

 

Sto in cucina e pelo patate.

Le mie mani, sono diventate come questi tuberi: dure, marroni, sporche di terra, ammaccate.

Ma io ripenso al sole di Londra quando l’estate incalza.

Non è vero che è una città sempre grigia e fuligginosa. Chi non la conosce, dice questo.

Londra si tinge d’oro e arancio, riflettendo la luce sui tetti d’ardesia così vicini da sembrare un unico tendone.

Rivedo i giochi di ombre che il luccichio del Tamigi, riflette lungo la passeggiata.

E c’è lei con me, che si aggrappa al mio braccio e guarda le acque silenti, mentre il vento misto a musica, le scompone i capelli dorati, facendole il solletico.

C’è aroma di frutti e pane nell’aria, e gli alberi brulicano di uccelli canterini.

La gente passeggia serena, rivolgendo il capo verso la torre del Big Ben, emozionandosi per la sua bellezza e austerità.

I bambini corrono dietro a cerchi colorati, inseguiti da cagnolini al guinzaglio.

I cappellini che portano per difendersi dal sole, si agitano e rischiano di volare via, per finire poi sulla superficie limpida del fiume.

 

Lei mi guarda e mi sorride.

Ecco, questo è il momento migliore.

Quando i suoi occhi preziosi, mi donano tutto l’amore del mondo solo con uno sguardo più ampio degli altri.

Mi sento bene con l’universo intero, adesso. Lei fa scivolare il suo braccio e mi prende per mano, timidamente.

Intreccia le sue dita con le mie, e arrossisce quando le dico che è bella.

Perché lo è da impazzire, lei neppure sa quanto.

E questo le conferisce una sensualità tangibile, tiepida come il latte del mattino.

Attraversiamo il ponte sempre uniti, e lei lascia camminare una mano sul bordo del muretto che ci affianca.

Sento il profumo della sua pelle e dei suoi occhi nel vento, assieme a quello dei fiori e delle parole sussurrate.

Mi inebrio di lei, della sua persona, del suo carattere, della sua eleganza, della sua femminilità.

Lei si ferma, prima che la nostra passeggiata si addentri lungo le strade.

Mi indica il tramonto, del quale non mi ero accorto, tant’ero preso da lei e da ciò che scatena in me.

Amo il creato, e la poesia che mi nasce dentro dinanzi alle sue meraviglie.

Appoggiamo entrambi i gomiti sul muretto, e ci sporgiamo lentamente in avanti.

Il suo profilo è morbido e lucente, come un letto di primo mattino inondato dal sole.

“E’ triste vederlo morire” mi dice, e si riferisce all’astro che placidamente, scatenando un inconscio incendio, si inabissa oltre l’orizzonte.

“Non muore, riposa e basta amore mio. Anche a me accadrà così. Accanto a te non morirò mai, ma riposerò. Sei tutto ciò che di più bello ho: vita, sogno, musica, poesia.” Le rispondo e la guardo.

Lei china il capo e sorride.

Sì, sorride per me. Per quello che le ho detto.

Poi si volta e i nostri visi sono uno di fronte all’altro.

È la nostra pelle che parla per noi. Il nostro cuore impara subito un linguaggio inedito, e ci guida verso il congiungimento dell’amore con la ragione.

 

Mi baci ed io ti bacio.

Siamo persi nei nostri sapori, nei movimenti lenti come onde, negli aromi di questo giorno alla fine.

Ti amo, amore mio.

Da allora, quante volte te l’ho ripetuto…

E continuo anche adesso. Dentro di me.

Perché tu non sei con me.

 

L’urlo del soldato mi risveglia dal mio viaggio nel tempo.

Una botta con la canna del fucile mi lascia un livido sul braccio, facendomi cadere la patata che stavo pelando.

Il coltello scivolando, mi taglia un dito. E sanguino.

Mi stupisco di ciò.

Ho ancora sangue in me?

Non sono altro che ossa e pelle rinsecchita, capelli stopposi e occhi cerulei.

Ho ancora sangue nelle mie vene?

Sembra un assurdo. Una barzelletta.

Ricaccio la disperazione lontano da me, dalla mia sanità mentale.

E ripenso a te.

Uso la fantasia per sopravvivere, perché so che sei viva e che mi pensi.

Che combatti per me.

Per te.

Per noi.

Quindi io farò lo stesso.

 

Ma come posso tenere fede alla mia promessa?

Come posso illudermi di non morire, quando tu non sei qui con me?

Ricordi, mio amore?

< Non muore.. riposa… come me, quando sono con te.. > Io vivo, ma respiro davvero?

Mi nutro per camminare ancora, ma il mio stomaco accoglie veramente il tozzo di pane con acqua di pozzanghera che essi mi gettano addosso?

Mi muovo, ma il mio cervello collabora davvero con il sistema nervoso?

Penso, ma è reale quello che mi immagino?

 

Il soldato avanza, e capisco che non posso soffermarmi ancora.

Torno al mio lavoro, sperando che la notte giunga presto.

Ma non mi do per vinto: chiudo gli occhi un poco ancora, e rivedo il sole di Londra, e i tuoi capelli nel vento, e l’aroma delle tue labbra, e il mio nome sussurrato nel fiume, e tutto quello che avevamo… e sì, sento che sto mantenendo fede alla mia promessa.

Sono all’inferno, ma non sto morendo.

Sto sanguinando, perché sono vivo.

Riposo solamente, perché ti amo.

E ti ritroverò prima o poi. Qui o altrove non ha importanza.

L’importante è non dimenticarti…e non dimenticare il sole di Londra… e il pane… e il fiume… e la musica… i bambini… i cani… la torre…

La mia vita, con te.

 

William Shelby, un ebreo.

 

 

 

 

 

Sono chinata sopra questo pavimento da non so quanto.

Io e le amiche con le quali condivido questa agonia, strusciamo il pavimento senza più forze, fingendo una frizione che non usiamo in realtà.

Le mani mi dolgono e le unghia mi sanguinano.

La schiena la sento spezzarsi a metà, come un ramo secco.

Ho freddo alla testa.

Nonostante una compagna mi abbia dato un pezzo di stoffa per coprirla, sento distintamente la mancanza dei mie capelli lunghi.

Quand’era freddo a Londra, li lasciavo sempre sciolti, così da coprirmi il collo e le guance.

Ma ora, una zazzera pungente mi fa pizzicare la pelle e mi punge la notte, quando mi distendo sul mio letto di pulci e legno scheggiato.

 

Porto vestiti mai conosciuti, e il colore ambrato che dipingeva il mio incarnato, è svanito, sciolto, dalla sporcizia e dalla cupezza di questo luogo.

Spesso, quando i soldati ci controllano per garantire che stiamo in buona salute, o almeno ancora capaci di camminare da sole, ci tagliamo un dito e arrossiamo le guance col sangue.

L’altro giorno mi sono accorta che i denti si stanno spezzando da soli.

La mia bocca è spesso arida come sabbia del deserto, e la pelle del corpo mi tira addosso, come se fosse un vestito rimasto stretto.

Non ho specchi per guardarmi, grazie a Dio.

Ma posso vedere il mio riflesso negli occhi degli altri: dolore, pianto, sofferenza, rimpianto.

Ecco cosa sono diventata. Ecco in cosa mi hanno trasformata.

Un ammasso di ricordi bruciati, che si levano al cielo come la cenere che sbuffa dai camini orrendi.

Nessuno lo dice, ma tutti lo sanno.

Lì vengono uccisi i bambini, i vecchi, le donne incinta, i deboli, quelli che sono definiti gli inutili.

Bruciati, cancellati, come se non fossero mai esistiti.

 

Anch’io ero incinta, quando ci hanno deportato qui.

Di due mesi.

Avevo già le prime nausee mattutine, e quel dolore lieve al seno che ti fa credere di possedere un tesoro inimmaginabile nel ventre.

Ero abbastanza felice per decidere di già un nome. Ma abbastanza disillusa da non dirlo a nessuno.

L’ho perso, il mio bambino.

Credo sia accaduto dopo lo spavento nel vedere mia sorella uccisa dai soldati. O forse quando mi hanno colpita allo sterno con un calcio, perché camminavo toppo lenta o troppo veloce.. non l’ho ancora capito.

È accaduto in fretta, per fortuna.

Ora lui giace sotto terra, in un luogo nascosto alla cattiveria umana.

Pensate sia terribile quello che è accaduto?

No, non lo è.

È doloroso, triste, sconvolgente, ma non ti devasta.

La morte, non è la cosa peggiore che possa accadere.

Non lo credevo finché non mi hanno portata all’inferno.

Mio figlio almeno non vedrà tutto questo.

Ora è un angelo dai capelli di nocciola, come suo padre. Con i suoi stessi occhi di mare.

 

Quanto mi manca l’acqua del fiume… del mio Tamigi.

Passeggiavamo sempre lì, io e il mio amore.

Verso l’ora del tramonto, perdendoci nei riflessi incendiati che brillavano nei nostri volti.

Un anima sola, protesa verso l’infinito.

Ricordo ancora il primo bacio che ci siamo dati.

Io gli dissi che soffrivo nel vedere il sole morire.

Lui mi rispose che non moriva, ma riposava.

Ecco, anche mio figlio ora riposa…

È stato concepito in una notte d’inizio autunno, mentre le foglie cadevano e i castagni fiorivano di frutti.

Sento ancora l’odore di focacce nell’aria.

Vedo il nostro letto disfatto, i corpi che ardono ancora, sudati, ansanti, tremanti…

Fare l’amore con lui è sempre stato meraviglioso, ma quella volta fu…speciale.

Sentii in me che qualcosa era avvenuto.

Un miracolo, sorprendente, che mi rendeva unica, forte.

Ci mettemmo stesi uno di fronte all’altra a guardarci per molto tempo.

Senza parlare. Con le gambe indolenzite e il cuore in subbuglio.

Poi lui mi disse una cosa che non scorderò mai.

“Amo questa vita, anche se dovesse passare per mille tempeste. Amo questa casa, anche se resterà solo macerie. Amo questo tempo, anche se i rumori della guerra sono sempre più vicini. Amo te, ecco perché amo tutto il resto”

Sei sempre stato bravo con le parole, amore mio.

Io invece, non lo sono…e mi sento così arida adesso.

Talmente vuota e sola… mi manchi più della libertà… il tuo tocco caldo e leggero la sera prima di dormire, il bacio che faceva sbocciare il mattino, il tuo respiro placido la notte, accanto a me…

Le dolci lacrime il giorno che ti ho detto di aspettare un bambino.

Un figlio nostro.

E poi le lacrime della nostra separazione, più amare, più corroboranti…verranno contate, vero?

Un giorno tu mi dicesti che tutte le lacrime del mondo vengono raccolte in un calice dorato e presentate a Dio… che le doserà, e che non lascerà impunite…

Ma a cosa serve ora, credere in questo?

 

Non ho più sale da versare, ne miele da gustare.

La morte non è la cosa peggiore da provare…è mille volte più doloroso saperti qui, ma non con me.

Ricordare il tuo tocco e la tua voce, senza poter riavere niente per me.

Abbracciare un sogno fatto di aria e vuoto…che al risveglio mi lascia più stanca di quanto già non lo sia…

Ti amo così tanto…e per questo tanto, non soccomberò.

Lotterò, per rivedere il nostro Tamigi al tramonto.. per gustare ancora le tue labbra soffici, e le profumate coperte del nostro letto…

 

Non dimenticherò mai, non dimenticherò mai, non dimenticherò mai…

 

Il pavimento è pulito, una mia amica cede sotto la fatica e sviene esanime.

Un soldato la colpisce ed io chiudo gli occhi, staccando l’interruttore dell’udito… penso solo a te, a nostro figlio, ad un domani che ci sarà… se non qui, altrove.

Ma insieme.

Ti prego, giuramelo.. giurami che saremo insieme nel paradiso… ti prego… voglio sentire ancora l’odore di Londra d’estate, mentre mi baci e mi stringi a te…

Amore mio, finirà anche questo inferno, e avremo il nostro Eden segreto…ti amo, e non dimenticherò mai...

 

Elisabeht Anne Summers, un’ebrea

 

 

 

 

Donne, bambini, uomini, scheletri, urla, pianto, disperazione…

Ecco cosa mi hanno imposto di vedere. Ecco cosa mi hanno detto di fare, porgendomi un’arma.

< Sono inferiori. Neppure umani. Simili a topi. Feccia da estirpare dalla terra. Noi faremo pulizia. > Credici, mi ripeto. Credici, o morirai.

Mi vesto come mi hanno detto, cammino eretto, con lo sguardo serio… ma spesso, lo abbasso, per non vedere.

Mi fa morire tutta questa morte che ho attorno.

È nell’aria, impregna tutto il paesaggio.

La neve cade a coprire l’orrendo che regna sovrano, come un manto candido…

Non ho mai creduto in Dio, ma quest’oggi innalzo una preghiera per queste creature torturate fino all’inverosimile.

Deve esserci un fine. Un limite all’odio, alla rabbia, alla cattiveria.

 

Un bambino inciampa davanti a me mentre trasporta una sacca di carbone, rovesciandone il contenuto a terra.

Dovrei punirlo, picchiarlo, schiaffeggiarlo.

Forse persino ucciderlo.

Si rialza in fretta, tremando. Mi guarda, e i suoi occhi non sono più innocenti.

C’è un tendone di ricordi orribili, che non si sposterà più.

Pesante, indelebile, che gli offuscherà la vista per sempre.

Mi implora con lo sguardo…

< Non uccidermi. Ho paura. Sei cattivo > e mi ferisce il cuore, così tanto da non poter mai immaginare.

Non gli faccio niente, non potrei... Anzi, abbozzo un sorriso.

Lui è perplesso e continua a tremare. Crede sia una bugia, e che non appena si volterà, io gli sparerò.

 

Non è così, piccolo.

Non ti farò del male perché ne ho troppo dentro di me.

Se ne va in fretta, raccogliendo tutto il carbone caduto.

Un mio superiore ha visto la scena e mi si avvicina, furioso.

So già quello che mi spetta.

Se sarò fortunato, mi ucciderà con un colpo secco alla testa.

Ma non lo sono… mi colpisce, facendomi riversare al suolo.

È così soffice la terra coperta di neve. Bianca, fredda, pura.

Sento calci sull’addome, lungo la schiena, sulla testa, ma il dolore non mi raggiunge.

Scorgo una macchia nera, sul manto immacolato davanti a me.

È un segno del carbone caduto prima al bambino.

Il mio animo è così: nero, macchiato, sporco.

E piango.

Piango senza controllo, perché ho seguito una bugia, una menzogna.

 

Perdonatemi… vi prego, perdonatemi…

Non sapevo, non volevo… desideravo solo una vita serena, una moglie, dei figli…

Desideravo solo vivere… ed invece sono morto lentamente, dentro questo campo di concentramento, assieme a loro... che dovevo considerare diversi, ma che invece mi sono fratelli.

Ed ora, questi colpi che ricevo, mi fanno bene all’anima.

Me li merito tutti.

Perdonatemi… vedo gli occhi del bambino di prima davanti a me.

Mi sorride.

È felice.

E l’ultima cosa che odo prima di perdere i sensi, sono le urla dei tedeschi e le corse dei soldati.

< Sono arrivati ...l'Armata Rossa…scappiamo! > Ora non siete più i forti.

Ora scappate come formiche. E sarete schiacciati.

Io resto qui, riposando, sopra la neve.

Perdonatemi, vi prego…

 

Wesley Price, un soldato nazista.

 

 

 

 

I soldati dell'Armata Rossa sono arrivati a liberare gli ebrei nel campo di concentramento di Auschwitz Birkenau il 27 gennaio 1945.

I tedeschi sono stati catturati e posti a giudizio marziale.

William ed Elisabeth si sono ritrovati, ed oggi passeggiano mano nella mano lungo il ponte del Tamigi, circondati dai nipoti.

Hanno avuto sei figli. Il loro amore non è mai cessato e mai cesserà.

La morte non li ha raggiunti.

Essi riposeranno, ma uniti non gusteranno mai la fine, protetti dal loro amore.

 

Il soldato Wesley Price è stato graziato.

Un bambino, ha testimoniato a suo favore, ed oggi scontata la pena, vive in Francia assieme a Fred sua moglie, e i suoi tre figli.

Non litiga mai con nessuno, il suo carattere mite lo porta a chiedere spesso perdono.

Non se ne libererà mai…

 

L’olocausto è avvenuto 61 anni fa, ma è una realtà presente.

Contro la quale dobbiamo lottare.

Siamo tutti figli di uno stesso mondo.

Siamo tutti simili. Fragili, forti, umani.

Lottiamo perché questo duri nei nostri cuori e in quello dei nostri figli.

Che mai più accada tanto dolore e odio..

 

Affinché il ricordo non duri solo un giorno…

fine