A SLAYER’S DESTINY

AUTRICE:BUFFY4EVER80

 

Raiting: NC17

Paring: Spuffy…ovviamente

Timeline: Post Chosen e Post Not fade away. Lo so sono fissata…sopportatemi!

I personaggi non mi appartengono…ecc.

 

Prologo. E così lei tornò a veder le stelle.

 

Un’ esile figura si allontana velocemente nella notte, mentre il palazzo alle sue spalle viene consumato inesorabilmente dalle fiamme.

A distanza di sicurezza, si ferma ed osserva lo spettacolo, congratulandosi con se stessa.

“Anche questa è fatta!”

Alza gli occhi e si perde nella meraviglia della volta celeste.

“Da quanto tempo non vedevo le stelle?” si chiede, ma non risponde.

Perché la risposta farebbe male.

Perché la risposta la riporterebbe in una cittadina della California.

La riporterebbe ad una vita che non c’è più.

A persone che non ci sono più.

“Non devo pensarci…non devo pensarci …non devo pensarci!”

Ripete incessantemente trattenendo a fatica una lacrima traditrice.

Prende un respiro profondo, mentre si volta e cammina per strade silenziose e buie.

Il circo scintillante di lampioni ed insegne ha tirato le tende; lo spettacolo assordante di auto e persone stasera non è andato in scena. L’incostante luna con una bizza da prima donna non ha lasciato il suo camerino.

Solo le stelle, lassù, fisse, immobili, indifferenti, sono protagoniste indiscusse di questo teatro fatto di marmi e pietre che allo spettatore attento parlano di lontane memorie, sussurrano le vicende di antichi popoli, cantano di monarchie e repubbliche, di papi e popoli sovrani.

Ma non c’è nessuno più ad ascoltare.

A percorrere quelle strade solo una giovane donna, stretta nella sua giacca, persa nell’assordante rumore dei suoi pensieri, incapace di udire le voci di un passato che non le appartiene.

Roma rimane muta.

Dove sono tutti?

Sono scappati?

Possibile che la massa inconsapevole, riesca a sentire il pericolo a pelle?

Possibile che siano tutti chiusi nelle loro case, stretti gli uni agli altri in un confortevole abbraccio come bambini spaventati?

Possibile che siano in attesa di un domani che con il nuovo sole renda meno mostruose le ombre della notte?

Sono fortunati, allora.

Perchè anche domani il sole sorgerà.

Sorgerà grazie ad un manipolo di ragazzine che lotta, soffre e muore perchè la massa continui a rimanere inconsapevole delle ombre che si aggirano.

Sorgerà perché loro hanno missione ed è la missione è quello che conta, no?

“Che pensieri assurdi! Ci sarà stato sicuramente un altro blackout e le persone saranno rimaste semplicemente a casa!”

Si siede su una panchina, mentre porta la mano al fianco.

E’ stata colpita, ma non se ne preoccupa perché sa che guarirà: questo genere di ferite cicatrizzano sempre.

Almeno queste.

Sono altre quelle che non si rimarginano e continuano sanguinare.

Sanguinano nonostante il tempo.

Nonostante gli sforzi.

Sempre.

Anche adesso che dovrebbe essere solo felice di aver vinto un'altra battaglia e di essersi liberata di quella menzogna che come un fardello le è pesata sulle spalle per un anno.

O forse sanguinano proprio per questo.

Perché ha vinto un'altra volta.

Perché ha sconfitto un altro cattivo.

Perché è ancora viva.

Ma lui non c’è.

Lei è sola.

Di nuovo e a dispetto di un destino rovesciato.

“Non devo pensarci…non devo pensarci…non devo pensarci!”

E’ questo il suo mantra da quasi un anno.

E’ questo il modo in cui sta andando avanti.

E’ questo il modo in cui deve andare avanti.

Perché non ha alternative.

Perché lei deve vivere…o almeno provarci.

Deve vivere per tutte quelle ragazzine che vedono in lei una guida e che stasera ubbidienti ad un suo cenno si sono gettate in una lotta suicida per salvare la città.

Deve vivere per sua sorella, che ha bisogno di lei e che sicuramente si sentirà tradita quando le racconterà di come l’ha estromessa nuovamente dalla sua vita in nome della missione e non capirà.

“Non mi parlerà per giorni!” sospira mentre si rialza e si incaminna verso casa.

Deve vivere per il suo vecchio osservatore, che alla fine ha ritrovato e riscoperto come padre, che le ha dato un altro motivo per andare avanti e per non mollare e che aspetta una telefonata intercontinentale per conoscere l’esito della battaglia finale.

Deve vivere per i suoi amici, che, nonostante tutto, sono ancora il suo punto fisso e che dovrà chiamare per spiegare loro che non era impazzita o vittima di un incantesimo, e che il litigio faceva parte di una grande messiscena prestabilita.

Deve vivere per le persone care che non ci sono più.

Per sua madre affinché sia orgogliosa di lei.

Per un padre che padre non è.

Per quella parte della sua famiglia che non è riuscita a salvare.

Per lui, che si è sacrificato affinché lei vivesse.

“Non devo pensarci…non devo pensarci…non devo…” e scoppia in lacrime.

Perché stasera proprio non funziona.

Perché stasera, dopo un anno in cui ha dovuto fingere, in cui ha dovuto forzare il dolore nel fondo del cuore, in nome della missione, è solo stanca.

Perché stasera ha bisogno di piangere.

Perché stasera è sola con se stessa.

Perché stasera è solo Buffy Summers.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cap.1 Chi? Cosa? Quando? Ossia quando la verità è un pugno in pieno viso.

 

Nell’aprire il portone del palazzo in cui viveva ormai da più di sei mesi, Buffy aveva un unico pensiero: letto.

Un caldo e morbido letto.

Sentiva tutta la stanchezza degli ultimi giorni improvvisamente convogliare nelle gambe, mentre le braccia divenivano man mano più pesanti ed il cerchio alla testa le dissolveva i pensieri coerenti.

Forse non aveva più l’età per certe cose.

“E’ per questo che le cacciatrici sono tutte adolescenti saltellanti e piene di vita?!” chiese al vuoto, mentre saliva a fatica le scale.

Guardando le proprie mani ed i vestiti sporchi, pensò che aveva bisogno prima di tutto di un bagno.

Si, avrebbe fatto un bagno caldo e poi sarebbe andata a dormire.

Nel cercare disperatamente le chiavi di casa, Buffy aveva solo due pensieri: Bagno e Letto.

Un bagno con tanto di schiuma e bolle profumate.

Un caldo e comodo letto.

Aveva vissuto l’ultimo anno votata totalmente alla missione, immersa completamente nella lotta, dedita solo al compito affidatole, come una perfetta macchina per uccidere.

Come una perfetta cacciatrice dovrebbe essere.

Come non lo era mai stata.

L’aveva fatto per dimenticare.

Per dimenticare il dolore.

I rimorsi.

I rimpianti.

E, per sfortuna sua, lei ne aveva tanti, di entrambi.

Ma in questa folle corsa contro la sofferenza dei ricordi, aveva scordato anche se stessa e i suoi bisogni.

Aveva lasciato che la cacciatrice soffocasse la giovane donna, quale era.

Ed ora aveva un disperato bisogno di ritrovarsi, di rilassarsi, di dedicare un po’ di tempo solo a se.

Magari anche di piangere.

Avrebbe lasciato che le lacrime amare, a lungo trattenute, si confondessero con l’acqua profumata dei sali da bagno, che Dawn le aveva regalato e che non aveva mai trovato il tempo di usare.

Una fitta al fianco le ricordò quanto seriamente fosse stata colpita e dovette appoggiarsi al muro per evitare di cadere a terra.

Aveva la necessità di sedersi un attimo, togliersi le scarpe e aspettare che il dolore passasse.

Poi, avrebbe fatto il bagno e sarebbe andata a dormire

Nel varcare la soglia di casa, Buffy aveva tre pensieri: divano, bagno, letto.

Un comodo e soffice divano.

Un bagno con tanto di schiuma e bolle profumate.

Un caldo e morbido letto.

Questo era il suo piano.

Ma Dawn, evidentemente, non era dello stesso avviso.

Appena intravide la sorella dalla cucina, le si scaraventò contro, balzando al di là del muretto divisorio, saltando il divano e travolgendo con se il povero Andrew, che incurante stava giocando alla playstation, steso sul tappeto. Un fiume violento di domande preoccupate inondarono il silenzio della stanza, enfatizzato fino a quel momento solo dai suoni metallici provenienti dalla console.

“Finalmente, Buffy! Ma dove eri finita? Io ed Andrew non sapevamo più cosa pensare. Lo immagini lo spavento che ci hai fatto prendere? O eri troppo impegnata a gozzovigliare con quell’essere per preoccuparti di avvertirci?”

“Dawn..” cercò di replicare la cacciatrice.

Ma ormai la giovane ragazza era partita in modalità mamma e niente sarebbe riuscita a fermarla.

“No, niente Dawn…Sono due giorni che non ti fai sentire!” la bloccò repentinamente con un gesto della mano per zittirla.

“Non sapevamo cosa fare…volevo chiamare la polizia, gli ospedali…stavo per fare il numero dei…dei…dei…” la mancanza della parola,sottolineato dallo schiocco delle dita, bloccò quel fiume in piena, permettendo a Buffy almeno di respirare.

“Chissà se riesco ad arrivare al divano?” pensò.

“Come si chiama quel buffo corpo militare che hanno qui in Italia?” domandò Dawn, ad Andrew, che osservava lo scontro frontale limitandosi ad assentire con una faccia grave.

“Intendi i carabinieri?” le chiese a sua volta il ragazzo.

Percependo un piccolo movimento, inchiodò nuovamente lo sguardo infuocato sulla sorella, decisa a non mollare la presa finché l’irritazione non fosse stata completamente sfogata.

“Esatto! Stavo proprio per chiamare i carabinieri…ero preoccupata a morte. Ora pretendo una spiegazione e spera per te che sia convincente perché non puoi immaginare quanto sia arrabbiata. Sei uscita di casa più di ventiquattro ore fa, per andare ad una stupida festa e rincasi solo adesso. Ma quanto è durata questa festa? E poi ti sei vista? Hai un aspetto orribile, i vestiti strappati…ma…ma quello è sangue?”

A quella visione, il sacro furore della rabbia venne meno improvvisamente e Dawn osservò attentamente la sorella per la prima volta da quando era entrata.

I capelli spettinati, la faccia stravolta e due macchie nere di mascara colato sotto gli occhi; i pantaloni anneriti, la giacca di camoscio leggermente strappata su una manica e una grossa macchia rossa sulla camicia.

“Ma Buffy…cosa è successo?”

La cacciatrice che, fino a quel momento era rimasta in silenzio, immobile davanti al tribunale della santa inquisizione istituito dalla giovane, si avvicinò al tanto agognato divano e vi si accasciò esausta, sperando che il dolore le desse un po’ di tregua. Prendendo un respiro profondo, cercò in se stessa la forza necessaria per non svenire sotto i colpi incessanti della stanchezza e per rispondere alle domande che il viso preoccupato della ragazza e quello confuso di Andrew le urlavano in silenzio.

“Dawn, non sono andata ad una festa…anche se ho fatto la festa a qualcuno!” cominciò con una battuta che aveva già pronta da ponte Sant’Angelo.

Era il suo modo di affrontare le difficoltà e le situazioni imbarazzanti: smorzare i toni con una frase brillante, anche se quasi mai i suoi interlocutori sembravano apprezzare, o ne avevano il tempo.

Ma questa era un'altra storia.

Neanche i due ragazzi avevano colto il gioco e si lanciavano sguardi allibiti.

Un unico vampiro aveva mostrato fin dal loro primo incontro interesse per questa sua caratteristica e le aveva sempre risposto a tono, portando avanti la loro particolarissima danza a volte fatta solo di parole.

“Non devo pensarci…non devo pensarci…non devo pensarci!” Ricacciò il ricordo nei meandri più nascosti della sua mente, per riuscire a mantenere la maschera integra almeno un altro po’.

“E’ una storia lunga, e te la racconterò, te lo prometto, però prima ho bisogno di farmi una doccia e disinfettare questo taglio. Ma perché il punto preferito del cattivo di turno per ferirmi è sempre il fianco?” disse aprendo la giacca per mostrare alla sorella la lunga lacerazione, prima che questa potesse chiedere.

“ Ma chi…insomma cosa… e quando…?” fu il borbottio confuso dei due ragazzi.

“Edward aveva dei piani…piani apocalittici, ma semplicemente non ha tenuto conto di me e della mia squadra di cacciatrici”

“Edward? L’immortale?” domandò stranito Andrew.

“Squadra di cacciatrici?” gli fece eco Dawn.

“Ve l’ho detto, è una storia lunga…”

”Abbiamo tutto il tempo!”

Rassegnata, Buffy capì che il suo bel piano era ormai sfumato: non era ancora il momento per rilassarsi.

“Lo sarà mai?” fu la domanda fugace che balenò nella sua mente.

“Datemi mezz’ora e vi racconterò tutto dall’inizio!” e forzando un sorriso sul viso, si alzò diretta al bagno, lasciando i due ragazzi con le loro domande ed i loro dubbi ad osservare ormai il divano vuoto.

Preparando l’acqua nella vasca, ripensò agli avvenimenti della serata.

Il suo piano aveva funzionato alla perfezione: lei e le dieci cacciatrici sotto il suo comando si erano introdotte senza problemi nei saloni sotterranei della villa dell’immortale, bloccando in maniera tempestiva il rituale per l’apertura del portale.

“Chissà cosa ne sarebbe uscito?” si chiese, per nulla incuriosita in realtà dalla risposta.

Un'altra fitta al fianco, mentre si spogliava, le ricordò la reazione di Edward alla loro interruzione.

“Felice di vedermi, tesoro?” lo aveva canzonato, mentre le ragazze facevano fuori i suoi tirapiedi.

“Ho portato delle amiche, spero che non ti dispiaccia?”

Lui le si era scagliato addosso armato di un pugnale, mentre lei evitava gli affondi stringendo la sua fedele ascia. La lotta aveva continuato così per alcuni minuti, finché l’uomo non era riuscito finalmente a colpirla.

Un flash di una ferita simile le era passato negli occhi e quel dolore chiuso nel suo cuore era esploso. Improvvisamente un furore, che non ricordava di provare da tempo, si era impossessato di lei e prima ancora di rendersi conto di cosa stava accadendo, era alle spalle dell’immortale, tranciandogli la testa con un unico colpo netto.

Permettendo alla acqua calda di rilassarle i muscoli, Buffy chiuse gli occhi ed ebbe la consapevolezza che la sua irreprensibile sorella non avrebbe facilmente accettato la verità e non avrebbe mai capito il perché delle sue menzogne.

“Non mi parlerà per giorni!” sospirò rassegnata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Buffy stava parlando da venti minuti, tra le incessanti domande di Andrew e i silenzi ingombranti di Dawn.

Avrebbe preferito che la sorella urlasse, piangesse, che la picchiasse, addirittura, o almeno ci provasse. Che le dimostrasse una reazione.

Qualunque reazione, piuttosto che vederla con lo sguardo fisso su quel brutto mobile di finto mogano, laccato, comprato a Porta Portese su insistenza lacrimevole del loro strambo inquilino che affermava di averne uno “identico” nel suo salotto a Sunnydale.

“Ma allora l’amore per i monumenti antichi e per la storia romana era una scusa?”

“Si!” annui la cacciatrice esasperata.

“Ed anche la passione per il cibo italiano?”

“Si!”

“E gli uomini latini?”

“Si…Si…e ancora SI! Erano tutte scuse per convincervi a trasferirvi con me a Roma, Andrew. Te l’ho già spiegato!” sbottò improvvisamente Buffy, alzando la voce.

“Alcuni mesi fa le streghe del consiglio registrarono un insolita crescita dell’aurea demoniaca qui e quando Giles la collegò alle attività dell’immortale, decidemmo di indagare. E’ questo il vero motivo del nostro trasferimento!” Riuscì finalmente a dire, mentre il ragazzo abbassava gli occhi e si perdeva nei suoi pensieri.

Dawn si alzò di scatto dal divano e senza dire una parola si avviò verso il corridoio.

Buffy sapeva che in quel momento non avrebbe potuto dire niente per farla calmare.

Sapeva che non avrebbe potuto fare niente perchè accettasse le sue parole.

Sapeva che la sorella aveva bisogno di restare sola.

Di restare sola e sfogare la propria rabbia contro gli oggetti della propria camera.

Buffy sapeva che era giusto così.

Eppure non potette impedirsi di fare quel piccolissimo errore sottoforma di bisbiglio.

“Mi dispiace!”

Appena vide la sorella ruotare la testa ed il corpo in un movimento lento e calibrato, quasi come se fosse stato rallentato da una moviola per enfatizzare la drammaticità dell’azione, Buffy seppe cosa stava per succedere.

Presto quella casa sarebbe stata travolta dall’ apocalisse scatenata da una adolescente controllata dai propri ormoni e da una rabbia atavica, antica come lo era la chiave, che un tempo era stata.

Dawn avrebbe mostrato a lei e all’innocente Andrew il perché veniva definita l’Uragano e la vera entità della sua forza distruttrice.

“Sarebbe riuscita a sopravvivere, questa volta?”

Si chiese, mentre vagava con lo sguardo per la stanza, registrando un ultima immagine di quella che, in quei pochi mesi, avevano, a forza, definito casa.

Nell’angolo vicino la finestra, un tavolo tondo con sedie color castagno riproponeva, con la credenza in finto old style inglese, la sala da pranzo della casa di Ravello Drive. L’avevano scelta nella speranza di ricreare un pezzo del loro passato, dall’altro lato dell’oceano; solo che, senza le tovaglie di lino della madre, i piatti di porcellana della nonna e il tacchino fumante della domenica, il tutto sembrava solo una copia sbiadita e artificiale di qualcosa che non sarebbe stato più.

Al centro faceva bella mostra di sé il divano in tessuto rosso e il grande televisore ultrapiatto, regalo più che gradito, se pur con una certa dose di rimorsi e scrupoli, del suo ex , finto, fidanzato ed ex, ma vero questa volta, nemico: l’immortale.

Oggetto che, per altro, era stato motivo di furibonde litigate tre lei e Dawn.

Divisa da un muretto basso, tinteggiato con lo stesso colore rosso, una lunga cucina in laminato occupava la parete opposta alla finestra. L’avevano comprata una domenica all’Ikea e montata in una “sola” settimana, attrezzandola di tutti gli ultimi elettrodomestici che il mondo culinario poteva offrire per preparare tanti “succulenti piatti italiani”, il cui profumo però non aveva mai riempito quelle stanze, visto che nessuno di loro sapeva cucinare.

E naturalmente quel brutto mobile in finto mogano laccato, accanto alla porta di ingresso.

Questo era il loro soggiorno e presto non ci sarebbe stato altro che macerie.

“Ti dispiace? E per cosa ti dispiace esattamente, Buffy?” disse Dawn, quasi sputando fuori il nome della sorella.

“Ti dispiace di avermi trascinata qui, contro la mia volontà, quando ti ho scongiurato di rimanere in Inghilterra? Di avermi mentito dicendomi che avevi bisogno di un cambio radicale per tornare a vivere ed allontanarti dal fantasma di una esistenza che non ti apparteneva più? Per aver usato il nostro passato per convincermi a venire in questa città maledetta?O perchè per mesi mi sono sentita una miserabile ed un egoista, perché tu sembravi così serena ed io non riuscivo ad essere felice per te e mi sentivo in colpa per questo?”

Dawn parlava con un tono calmo, con la voce bassa ed un ghigno sulle labbra, ma il suo sguardo tradiva tutta la rabbia covata all’interno ed i pugni serrati erano il segno tangibile della collera repressa.

“Ti dispiace perché ho passato mesi di inferno cercando disperatamente di adeguarmi a questa nuova realtà, alla nuova casa, alla nuova scuola, ai nuovi compagni con cui non sono riuscita a legare, per non parlare del recupero dello studio, le lacune della lingua, che ancora non capisco? Ti dispiace di avermi allontanato da Xander, Willow, Giles? Dalle uniche persone che ancora mi dimostrano affetto sincero? Ti dispiace di avermi allontanata dalla mia famiglia, l’unica che mi rimane?”

Buffy sentì una pugnalata in pieno cuore.

Vide il dolore negli occhi azzurri, velati di lacrime, della sorella.

Vide il riflesso della sua stessa sofferenza, che lei aveva deciso di auto-infliggersi per mascherarne un'altra e che, invece, la giovane ragazza aveva subito ignara dei motivi.

“Dawn…io…” ma le parole le morirono in gola.

Cosa avrebbe potuto dirle per altro?

Che le voleva bene? Non era scontato?

O forse questo era il problema?

“Cosa? Tu, cosa? Tu mi vuoi bene? E’ questo che mi vuoi dire?” le urlò con tutto il fiato in gola, facendo sobbalzare Andrew, che assisteva completamente inerme a quella sfuriata.

“Tu lo dici, ma non me lo dimostri! Continui a ignorarmi, ad escludermi dalla tua vita, trattandomi come una bambinetta a cui si deve mentire, nascondere la verità? Perché? Perché, Buffy?” cominciò a chiedere tra le lacrime sempre più copiose.

“Perché mi hai mentito? Perché non mi hai detto che venivamo qui per un'altra missione?”

“Perché ti saresti arrabbiata!” riuscì a controbattere la cacciatrice, decisa a non farsi intimidire da quel fiume di rabbia, senza aver urlato a sua volta le proprie ragioni.

“Certo che mi sarei arrabbiata…ma poi avrei capito…avrei avuto solo bisogno di tempo per abituarmi all’idea…”

“Ed è proprio il tempo che non avevo. Ho dovuto prendere una decisione velocemente e non potevo aspettare te e i tuoi piagnistei!” le rispose con un tono acido senza sapere da dove le fosse uscito.

“Ed è di questo che parlo…vedi? Tu mi metti sempre dopo. Dopo tutto! E forse un tempo lo potevo sopportare ma ora, sinceramente no! Non sei più l’unica cacciatrice, ce ne sono tante…sarebbe potuta venire una qualsiasi…sarebbe potuta venire Faith…ma invece no…perché la grande Buffy pensa sempre prima alla missione, al bene del mondo…e chi se ne frega se ha una sorella che piange in silenzio ogni notte nella sua stanza…”

“Basta…Basta…BASTA!” urlò Andrew interrompendo quel gioco al massacro che le due sorelle avevano cominciato. Si girarono all’unisono per vedere un furioso giovane osservatore, con il viso rosso, gli occhi indignati e le mani in aria quasi a voler allontanare quell’aurea negativa dalla stanza. Alle due ragazze sfuggì un sorriso.

“Basta! Non ci sto capendo più nulla. Ora vi calmate, ci sediamo e Buffy ci spiega tutto daccapo…” disse con autorità.

Autorità che accese nuovamente la furia di Dawn, alla ricerca di un nuovo bersaglio.

“Stai dalla sua parte?”

“No…no... cioè…io non sto dalla parte di nessuno” balbettò Andrew, spaventato dallo sguardo che gli aveva lanciato la ragazza.

Poi ricomponendosi ed alzandosi in tutta la sua altezza, per fronteggiare l’ “Uragano” continuò.

“Sto solo cercando di non farvi scannare, dicendo cose che non pensate…”

“Io le penso invece…” lo interruppe nuovamente Dawn.

Andrew, non intenzionato a cedere di fronte a quelli che credeva dei capricci, la bloccò a sua volta.

“Ma smettila, che stai esagerando e lo sai anche tu. Uno non è vero che odi questa città…”

“Si che la odio, non sono riuscita ancora ad ambientarmi..!”

“Ma stiamo qui solo da pochi mesi. Datti tempo. Due non fare la melodrammatica che senti Willow e Xander tutti i gioni e…”

“Ma non è la stessa cosa, mi mancano e…”

“Mancano anche a me!” intervenne questa volta Buffy, colpita dalla capacità del ragazzo di tener testa alla sorella

“Oh…lo vedete…una cosa su cui andate d’accordo. E Dawn, se tu lasciassi la possibilità di spiegare sono sicuro che capiremmo tutti cosa è realmente accaduto. Allora? Che vogliamo fare? Vogliamo rimanere tutta la notte, anche se ormai è quasi l’alba, in piedi ad urlare cattiverie senza senso o vogliamo sederci e risolvere con calma?”

Le due ragazze si limitarono ad annuire e a sedersi nuovamente sul divano, mentre Andrew recuperava una sedia e si accomodava di fronte le due, fiero di se stesso. Immedesimandosi completamente nella parte dell’arbitro, parlò per primo, quando il silenzio tra le sorelle, che non riuscivano a guardarsi negli occhi, si fece imbarazzante.

“Allora Buffy, ora ci racconti cosa è successo dopo il nostro trasferimento…senza interruzioni questa volta…”

“Perché tu?” chiese, ignorandolo completamente, Dawn.

“Ecco appunto!” il ragazzo roteo gli occhi in aria, rattristandosi di aver già perduto la sua autorità effimera.

La domanda fu posta senza rabbia, senza giudizio, ma tradiva un ansia di conoscenza, che la cacciatrice non potette ignorare.

Tradì il desiderio di capire nel profondo la sorella, di non sentirsi ancora esclusa.

Tradì il desiderio di sentirsi amata, nonostante tutto.

Nonostante le bugie.

Nonostante le urla.

Nonostante le parole astiose.

E Buffy, davanti quell’ ingombrante richiesta d’amore, cedette.

“Perché io? Potrei dirti che solo io potevo portare avanti questa missione…e sarebbe vero. Ma non sarebbe la mia verità!”

La osservò nel profondo di quegli occhi azzurri, che a volte la guardavano come in un'altra vita facevano altri due occhi blu.

La guardavano con aspettativa.

Con speranza.

E lei li aveva disattesi. Sempre.

Entrambi.

Una lacrima le solcò il viso e questa volta non si curò neanche di fermarla.

Il mantra non avrebbe funzionato.

E forse era meglio così.

Basta con le maschere.

Basta con le bugie.

Via gli scudi.

Al diavolo la cacciatrice solo forza e coraggio.

Non voleva più essere così.

Voleva seguire il suo cuore.

Come aveva sempre fatto prima che questo le fosse calpestato.

Come non aveva fatto quando le era stato curato.

Avrebbe seguito il suo cuore nonostante il sanguinamento.

Lo avrebbe seguito anche se questo avrebbe mostrato tutto il dolore e le lacrime trattenute.

Perché solo mostrandosi avrebbe potuto ricevere comprensione.

Solo mostrandosi avrebbe permesso alla sorella di conoscerla.

Solo mostrandosi avrebbe potuto conoscere realmente Dawn.

“In Inghilterra non ti mentii. Io avevo bisogno realmente di allontanarmi. Ma più di tutto avevo bisogno di qualcosa che mi impedisse di pensare. Giles me ne diede l’occasione ed io la colsi senza rifletterci due volte. Sono stata egoista…hai ragione. Ma soffrivo troppo per rendermi conto di te e dei tuoi sentimenti. E’ di questo che mi dispiace!”

“Perché non mi hai detto niente quando siamo arrivate qui?” le chiese la ragazza, colpita dalla sincerità della sorella.

“Avrei voluto…ma a Roma, le cose si sono complicate in poco tempo. L’immortale viveva completamente blindato e accedere alla sua villa e quindi ai suoi piani era impossibile dall’esterno. C’era un unico modo. Dovevo avvicinarlo!”

I due ragazzi ascoltavano in silenzio il racconto di Buffy rapiti dalla verità che si svelava pian piano davanti ai loro occhi.

“Giles scoprì che nel passato Edward aveva sedotto sia Darla che Drusilla. Pensammo che fosse un modo per pareggiare qualche conto in sospeso con Angel o con…Pensammo che se mi fossi avvicinata non avrebbe perso l’occasione di cercare di sedurre anche me. E così fu!”

A Dawn non sfuggì la piccola omissione della sorella ed il suo cambio repentino di discorso.

Andrew emise un sospiro di sollievo che attirò l’attenzione su di lui.

“Cosa c’è?” chiese la ragazza.

“Uhm…non niente…è solo che ora comincia ad essere tutto più chiaro…!”.

“Bah…forse per te. Buffy, ti prego continua!”

“Una sera, in quel locale al centro, mi avvicinai fingendo di non sapere chi fosse. Naturalmente lui conosceva bene la mia identità e forse anche per questo si dimostrò fin da subito interessato. Però Edward non era uno stupido e cominciò a tenermi d’occhio costantemente, facendomi seguire, mettendo sotto controllo il telefono ed il cellulare, spargendo qua e là telecamere!”

“Cosa?” stupiti, le chiesero i due.

“Il televisore ad esempio!” rispose laconicamente Buffy.

“Il televisore che ci ha regalato, ha una videocamera e un microfono incorporato, per spiare i miei movimenti in casa!”

“E tu lo sapevi?” domandò Dawn

“Naturalmente!”

“Ma allora, perché lo hai accettato?”

”Dovevo farlo. Io sapevo di essere osservata. Perciò ho imbastito un grande messinscena ad uso e consumo dell’Immortale. Ho smesso di andare a caccia; ho chiuso i rapporti con Giles ed ho litigato con Willow e Xander. Mi sono immersa nel suo mondo fatto di feste e soldi. Ho recitato la parte della Buffy sedotta dal lusso e dal potere; lusingata dai suoi regali. Ho recitato la parte della cacciatrice stufa del proprio ruolo e dei drammi della propria chiamata, desiderosa solo di un cambiamento radicale.”

“Hai vissuto in una bugia…anche tu!”

“Già…ed è stata dura, ma era di fondamentale importanza che lui credesse che io avessi chiuso con il passato!”

“Ma…non capisco…se non parlavi più con Giles, come hai fatto ad organizzarti con le altre cacciatrici?” chiese dubbioso Andrew

“Attraverso Monica!”

“Chi?” domandarono nuovamente all’unisono i due ragazzi, mentre Dawn si grattava, per quella sera, l’ennesima volta il naso, come le era stato insegnato dalla sua compagna di banco.

“Dai, la conoscete…Monica!”

“Io non la conosco, ne sono sicura, e tu, Andrew?”

“Nemmeno io. L’unica Monica che mi viene in mente è la ragazza che lavora alla pasticceria qui all’angolo…”

“E’ lei!”

“Cosa?”

“E’ una cacciatrice…più o meno. Altra storia lunga…!”

“Facci un riassunto!”

Buffy lanciò uno sguardo alla finestra.

Il sole stava sorgendo.

La notte stava per finire.

“Ma la mia quando finirà?” si chiese prima di rispondere.

“E’ stata contattata da un osservatore un anno fa. Solo che non deve essere stato molto convincente, perché lei non ha accettato la chiamata ed è fuggita. Ha lasciato Trieste e si è trasferita qui a Roma. Nessuno sapeva di lei, neanche l’immortale, perciò è stato importante il suo aiuto. Non è stato facile persuaderla; quando ha capito che il consiglio non aveva perso mai le sue tracce, voleva scappare nuovamente. Ma alla fine ha accettato di fare da intermediario tra me e le altre. Abbiamo stabilito un codice in base ai dolci!”

“Ecco spiegato il nostro frigorifero strapieno di cannoli e babà!” commentò Andrew.

“Quindi anche il litigio su…era fatto apposta?” chiese per conferma Dawn, che aveva seguito il percorso dei suoi pensieri in una direzione completamente diversa.

Buffy capì a cosa si stesse riferendo, solo guardandola negli occhi.

“Si…ti dissi che lo aveva dimenticato, che mi ero innamorata nuovamente…ma non era vero!”

“Cosa?” domandò sconvolto Andrew, interrompendo lo scambio di confessioni sussurrati attraverso lo sguardo tra le due sorelle.

“Ma…ma…prima hai detto che ti ha sedotto?”

“No…ho detto che ci ha provato ed io glielo ho fatto credere…io non sono mai stata innamorata di Edward!” rispose con veemenza Buffy, quasi come se il pensiero la disgustasse.

Poi girandosi nuovamente verso Dawn, le prese una mano nella sua e continuò a parlare.

“Anche se Edward non fosse stato l’immortale, io non mi sarei mai potuta innamorare di lui. Né di lui né di nessun altro. E onestamente non so se ci riuscirò nuovamente. Il mio cuore è morto un anno fa a Sunnydale…come potrei mai donarmi ad un altro dopo di lui?” chiese in una domanda disperata che non aveva risposta.

“Oh, Dawn, non sai quanto è stata dura fingere un sorriso quando volevo solo piangere, ridere quando il dolore voleva esplodere investendomi totalmente. Quanto è stata difficile recitare di essere andata avanti, quando non l’ho fatto e non voglio farlo!” e scoppiò finalmente in lacrime, lanciandosi nell’abbraccio caldo della sorella, che l’accolse in silenzio.

“Oh mio Dio!” Andrew si alzò di scatto dal divano.

Buffy, asciugandosi le lacrime e tornando a sedersi compostamente, lo osservò mentre misurava a grandi passi lo spazio del soggiorno avanti e indietro.

“Oh mio dio…lei non è andata avanti…ma io…ero convinto…lei andata avanti…no…Oh mio dio, cosa ho fatto?”

“Andrew? Che ti prende?”

Il ragazzo non rispose, perso in una incomprensibile litania, mentre i suoi gesti si facevano man mano più nervosi ed il movimento di andirivieni accelerava.

”Andrew? Rispondi! Così ci stai facendo preoccupare”

Il ragazzo si bloccò del tutto alla voce della cacciatrice.

Poi la guardò con un viso spiritato e cominciò a piangere.

“Oh…mi dispiace, Buffy! Realmente mi dispiace! Ma io non avrei mai…se avessi saputo…ma io non sapevo…io ero convinto…!”

“Andrew, calmati, non sto capendo nulla!”

“Io non avrei mai detto quelle cose, se…ma tu e Dawn, avevate litigato e tu le avevi urlato che eri felice e che…!”

Dawn, si alzò dal divano e raggiunse il ragazzo, scuotendolo per le spalle.

“A cosa ti stai riferendo? Quali cose non avresti detto?”

Prendendo un forte respiro, e senza togliere lo sguardo dalla caciatrice, rispose.

“Che Buffy era andata avanti…che era innamorata dell’Immortale…!”

L’assurdità di quella bugia, da lei creata, colpì Buffy nel profondo.

Realmente qualcuno che la conosceva poteva credere a tale insensatezza?

Come avevano fatto Dawn ed Andrew a prestar fede a quella enormità?

E Xander e Willow?

Possibile che nessuno di loro la conoscesse talmente tanto bene da capire che era impossibile che lei amasse qualcun altro?

“Lui lo avrebbe capito!” si disse.

“A chi lo hai detto?” chiese nuovamente arrabbiata Dawn.

Andrew tentennò.

Dal suo sguardo era evidente che avesse paura di rispondere.

Era poi così importante?

Buffy pensava di no. Era stato solo un equivoco che si sarebbe potuto risolvere con un chiarimento.

Ma allora dove era il problema?

Andrew chiuse gli occhi, facendosi coraggio.

“Ad Angel!”

Buffy non ebbe il tempo di metabolizzare quelle parole, che il ragazzo continuò.

“…e a Spike!”

Quel nome che per un anno si era rifiutata di pronunciare, che la sua stessa mente si era negata di elaborare, la colpì in pieno viso come un pugno.

Un dolore immenso che non riuscì ad identificare, la investì, e se non fosse stata già seduta sarebbe sicuramente caduta a terra.

La sua mente cominciò a girare a vuoto, incapace di registrare cosa stesse accadendo

Un altro pugno attraversò la stanza.

Il sole era alto nel cielo.

La notte era finalmente finita.

Una cacciatrice rimaneva inerme, sconvolta su un divano di tessuto rosso, ad osservare con sguardo vacuo un televisore spento.

Una ex chiave si massaggiava la mano, dolorante ma non ancora soddisfatta, accanto ad un tavolo color castagno.

Un giovane osservatore rimaneva steso a terra, svenuto, vicino ad un mobile in finto mogano laccato.

L’apocalisse non si era scatenata.

Il soggiorno era ancora lì.

Ma tre vite erano inesorabilmente sconvolte.

Ancora.

Ed un unico pensiero, su una musica nota, aleggiò nella stanza.

“Where do we go from here?”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cap. 2 Perché? Perché? Perché? Dubbi confusi e telefonate difficili

 

“Spike è vivo”.

La frase riecheggiava nella mente di Buffy che, ferma nella stessa posizione,ormai da mezz’ora, non riusciva ad elaborare altri pensieri coerenti.

“Spike è vivo”.

Il resto del suo cervello era un ammasso confuso e caotico di domande che si inseguivano e si intrecciavano, formando trame che la lasciavano schiacciata sul quel divano ad osservare un televisore spento.

“Spike è vivo”.

Si ripeteva, ma cosa questo significasse Buffy non riusciva realmente a capirlo.

Era accaduto tutto troppo velocemente per poter essere assimilato.

Era ancora tutto troppo nebuloso per riuscire a comprendere

Alcuni dubbi li aveva svelati Andrew, che una volta ripresosi, era stato messo sotto interrogatorio da Dawn.

A quanto aveva raccontato il ragazzo, Spike era riapparso dal medaglione nell’ufficio di Angel in forma incorporea, una ventina di giorni dopo la chiusura della bocca dell’inferno a Sunnydale. Era rimasto in quella condizione per mesi, incapace di allontanarsi dalla Wolfram & Hart, fino a quando, un giorno, gli era stato recapitato un pacco che lo aveva reso di nuovo corporeo. Andrew aveva saputo del suo ritorno un paio di mesi prima quando si era recato a Los Angeles per recuperare Dana. Il vampiro lo aveva pregato di mantenere il segreto, volendo essere lui stesso a dare la notizia alla cacciatrice. Un paio di settimane fa, poi, lui e Angel erano venuti a Roma, per motivi che il ragazzo non conosceva, e l’avevano vista ballare felice con l’immortale. Era stato allora che Andrew aveva detto loro di dimenticarla, di andare avanti perchè lei lo aveva fatto.

Se quelle parole, balbettate sotto lo sguardo inceneritore di Dawn, avevano spiegato alcune cose, tuttavia le questioni veramente importanti erano ancora lì ad ingombrare una stanza, ora silenziosa.

Perché Spike non le aveva detto niente?

Perché non era tornato da lei?

“Lui era sempre tornato!”

Perché aveva creduto ad Andrew?

“Lui avrebbe dovuto capire che era solo una menzogna.”

E soprattutto una domanda la tormentava ormai da un anno; una domanda dolorosa a cui non aveva voluto dare una risposta.

Perché la risposta l’avrebbe distrutta definitivamente

Perché la risposta avrebbe chiarito anche tutti gli altri dubbi e non le avrebbe più lasciato speranza.

La speranza in cui si era crogiolato il suo cuore agonizzante.

La speranza che quelle parole fossero state dette per lasciarla libera di andare avanti.

La speranza che fossero state dette perché lui fosse libero di sacrificarsi.

Però lei non era andata avanti e lui non era morto.

E allora la domanda tornava prepotentemente alla ribalta.

“Possibile che non mi abbia creduto realmente, a Sunnydale?”

Una lacrima le solcò il viso stanco.

Un bruciore le attraversò il corpo.

Osservò il palmo della mano dove ancora faceva bella mostra di se il segno del loro ultimo incontro.

<<ti amo>>

<<non è vero. Ma grazie per averlo detto>>.

Rivide le fiamme sprigionarsi dalle loro dita intrecciate, e sentì lo stesso calore avvolgerla.

Ma il fuoco questa volta non fece male.

Non fece male perché il dolore di quelle parole fu più forte.

La ferì intimamente.

Il dubbio, sopito per un anno, cominciò ad urlare le proprie certezze.

E la ragione non riuscì ad opporsi.

Le paure presero corpo e voce.

Risuonarono attraverso una voce che lei conosceva bene.

Una voce che nelle notti in cui aveva pianto per un paradiso perduto, l’aveva consolata.

Una voce che nelle notti in cui aveva ricercato l’oblio, l’aveva eccitata.

Una voce che le aveva sussurrato la più belle delle dichiarazioni d’amore, e che ora le urlava tutto il suo disprezzo.

“E’ questa la semplice verità, Buffy. Non ti ho creduto. E perché poi lo avrei dovuto fare?. Non mi sembra che tu me ne abbia dato i motivi. Maledizione, mi hai detto che mi amavi mentre mi stavo sacrificando per il mondo e tutto stava crollando. Avrei dovuto pure crederti? Che io sia dannato, cacciatrice, ma non ho mai avuto bisogno della tua pietà. Ecco perché non sono tornato e non ti ho detto niente. Perché anche io ho una mia dignità, ed essere trattato ancora da zerbino non ci sto più. E allora preferisco i piagnistei della grande checca che le tue scuse. Poi da quello che ho visto e mi ha detto il moccioso che si atteggia a osservatore, non mi sembra che tu ti stessi disperando per me. Ma meglio così…perché se tu mi puoi dimenticare, lo posso fare anche io…anzi sai che ti dico, cacciatrice? Che l’ho già fatto! Sono ormai guarito dalla mia ossessione. Non ti amo più...”

Immersa in quel vortice di distruzione emotiva, non si accorse della sorella che, rientrata in soggiorno, si andò a sedere accanto a lei.

“E forse non l’ho mai fatto!!”

“Ehi!”

La voce di Dawn si sovrappose a quella di Spike, facendola sparire.

Fu per Buffy il salvagente a cui aggrapparsi per riuscire a riemergere dalle acque profonde della autocommiserazione in cui stava ormai affogando.

“Come ti senti?” le chiese la sorella, carezzandole i lunghi capelli biondi, dolcemente, come faceva la loro madre.

“Non lo so…è tutto così…” Buffy non riuscì a finire la frase, ancora profondamente toccata dalle sue stesse paure.

“Confuso?” le venne in aiuto la giovane ragazza.

“Già!” riuscì solo a dire lei, abbassando lo sguardo e vergognandosi improvvisamente per la sua debolezza.

La sorella la guardava con uno misto di pietà e comprensione, che Buffy odiò.

Perché alla cacciatrice, che si agitava in lei, non piaceva essere compianta.

Perché la ragazza sconvolta, che era, non sopportava di leggere la comprensione negli occhi degli altri quando lei stessa non sapeva come sentirsi e cosa fare.

Sperò che la sorella capisse e la lasciasse sola.

Aveva bisogno di riflettere.

Aveva bisogno di venire a patti con quello che era accaduto.

Aveva bisogno di decidere e agire.

Poi avrebbe potuto parlare con gli altri e condividere.

Ma ora no.

Per altro, cosa avrebbe dovuto condividere,ora? La propria confusione?

La confusione in cui era totalmente persa, proprio lei che odiava sentirsi così?

“Posso darti un consiglio?”

Buffy si limitò ad annuire, non volendo realmente sentire niente.

“Non saltare a conclusioni affrettate!”

“Uh?” Alzò di colpo lo sguardo colpita da quelle parole inaspettate.

“Scommetto che in questo momento la tua mente è piena di domande del tipo perché non è venuto, perché non mi ha detto niente, mi amerà ancora, mi avrà dimenticato…vuoi negarlo?” e Dawn alzò il sopraciglio come le aveva insegnato una vita fa un vampiro impertinente.

Buffy cercò di ignorare il tuffo al cuore che quel semplice gesto le aveva procurato e si concentrò su sua sorella, chiedendosi quando fosse diventata così intuitiva.

“Non farlo…se rimani qui a tormentarti con queste domande, ti farai solo del male. Qualunque spiegazione, chiedila direttamente a lui. Se qualcosa mi ha insegnato questa serata, è che il dialogo è l’unica soluzione”

La cacciatrice guardò Dawn, stupita ancora una volta dalla profondità di quelle parole.

Possibile che questa fosse la stessa ragazzina che un paio di ore prima faceva i capricci e le gridava contro le più brutte accuse?

Possibile che fosse diventata improvvisamente saggia?

Qualcosa a cui non aveva mai fatto realmente caso, la colpì.

La sorella era cresciuta prima del tempo.

Lo aveva dovuto fare.

Solo che, presa da apocalissi e drammi personali, non se ne era accorta.

Aveva continuato a trattarla coma una bambina.

Ma la sorella non lo era più.

E, se aveva dimostrato a volte delle reazioni immature, erano state più risposte indispettite al suo stesso atteggiamento.

Dawn era ormai una giovane donna.

Saggia.

Profonda.

Con la capacità di leggere nell’animo delle persone, meglio di quanto volesse a dare a vedere.

La madre ne sarebbe stata orgogliosa.

Buffy stessa lo fu.

In quel momento, capì che per una volta poteva permettersi il lusso di appoggiarsi a qualcuno.

Senza rimorsi. Senza sensi di colpa.

“Tu lo ami?” Dawn le chiese a bruciapelo.

“Si!” rispose spontaneamente, stupendo se stessa e la sorella.

Perché nelle questioni sentimentali non era mai stata diretta; men che meno lo era stata riguardo Spike. Ma ora realmente non aveva più senso negare.

Il cuore aveva trovato la sua collocazione e anelava a tornarci.

“E allora chiamalo!” Le consigliò Dawn.

“Chiamarlo?”

“Beh, si! Sappiamo che è da Angel, il suo numero lo hai, qual è la difficoltà?”

”E se lui…lui…non mi amasse più?” riuscì a dire mentre nuove lacrime minacciavano di affacciarsi dai suoi occhi già rossi e gonfi.

La cacciatrice dentro di se si ribellò a quella nuova manifestazione di debolezza e si chiese nauseata da dove venisse tutta quella sensibilità emotiva.

La ragazza insicura si crogiolò in quegli sfoghi emozionali.

“Oh, Buffy. Stiamo parlando di Spike. Stiamo parlando dello stesso vampiro che si è fatto torturare da una dea per te; che si è presa cura di un adolescente insopportabile e depressa per un estate intera. Che si è accollato tutta la tua sofferenza. Che si è andato a riprendere un anima per te. Che ha lottato contro i propri fantasmi e alla fine si è sacrificato affinché tu potessi vivere una vita più serena…”

“Eh allora perché non è venuto?” urlò, rompendo gli esili argini dei suoi dubbi, e tornando a piangere.

“Non lo so…e non lo devi chiedere a me, ma sono sicura che ti ama ancora. Adesso però smettila, calmati e fa quello che devi fare…per te stessa, almeno per una volta!”

Era la sorella o la cacciatrice dentro di se ad aver parlato?

Buffy non lo sapeva, ma sentì l’istinto di seguire quel semplice consiglio.

Si asciugò le lacrime e lasciò che il sorriso della sorella la confortasse.

Dawn le baciò la fronte e si alzò dal divano.

“Ora vado a controllare il naso di Andrew…credo di avergli fatto qualche danno permanente!”

L’immagine del giovane osservatore atterrato dal pugno della sorella si materializzò nella sua mente, cancellando l’inquietudine dei pensieri precedenti.

Un piccolo sogghigno le si disegnò sulle labbra.

“Segui il mio consiglio, Buffy. Vai a letto, che hai un aspetto orribile ed hai bisogno di riposo. Poi, a mente fresca, chiamalo e fagli una bella tirata di orecchie…anche da parte mia.”

La risata delle due sorelle rischiarò l’atmosfera del soggiorno.

“Grazie!” disse semplicemente Buffy.

“Di cosa?” Fu il turno di Dawn di guardala con aria perplessa.

“Di essere così…così…matura!”

Un velo di commozione investì gli occhi della giovane ragazza, colpita da quel riconoscimento, che per il passato aveva tanto agognato e che le era arrivato proprio nel momento più inaspettato.

Finalmente Buffy aveva cominciato a vederla.

Poi, continuando a sorridere, aggiunse.

“Qualcuno lo dovrà pur essere…”

“Ehi…!” si finse offesa la cacciatrice.

“Buffy?”

“Si?”

”Lascialo spiegare prima di prenderlo a calci!”

”Lo farò, lo prometto!” le disse, alzandosi ed abbracciando la sorella che l’aveva presa per mano e le aveva svelato la pochezza dei suoi fantasmi.

Quelli che, nel buio della sua mente, le erano sembrati mostri e demoni, erano, invece, visti attraverso la luce degli occhi di Dawn, le ombre di paure inconsistenti.

La sorella, con poche parole, le aveva mostrato cosa fare.

E per la prima volta, da tanto tempo, non si sentì sola.

“Ti voglio bene!” le disse dal profondo del cuore.

“Lo so…te ne voglio anche io…e scusami per prima!”

“Che ne dici se ci perdoniamo a vicenda?” suggerì Buffy ad una Dawn che tentava di trattenere a sua volta le lacrime. Si limitò ad annuire e sciogliendosi dall’abbraccio, asciugò le guance e si avviò verso il corridoio.

Poi, prima di uscire dal soggiorno, quasi come se fosse stata colpita da una improvvisa ispirazione, si girò verso la sorella e aggiunse: “E poi chissà? Forse Spike sta aspettando in realtà una tua telefonata…!”

“Uh…Giles!” urlò Buffy portandosi una mano alla fronte.

“Cosa?”

“Giles sta aspettando una mia telefonata…sarà preoccupato. Dovevo chiamarlo ore fa…”

Dawn sospirò e roteò gli occhi.

Non sarebbe mai cambiata. Era inesorabilmente una cacciatrice.

Prima il dovere e poi il piacere.

Nel avviarsi verso camera di Andrew, si chiese se ci sarebbe mai stato un momento in cui Buffy avrebbe messo il proprio cuore davanti la missione. In cui avrebbe ignorato la propria chiamata per abbandonarsi completamente all’emotività dei sentimenti.

“Chissà!?”

 

 

 

 

 

 

 

Cap. 2 Perché? Perché? Perché? Dubbi confusi e telefonate difficili (seconda parte)

 

Mentre componeva il numero del cellulare del signor Giles, Buffy pensò ad un'altra telefonata che presto avrebbe dovuto fare. Quando Dawn lo aveva suggerito poco prima, le era sembrata una soluzione facile e immediata, ma, ora con la sola compagnia della voce pre-registrata dell’operatore telefonico che le diceva che l’utente desiderato non era raggiungibile, si chiese se poi lo fosse realmente. Chiamare Angel e dirgli semplicemente “Ciao, Spike è lì? Me lo puoi passare?” non le sembrava decisamente opportuno.

Esasperata dalla vocina gracchiante che le ripeteva per la terza volta lo stesso messaggio, spense il cellulare, lanciò un occhio all’orologio e compose il numero del gran consiglio.

Forse era preferibile andare direttamente a Los Angeles e presentarsi alla W&H e gridare “Sorpresa!”.

“Salve, qui centro osservazioni!”.

Mentre valutava questa soluzione trovandola altrettanto inappropriata, rispose automaticamente alla segretaria che in silenzio aspettava alla cornetta.

“Ah, si, salve, Sono Buffy Summers, vorrei parlare con il signor Giles!”

“Mi dispiace ha sbagliato numero!”e prima di poter replicare, la voce dall’altro lato aveva riattaccato.

Buffy guardò il telefono perplessa.

Alzò le spalle, non convinta e compose questa volta il numero giusto, vagliando nel frattempo qualche altra ipotesi.

Forse poteva prima chiarire con Angel e poi chiedergli di Spike.

Sperava solo di non ricadere nuovamente in discorsi strani su biscotti ancora da cuocere e da mangiare.

“Salve, qui centro osservazioni, in cosa posso esserle utile!”

“Salve…vorrei parlare con…”

“Ha sbagliato numero!” e ancora una volta la comunicazione fu interrotta.

Ora il telefono aveva tutta l’attenzione di Buffy.

Possibile che avesse composto per due volte un numero scorretto?

Ma cosa le aveva risposto quella segretaria?

Aveva parlato di un centro osservazioni…era il nuovo nome del consiglio?

Ancora dubbiosa da quelle due strane telefonate, andò a ricontrollare nell’agenda.

Il numero era proprio quello che aveva composto. Lo rifece con maggiore attenzione per non sbagliare nessuna cifra e decisa ad avere qualche spiegazione dalla voce querula che continuava a presentarsi con la stessa formula.

“Salve, centro osservazioni, desidera?”

Pronta a controbattere e a non farsi nuovamente attaccare il telefono in faccia, Buffy stava per parlare, quando ricordò un particolare.

“Ah…giusto…la parola d’ordine!” disse ad alta voce, ripensando all’idea che aveva avuto Xander mesi prima.

“Mi dispiace ha sbagliato numero!” ripeté stupidamente la segretaria.

“No…un attimo..!” ma non riuscì a finire la frase.

La comunicazione era stata nuovamente interrotta.

Urlò esasperata, maledicendo Xander e la sua “brillante” idea.

“Oh...ma questa volta me la paga…o se me la paga…appena lo vedo…” disse al vuoto, mentre camminava avanti indietro per il soggiorno, sperando di ricordare quale fosse la famosa parola d’ordine. Ma per quanto si sforzasse, la sua mente rimaneva vuota.

Poteva andare per tentativi?

Si vide vecchia e sdentata, ancora attaccata a quella cornetta, mentre litigava con la voce odiosa di quella che nella sua immaginazione doveva essere una specie di incrocio tra un cerbero e un oca siliconata, stile Harmony.

Non avrebbe mai ricordato quella maledetta frase.

Ne era certa.

Lei odiava quelle cose.

Non aveva mai avuto buona memoria.

Non l’aveva avuta a scuola per le date. Non l’aveva avuta nella caccia per i nomi dei demoni. L’anno precedente si era dovuta appuntare su un fogliettino che teneva sempre con sé i nomi delle potenziali per evitare brutte figure.

Figuriamoci, se avrebbe mai potuto ricordare una stupida parola in codice, che sicuramente non aveva neanche mai provato a memorizzare.

Si buttò sul divano esasperata.

“Ma dove sono andati a finire i bei tempi in cui la cacciatrice cacciava e l’osserv…!”

Una folgorazione la colpì.

Ringraziando qualche buona stella ricompose il famoso numero.

“Salve, centro osservazione, in cosa posso aiutarla?”

“L’osservatore osserva, il cacciatore caccia!” disse orgogliosa di se stessa.

“Mi dispiace ma ha sbagliato!”. Ripeté per l’ennesima volta la voce monotona.

Buffy rimase con la cornetta in mano ad ascoltare il segnale di libero, più perplessa di prima.

Era sicura che quella fosse la parola d’ordine.

Ricordava distintamente il pomeriggio, di molti mesi prima, quando a Londra lei, il signor Giles, Willow, Xander e Faith, stavo discutendo della nuova sede del consiglio.

 

“Crede che sia opportuno ristabilirsi qui, dopo che…?” chiese timidamente Willow, incapace anche di finire la frase.

“Dopo che il gran consiglio di idioti in tweed è saltato in aria” concluse per lei Faith, guadagnandosi una occhiataccia dell’uomo più anziano,vestito in tweed ovviamente.

“Capisco le vostre preoccupazioni” iniziò il signor Giles, pulendosi gli occhiali.

“Ma, qui a Londra, abbiamo ancora molte proprietà immobiliari, dove poter ristabilire la sede del consiglio. Inoltre la maggior parte degli archivi storici sono sopravvissuti all’esplosione. Abbiamo la biblioteca mistica della chiesa di Saint Paul; le raccolte mitologiche di Saint Peter, La collezione di demonologia applicata a Covent Garden, nonché nei sotterranei della Torre…!”

“Insomma Londra è disseminata di archivi del consiglio, abbiamo capito!” tagliò corto lei, già stanca di quell’interminabile riunione.

“Potremmo sviluppare un sistema di sicurezza!” suggerì a quel punto Xander.

Quattro paia di occhi si girarono nella sua direzione.

“Ma si…un sistema sofisticato di controllo, che ci permetta di verificare chi entra, chi esce…” continuò, perdendosi in descrizioni e dati di cui Buffy non capì granché.

Faith sbuffò, evidentemente annoiata da quella conversazione, mentre Willow cominciò a sciorinare tutta la sua esperienza tecnologica, gettandosi a capo fitto nell’argomentazione.

“E potremo avere anche noi una parola d’ordine, come quella dell’Iniziativa!” urlò entusiasta Xander.

“Che ne pensi, Buffy?” gli chiese l’amico, guardandola orgoglioso della propria idea.

“Cosa ne penso?Che rimpiango i tempi in cui l’osservatore osservava e la cacciatrice cacciava…!”

“Wow…bella…abbiamo trovato la nostra parola d’ordine!”

“Uh?”

 

E prima di poter replicare qualcosa, quel suo modo di dire era diventato il codice di accesso e di comunicazione per il consiglio: nessuno entrava, usciva, accendeva o spegneva un computer, alzava la cornetta di un telefono senza usare quella frase.

Dopo la prima settimana, in cui aveva sentito almeno un milione di volte se stessa attraverso la voce di sconosciuti, era fuggita lontana da Londra.

Decisamente sembrava una pazzia collettiva, da cui solo lei cercava di rimanere immune.

Il problema ora era: perché non aveva funzionato?

Decidendo che non sarebbe impazzita appresso a quelle stupidate, ricompose il numero del cellulare di Giles, sperando di poter bypassare quell’inferno comunicativo creato dal suo miglior amico.

“Ex” migliore amico corresse, quando la vocina dell’operatore le ripeté nuovamente che l’utente era irraggiungibile.

Un ringhio di irritazione le fuoriuscì dalle labbra.

Aveva detto bene la frase?

“Il cacciatore caccia, l’osserva..no…era il contrario?…cosa ho detto prima?” si chiese buttandosi a peso morto sul divano.

La rabbia si trasformò in rassegnazione.

Come poteva chiamare la Wolfram, la sede del male, e sperare di poter parlare con Spike, se non riusciva a comunicare neanche con il consiglio?

Era stanca.

Gli occhi le bruciavano.

Il muscoli le dolevano e, anche se la ferita si stava rimarginando, era tuttavia ancora lì e le tirava.

Voleva andare a dormire.

Voleva risvegliarsi direttamente accanto a Spike.

Voleva dirgli che lo amava e sperare che anche lui l’amasse ancora.

E invece si ritrovava, con un feroce mal di testa, a litigare con un maledetto telefono.

Lo scagliò lontana esasperata, decisa a mandare a quel diavolo, il consiglio, la segretaria, la parola d’ordine ed il cellulare inutile del signor Giles.

Ma quale idiota poteva essere interessato a quelle cose?

Il suo cervello rispose ad una domanda retorica non posta.

“Andrewwwww!” urlò con tutta la voce che aveva in gola.

Il suono si propagò per la piccola casa, con tale intensità che in meno di due secondi il ragazzo, zoppicando, si presentò al cospetto della cacciatrice. Manteneva lo sguardo basso, forse in attesa di qualche strigliata o punizione. Buffy lo osservò.

Ora, con quel naso viola e gonfio le sembrò ancora più buffo.

Dawn si affacciò sulla soglia della porta ed Andrew, pur non girandosi, ne avvertì la presenza e si irrigidì.

La ragazza non poté non chiedersi se il giovane osservatore temesse più lei o la sorella.

Sorrise, addolcendo il tono di voce.

“Quale è la parola d’ordine del consiglio?”

Il ricordo delle telefonate precedenti, però, la irritò nuovamente.

“Pensavo che fosse quella del cacciatore e dell’osservatore, ma quella maledetta oca dall’altro lato continua a dirmi che ho sbagliato…”

“Beh…certo…è cambiata!” rispose con ovvietà Andrew.

“Abbiamo deciso di sostituirla ogni due mesi per maggiore sicurezza!”

Buffy lo guardò stupita.

Ma stavano parlando ancora del consiglio degli osservatori o del KGB?

“Questo mese è : Non credo alle coincidenze e ai folletti. E su questi ultimi non sono ancora sicura!”

Buffy strabuzzò gli occhi.

Perché riconobbe quella espressione.

Era solita dirla ai tempi del liceo.

Come era possibile che qualcuno se la ricordasse? E poi perché continuavano ad usare le sue parole? Era qualche strana forma di ossessione per lei?

Per un momento le passò per la mente uno stupido pensiero: si immaginò come la protagonista di qualche telefilm, con tanto di fun e ammiratori che riscrivevano le battute più emblematiche, come in una sorta di quote.

Scosse la testa.

Era decisamente stanca.

Rinunciò a chiedere ulteriori informazioni e compose nuovamente il numero.

Godendo internamente quando il cerbero-segretaria la mise finalmente in contatto con Giles, sperò che la telefonata fosse breve.

Forse sarebbe riuscita ad andare a letto nel giro di una decina di minuti e avrebbe poi potuto dormire tutta la giornata ed approfittare del tramonto per chiamare Angel.

Ma se avesse telefonato in serata, che ora sarebbe stata a Los Angeles?

Qual’ era il fuso orario tra l’Italia e la California?

Un'altra cosa che non avrebbe mai capito.

“Buffy!” la voce del suo vecchio osservatore la distrasse dai quei pensieri.

“Finalmente ero così preoccupato. Come stai? Come è andata? L’immortale e Il portale?” chiese Giles a raffica, tradendo un ansia e un agitazione che non erano del compassato osservatore, ora a capo del consiglio.

Se questo suo atteggiamento preoccupò Buffy, lei cercò di non darlo a vedere, celando un sesto senso che le diceva che chiaramente qualcosa stava accadendo.

Ma quante possibilità c’erano che in pochi giorni si scatenassero due apocalissi?

Praticamente nessuna.

A meno che…

Cancellò dalla sua testa la seconda risposta, concentrandosi sulla prima e replicando con calma al suo interlocutore.

“Giles, si calmi. E’ andato tutto secondo i piani…Monica l’aveva avvertita?”

“Si, ma mi ha detto che vi sareste mosse ieri sera e poi le altre cacciatrici hanno fatto rapporto ai loro osservatori, ma tu non mi chiamavi…ed io…”

“Sto bene, si tranquillizzi. Respiri. L’immortale, nonostante il nome, è morto!” e una risata le colorò le labbra.

“Ed il portale?” chiese l’osservatore, ignorando totalmente la battuta.

Neanche lui aveva mai apprezzato il suo humor.

Decisamente doveva chiamare al più presto Angel e parlare con Spike.

Lui si sarebbe fatto sicuramente una grassa risata.

Avvertendo un calore confortante invaderle il cuore al pensiero del sorriso del vampiro, rispose.

“Non si è mai aperto. Siamo arrivate prima che il rituale fosse completato. Glielo ho detto questa volta non ci sono stati imprevisti di alcuna sorta!”.

L’osservatore tirò un sospiro di sollievo.

Eppure Buffy riusciva a sentire ancora la sua ansia attraverso il respiro irregolare.

Ed il suo sesto senso cominciò a urlare più forte.

Non potette più ignorarlo.

“Signor Giles, cosa sta succedendo?” gli chiese spiazzandolo.

Dal silenzio che seguì alla sua domanda, Buffy capì che l’osservatore stava valutando le sue parole.

Stava forse decidendo cosa dirle?

Come dirglielo?

La cosa la agitò ancora di più

“Giles?”

“Le cose non vanno bene, in effetti. Non ne so ancora molto. Per questo ho spedito Faith e una trentina di cacciatrice in ricognizione. Il problema è che sono due giorni che non ho loro notizie…”

Buffy immaginò Faith a capo di quel piccolo esercito e ne sorrise.

Forse erano troppo impegnate in un ballo sfrenato a scaldar l’atmosfera di qualche locale malfamato per poter far rapporto al povero osservatore preoccupato.

Scosse la testa.

La cacciatrice bruna non era più così. O almeno non lo era più nelle situazioni di emergenza.

L’aveva vista maturare e diventare una donna responsabile su cui contare.

Questo, certo, non le avrebbe impedito di andare a festeggiare a base di alcool, sesso e rock and roll una volta sconfitto il cattivo di turno. In fin dei conti le persone potevano crescere, ma certo non mutare la propria natura. Buffy ne era fin troppo consapevole.

Faith era disinibita e selvaggia.

Ed era questa la sua forza.

Forse stava anche lei in quel momento provando a chiamare il signor Giles, lottando a furia di imprecazioni che neanche uno scaricatore di porto avrebbe avuto il coraggio di ripetere contro un cellulare spento..

“Beh…se accendesse il telefonino…” disse presa da quei pensieri leggeri.

“Uh…già…ho la batteria scarica…devo assolutamente ricaricarlo…Oh maledizione…può essere che mi abbiano provato a chiamare…!”

“Signor Giles, non mi ha ancora detto niente…dove avete spedito Faith e perché?” chiese, mentre quella sensazione di pericolo si rimpossessava della sua mente e cresceva minuto dopo minuto.

Aveva sperato che fosse una telefonata semplice.

Almeno questa.

Invece si stava rivelando molto difficile.

E prima ancora che l’osservatore le rispondesse, capì che il letto sarebbe stato ancora un lontano miraggio.

“Le veggenti del consiglio hanno previsto l’apertura di un portale a…e abbiamo mandato un gruppo in ricognizione”.

Un altro portale si stava aprendo in qualche parte del mondo?

Coincidenza?

Lei non ci credeva.

Possibile, allora, che l’apocalisse sventata fosse collegata a qualcosa di più grande?

E dove si stava scatenando l’inferno?

La reticenza del suo osservatore a parlare chiaramente la innervosì e l’agitò ancora di più, mentre il suo senso di cacciatrice, ormai totalmente attivato, le lanciava scariche di adrenalina per tutto il corpo.

“Dove?” chiese con un tono di voce perentorio.

“...A…a…Los Angeles!”. Balbettò l’uomo dall’altro lato del telefono.

Seguì un lungo silenzio.

Poi, Giles, prendendo coraggio, cominciò a sfornare una serie di ipotesi e di possibili scenari che Buffy non ascoltò.

La sua mente era nuovamente ferma.

Bloccata sulla prima informazione.

Una battaglia a Los Angeles.

E nel suo cervello la notizia si tradusse in un'unica consapevolezza.

“Spike è in pericolo!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cap. 3 Un apocalisse? Già visto, già fatto!

 

Dopo le necessarie spiegazioni, la decisione fu presa. Buffy sarebbe partita per Los Angeles.

“Ascolta, hai ora affrontato una dura battaglia. Riposati. Lascia che ci pensino le altre…” aveva cercato di convincerla il suo osservatore.

Ma la cacciatrice era stata irremovibile.

Lei doveva assicurarsi che il suo “ex” ragazzo questa volta ne uscisse sano e salvo.

“Ah…ora sono il tuo ex?” lesse il sarcasmo in quella domanda immaginata, che risuonò nel suo cervello con la voce di Spike, e ne sorrise.

Ma lei già una volta si era riferita a lui in quel modo …solo che il vampiro non lo sapeva.

Era giunto il momento che non lo fosse più.

Avrebbe fatto sì che fosse il suo futuro.

Come era giusto che fosse. Come doveva essere.

E come sarebbe stato, ora che ne aveva la possibilità.

Non l’avrebbe sprecata.

Neanche se la Wolfram & Hart le scatenava contro l’inferno.

Gliela avrebbe fatta vedere lei di che pasta era fatta “la” cacciatrice.

Un apocalisse? Sai che novità!

“Non permetterò che muoia nuovamente, Giles!” aveva risposto Buffy, con un tono che non ammetteva repliche.

L’osservatore, ancora sconvolto dalle notizie sul ritorno del vampiro ossigenato, non replicò.

Capì la sua pupilla.

Aveva letto nei suoi occhi il dolore per quella perdita, quando erano stati abbastanza lontani dalla bocca dell’inferno, perché quella sofferenza si potesse trasformare in comprensione.

L’aveva vista priva di vita, aggirarsi nei corridoi della nuova sede del consiglio alla disperata ricerca di un motivo che le permettesse di andare avanti.

Aveva compreso la sua lotta per non cadere vittima dell’apatia totale e del desiderio dell’oblio.

Aveva intuito la sua prossima sconfitta e la volontà di perdersi, quando niente sembrava poterla consolare.

Era riuscito a salvarla giusto in tempo.

Ora un potere superiore le stava restituendo la possibilità di vivere pienamente.

Non l’avrebbe sprecata, ne era certo.

Buffy aveva visto troppe volte morire le persone che amava. Non avrebbe permesso che succedesse nuovamente. Questa volta avrebbe scatenato l’inferno contro chi si sarebbe posto tra lei e il suo vampiro.

Lui non avrebbe commesso ancora quel errore.

Perché Buffy poteva perdonare qualsiasi affronto contro se stessa, ma non contro Spike.

Perché lo aveva compreso per essersi schierato contro di lei quella notte, ma non aveva dimenticato la sua colpa per la trappola ai danni del vampiro.

Lui era consapevole di tutto ciò. E nonostante la preoccupazione, nonostante le sue convinzioni, non l’avrebbe ostacolata. Non ne aveva il poter e sapeva che sarebbe stato inutile.

Buffy era una testarda.

Aveva seguito sempre il suo istinto e aveva avuto ragione.

La sua testardaggine l’aveva resa la cacciatrice più longeva.

Se per il passato aveva permesso agli altri di condizionarla, era solo per il riflesso delle sue stesse paure. Ma quando si era messa qualcosa in testa, lei andava fino in fondo.

Ed ora aveva scelto Spike.

A lui non rimaneva che accettare e sperare nella sua felicità.

“Quando vuoi partire?” gli chiese comprensivo.

“Al più presto!” rispose perentoria Buffy, con la mente già rivolta alla nuova battaglia.

Era stato facile mettere da parte le sue ansie e i suoi timori.

Era di nuovo in modalità cacciatrice.

Solo che adesso la sua missione non era salvare l’umanità.

A quello ci avrebbero pensato le altre.

La sua missione era quella di salvare un demone.

Un vampiro.

Il suo vampiro.

“Spike”.

“Posso far arrivare un aereo del consiglio a Roma nel giro di un ora…!”

”No…niente aereo. Ci metterei una vita ad arrivare a Los Angeles e non mi posso permettere di perdere neanche un altro minuto!”

Aveva la necessità di arrivare dall’altro lato dell’oceano nel minor tempo possibile.

Anzi aveva le necessità “già” di essere dall’altro lato dell’oceano.

Ogni secondo poteva essere importante.

Aveva un'unica soluzione.

Sperava solo che la diretta interessata capisse.

“E allora come vuoi fare?”

“Willow!”

“Uh?”

“Willow mi teletrasporterà a Los Angeles!”

“Ma…Buffy non so se è in grado…lo sai che da un anno non…!”

Lo sapeva bene.

Conosceva la preoccupazione della sua migliore amica ad usare nuovamente la magia, dopo aver sconvolto le regole millenarie sulla progenie della cacciatrice.

Aveva visto nei suoi gesti la paura di perdersi nuovamente.

Perché il potere, qualunque ne fosse la fonte, poteva annientare.

Ma ora tutto ciò non contava.

Ora solo la missione aveva importanza.

“E’ una dea, signor Giles! Non mi interessa nient’altro. Lei ha il potere di farlo e lo farà!”

“Bene…ma glielo chiederai tu!”

L’osservatore comprese la cacciatrice.

Capì la sua ansia.

La sua corsa contro il tempo.

Eppure non poté impedirsi di preoccuparsi per Willow.

Non poté non pensare al suo lungo cammino di redenzione.

E alla sua lotta continua contro le lusinghe del potere e la colpa del passato.

Perché l’aver salvato il mondo non la esonerava dall’aver provato a distruggerlo.

Perché essere una dea non lavava le sue mani dal sangue che lei stessa aveva versato.

Perché la sua forza era nella debolezza e viceversa.

E questo lo spaventava costantemente.

Perché amare la cacciatrice, non gli impediva di amare la strega.

Perché non avrebbe mai potuto scegliere tra le sue figlie.

“Pensa di fermarmi?” chiese Buffy, già conoscendo la risposta. Ma era il suo modo per fargli capire che niente le avrebbe fatto cambiare idea. Neanche l’amore per la sua migliore amica.

“No! Ma poiché non sono d’accordo, sarai tu a convincerla!”

“Perfetto!” rispose secondo un copione non scritto, che entrambi conoscevano bene.

Stavano giocando al ruolo della cacciatrice ostinata e all’osservatore preoccupato.

Poi un pensiero la colpì.

Da quando si era trasferita a Roma, da quando aveva cominciato quel teatro, lei e Willow non avevano più parlato. L’ultima volta in cui l’amica, per telefono, le aveva mostrato preoccupazione per il suo rapporto con l’immortale, Buffy le aveva urlato con cattiveria di non immischiarsi.

Ora con quale coraggio le avrebbe chiesto di mettere in pericolo il suo equilibrio per salvare la vita di qualcuno che fino a pochi giorni fa dichiarava di aver dimenticato?

Decisamente quella telefonata si stava rivelando più difficile dell’immaginato.

Eppure lo sapeva che avrebbe dovuto chiarire.

Dall’altro lato della cornetta Giles avvertì il silenzio pieno di tensione della sua cacciatrice e ne intuì i motivi. In fin dei conti per lui Buffy era sempre stata un libro aperto.

L’aveva capita anche quando lei stessa non lo aveva fatto.

Aveva svelato il suo cuore, quando lei cercava a forza di nasconderlo.

A volte non aveva voluto vedere per un bigottismo basato sul bianco e nero.

Per una presunzione dettata da polverosi libri.

Per la gelosia di un padre che avrebbe voluto tenere per sempre la figlia sotto la sua ala protettrice.

Ma aveva sempre compreso

“Willow sa tutto. Le ho spiegato il piano contro l’immortale dopo il vostro litigio!”

Buffy tirò un sospiro di sollievo e ringraziò mentalmente il suo osservatore, che ancora una volta le era venuto incontro.

L’aveva capita.

Ancora una volta si era dimostrato il padre che non aveva mai avuto.

Avrebbe voluto esprimigli tutto il suo affetto e la sua gratitudine.

“Me la passi allora!”aveva detto invece.

Perché non era il momento.

Perché quello che contava era la missione.

Perché ciò che, ora, importava era Spike.

 

Parlare con Willow si era dimostrato molto più facile del pensato.

L’amica si era sciolta in un pianto ininterrotto appena aveva sentito la sua voce.

Si erano scusate per le parole che erano volate tra loro l’ultima volta e la strega le aveva mostrato tutta la comprensione per la prova appena superata.

“Non è ancora finita!” le aveva detto Buffy, incerta su come chiedere alla strega quel sacrificio, che improvvisamente le sembrava troppo grande.

“Ho bisogno del tuo aiuto, Willow, e se non fosse realmente importante non ti chiederei mai di…ma lo è ed io…” disse tutto di un fiato non trovando tuttavia il coraggio necessario per andare fino in fondo..

“La missione è quello che conta!” si ripeté mentalmente per trovare la forza dentro di sé.

“Spike è a Los Angeles!”

“Spike? Spike è a Los Angeles? Spike è vivo? Ma come…cioè quando…perché?” le rispose stupita la rossa.

“Tre eccellenti domande!” e il ricordo di una battuta simile la colpì.

Si rivide felice tra le braccia di Spike a programmare un matrimonio voluto da una illusione.

Si rivede sorridente a guardare un vestito da sposa orribile e a immaginare una vita impossibile con il suo vampiro.

Si rivide eccitata dal sapore di Spike, indelebile sulle sue labbra nonostante l’incantesimo spezzato ed il disgusto urlato.

Come indelebili erano ancora le mani sul corpo.

Le sue parole nel cuore.

“Tu sei unica, Buffy!”

La dolcezza di quei ricordi la rinfrancò e il desiderio di altri la rinforzò.

Ne avrebbe costruito di nuovi, anche se questo significava combattere ancora.

Avrebbe lottato per se stessa e per Spike.

Avrebbe lottato per quella possibilità.

Contro demoni, mostri e draghi.

Contro le proprie insicurezze e paranoie.

Contro le paure della sua migliore amica

E Avrebbe vinto.

“Perché la missione è quello che conta!”

“Il signor Giles ti spiegherà tutto. Willow io devo arrivare il prima possibile da Spike…”

Nonostante la decisione di cacciatrice, una voce traditrice si fece largo nel suo cervello.

“E se fosse già tardi?” Quel pensiero le fece tremare la voce.

“Io non posso perderlo nuovamente…” disse, combattendo le lacrime.

“Oh…Buffy ti prego non piangere …dimmi come ti posso aiutare…!” le disse dolcemente Willow, avendo compreso da tempo l’importanza di quello strano vampiro nella vita dell’amica.

“Ho bisogno che mi teletrasporti lì!”

“Ma…” la strega non riuscì a finire la frase.

Perché improvvisamente sentì tutto il peso di quella richiesta.

La spaventava.

Eppure la comprendeva. Lei più di tutti gli altri poteva farlo.

Poteva capire l’angoscia dietro quella domanda.

Il desiderio di proteggere la persona amata a qualsiasi costo.

La noncuranza per gli altri in nome del vero amore.

Perché nonostante la sua serenità con Kennedy, il ricordo di Tara era sempre presente.

E le faceva male. Loro due non avevano avuto una seconda possibilità.

“Lo so cosa ti sto chiedendo…lo so…ma non ho alternative lo capisci Willow? Io devo…” continuò, con voce tremante, la cacciatrice.

“Ma Buffy e Spike si!” pensò la strega.

Non sarebbe stata lei a negargliela.

Era il tempo di tornare a vivere.

Senza più paure.

Senza più rimorsi.

Era una dea. Doveva comportarsi di conseguenza.

“Lo farò…” le disse Willow, con un tono di voce sicuro, come non aveva da molto tempo.

“Perché ve lo meritate…!”

Lo credeva realmente.

“Perché Tara lo avrebbe fatto…”

Ne era sicura.

Perché Tara faceva sempre la cosa giusta.

Anche quando lei non aveva compreso, lo aveva fatto.

Era stata un amica per Buffy.

Era stata una sorella per Dawn.

E sarebbe stata una buona alleata di Spike se ne avesse avuto la possibilità.

Buffy colpita da quelle parole, avrebbe voluto poterle esprimere il suo affetto e quanto quel gesto significasse per lei. Avrebbe voluto avere il tempo di consolare il dolore che ancora leggeva nella voce dell’amica per la morte di Tara. O almeno provarci.

Perché le buone amiche questo fanno.

Ci provano.

Ma le aveva una missione.

“Quanto tempo ti serve per prepararti?” le chiese la cacciatrice.

“Non molto…verrò anche io con te…”

”Ma…”

”Niente ma. E’ più facile per me trasportare entrambe a Los Angeles, piuttosto che materializzare solo te dall’altra parte dell’oceano a distanza. Inoltre sono stata un anno al riposo ad esercitare il controllo di questo nuovo immenso potere…è ora che io lo metta al servizio del bene e dia un po’ di calci ai cattivi di turno!” rispose ridendo.

Alla sua risata si accodò Buffy, grata dell’amicizia di Willow, sulla quale avrebbe potuto sempre contare. Ed era confortante sapere di avere dei punti fermi.

Perché nonostante il tempo, questo erano per lei Willow e Xander.

Punti fermi. L’anomalia nella generazioni di cacciatrici che l’aveva mantenuta viva.

Ancora e allungo.

“Preparati! In pochi minuti sarò da te!”

”Grazie…!” le disse la cacciatrice.

“No, grazie a te!” le aveva risposto l’amica.

E in quel semplice scambio di battute era condensato tutto il loro rapporto.

Nessuna altra parola sarebbe stata necessaria.

Ora dovevano lottare.

Vicine, l’una alle spalle dell’altra, come sempre

E avrebbero vinto.

Allora ci sarebbe stato il tempo per parlare.

Per chiarire.

Per ridere.

Per consolarsi.

Per ritrovarsi.

Ma ora avevano una missione.

Entrambe.

 

 

 

 

 

 

 

 

Cap. 3 Un apocalisse? Già visto, già fatto! (2 parte)

 

Volteggiando tra resti di demoni trucidati e polvere di vampiro, Buffy si chiese cosa fosse successo al tempo. Un attimo prima era in camera sua a passare in rassegna le armi e ad affilare la fidata ascia, un attimo dopo era circondata da cacciatrici scatenate, impegnata in una lotta feroce.

Era convinta di essere ancora sul divano di casa mentre parlava con Dawn e cercava di confortarla, e solo il demone che la fronteggiava, alto il doppio di lei e maleodorante come una fogna, le dimostrava il contrario.

Mentre gli staccava la testa, Buffy si chiese cosa fosse successo allo spazio. Le immagini del salotto erano ancora vivide nei suoi occhi, mentre lo scenario attorno a lei era completamente mutato. Al sole di Roma si era sostituita la notte di Los Angeles.

Al silenzio della sua casa si erano sovrapposte le urla di guerra di centinaia di demoni.

Mentre il corpo andava in automatico, uccidendo, trucidando tutto ciò che le si muoveva contro, la sua mente non riusciva a tenere il passo. Un senso di alienazione si fece spazio.

Erano questi gli effetti collaterali della magia?

Willow l’aveva avvertita, ma lei, troppo ansiosa di arrivare, non le aveva dato peso.

E ora ne subiva le conseguenze.

Lo stordimento non l’abbandonava.

Se fosse stata una battaglia come tante non se ne sarebbe preoccupata.

Il suo corpo conosceva a perfezione i passi di quella danza millenaria.

Eredità della prima cacciatrice, li aveva modellati la notte.

La morte li aveva perfezionati.

Ma questa non era una battaglia come tante.

Era “La” battaglia.

Se lo sentiva e, anche se non sapeva darsi una spiegazione, aveva la netta sensazione che presto avrebbe incontrato il proprio destino.

Qualunque esso fosse.

Ma neanche questo aveva realmente importanza.

Ciò che contava era la missione.

“Spike”

Questo pensiero l’agitò.

Era distratta e non poteva permetterselo.

Aveva bisogno di essere al 100% presente in quello che stava facendo.

Aveva bisogno di essere concentrata per non perdere tempo con l’ennesimo giovane vampiro che era diventato polvere prima ancora di poter indossare il volto della caccia.

Aveva bisogno di mettere insieme il puzzle spezzato e ricomporre i tasselli perduti.

 

Nell’attaccare il telefono, Buffy non si era stupita di trovare la sorella alle sue spalle che la guardava con un aria preoccupata.

Dawn non solo aveva un intuito particolare, ma aveva anche la straordinaria capacità di trovarsi sempre nel posto giusto al momento giusto per origliare le conversazioni altrui.

La cacciatrice scosse la testa, sorridendo.

Almeno non avrebbe dovuto dare ulteriori spiegazioni.

“Allora parti?” le chiese la ragazza, trattenendo a stento la propria ansia.

“Devo!” le aveva risposto laconicamente Buffy, sperando nella sua comprensione.

E non l’aveva delusa.

Asciugandosi qualche lacrima che impertinente le rigava il volto, Dawn aveva annuito.

Per quanto la preoccupazione fosse grande, doveva ricordare che la sorella era una cacciatrice ed aveva una missione. Sempre.

E non aveva importanza che avesse appena sventato un apocalisse,che non fosse riuscita a dormire o, almeno, a riposare.

Un'altra chiamava e lei rispondeva.

Soprattutto ora in cui era coinvolto Spike.

Soprattutto ora in cui il vampiro era la sua missione.

“Andrà tutto bene, te lo prometto e questa volta tornerò con lui” la confortò Buffy.

Si erano sedute, nuovamente, sul divano rosso, come se quello fosse l’unico luogo in cui i loro cuori riuscivano a parlarsi senza barriere. Lo spazio in cui non erano più una cacciatrice ed un ex chiave, ma semplicemente due sorelle. L’altare delle loro confidenze. O forse perché era l’unico posto in cui sedersi comodamente in quel soggiorno squinternato.

“Dovrò comprare una poltrona” pensò Buffy.

Una nuova determinazione si fece largo nello sguardo di Dawn.

Anche lei voleva indietro il vampiro, che aveva imparato ad amare come un fratello maggiore.

Aveva visto il suo cambiamento e lo aveva perdonato.

Non glielo aveva detto quando ne aveva avuto l’occasione. Ora glielo avrebbe dimostrato.

La decisione negli occhi della sorella fu fin troppo palese per Buffy.

Lei conosceva quella determinazione. E se ne preoccupò.

“Non me lo chiedere!” l’anticipò.

“Non puoi venire!” aggiunse affinché il concetto fosse chiaro.

Dawn provò a protestare, ma ancora una volta Buffy fu più veloce.

“So che sei cresciuta, che non sei più una bambina da proteggere, ma questo non mi impedisce di preoccuparmi per te. Ho capito da molto tempo che devo lasciarti vivere la tua vita, lasciare che tu faccia le tue esperienze. E l’ho fatto. Ho visto la forza con cui affronti ogni giorno le difficoltà e sono orgogliosa di te. Ma i demoni, le apocalissi sono un'altra cosa. E’ una vita da cacciatrice…e tu, per fortuna, non lo sei. Sei forte, sei anche ben allenata, ma non a sufficienza. Sarei comunque preoccupata per te. E’ inevitabile. Ed ora non me lo posso permettere. La mia concentrazione deve essere altrove!”.

In un altro momento quelle parole, nonostante la sincerità, l’avrebbero irritata.

L’avrebbero comunque portata a ribellarsi.

Era un adolescente con gli ormoni in subbuglio, in fin dei conti.

Ma adesso no.

Si era limitata ad annuire.

Perché Dawn aveva capito.

Non era la cacciatrice ad avere una missione.

Ma la ragazza innamorata.

Finalmente il suo cuore aveva la meglio.

E allora non sarebbe stata lei ad ostacolarlo.

“Appena tutto si sarà risolto, mi chiamerai?” le chiese, insicura sul “quando” ma non sul “se”. Perché se c’era qualcuno in grado di sventare un apocalisse dopo l’altra era proprio la sorella.

Perché se c’era qualcuno in grado di riportare sano e salvo Spike, questa era Buffy.

Dawn ne era consapevole e ne era orgogliosa.

Buffy sorrise, grata.

L’appoggio della sorella era importante.

Come lo era stato quello di Giles e Willow.

E allora non aveva importanza il riposo non avuto, il letto intatto o il sonno incombente.

Aveva già tutta la forza necessaria per affrontare altre cento apocalissi.

Aveva l’amore della sua famiglia ed il loro sostegno.

Aveva uno scopo dettato dal cuore.

Le sue armi erano con lei.

Era pronta.

Mancavano solo i dettagli.

Paletti, spade ed ascia.

Dettagli, appunto.

“Dawn?” la chiamò prima di recarsi in camera a vestirsi.

Una domanda, che avrebbe voluto farle da tempo, giocava sulle labbra.

“Si?”

“Se le cose dovessero andare bene, se riuscissi a vincere contro questo nuovo nemico…tu vorresti ritornare a casa?” le aveva chiesto tutto di un fiato Buffy.

E non aveva avuto bisogno di specificare dove fosse casa, perché ora più che mai le era chiaro che non fosse Roma. Nonostante gli sforzi nessuna di loro due apparteneva a quei luoghi. Le rovine antiche non le aveva affascinate. Il folklore italiano non le aveva contagiate. Il loro cuore era rimasto dall’altra parte dell’oceano.

“Di corsa!” le rispose Dawn, con un entusiasmo anche più grande dell’immaginato.

Buffy le sorrise. Per un attimo aveva temuto la risposta.

Non si sarebbe meravigliata se si fosse innervosita. In fin dei conti le stava proponendo di trasferirsi nuovamente dopo solo pochi mesi. Ma la gioia sul viso della sorella era lampante.

Forse aveva ragione Andrew: avevano in comune più ti quanto pensasse.

“Non ci vuoi neanche riflettere?” le chiese già conoscendo la risposta.

“Non sono mai stata tanto sicura in vita mia e adesso vai a prepararti che Willow starà qui a minuti.” Le disse la giovane ragazza felice, mentre la spingeva verso la propria camera carica di un nuovo ottimismo.

Sarebbe tornata a casa.

L’idea la entusiasmò.

E non aveva importanza che prima dovesse essere sventata un'altra apocalisse.

In fin dei conti non era nulla che la sorella non avesse già affrontato.

Avrebbero di nuovo vissuto in un bel quartiere residenziale con alberi e tanto verde.

In una villetta monofamiliare a due piani, con la veranda e la staccionata bianca.

Lei e Buffy.

E Spike.

Anche di questo era ormai sicura.

Sarebbero stati finalmente una famiglia.

E forse anche Willow, Xander e Giles avrebbero potuto decidere di tornare negli Stati Uniti.

Avrebbero vissuto tutti vicini, come era stato a Sunnydale prima che il loro mondo si incasinasse.

Avrebbe riavuto la sua vecchia vita indietro.

E questa volta non se ne sarebbe lamentata.

“Qualcuno stava parlando di me?” Willow si materializzò all’improvviso nel salotto, facendole sobbalzare entrambe dallo spavento. Dawn le corse tra le braccia, felice di rivederla.

La strega l’accolse calorosamente.

Le era mancata.

Le erano mancate quelle manifestazioni di affetto a volte infantili, ma profondamente dolci.

E non solo quest’anno.

Le mancavano da tanto tempo.

Da quando aveva permesso al potere di sedurla e aveva lasciato che la sua vita si incasinasse.

Da allora non c’era stato più tempo e spazio per quelle dimostrazioni.

L’immagine di una Dawn undicenne che le saltava addosso sorridente ogni volta che andava a studiare da Buffy le passò nella mente. E pur sapendo che era solo un ricordo fittizio, dettatole dalla magia di lontani monaci, un senso di commozione la invase.

Voleva indietro quei gesti.

Voleva questo momento ogni giorno.

Voleva sentirsi nuovamente una sorella per Dawn.

Voleva indietro la sua famiglia.

Quella vera. Quella che avevano costruito su una comunione di affetti e di intenti. Quella che avevano quasi distrutto troppo presi dal dolore personale.

La stretta di Dawn si fece più forte.

Forse avevano ancora la possibilità di cominciare daccapo.

Forse proprio ora potevano avere il loro nuovo inizio.

E non aveva importanza che prima ci fosse da sventare una altra apocalisse.

In fin dei conti non era niente che non avessero già affrontato.

“Ma usare la porta no?” commentò Buffy, abbracciandola a sua volta.

Stretta tra la sua migliore amica e la sorella, la cacciatrice sentì un senso di pace pervaderla.

Dimentica di qualsiasi altro pensiero, si godette il momento.

Perché era da tanto che non si sentiva più così.

Era da tempo che un abbraccio di Willow non le trasmetteva forza e coraggio come ora.

E le era mancato. Non solo quest’anno.

Le mancava da quando le circostanze l’avevano obbligata a diventare una donna.

Un adulta.

Da quando la sua vita si era incasinata inesorabilmente e non aveva avuto la forza di rimetterla nei giusti binari. Da quando aveva chiuso fuori tutti per paura di soffrire.

Ma, forse, ora avevano una nuova possibilità.

Avevano l’occasione di recuperare il tempo perduto.

Di tornare ad essere la famiglia che erano stati.

E l’immagine di tutti loro di nuovo felici in una casa a due piani,con veranda e staccionata bianca le si costruì nella mente.

Lei, Dawn, Willow.

Xander e Giles.

E Spike.

Finalmente insieme.

Quello era il futuro che Buffy desiderò per se.

E non aveva importanza che prima dovesse affrontare un'altra apocalisse.

“Già visto, già fatto!” pensò.

Andrew le trovò così, entrando nel soggiorno.

Strette le une alle altre.

In silenzio.

“Che sta succedendo?” chiese, stupito dalla presenza della strega.

Le tre ragazze si allontanarono e, in contemporanea, ognuna asciugò una lacrima dalla guancia destra dell’altra.

“Ma mi volete rispondere?” insistette, innervosito da quel silenzio.

Si girarono, poi, nella sua direzione e, senza dire una parola, scoppiarono a ridere.

Andrew si chiese se non avesse qualcosa di buffo in faccia.

“Ah già, il naso…viola!”

Buffy si staccò dal gruppo e, superando il ragazzo, si avviò in camera sua. Tornò dopo pochi minuti vestita con un jeans e una maglietta nera. Nella mano stringeva l’ascia che Andrew riconobbe subito. Cominciò a preoccuparsi. Ma prima di poter chiedere, la cacciatrice abbracciò nuovamente la sorella e si girò verso Willow.

“Sono pronta!”

E allora tutto successe velocemente.

Mentre la cacciatrice gli faceva un cenno di saluto, la strega pronunciò una strana formula. Cominciarono a sparire, smaterializzandosi in pochi secondi davanti al suo sguardo incredulo e a quello umido di Dawn.

Decisamente qualcosa stava accadendo.

“Ma perché io devo essere l’ultimo a sapere le cose?”

 

Cap. 3 Un apocalisse? Già visto, già fatto! (terza parte)

 

Ora ricordava tutto alla perfezione.

Con il sorriso rassicurante di Dawn ancora negli occhi, si era ritrovata spaesata davanti al vecchio Hyperion. Willow, attratta dalle urla provenienti da un vicolo vicino, l’aveva trascinata inerme nella più grande rassegna di demoni che Buffy avesse mai visto.

“Il regno della cuccagna per un osservatore!” pensò mentre infilzava una spada nel ventre di un mostro con un grosso corno giallo sulla fronte.

Davanti a quello spettacolo non c’era stata altra scelta: dovevano combattere.

Ma poi non era ciò che avevano sempre fatto?

Facendo una capriola all’indietro per evitare un Troll ed il suo martello, Buffy lanciò uno sguardo attorno a sé alla ricerca di Spike.

“Ma dove sarà?” si chiese agitata.

Del vampiro ossigenato neanche l’ombra. Dovunque si girasse l’unica cosa che riusciva a vedere erano demoni e cacciatrici. Queste non erano molte ma se la cavavano abbastanza bene. Erano tutte giovani leve. Lo si capiva dai loro movimenti ancora goffi. Ma avevano la giusta ferocia per riuscire a sopperire la mancanza di esperienza. La ragazza sorrise. Riconobbe in quel loro modo di combattere l’impronta di Faith.

Anzi dove era la sua antagonista?

Con un volteggio su se stessa, lanciò l’ascia, che, sfruttando l’effetto boomerang, tranciò di netto quattro vampiri. Quando la polvere di questi si fu posata, Buffy la vide. L’altra.

La chosen two.

Quella che non era “unica”.

La ragazza corrotta.

La donna redenta.

Il suo buio.

Faith.

“Alla buona ora, B. Sei in ritardo!”.

“Ho avuto da fare, un'altra apocalisse mi ha trattenuto.”

“Ora però cerca di non rubarmi tutto il divertimento…”

“Ma un semplice saluto, no?” le rispose Buffy, girandosi per impalettare un altro vampiro.

Sorrise pensando a quanto fosse buffa la vita.

La persona più improbabile, era quella che la conosceva meglio.

Perché nonostante fossero state per molto tempo su barricate opposte, Faith era l’unica ad averla capita.

Eccetto Spike. Altro improbabile candidato. Ma questa era un'altra storia.

Faith avevo visto la sua anima ribelle e l’aveva incoraggiata.

Aveva percepito il suo lato oscuro e l’aveva alimentato.

Aveva sempre saputo dove colpire per farla sanguinare.

Aveva letto la sua gelosia e il suo amore, quando lei stessa non voleva ammetterlo.

Era stata l’unica a intuire la verità dietro la menzogna.

L’unica a capire che era impossibile che avesse dimenticato il suo vampiro.

“Cosa diavolo è questa storia che esci con un immortale?” le aveva urlato per telefono un giorno, senza dirle né ciao né come stai.

“Non penso siano affari tuoi!” le aveva risposto.

“Lo sono, quando credo che tu stia combinando qualcosa!”

“Non capisco a cosa tu ti sia riferendo e adesso devo attaccare…”

“Non cercare di darla a bere a me, B…c’è qualcosa sotto, ne sono sicura e…” Buffy aveva interrotto la comunicazione prontamente, innervosita da quella telefonata inaspettata che rischiava di mandare a monte i suoi piani. All’epoca desiderò spaccarle la faccia.

Ora desiderava solo abbracciarla.

Perché qualcuno non le aveva creduto. Qualcuno la conosceva veramente.

“Ah…e giusto per la cronaca…Edward è morto!” aggiunse, mentre evitava i colpi di un demone con strani tentacoli.

“Io lo sapevo…ne ero sicura!” le urlò Faith mentre ne sgozzava uno simile.

Non aveva avuto alcun dubbio. Non aveva creduto neanche per un attimo che Buffy avesse voltato le spalle alla sua missione per fare la bella vita con un immortale.

Perché poteva odiare il dolore, la sofferenza e il sacrificio costante legato alla chiamata, ma non poteva rinnegare se stessa e la propria natura.

L’essere cacciatrici non era quello che facevano.

Non c’entrava niente con demoni e vampiri.

Quello al massimo era un modo per sfogare e canalizzare il potere.

L’essere cacciatrici era quello che erano.

Lei e Buffy.

Era nella forza, nel coraggio, nell’ostinazione con cui andavano avanti.

Sempre e a dispetto di tutto.

Questo non poteva essere cambiato.

Era nel sangue, in cui ribolliva quello della cacciatrice primordiale.

Era nel cuore,che guidava sempre le loro azioni.

Nel bene o nel male.

E Faith aveva visto il cuore di Buffy.

Aveva visto la protezione e l’appoggio reciproco.

Aveva scorto il conforto ricercato in un abbraccio.

Aveva avvertito la gelosia nello sguardo infuocato.

Aveva percepito l’amore non dichiarato.

E lo aveva invidiato.

Quello che avevano Buffy e Spike non poteva essere distrutto dalla morte.

Era un legame che andava al di là dello spazio e del tempo.

Un legame che esisteva al di là di qualsiasi logica.

Ma era reale e tangibile. Chiunque in quella casa lo avrebbe potuto respirare.

Il loro amore era intossicante.

E allora solo un sciocco avrebbe potuto credere che Buffy fosse andata avanti, che avesse reciso il filo che la teneva indissolubilmente legata al vampiro.

Solo chi fosse stato tanto cieco da non vedere o non voler vedere quell’amore, avrebbe potuto non capire e fidarsi di quella messinscena.

Ma non lei.

Lei, che a dispetto del dolore, delle ferite, della pugnalata, aveva sempre capito la cacciatrice.

La prima.

La chosen one.

Quella che rimaneva unica, nonostante fosse morta e risorta.

La ragazza corretta.

La donna distrutta.

La sua luce.

Buffy.

Sferrando un pugno micidiale ad un demone bitorzoluto, Faith si chiese se sapesse del ritorno del vampiro ossigenato. La risposta gliela diedero gli occhi inquieti della bionda che ansiosamente si guardavano attorno. Stava cercando qualcuno. Ed ebbe la sensazione che non fosse Angel.

“E’ venuta per Spike!” pensò e fu una certezza.

La battaglia impazzava attorno alle due.

Tuttavia quella massa di demoni che continuavano ad uscire in gran numero da un portale alla fine del vicolo non sembrava particolarmente pericoloso a Buffy. Cadevano l’uno dopo l’altro sotto i colpi incessanti delle cacciatrici.

Possibile che fosse quella la forza apocalittica della Wolfram?

“Ma è tutto qui? Nessuna arma segreta?” urlò Buffy, tirando un forte calcio ad un piccolo nano armato di piccone, che volò nuovamente in fondo al vicolo.

“E questo da dove è uscito? Da Biancaneve?”

Faith non le rispose, ma le fece cenno di alzare la testa.

Fu allora che lo vide.

Un grosso drago volava pericolosamente sopra di loro, sputando fuoco verso la cima di un palazzo. E tutto le fu chiaro.

Quella che si stava consumando in quel vicolo era solo un intrattenimento.

Quei demoni di quarta categoria avevano il solo scopo di distrarli, mentre il lucertolone nel cielo portava avanti il suo grande show pirotecnico.

L’apocalisse non era qui, ma lassù.

Come aveva fatto a non accorgersene prima?

Ma soprattutto come faceva l’intera città a non notare cosa stava accadendo in quel vicolo?

Possibile che la massa fosse talmente tanto cieca da non riuscire a vedere?

O era che non voleva vedere? Forse era più facile ignorare cosa si agitava nel buio?

“C’è una barriera magica!” la risposta le fu data dalla voce di Willow che le risuonò nella testa.

L’ansia della ricerca di Spike si fece più forte.

Quasi dimentica dei mostri che la circondavano, Buffy cominciò a correre attraverso la battaglia alla sua ricerca. Il pensiero che fosse arrivata troppo tardi la fece tremare.

“Non è possibile…non è possibile…non è possibile!” ripeteva mente misurava e analizzava lo spazio circostante.

Dove era?

Per un frazione, il suo sguardo incrociò quello di un demone blu, che pur fissandola, continuava a trucidare, incurante, il nemico a gruppi di quattro, cinque mostri per volta. Non li colpiva direttamente o almeno la cacciatrice non ne aveva la percezione, eppure chiunque le muovesse contro moriva a pezzi al solo movimento delle sue braccia. E Buffy ebbe l’impressione che non si stesse impegnando. Anzi sembrava quasi indifferente. Annoiata. Chi fosse non le importò.

Era potente e per qualche strana ragione era dalla loro parte. Questo le bastava. Sgozzando con l’ascia un demone arancione a due teste, Buffy riportò la sua attenzione sulla missione. Non poteva permettersi distrazioni. Il suo obbiettivo era Spike.

Ma dove diavolo era?

Illyria seppe chi lei fosse ancor prima di incrociare il suo sguardo.

La cacciatrice.

La chosen one.

Ancora unica, nonostante le ragazzine urlanti di cui era circondata. Nonostante la ragazza bruna che condivideva con la bionda il destino, pur non avendone la stessa forza.

Buffy.

Il suo potere era immenso.

Era inebriante.

Il dio capì finalmente perché il vampiro ossigenato ne fosse ossessionato a tal punto da pronunciare il suo nome nel sonno. A tal punto da valutare ogni propria azione in base a quella ragazza.

Uccideva con un agilità e con un eleganza quasi da farle invidia. Ecco la mortale in cui si sarebbe dovuta incarnare. Se avesse avuto tutta quella forza distruttrice a sua disposizione, a quell'ora avrebbe conquistato il mondo e quegli stupidi della Wolfram sarebbero impalliditi solo a pronunciare il suo nome. E invece si ritrovava a combatte una guerra, non sua. in un vicolo buio, con demoni che non erano degni neanche di guardarla.

Ma poi, perché era lì?

I ricordi di Fred e i sentimenti che erano stati della ragazza le diedero la risposta.

E un nome le rimbombò nella testa.

Wesley.

Lei combatteva per lui.

Per quel uomo che le era morto tra le braccia.

Un sentimento di commozione, che non capì, la pervase

Quella sensazione così umana irritò il dio blu.

Con un movimento rotante delle braccia, fece volare via le teste a cinque demoni insulsi solo con lo spostamento d’aria. Del sangue verde le schizzò sul viso.

Rise.

Niente di meglio di un uccisione per risollevare il morale.

Ma poi Illyria osservò nuovamente la cacciatrice e fu colpita dalla luce nel suo sguardo.

Una luce che aveva già visto.

L’aveva scorta negli occhi dell’osservatore.

Negli occhi morenti di un uomo che guardava la donna di cui lei aveva preso il posto.

Che si perdeva nell’ultima illusione della donna amata.

E capì.

Lei non stava combattendo per piacere come l’altra.

Lei non lottava per espiazione come il vampiro con l’anima.

Lei non uccideva per dovere come quelle ragazzine.

Lei era lì per qualcuno.

Lei combatteva per un lui.

E da come girava gli occhi ansiosa per il campo di battaglia comprese anche per chi.

Una strana smorfia, lontanamente ricordante un sorriso, le si dipinse in volto.

Era quello il destino degli uomini? Inseguirsi, cercarsi e ritrovarsi solo quando ormai era troppo tardi? Decisamente erano degli esseri inferiori.

Uomini e vampiri.

Entrambi pazzi per quello strano sentimento che chiamavano amore.

Sciocche creature.

Per fortuna, lei era diversa.

Era un dio, che non conosceva certe bassezze.

Ma allora perché era ancora lì?

Buffy voleva urlare.

L’ansia era stata sostituita dal panico.

Dove diavolo si era cacciato quel maledetto vampiro ossigenato?

Aveva la netta sensazione di averlo vicino eppure non riusciva ad individuarlo.

Era vivo, questo lo sapeva. Provava quella fastidiosa sensazione alla base della schiena, che avvertiva ogni volta in cui Spike le si avvicinava, eppure i suoi occhi non riuscivano a vederlo.

Si sentiva agitata e frustrata.E i demoni ne facevano le spese.

Eppure le sembrava tutto tempo sprecato.

Il drago continuava a svolazzare al di sopra delle loro teste, ignorandoli. Volteggiava attorno la sommità del palazzo alle sue spalle, senza sosta.

Perché? Che ci fosse qualcuno?

Chi?

Chi era tanto pazzo da sfidare un drago?

Il suo cuore ebbe un sussulto temendo la risposta.

Tra una massa indefinita di corna e tentacoli, Buffy individuò una capigliatura nota.

Capelli neri a punta.

Angel

Un sospiro di sollievo le fuoriuscì dalle labbra.

Anche lui era vivo. O ancora non morto, insomma.

Era corsa dall’altra parte dell’oceano senza pensare nemmeno un attimo al suo primo amore, eppure ora vederlo lì combattere, indomito come sempre, la calmò.

Perché poteva non amarlo più, ma sarebbe stato per sempre nel suo cuore.

Il ricordo di una frase simile, detta in circostante diverse, le affiorò nel cervello.

“Spike è nel mio cuore”

Non era più così.

Spike era il suo cuore.

Ed ora guardando quegli occhi neri come la notte che le sorridevano in segno di riconoscimento, ne ebbe la conferma.

Il biscotto era cotto e pronto per essere mangiato.

“Ma perché mi ritorna sempre in mente questa brutta metafora?”

Angel squarciò a metà l’ennesimo demone che ostinatamente gli impediva di raggiungere il suo compagno sopra la terrazza. Realmente non capiva perché l’ossigenato doveva starsene lassù a fare l’eroe, mentre lui rimaneva nelle retrovie come bassa manovalanza.

“Perché se io muoio nuovamente nessuna mi piangerà. Tu hai un figlio che ti aspetta!”

Ecco il motivo. Sbuffò. Perché la sensazione che quella fosse la propria apocalisse non lo abbandonava. Del resto il suo granchilde aveva già avuto la propria dose di protagonismo.

Si girò per affrontare un mostriciattolo verde che con un ringhio fastidioso sul viso pensava di far paura a qualcuno. E la vide.

Buffy era lì.

Le sorrise.

Era sicuro che sarebbe arrivata.

Perché, nonostante l’avesse voluta a mille miglia da lì, sapeva che la cacciatrice non si sarebbe fatta sfuggire un'altra apocalisse.

Perché a dispetto di una vita normale che per lei desiderava, aveva capito da tempo che Buffy non sarebbe mai stata una ragazza ordinaria.

Non avrebbe mai rinunciato a combattere. Bastava darle un motivo e lo avrebbe fatto.

Perché la lotta era nel suo sangue.

Nella sua natura.

E quella non la poteva rinnegare.

Un dubbio lo pervase.

“E L’immortale?”

La risposta gli fu data dai movimenti della stessa Buffy.

La cacciatrice lottava, uccideva senza difficoltà, come aveva sempre fatto, ma la sua mente era altrove. La sua concentrazione era tutta rivolta alla ricerca di qualcuno.

Allora, Angel capì.

Lei non era lì per l’apocalisse.

Lei non era lì per lui.

Era lì per un altro.

L’altro.

“Spike è nel mio cuore” quelle parole a cui non aveva dato peso furono seguite da altre.

“Tu non puoi capire cosa avevamo”

Quando il suo granchilde glielo aveva urlato non aveva voluto comprendere.

Troppo assurdo e doloroso da accettare per lui.

Ma ora lo poteva vedere.

Poteva vedere negli occhi ansiosi di Buffy il legame che ancora li univa.

Che li univa a dispetto della natura.

Della morte stessa.

Un legame che nessun poteva spezzare.

Mortale o demone che fosse.

Il biscotto era cotto, ormai. Pronto per essere mangiato da Spike.

“Ma perché mi torna in mente questa brutta metafora?”

“Ma non vi posso lasciare un attimo soli, che mi combinate questo disastro?” gli disse sorridendo Buffy, mentre polverizzando un vampiro gli si avvicinava.

“Beh, ci stavamo annoiando!” le rispose Angel, godendo di quello strano senso dell’umorismo che l’aveva sempre caratterizzata e che non sempre aveva capito.

Forse perché gliene ricordava un altro, che lo irritava profondamente.

“Dov’è il tuo degno compagno di scorribande?” chiese la cacciatrice.

Angel la guardò, mentre incurante affondava la spada nello stomaco di un demone grinzoso.

La domanda era stata posta con lo stesso tono scherzoso e, tuttavia, l’ansia che vi era celata era stata fin troppo palese.

Nonostante tutto, gli fece male.

Gli fece male avere la conferma che lei avesse scelto.

E che non avesse scelto lui.

Ma non glielo diede a vedere.

Perché quello non era il momento di fare il Dawson della situazione.

Perché erano nel bel mezzo di una battaglia. E tutti in quel vicolo avevano una missione.

La sua era quella di tornare sano e salvo dal figlio.

Quella di Buffy, di seguire il suo cuore, finalmente.

“Sta facendo, come al solito, il buffone su quella terrazza!” le disse, indicando un punto preciso.

La paura di Buffy divenne certezza.

Spike stava nuovamente giocando a fare l’eroe, ma questa volta non avrebbe permesso che morisse.

Valutò velocemente quanti demoni avrebbe dovuto affrontare per arrivare al palazzo.

Molti, pensò, ma non a sufficienza per poterla fermare.

Se avesse avuto una mano, certo sarebbe stato tutto più semplice, ma con che coraggio avrebbe potuto chiedere aiuto ad Angel?

“Ti conviene raggiungerlo, se no chissà quali danni sarebbe capace di generare da solo!” l’anticipò il vampiro.

Buffy lo guardò scioccata.

A volte le persone potevano stupire. Uomini o vampiri che fossero.

Di questo ne era ormai certa.

In poche ore tutte le sue convinzioni erano state ribaltate e tutti i suoi dubbi fugati.

No, lei non era sola.

Non lo era mai stata.

Era stata lei ad allontanarsi dagli affetti, ma questi non l’avevano mai abbandonata.

L’avevano sempre sostenuta.

Anche quando faceva male, come in questo momento.

“Vai, che io ti copro le spalle!”

Buffy gli sorrise grata.

Poi cominciò a correre verso il portone di ingresso e con l’aiuto di Angel riuscì a raggiungerlo in pochi secondi.

“Da qui in poi tocca a te, mi raccomando” le disse il vampiro.

“Grazie!” gli rispose la cacciatrice con la commozione negli occhi.

Sperò solo che quello non fosse un addio.

Senza aggiungere altro cominciò a salire le scale in tutta fretta, spazzando via i demoni che cercavano di impedirle il passaggio.

“Ma quanti diavolo sono?” si chiese.

Ma il loro numero non aveva realmente importanza. Avrebbe versato anche tutto il sangue infernale per riuscire a raggiungere il suo obbiettivo.

Spike.

Uccise l’ultimo mostro a guardia dell’accesso alla terrazza e con un calcio ben assestato buttò giù un pesante portone di acciaio.

 

Fu allora che il suo cuore scoppiò.

 

La luna che, fino a quel momento, era rimasta celata dietro le nuvole, quasi a volersi nascondere da quello spettacolo di morte, fece capolinea, illuminando, con tutta la sua bellezza, quella notte nera. E con essa, lui.

Spike.

Il vampiro se ne stava in piedi su di un angolo del parapetto in cemento, con un grosso arco in mano, puntato verso il drago che continuava a sputare fuoco dalle fauci infernali.

Buffy si perse nel guardarlo.

Era bello.

Bello come lo ricordava. Anzi di più. Perché mai si era permessa di soffermarsi a lungo sulla sua figura in passato.

Ora sarebbe rimasta ore a osservarlo.

I capelli ossigenati, resi lisci dalle grandi quantità di gel che era solito usare, risplendevano alla luce lunare. Qualche riccio ribelle compariva qua è là a dimostrazione di una battaglia faticosa.

I lineamenti del suo viso erano trasfigurati dalla tensione e dalla concentrazione, eppure Buffy riuscì, anche a distanza, a riconoscere, nelle ombre chiaroscurali, i suoi zigomi pronunciati, che tante volte avrebbe voluto carezzare nei loro amplessi, il suo naso perfetto, le labbra carnose, che l’avevano fatta urlare in ogni modo peccaminoso possibile.

Il suo corpo era, come al solito, fasciato da uno spolverino nero, che danzava al vento come le ali di un pipistrello. I muscoli delle braccia e delle gambe erano fissi in una posizione plastica innaturale.

Il vampiro era pronto a scagliare il suo colpo mortale.

Una folata di vento scompigliò i capelli della cacciatrice.

Un profumo di vaniglia, confuso tra l’odore acre della morte, gli riempì le narici.

In un attimo, Spike si sentì perso.

Lo avrebbe riconosciuto tra mille.

Un profumo indelebile nella memoria, che mai aveva smesso di tormentare i ricordi e cullare il suo sonno agitato.

Il profumo della cacciatrice.

L’unica, nonostante tutto.

Buffy.

Cos’era? Un altra illusione del suo fragile cervello?

Il drago era in posizione.

Se avesse scoccato la freccia sacra sarebbe riuscito a centrarlo appieno. Lo sapeva.

Ma la sua mente era ferma su quella dolce bugia.

Si girò, per riuscire a dimostrare al suo sciocco cuore sordo che lei non era lì.

Non era corsa da lui.

E poi come avrebbe potuto? A quanto ne sapeva, lei ignorava il suo ritorno.

Era dall’altra parte dell’oceano tra le braccia di qualcun altro.

Il pensiero lo innervosì.

I suoi occhi lasciarono il grosso obbiettivo volante e misero a fuoco la terrazza alle sue spalle.

 

Fu allora che il cuore gli scoppiò.

 

Ferma sulla soglia della porta scardinata, vi era Buffy.

Bella come la ricordava. Anzi di più. Perché in nessuno dei suoi ricordi e mai in alcun sogno gli sorrideva dolcemente come stava facendo adesso.

I capelli, lasciati sciolti come piacevano a lui, ondeggiavano al vento.

Gli occhi verdi risplendevano di lacrime trattenute, mostrando nel loro profondo un sentimento che Spike non vi aveva mai letto.

Un sentimento che non riconobbe ma che gli diede speranza.

E nonostante le evidenti occhiaie, la trovò rifulgente.

“Ma perché mi torna in mente questo brutto aggettivo?”

Il tempo si fermò.

Persi l’uno negli occhi dell’altro, dimenticarono la battaglia, i demoni e i mostri.

Ogni dubbio o paura svanì.

Anche i pensieri cessarono.

Esistevano solo loro due.

E questo, per ora, poteva bastare.

 

Ma poi, il momento finì.

Il drago si scaraventò su Spike, che si gettò a terra appena prima che il fuoco lo travolgesse. Rimettendosi in piedi con un unico movimento fluido, il vampiro tese l’arco, lo puntò nuovamente sul drago e, chiudendo gli occhi, scoccò l’ultima freccia.

Buffy assistette alla scena completamente inerme, bloccata.

Il dardo attraversò l’aria e si conficcò nel grosso occhio centrale del serpentone volante.

Un boato squarciò la notte, tornata nuovamente nera.

La battaglia alla base del palazzo si interruppe e demoni e cacciatrici osservarono increduli la scena.

Dal drago agonizzante si sprigionò un immensa massa energetica. La terra tremò.

Spike, privo di qualsiasi appiglio, fu scaraventato all’aria, dal contraccolpo.

Solo la stretta ferrea di Buffy gli impedì di essere catapultato giù dalla terrazza.

Afferrandosi al parapetto, la cacciatrice cercò di trattenerlo dal cadere e di sollevarlo per metterlo al sicuro. Richiamò dal suo corpo ogni oncia di forza.

Perché ce la doveva fare.

Il fallimento non era contemplato.

Aveva una missione e l’avrebbe portata a termine a qualsiasi costo.

Non avrebbe permesso che morisse.

Dovevano avere la loro seconda possibilità.

La pretendeva.

Sospeso a centinaia di metri da terra, con la sola mano della ragazza a sostenerlo, Spike cercò di non farsi prendere dal panico.

Non doveva guardare giù.

Più facile a dirsi che farsi.

E lui soffriva pure di vertigine.

Si concentrò sul viso di Buffy deformato dallo sforzo e dall’ostinazione.

Nonostante la situazione drammatica, sorrise.

Poche ore prima, si era buttato in quella battaglia incurante della morte.

Anzi quasi augurandosela.

E senza ritorni questa volta.

Ora, invece, se ne stava qui, penzoloni, sperando che la sua cacciatrice non mollasse.

Perché ora voleva vivere.

Perché lei era lì con lui. Per lui.

Perché sentiva che potevano avere una seconda possibilità e questa volta non l’avrebbe sprecata.

La voleva, anzi la pretendeva.

Con le gambe cercò un appiglio per farsi leva.

E proprio quando gli sembrò di esserci riuscito, fu inutile.

Una nuova onda energetica li investì.

Si ritrovarono entrambi a precipitare, inesorabilmente, verso il basso.

In caduta libera, pensarono all’unisono che fosse finita.

Stavano per morire.

Ancora, entrambi.

Eppure, stretti l’uno all’altro, occhi negli occhi, non interessò a nessuno dei due.

Erano insieme.

Di nuovo.

Anche se solo per un attimo.

E questo poteva bastare.

 

Fu così che Angel e gli altri li trovarono sul luogo dell’impatto.

Stretti in un abbraccio indissolubile.

Uniti come lo erano sempre stati.

Al di là del tempo e dello spazio.

Al di là della vita e della morte.

Insieme.

E…semplicemente svenuti.

Willow, accortasi di quello che stava accadendo, era riuscita a rallentare la caduta e a farli atterrare su un piano morbido comparso dal nulla grazie ad un facile incantesimo. I demoni erano stati risucchiati dalla chiusura del portale all’esplosione del drago.

I combattenti in quel vicolo tirarono un sospiro di sollievo.

Avevano vinto.

La guerra e le proprie battaglie personali.

L’apocalisse era stata sventata.

Erano sopravvissuti.

Ancora.

E questo, per ora, poteva bastare.

 

 

 

 

 

 

 

Cap. 4 Oggi conta? Vite interrotte.

 

Seduta su quella scomoda sedia, con l’immagine del muro orribilmente bianco negli occhi, Buffy non sapeva quanto tempo fosse passato.

Forse un eternità.

Forse solo pochi attimi.

Aveva realmente importanza?

Eppure il calendario le riportava il numero esatto di giorni trascorsi: cinquantatre cifre annerite erano il promemoria della sua vita ormai vuota.

Erano il simbolo di cinquantatre albe scandite dalla dolce illusione di una domanda ripetuta: “Sarà questo il giorno che non conta?”

Erano l’immagine di cinquantatre notti disilluse.

Erano la rappresentazione della sua anima lacerata.

Tuttavia, quel numero non le quantizzava il tempo.

Nessun calendario lo avrebbe potuto fare.

Spettava al suo cuore il compito di calcolarlo.

Ma semplicemente non poteva.

Perché aveva smesso di esistere.

Aveva smesso di battere.

Di provare.

Morto sotto i colpi incessanti di un dolore senza fine.

Così, seduta su quella sedia, con le mani, fintamente rilassate, chiuse attorno ad una mano calda, tristemente inerme, e lo sguardo fisso sul muro, Buffy non riusciva a percepire da quanto tempo si trovasse in quella stanza.

Forse un eternità.

Forse solo pochi attimi.

Non era importante.

Eppure i ricordi erano tutti lì, nella sua mente, a rammentarle la scansione lineare degli avvenimenti. Ricordava perfettamente l’attimo in cui le immagini confuse di un sogno inquieto, fatto di buio, sangue e acque cristalline, erano svanite per lasciare posto all’accecante luce solare. Ricordava il nome impresso a fuoco sulle labbra prima ancora che la mente potesse realizzarlo.

“Spike?”

Ricordava il caldo conforto della voce del suo vecchio osservatore.

“Sta tranquilla…è vivo!”

Ricordava l’entusiasmo regalatale da quella frase.

La felicità provata: era sopravvissuta e lo aveva fatto anche lui; ora avevano la loro possibilità ad attenderli.

Ricordava il desiderio impellente di vederlo, di abbracciarlo e di accertarsi che fosse tutto vero.

La rinnovata forza nel corpo e nello spirito. Il cuore che batteva all’impazzata.

Un “Ti amo” pronto ad esplodere.

Ma, purtroppo, ricordava anche gli occhi tristi dell’uomo che in un'altra vita le aveva fatto da padre.

Le lacrime tra le ciglia, la voce rotta, le rughe profonde sul volto.

La propria paura.

“Ma?”

“Spike è sopravvissuto…ma non si sveglia!”

Buffy ricordava di non aver capito immediatamente quale fosse il problema. Lei stessa, in fin dei conti, dopo quel brutto salto, era rimasta svenuta per tre giorni.

“Tra poche ore si risveglierà e tornerà da me” aveva pensato. Solo che le ore erano diventate giorni, cinquantatre per l’esattezza, e lui non era tornato.

Rimaneva incosciente, steso in quel letto, in quella stanza, e nessuno capiva il perché.

Buffy ricordava le analisi mediche, i continui esperimenti scientifici e i più strampalati incantesimi alla ricerca di una soluzione. Ricordava la speranza che ogni nuova magia portava con sé.

La delusione che seguiva puntualmente.

Una bugia ripetuta su un domani migliore.

Un domani, fissato da una cifra annerita sul calendario, che non era mai arrivato.

Per la scienza e la magia, Spike rimaneva un mistero.

Per Buffy, un futuro stroncato sul nascere.

Ricordava l’attimo in cui la comprensione si era fatta largo nella sua mente, scacciando definitivamente l’attesa. Ricordava la faccia sconsolata di Willow, dopo l’ennesimo fallimento.

“Non so più che fare…mi dispiace!”

Ricordava le lacrime inconsolabili, gli occhi rossi e gonfi, i singhiozzi tra le braccia della sua migliora amica. Il dolore, quello fisico, che l’aveva piegata, spezzata come niente aveva fatto in passato.

Il vomito.

La febbre.

Il delirio creato da sogni incompleti e incubi costanti.

Ricordava la rabbia che era sopraggiunta.

L’odio cieco contro un potere superiore che giocava ancora con la sua vita e con il suo cuore.

Contro un dio, a cui non credeva, che la puniva facendola soffrire sempre un po’ di più.

Un dio che si divertiva a farla sanguinare fino ad ucciderla.

Ricordava le urla, riversate contro tutto e tutti.

Contro il cielo, il sole o la luna.

Contro chi aveva avuto l’ardire di starle vicina.

Contro Dawn, che aveva provato ad abbracciarla per infonderle coraggio e che aveva scacciato via in malo modo. Contro Willow, colpevole di non essere abbastanza potente.

“E tu, saresti anche una dea?” le aveva urlato con tutto l’astio e la cattiveria possibile.

Contro Angel che l’aveva privata di un anno della sua vita.

Contro Giles che non l’aveva avvertita in tempo.

Contro Faith, incapace di compiere la propria missione.

E, soprattutto, contro se stessa.

Si era odiata perché aveva fallito.

Non lo aveva salvato.

E la rabbia si era sciolta in senso di colpa.

“Se fossi stata più veloce!”

“Se fossi stata più forte!”

“Se fossi arrivata prima!”

Una montagna di se l’aveva schiacciata per giorni, distruggendola fino all’autocommiserazione.

E poi, semplicemente, più niente. Solo lo svuotamento emozionale.

Buffy “non” ricordava pomeriggi interi passati in quella stessa posizione ad osservare quel muro che rimaneva bianco giorno dopo giorno. Non li ricordava, perché non c’era nulla da ricordare.

Non ricordava le preghiere della sorella, le parole di Willow e gli schiaffi di Faith, perché non li aveva sentiti.

Il suo corpo aveva cessato di esistere. La sua mente era rimasta in silenzio.

Il suo cuore vuoto.

E così aveva sopravvissuto.

Poi una mattina di un giorno indefinito il sole era tornato a scaldarle le guance e la memoria aveva ripreso a funzionare. Le urla sconclusionate di gioia di Andrew avevano riattivato le sue sinapsi. Ricordava confusamente la notizia urlata dal giovane osservatore per i corridoi della nuova sede della Angel’s Investigations: un’analisi di routine aveva messo in evidenza un anomalia nel processo cellulare di Spike.

Ricordava gli occhiali della dottoressa che aveva spiegato loro la scoperta.

Non ne ricordava i lineamenti, però.

Il viso rimaneva offuscato.

Come nebulosa era la stanza in cui li aveva convocati, le persone che l’avevano accompagnata, le reazioni avute. Macchie indistinte nel quadro degli avvenimenti che si erano succeduti. Dettagli senza importanza che palesavano la propria presenza come ombre sullo sfondo.

Invece, ricordava distintamente la parola “Mitosi”.

Lei, che non aveva mai avuto buona memoria, né a scuola per le date, né nella caccia per i nomi dei demoni, ora ricordava a perfezione quel termine, impresso a fuoco nella sua mente dalla nuova speranza che aveva generato.

Mitosi, ovvero riproduzione cellulare.

All’inizio non ne aveva capito le implicazioni ed aveva ascoltato inconsapevole le spiegazioni della giovane biologa, l’entusiasmo di Willow e Giles, il vociare ottimistico dei dottori, le ipotesi e le interpretazioni degli scienziati. Ricordava di essersi chiesta cosa ci fosse di tanto importante in una cellula che si riproduceva e perché quella notizia avesse creato tanto trambusto.

“Buffy, le cellule dei vampiri non subiscono mitosi. Solo gli esseri viventi hanno questa capacità!” Era stata la risposta di Willow.

E neanche allora aveva compreso.

La sua mente si era rifiutata di elaborare quella notizia.

Perché elaborarla avrebbe significato poter sperare nuovamente. Illudersi ancora. Permettere al cuore di vivere e battere, un'altra volta. Battere e quindi sanguinare.

E Buffy era esausta, stremata dal continuo balletto di aspettative puntualmente disilluse.

Era rimasta indifferente, mentre le persone attorno a lei correvano su e giù per i corridoi rigenerati da quell’informazione. Ricordava i saltelli felici di Dawn e le risate di Andrew, la curiosità di Willow e le ricerche di Giles. Ricordava i sorrisi di uno strano mostro verde che voleva a tutti i costi farla cantare, e che lei cercava di evitare. Le parole allusive di Faith e le battute di Xander, il viso contratto di preoccupazione di Angel, l’espressione sempre apatica di Illyria, unica compagnia che in quei giorni Buffy riusciva a sopportare senza sentire il desiderio di urlare. Il dio blu si presentava sempre alla stessa ora tutti i pomeriggi nella stanza di Spike; rimaneva in silenzio sulla soglia per venti minuti ad osservare quel corpo addormentato; poi, si girava e se ne andava, sempre senza proferir parola. Buffy non sapeva il motivo di quelle visite eppure trovava stranamente confortante quel rituale quotidiano. C’era qualcuno, come lei, ancora immune all’immensa pazzia collettiva scatenata da quella semplice parola.

Mitosi, ovvero riproduzione cellulare.

Ma poi le conseguenze si erano palesate.

E niente era stato come prima.

L’evidenza divenne di colpo più forte di qualsiasi difesa.

La speranza le investì il cuore, superando le paure e la loro barriera.

L’apatia fu spezzata da un sogno che non aveva mai avuto il coraggio di nutrire.

E finalmente aveva compreso.

Finalmente quella parola aveva assunto un significato.

Spike stava tornando umano.

Prima era arrivato il battito cardiaco.

Bubum, bubum, bubum.

Un suono lieve, leggero, quasi inconsistente, all’inizio.

Bubum, Bubum, bubum.

L’intensità era poi aumentata, spezzando il silenzio della stanza.

Bubum, Bubum, Bubum.

Il ritmo era quindi diventato costante.

E dubbi non ve ne erano più stati.

Quello che stava ascoltando non era il proprio cuore, ma quello di Spike.

Buffy ricordava il sorriso che le si era formato sul viso.

La felicità che l’aveva sommersa.

Il respiro accelerato.

Il corpo in fibrillazione.

La mente che vagava a vuoto tra sogno e realtà.

La voglia di urlare e di gridare al mondo la propria gioia.

E forse lo aveva fatto, se no come erano accorsi i medici?

Buffy ricordava le ore trascorse in balia di quella dolce melodia, il sonno cullato da una musica cadenzata che mai avrebbe sperato di ascoltare.

Le variazioni nel ritmo che aveva imparato a conoscere.

Le pause che l’atterrivano.

Le accelerate che la spiazzavano.

Buffy ricordava di aver imparato ad accordare il proprio cuore a quello di Spike.

Ricordava la sinfonia creata dai battiti che suonavano all’unisono.

La sincronia perfetta.

L’esplosione d’amore.

E non aveva desiderato altro.

Poi era venuto il respiro.

Il petto si era alzato di sua spontanea volontà, per poi abbassarsi.

L’aria era entrata nei polmoni e ne era uscita.

Su e giù.

Dentro, fuori.

Buffy ricordava di aver osservato per interi minuti quel movimento prima di realizzare cosa fosse.

E ancora il cuore le era scoppiato. Lacrime di felicità, che non ricordava di aver mai versato, le avevano rigato il volto. Una risata spontanea aveva rischiarato la sua anima.

Ricordava la meraviglia provata davanti quel atto che per la prima volta non era dettato da un abitudine atavica, che mai era stata dimenticata, ma dalla pura necessità.

Inspirare.

Espirare.

Quell’azione antica come la vita stessa, era la riprova per Buffy della nuova condizione di Spike.

Era vivo. Nel senso di non più non morto.

Era umano o comunque non più un vampiro.

Immagini di lei e Spike felici durante una passeggiata, mano per la mano, sotto il sole su una spiaggia o in un parco, si erano materializzati nei suoi occhi. Sogni di una vita, non destinati ad una cacciatrice come lei, le avevano invaso i pensieri. Una villetta di legno, con tetto rosso e staccionata bianca. Una auto per famiglie. Ed un bambino biondo con immensi occhi blu.

Come quelli del padre.

Come quelli di Spike.

Buffy ricordava di essersi addormentata serena, con quelle fantasie nel cuore, accarezzata dal dolce ritmo di un battito e dal leggero movimento di un respiro.

Infine era venuto il calore.

E niente che avesse conosciuto prima, fu paragonabile.

La torrida estate di Los Angels le era sembrata improvvisamente gelida in confronto a quel dolce tepore emanato dal corpo di Spike Le sue stesse membra erano improvvisamente diventate fredde raffrontate a quelle dell’ex vampiro.

Ricordava di aver sentito l’esigenza di nutrirsi di quel calore.

Di immergersi in esso e non staccarsene più.

Di vivere di esso e per esso.

Stretta tra le sue braccia inermi, aveva avuto la certezza che niente potesse essere così confortante.

Ebbe la sicurezza di aver trovato finalmente la via di casa.

La sua meta.

Il suo destino.

Buffy ricordava le notti trascorse immersa nella perfetta sinfonia dei loro cuori, nel rassicurante movimento di un respiro e nel calore di un abbraccio ancora incosciente.

Buffy ricordava di essere stata felice.

Lo era stata per un attimo.

O forse per un eternità.

Non aveva più importanza.

Ricordava di aver aspettato con ansia il suo risveglio.

Ricordava di aver studiato ogni minimo movimento nella speranza di quel evento.

Di aver sognato un milione di volte l’attimo in cui avrebbe riaperto le palpebre e l’avrebbe vista.

Aveva immaginato di saltargli al collo e baciarlo con passione; oppure di dirgli direttamente che lo amava e che questa volta non ammetteva repliche. O semplicemente di rimanere in silenzio ad osservare la profondità dei suoi occhi e l’incertezza nel suo sguardo. Godere della meraviglia che da essi si sprigionava. Lo avevo immaginato rimettersi in piedi, contro il consiglio dei medici, ostinato come sempre, con una grossa risata o con una imprecazione. Dipendeva dai momenti.

Aveva aspettato e sperato.

Ancora.

E ancora una volta non era avvenuto niente.

Spike era rimasto inerme in quel letto.

I medici avevano cominciato a parlare di coma. Lo avevano messo sotto stretto controllo.

Un elettrocardiogramma controllava le alterazioni del battito, sovrapponendosi con il suo stridulo rumore alla dolce melodia del ritmo naturale, che Buffy aveva cantato per giorni.

Una maschera di ossigeno, che gli nascondeva naso e labbra, lo aiutava a respirare.

Una flebo lo alimentava.

Un paio di elettrodi lo collegavano ad una macchina che monitorava la sua attività cerebrale.

Spike era tornato in vita.

Era tornato un uomo.

Ma continuava a dormire e nessuno capiva il perché.

Buffy ricordava l’attimo in cui la sua vita si era fermata.

L’attimo in cui il cuore aveva smesso di battere definitivamente, senza possibilità di recupero.

Ricordava il volto impassibile di quel famoso medico, esperto in rianimazione, fatto venire direttamente da New York, mentre comunicava loro l’illuminante esito della sua breve visita.

“Il paziente è in coma profondo, non ci sono dubbi. Più passa il tempo e più diventa improbabile che si possa risvegliare. Non credo, onestamente, che ci siano molte speranze!”

Aveva, poi, continuato a parlare per ore con parole senza senso e incomprensibili.

Parole inutili, che nessuno aveva ascoltato.

O almeno Buffy non lo aveva fatto.

Così come non aveva pianto e non aveva urlato. Si era limitata a sorridere all’uomo, che le aveva distrutto tutti sogni, aveva preso posto su quella sedia scomoda accanto a letto di Spike, posato le proprie mani su una delle sue, e lì era rimasta.

Immobile, a fissare un muro bianco, ignara del tempo trascorso.

Forse un eternità.

Forse solo pochi secondi.

Non aveva importanza.

Aveva bloccato il cuore. Gli aveva impedito di battere e provare perché il tempo si fermasse e quell’ultima speranza si cristallizzasse in un presente perenne.

Così doveva essere per riuscire almeno a sopravvivere.

Così era stato.

La scansione di giorni aveva smesso di esistere.

Solo il dolore non era cessato.

Un dolore immenso, costante, inesauribile.

Un dolore che si accumulava e aumentava ineluttabilmente.

Dolore su dolore, come montagne di sale riversato sulle sue ferite sanguinanti.

Buffy ricordava tutto questo.

E a volte semplicemente avrebbe voluto non ricordare.

Dimenticare. Perdersi nella dolcezza dell’oblio. Abbandonarsi alla serenità di sogni che non si sarebbero più realizzati. Fuggire da quell’odore di malattia, da quel suono straziante, da quel muro bianco. Fuggire lontano da quel corpo che rappresentava le sue speranze e le sue disillusioni.

Da quel cuore che l’aveva cullata.

Da quel respiro che l’aveva fatta piangere.

Da quel calore che l’aveva confortata.

Da quell’uomo che le aveva donato in un attimo tutto ciò che mai aveva desiderato, o credeva di desiderare. Le aveva regalato l’illusione di un futuro fatto di una casa in legno, con tetto rosso e staccionata bianca, di una macchina familiare. Un futuro costruito negli occhi immensamente blu di un bambino biondo.Glielo aveva regalato e poi glielo aveva strappato con quel suo sonno infinito.

Buffy avrebbe voluto dimenticare.

Ma non poteva.

Non avrebbe mai potuto.

Neanche se avesse vissuto altre cento vite.

Ne era consapevole.

E allora rimaneva lì, giorno dopo giorno, ferma, immobile, in attesa.

Di cosa non lo sapeva.

Ma sentiva che doveva essere così.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cap. 4 Oggi conta? Vite interrotte. (seconda parte)

 

La mano di Spike si contrasse leggermente tra le sue.

Le dita formicolarono.

Il mignolo si alzò.

Buffy chiuse gli occhi. Prese un respiro profondo. Forzò ancora un po’ in più il proprio cuore.

Poi ritornò a fissare il muro bianco, come se niente fosse successo.

Perché era così. Non era accaduto nulla.

Quel movimento non significava niente. Erano spasmi inconsapevoli, che non prefiguravano nessun cambio di stato. Spike non si stava per svegliare.

Semplicemente a volte muoveva le mani, le gambe, le palpebre, facendole sobbalzare il cuore, nonostante tutto.

Ma non significava niente

Ora lo sapeva.

Era corsa fuori dalla stanza con l’animo in subbuglio, la prima volta che aveva percepito quel leggero movimento. Era corsa da infermieri e medici, urlando che qualcosa stava accadendo.

Che qualcosa doveva star accadendo, perché lei lo aveva sentito.

Doveva significare qualcosa.

La risposta era stata un lungo silenzio.

E, poi, commiserazione.

Nelle loro parole.

Nei loro gesti.

Nei loro occhi.

Quella commiserazione che la cacciatrice, che riposava in lei, non sopportava.

Ed era bastata quella a farle capire la propria stupidità. Spike non si stava per svegliare e lei si era illusa ancora. O forse, a farle comprendere, era stata quella conversazione, che aveva ascoltato per caso, non vista.

“Povera ragazza. Si attaccherebbe a qualunque cosa, pur di continuare a sperare”.

“E’proprio vero che l’amore rende ciechi e sordi!”

Era stata una sciocca, quella volta.

Non avrebbe fatto più lo stesso errore.

Ora sapeva che non significava niente.

La mano tornò inerme, mentre Buffy continuava a tenere lo sguardo fisso su quel muro bianco.

La porta si aprì e un ombra silenziosa entrò nella stanza, dirigendosi verso la finestra e rimanendo nel cono d’ombra di questa.

Buffy non si mosse, non si voltò.

Non ne ebbe la necessità. Il suo senso di cacciatrice si attivò rivelandole chi fosse.

Sbuffò.

“Che ci fa qui? Non è il suo solito orario di visita?!” pensò.

Qualcosa non quadrava, se lo sentiva. Per mostrarsi a quell’ora del mattino, ci doveva essere un motivo. E dalla posa grave che aveva assunto, Buffy intuì che non le sarebbe piaciuto. Di solito si presentava nel tardo pomeriggio; si fermava sulla soglia e se ne stava fermo ad osservarla per una decina di minuti; poi se ne andava.

Sempre alla stessa ora.

Sempre uguale.

Veniva per controllarla.

Buffy lo sapeva.

E quella preoccupazione mal indirizzata, la irritava.

Ogni volta un po’ di più.

Eppure preferiva quelle visite programmate a questa improvvisata.

“Perché è qui?” si chiese nuovamente, mentre cominciava a temere la risposta.

“E’ una bella giornata fuori, dovresti uscire a prendere un po’ di aria, Buffy!” disse Angel, rompendo improvvisamente il silenzio

“Perché non esci tu?” gli rispose la ragazza con un tono profondamente acido.

“Scusami!” aggiunse, rendendosi conto immediatamente della cattiveria detta.

Non era colpa di Angel. Non poteva prendersela con lui.

Non era colpa di nessuno.

Lo sapeva.

Eppure, a volte, la necessità di uno sfogo era più forte. A volte la tenacia non era sufficiente a tenere in silenzio il dolore. A volte le parole degli altri erano soltanto un riflesso dei suoi stessi pensieri.

Quei pensieri a cui non voleva dare voce.

Non doveva dar voce.

“Buffy, ascolta…!” cominciò il vampiro.

“No!” lo interruppe la cacciatrice, non volendo sentire ciò che già immaginava.

“So cosa vuoi dirmi. Ma è inutile. Io da questa stanza non esco!” Lo anticipò, risoluta.

Farsi vedere sicura era l’unica soluzione, l’unico modo per avere un po’ di pace.

“Perché?” le chiese Angel, come se realmente si aspettasse una risposta ad una domanda tanto inutile. Buffy, senza distogliere lo sguardo dal muro, prese un respiro profondo.

Sapeva cosa stava per accadere.

Doveva solo farsi forza e reagire.

“Potrebbe svegliarsi e io devo stare qui!” gli rispose lei, aspettando la sua contromossa.

Quella che stavano avendo non era una conversazione come tante. Ne era consapevole.

Era una battaglia. Angel era lì per una missione.

Una missione che lei conosceva fin troppo bene.

Ora si trattava di capire quali armi avrebbe utilizzato.

Buffy, dalla sua, aveva solo il proprio immobilismo.

“Resistere!” Questa era la parola d’ordine contro quel attacco che ogni giorno si faceva più insistente e che di volta in volta prendeva fattezze umane diverse.

Era prima venuta Dawn.

Poi il signor Giles.

Ci avevano provato anche Willow e Xander, in un colpo combinato.

Avevano fallito tutti quanti.

La loro ragione era naufragata contro lo scoglio della sua ostinazione.

Ora toccava ad Angel.

Il vampiro si allontanò dalla finestra, le si avvicinò e le poggiò le grosse mani sulle spalle.

“Che la guerra abbia inizio” pensò Buffy, irrigidendosi sulla sedia, pronta a controbattere.

“Io capisco cosa provi. Ci sono passato. Lo capisco meglio di tutti gli altri”cominciò lui.

“L’attesa, l’aspettativa continua. La speranza che non viene mai meno, nonostante tutto.” Continuò, con un tono di voce che tradiva un dolore ancora presente.

Buffy non si aspettava quella confessione e ne fu colpita. La sincerità di quelle parole le fece provare compassione per il vampiro bruno, condannato, come lei, ad una sofferenza continua da un potere superiore. Si voltò, per guardarlo negli occhi e mostrargli tutta la sua comprensione.

Avevano sempre avuto un destino comune.

Lei ed Angel.

Un destino di dolore ed espiazione.

Era questo che li aveva tenuti vicini?

“So perfettamente cosa provi. Ed è per questo che ti dico che non puoi continuare così!” le disse Angel, forzando improvvisamente la presa sulle spalle della cacciatrice e puntando i grandi occhi marroni in quelli verdi di Buffy.

“Colpo basso!” pensò la ragazza, mentre con forza si scioglieva dalle mani del vampiro e si voltava nuovamente verso il muro bianco, irritata per la propria ingenuità. Aveva abbassato la guardia e lui ne aveva approfittato, colpendola al cuore del problema.

“Non puoi continuare così!”

Ovvero non puoi distruggerti la vita, nella vana speranza di un giorno che forse non arriverà.

Era la frase che continuavano a ripeterle tutti.

In vari modi e con i toni più diversi.

Come se lei non lo capisse.

Come se lei non lo sapesse.

Ma Buffy lo sapeva.

Sapeva che non poteva continuare a sopravvivere su quella sedia.

Non ancora per molto, almeno.

Ma quale era l’alternativa?

Andare avanti?

Abbandonare Spike in quel letto e far finta di niente?

Lasciare che la vita prendesse una nuova strada, mentre quella dell’uomo che amava rimaneva bloccata in un sonno senza fine?

A quelle domande nessuno sapeva rispondere.

Il silenzio e lo sguardo basso erano l’unica risposta che aveva avuto puntualmente.

Da Dawn.

Da Giles.

Da Willow e Xander.

Allora a Buffy non rimaneva che ricacciare indietro quelle parole; ricacciare l’ affettuosa preoccupazione altrui; ricacciare l’egoismo della sua stessa mente e resistere.

Opporre ostinazione alla ragione.

“Se lo capisci, allora come mi puoi chiedere di …? Ha bisogno di me…io non posso…” gli disse, con voce tremolante, odiandosi per quella fragilità palesata.

“Lui non si sveglierà!” urlò il vampiro.

Buffy sobbalzò dalla sedia.

E non per l’urlo.

Alle grida, ai pianti, ai lamenti si era abituata. Non la toccavano più. Aveva imparato ad immagazzinarli e a ignorarli.

Ciò che la ferì, fu la frase.

Perché Angel non aveva usato il condizionale.

Non aveva detto “potrebbe non svegliarsi!”, come tutti continuavano a ripeterle.

Aveva usato l’indicativo. Aveva urlato una certezza, che non poteva avere.

Che non poteva permettersi di avere.

Una certezza anonima, vigliacca e crudele.

“E’ Spike, maledizione. Spike! Ha un nome! Dillo! SPIKE! Non è un lui, qualsiasi!” Gridò in risposta Buffy, alzandosi dalla sedia e girandosi ad affrontare il vampiro, con gli occhi rossi di rabbia. Una voglia di spaccargli la faccia le fece formicolare le mani.

“E’ Spike…Spike… e si sveglierà!” continuò, urlando in risposta le proprie certezze.

“…deve farlo!” aggiunse però poi in un sussurro, mentre cercava di tenere a bada le lacrime.

Angel la prese tra le braccia e le accarezzò i capelli.

“Mi ripetevo la stessa cosa con Cordelia e poi…” le disse con un tono di voce di nuovo calmo.

Buffy lasciò che quel confortevole abbraccio la cullasse.

Era esausta, come se lo sfogo di pochi secondi prima le avesse tolto tutte le forze.

E forse era così.

Il dubbio di star sbagliando tutto le invase la mente.

Il desiderio di abbandonarsi alle cure amorevoli dei suoi cari la sommerse.

Sarebbe stato così facile lasciare che gli altri si occupassero di lei, permettere loro di prendere le decisioni al posto suo e dimenticare la sofferenza.

Sarebbe stato semplice e lei aveva bisogno di semplicità.

Poi lo sguardo fu catturato da uno dei tanti movimenti inconsulti di Spike.

E allora capì.

Sarebbe stato semplice, ma non sarebbe stato giusto, né per Spike, né per lei.

Sarebbe stato facile, ma non le avrebbe dato la pace o la felicità che meritava.

Che sentiva di meritare.

Che pretendeva.

Avrebbe continuato a lottare, nonostante la stanchezza.

Perché lei era una combattente e la resa non era un opzione.

Si scostò dal vampiro e si asciugò gli occhi umidi.

Prese un profondo respiro, riacquistando lucidità e forza.

La battaglia non era ancora finita.

“Scusami, ma onestamente non mi interessa niente di cosa è accaduto a Cordelia. Spike è Spike…e lui si sveglierà. Ne sono sicura!”

“E cosa ti rende tanto certa…hai sentito i medici…!” ribatté nervosamente Angel.

“I medici non sanno niente…non conoscono Spike, come lo conosco io. Si sveglierà, perché deve tornare da me…come ha sempre fatto. E lo farà…prima o poi lo farà!” gli rispose forzando una sicurezza nella voce che giorno dopo giorno veniva meno.

Ma lui non doveva saperlo.

Se voleva vincere, lui non doveva accorgersene.

Si voltò verso la finestra ad osservare il cielo terso di quella mattina di luglio. Non che guardasse realmente o le interessasse, ma aveva bisogno di mettere distanza fisica ed emotiva tra lei e Angel che si stava rivelando un nemico più ostico dell’immaginato.

Ma poi, non lo era, sempre stato?

“E nel frattempo tu che farai? Rimarrai qui a lasciarti morire…” insistette lui.

”Io non sto morendo…non fare il melodrammatico!” lo bloccò Buffy, innervosita dal tono assunto dal vampiro.

“Si, invece, ti stai logorando giorno dopo giorno. Ma ti sei vista allo specchio, ultimamente? Sembri il fantasma di te stessa…Non dormi, non mangi…non fai niente…Tua sorella è preoccupata. Lo siamo tutti. E dannazione Buffy almeno guardami!” disse forzandola a girarsi

“Contento?” gli chiese lei, una volta che i loro occhi furono nuovamente l’uno nell’altro.

“No…ti prego, Buffy. Esci, vivi…ritorna in te…” la supplicò.

La cacciatrice accennò un piccolo sorriso.

Stava vincendo. Erano ormai alla fase della supplica, del pianto e della disperazione.

L’esperienza le aveva insegnato che quella era l’ultimo stadio prima della rassegnazione.

Anche quello scontro stava per finire. Lei doveva resistere solo un altro po’.

“Mi dispiace, ma non posso. Devo rimanere qui…per Spike…avrebbe fatto lo stesso per me!” gli rispose con risolutezza.

”Ma dannazione, lui non sa nemmeno che sei qui…I medici dicono…”

“Ti ho detto che i medici non sanno un cazzo…” urlò nuovamente lei.

“Scusa…ascolta Angel. Io sto bene. Di agli altri di non preoccuparsi. Io sto bene…ho solo bisogno di rimanere un po’ con Spike, di prendermi cura di lui, ancora un pò…” gli disse, addolcendo il tono di voce.

“Buffy…” cercò di replicare ancora Angel, senza sapere realmente che dire.

”Ti prego, …vai…ti prego…”

Il vampiro abbassò la testa in segno di resa.

La cacciatrice aveva vinto.

“Ok…ma non mi rassegno…sappilo!” le disse Angel, avviandosi verso la porta.

“Neanche io…!” aggiunse Buffy, una volta che il vampiro fu uscito.

“…Neanche io!”

Rimasta sola nella stanza, si andò a sedere nuovamente sulla sedia accanto al letto, prese la mano calda di Spike tra le sue e rimase così ad osservare il muro bianco ed il calendario che faceva bella mostra di se al centro di questo.

Il numero 25 spiccava non ancora annerito sotto l’immagine di un tramonto al mare.

“Sarà questo il giorno che non conta?” pensò.

Nelle sue parole non c’era ansia o attesa.

Era solo una domanda che si ripeteva ogni giorno uguale a se stessa.

Nient’altro.

Nessuna aspettativa.

Buffy aveva capito che non poteva permettersi il lusso di sperare o illudersi.

Il suo cuore non poteva permetterselo.

Non più.

Ma la rassegnazione non le apparteneva e allora continuava a chiederselo.

Un giorno sarebbe arrivata la risposta, ne era sicura.

Fissò l’orologio sopra il comodino, malamente attrezzato: erano quasi le undici.

“Su…è ora!” disse al vuoto, spegnendo la sveglia prima che questa potesse squillare.

“Mettiamoci al lavoro!” continuò forzando un entusiasmo nella voce.

Si alzò, prese il braccio destro di Spike tra le mani e cominciò a massaggiarlo con un movimento leggero ma deciso. Un movimento che ormai conosceva bene e che faceva parte di un rituale perfettamente strutturato, che si ripeteva ogni mattina a quell’ora: braccio destro, braccio sinistro, gamba destra, gamba sinistra e poi ripetere. Per cinquanta minuti.

Uguali.

Sempre.

I medici avevano espresso la necessità che i muscoli di Spike fossero allenati quotidianamente per evitare l’atrofizzazione. Buffy aveva rifiutato l’aiuto di una fisioterapista o di una infermiera specializzata, non volendo che nessuno, al di fuori di lei, si occupasse del suo uomo.

Si era fatta istruire su tutte le sue necessità, mediche e non, e aveva organizzato la propria vita in base a queste. Ogni cosa aveva un suo orario, una sua sveglia a promemoria.

Una le ricordava di lavarlo, raderlo e cambiargli le lenzuola.

Un'altra l’avvisava dell’arrivo del infermiere per le analisi mediche.

Un'altra ancora del cambio della flebo.

Una le riportava l’ora della fisioterapia.

E così fino a sera.

Decine di allarmi che le scandivano la giornata e la costringevano ad alzarsi da quella sedia e a distogliere lo sguardo da quel muro bianco.

Sprazzi di vita in una vita interrotta.

Faith, una volta, aveva ipotizzato che lo facesse per gelosia, per evitare che tutte le belle giovani infermiere, che si aggiravano nel palazzo, toccassero Spike.

Aveva riso, lasciando che lo credesse, ma il motivo era un altro.

Sentiva che il compito di prendersi cura di lui spettava a lei e a nessun’altro.

Era prima di tutto un suo dovere. Sapeva che Spike avrebbe fatto lo stesso se ne avesse avuto la possibilità e lei non voleva essere di meno. Lui le aveva dimostrato amore in tutto i modi possibili e immaginabili, mentre lei non aveva mai fatto altro che maltrattarlo. Ora toccava a lei dimostragli l’intensità dei suoi sentimenti, la dedizione del proprio cuore.

Perché se lo avesse convinto del suo amore, lui si sarebbe svegliato.

Ne era sicura.

Per questo non poteva lasciarlo.

Per questo non poteva andare avanti.

La sua missione era prendersi cura di lui e lo avrebbe fatto.

E non aveva importanza che le facesse male al cuore.

Che ogni gesto che faceva per lui le ricordasse prepotentemente il suo stato.

Non aveva importanza che ogni ago infilato in vena le facesse girare la testa, che, ad ogni catetere cambiato, sentisse l’umiliazione crescere giorno dopo giorno, che, ad ogni seduta di fisioterapia, si chiudesse in bagno a piangere e a vomitare.

Avrebbe continuato e lui si sarebbe svegliato.

Ne era convinta.

Si mosse dall’altro lato del letto per prendere il braccio sinistro e lasciò che lo sguardo cadesse sul corpo inerme di Spike. I capelli ossigenati, che lui amava portare fissi con il gel o lasciati ribelli in piccoli ricci, erano spariti del tutto; al loro posto faceva bella mostra di se una testa leggermente rasata di color castano scuro. Gli occhi, sempre fissamente chiusi, portavano i segni di una stanchezza malata e due brutte macchie scure ornavano le sue palpebre. La pelle rimaneva ancora mortalmente pallida, nonostante il respiro e il battito, tanto che, a volte, Buffy si era ritrovata a dubitare della sua stessa umanità. Il corpo, che la cacciatrice aveva imparato a conoscere ed amare nelle loro sessioni straordinarie di sesso, era dimagrito e smunto e, nonostante l’allenamento quotidiano, i muscoli, un tempo cesellati e perfettamente delineati, avevano perso massa e vigore.

I segni della sua prolungata degenza erano tristemente evidenti.

Spike era un uomo.

Ma era un uomo in coma.

Buffy avrebbe voluto pensare che, nonostante tutto, l’ex vampiro fosse ancora bello, ma non poteva.

Perché non era vero.

Perché nella malattia non ci poteva essere bellezza.

Perché la malattia è semplicemente malattia e non può essere nient’altro.

Ricacciando le lacrime che minacciavano di fuoriuscire, distolse lo sguardo, cominciando a massaggiare la gamba destra. La verità è che vederlo in quello stato le faceva male e allora preferiva non guardarlo. Preferiva rimanere per ore con lo sguardo fisso su quel muro, che nel suo crudele biancore, era più confortante del viso emaciato di Spike.

Preferiva poterlo ricordare ancora forte e potente, immortale, invulnerabile.

Poter ignorare la sua debolezza e la sua sofferenza.

Poter ignorare la sua mortalità malata.

Lasciò la gamba destra per spostarsi sulla sinistra, in silenzio e con gli occhi fissi nel vuoto.

La maggior parte delle volte, durante l’ora di fisioterapia, Buffy gli parlava. Per cinquanta minuti chiacchierava di tutto e di nulla ininterrottamente. Una volta aveva letto da qualche parte che i pazienti in coma potevano sentire. I medici non erano per nulla d’accordo su questa teoria, ritenendola infondata, ma a lei non interessava. I medici non avevano ancora capito nulla e continuavano a farlo. Lei aveva deciso di parlargli e semplicemente lo faceva.

Gli aveva raccontato dell’arrivo da Roma di Dawn, delle sue lacrime a vederlo su quel letto.

“Sta piangendo per te…ti dovresti svegliare!”

Gli aveva descritto, attraverso le parole della sorella, l’appartamento che Angel aveva trovato loro e che lei non aveva ancora visto.

“Dawn dice che non è molto grande, ma è accogliente…che per ora può andare…dovresti vederlo, quindi fai presto a svegliarti!”

Gli aveva riportato le decisioni di Willow e Xander di rimanere a Los Angeles e di come si stessero organizzando con il lavoro e la casa.

“Xander ha una nuova fidanzata e questa volta non è un demone…ci crederesti? Su svegliati!”

Gli aveva parlato delle ricerche continue di Giles ed Andrew, che si spostavano tra Europa e Stati Uniti, nella speranza di trovare una soluzione a quel mistero.

“Sei diventato un bel grattacapo. Vuoi svegliarti?”

Gli aveva riferito di come Angel fosse riuscito a ricostruire da zero la sua agenzia, riunendo attorno a sé i vecchi scienziati e mistici che un tempo lavoravano per la W&H.

“Il lusso di questo posto è accecante. Decisamente Angel sa come godersi la non vita…Sono sicura che lo prenderai in giro, appena ti sveglierai. Svegliati!”

Gli aveva parlato di tutto e di niente, riversando nel silenzio della stanza, in quei cinquanta minuti, ogni cosa le venisse in mente.

Gli aveva raccontato di tutti, ma mai gli aveva parlato di se stessa. E poi cosa gli avrebbe dovuto dire? Che la sua vita si era interrotta con il suo coma?

Che non aveva la forza di andare avanti, ma allo stesso tempo non poteva continuare in quel modo? Che doveva reagire per sua sorella e per i suoi cari, ma che il suo cuore non voleva abbandonarlo?

Che a volte, in un attacco di egoismo sfrenato, avrebbe preferito che lui non fosse mai tornato o che fosse morto? Che quei pensieri le facevano provare un odio e un disgusto profondo per se stessa?Che la situazione la stava distruggendo giorno dopo giorno inesorabilmente?

Che si sentiva in colpa per non essere abbastanza forte?

Era questo che avrebbe dovuto dirgli?

No.

Non poteva.

Semplicemente non poteva dar voce a quei dubbi e a quelle domande.

Doveva resistere. Anche contro se stessa.

E forse per questo, in quel momento, mentre eseguiva per la seconda volta la sequenza degli esercizi, con la mente ancora piena delle parole di Angel, Buffy rimaneva in silenzio.

Se avesse parlato sarebbe stata la fine per lei.

Ne era consapevole.

L’unica soluzione era quella di non ascoltare e di non parlare.

Di rimanere ferma, immobile come lo era Spike.

Tuttavia il calendario con il suo bel numero venticinque non ancora annerito la osservava crudelmente riportandole alla memoria l’inesorabile scadenza dettata dai medici.

“Se il paziente non si sveglia tra le sei e le otto settimane, non si sveglierà più. Potrebbe morire o rimanere per sempre in uno stato vegetativo!”La voce del rianimatore rimbombò nella testa di Buffy, seguita da tutte quelle che in quei cinquantatre giorni l’avevano tormentata, riversandosi e accavallandosi, senza pietà, l’una all’altra.

“Non puoi continuare così!”

“Non si sveglierà!”

“Stai morendo insieme a lui!”

“Non puoi continuare così!”

“Non si sveglierà!”

“Stai morendo insieme a lui!”

Improvvisamente il vociare divenne frastuono e fu semplicemente troppo.

“Basta!” urlò, portandosi le mani alle tempie. Si accasciò sulla sedia, cominciando a piangere e sfogando il dolore che ormai non riusciva più a tenere a bada.

E, con la testa chiusa tra le braccia, Buffy fece l’unica cosa che in quei cinquantatre giorni non aveva fatto.

Pregò.

“Non so se esiste qualcuno lassù…ma se c’è…ti prego ascoltami. Non portarmelo via…fallo svegliare…ti prego…ne ho bisogno…ne abbiamo bisogno entrambi…ci meritiamo un po’ di felicità…ti prego…non ancora…fallo vivere…dacci una possibilità…sveglialo!”

Con le lacrime negli occhi e una preghiera ripetuta infinitamente sulle labbra, Buffy si addormentò.

Scivolò in un sonno senza sogni, in cui la sua mente martoriata ed il cuore sanguinate trovarono conforto e riparo.

Ed il riposo dell’animo era quello di cui aveva realmente bisogno.

Da quanto tempo non dormiva?

Forse un eternità.

Forse solo pochi attimi.

Ora non aveva più realmente importanza. Esausta come non mai, si assopì e non sognò.

 

Due occhi blu improvvisamente si aprirono.

La vista ancora annebbiata cercò di mettere a fuoco la stanza appena illuminata dalla luce del tramonto. Dove si trovava? Perché era lì? Cosa era accaduto?

Mille domande si successero in pochi secondi nel cervello, mentre si rendeva conto dell’immobilismo del proprio corpo. Alla sua destra percepì la presenza di una testolina bionda accasciata sul letto. Cercò di spostarsi per riuscire a capire chi fosse, ma fu tutto inutile.

Sentì la stanchezza rimpossessarsi delle sue povere membra.

Aveva bisogno di riposare. Magari anche di sognare.

Da quanto tempo non lo faceva?

Forse un eternità.

Forse solo pochi attimi.

Aveva importanza?

No, credeva realmente di no.

Chiuse gli occhi e si addormentò.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cap 5 Chi sono? Chi sei? Sconosciuti a confronto. (prima parte)

 

Non fu la luce del nuovo giorno, che dolcemente gli carezzava le palpebre, a svegliarlo.

Né la bellezza di un sogno creato su di un raggio di sole e un ricciolo di grano.

No.

Non fu il tenero calore dell’abbraccio, in cui serenamente riposava, e nemmeno il leggero russare che risuonava nelle orecchie. A fargli aprire gli occhi, fu semplicemente la sete.

La gola arsa, la bocca secca, le labbra screpolate.

Il desiderio di bere.

Con la vista ancora offuscata, vagò con lo sguardo alla ricerca di una fonte di sollievo. Un bicchiere d’acqua era poggiato sul comodino accanto a letto. Tentando di allungarsi per raggiungerlo, si rese conto del proprio immobilismo e le immagini della sera precedente gli tornarono alla mente, sovrapponendosi al presente: era ancora in quella strana stanza senza ricordarne il perché. Si tolse la maschera che gli copriva la bocca, afferrò il bicchiere, con uno lento movimento da contorsionista, e placò, finalmente, l’arsura. Riacquistando un po’ di lucidità, analizzò con attenzione l’ambiente circostante: i muri della camera erano bianchi e spogli, il soffitto era tinteggiato di un pallido celeste mentre il pavimento era ricoperto di linoleum blu; una piccola finestra, con una pesante tenda cobalto, interrompeva la monotonia di una delle pareti, mentre su un'altra era stato accostato un divano dell’analoga tonalità di azzurro, che appariva sorprendentemente nuovo, come se mai nessuno vi si fosse seduto sopra. Alla sua sinistra vi erano strani macchinari dai rumori insopportabili, una flebo, un comodino malconcio, con un piede più lungo dell’altro, uno orologio con sveglia incorporata puntata alle otto del mattino, ed una vecchia sedia dall’apparenza scomoda.

Alla sua destra, al centro del muro, spiccava un calendario.

L’immagine dell’oceano tinteggiato di rosso da un alba estiva lo colpì.

Qualcosa nei colori di quella foto, eccessivamente saturata e di pessima qualità, gli toccò l’animo, improvvisamente inquieto.

Ebbe l’impressione di non aver visto niente di più bello.

Gli occhi gli si inumidirono di un sentimento di commozione irrazionale.

“Cosa mi prende?” pensò, sorprendendosi di quella reazione.

Cercando di placare la corsa impazzita del cuore, si concentrò sull’informazione che la pagina, con i suoi ventiquattro numeri anneriti, riportava: era il venticinque del mese di luglio.

Da quanto tempo si trovava in quella stanza?

Quanti giorni vi aveva trascorso? Ma soprattutto, dove era?

Cercò nella memoria la risposta ad almeno una di quelle domande, ma fu inutile.

Il suo cervello rimaneva vuoto, privo di qualsiasi reminiscenza che avesse un significato.

Chiuse gli occhi cercando di concentrarsi maggiormente.

Nulla. La mente si ritrovò immersa in un bianco accecante e senza speranza, come lo erano i muri di quella stanza.

L’unico ricordo vivo era la massa di capelli biondi che aveva intravisto la sera precedente e che gli aveva riempito il sonno di dolci visioni di una vita che non rammentava di aver mai avuto o desiderato.

Aveva sognato una villetta in legno, un tetto in ardesia, una staccionata bianca ed una macchina familiare.

Aveva sognato un bambino con gli occhi blu e i capelli biondi come il grano.

Biondi come quelli della ragazza, che, ora, dormiva con la testa sul suo petto, abbarbicata a lui, in un abbraccio immensamente tenero.

Pur non riuscendo a distinguerne i tratti del viso, per la posizione in cui si trovavano, ebbe la netta sensazione di conoscerla, o che almeno il proprio corpo lo facesse.

Il cuore rallentò il suo incedere ed il respiro automaticamente si accordò a quello di lei.

Le proprie membra si adeguarono alle sue dolci forme.

Il nervosismo bianco fu sostituito dalla sensazione di tranquillità che il tenerla tra le braccia gli procurava. Un piccolo sorriso colorò le sue labbra.

Mille domande si agitavano nel cervello ed era convinto che la ragazza dormiente avesse le risposte per lui, ma l’idea di svegliarla lo disturbava.

C’era qualcosa nei suoi vestiti stropicciati, nei capelli spettinati, nella stessa tensione muscolare così in contrasto con la profondità del suo respiro, che gli faceva intuire che la ragazza non dormisse da tempo.

C’era qualcosa in quella stanza tristemente squallida così simile ad una camera di ospedale, in quella sedia scomoda, in quel divano mai usato, nei muri spogli e senza vita, che gli faceva pensare che la bionda avesse vissuto accanto al suo letto per molto tempo.

“Perché?” chiese con una voce roca e gracchiante che non riconobbe nel silenzio dell’ambiente.

Quella domanda appena sussurrata riattivò la massa ingarbugliata di quesiti senza risposta che si mescolavano nella propria mente, facendo crescere nell’animo un inquietudine e un disagio sempre maggiore.

Improvvisamente il letto gli sembrò terribilmente scomodo.

Cercò di muoversi nella speranza di una posizione più confortevole.

I muscoli di tutto il corpo si ribellarono e gli dolsero, come se non li muovesse da molto tempo.

“Ma quanto?” si domandò nervosamente.

L’ago, che lo collegava alla flebo, e gli elettrodi, posizionati sul petto lo bloccarono, rendendo vano qualsiasi tentativo. La frustrazione aumentò.

“Ma dove cazzo sono e cosa diavolo è successo?” pensò arrabbiato con se stesso e con quella camera anonima.

La ragazza, accanto a lui, si agitò, cominciando a muoversi nel sonno.

Era ormai prossima alla fase del risveglio.

L’idea lo placò immediatamente, mentre la curiosità aumentò.

Gli occhi si aprirono e due gemme preziose color smeraldo gli si svelarono, incatenandolo.

“Mi dispiace…non volevo disturbarti!” le disse, timido, quando lei, alzando la testa dalla sua spalla, lo guardò.

“Umm…non preoccuparti” gli rispose Buffy, stiracchiandosi e cercando di riattivare i sensi, ancora offuscati dal sonno.

Si alzò dal letto, sistemò la maglietta, che le si era alzata sulla pancia, e stiracchiò i muscoli del collo, ripetendo i gesti che faceva ogni mattina. Spense la sveglia prima che questa potesse suonare, prese la penna e si avvicinò al calendario per annerire il giorno trascorso, rimproverandosi mentalmente per non averlo fatto la sera prima. Tuttavia, non poté negare a se stessa che quel sonno ristoratore le avesse fatto bene regalandone la forza necessaria per affrontare una nuova giornata fatta di routine e silenzio.

“Sarà questo il giorno che non conta?” si chiese automaticamente, mentre lanciava il solito sguardo fugace al corpo di Spike.

Fu solo allora che realizzò cosa stava accadendo.

Spalancò gli occhi, perdendosi in quella visione.

Lui se ne stava lì ad osservarla con uno sguardo stupito sul volto ed un sorriso accennato sulle labbra.

Lo shock la pervase.

Il cuore accelerò ed il respiro venne meno.

Stropicciò furiosamente le palpebre per dimostrasi di non star ancora una volta sognando.

E non lo stava facendo.

Spike era sveglio.

Spike era vivo.

Spike era tornato da lei.

Ancora una volta.

Come sempre.

Non ancora completamente conscia, si scaraventò addosso a lui, abbracciandolo più forte che potette. Le mani vagarono sul suo corpo nel tentativo di convincersi che non fosse un'altra illusione. Le narici si riempirono del profumo di vita che l’uomo emanava. Gli occhi umidi si persero in quel blu immenso che aveva sempre amato e l’udito fu rapito dai leggeri gemiti che lui emetteva.

“Oh mio dio, Spike! Sei vivo…sei sveglio…sei sveglio…!” farfugliò alla rinfusa Buffy, travolta da un emozione sconosciuta che la costrinse al pianto. Sorrise, mentre assaggiava le lacrime salate che le rigavano il volto.

Erano calde.

Confortanti.

Pulite.

Felici.

Stava piangendo.

Piangendo di felicità.

Come non aveva mai fatto in tutta la sua vita.

Come avrebbe voluto fare per il resto della sua vita.

“Sono qui…sono qui!” la confortò lui, carezzandole dolcemente i capelli, quando i singhiozzi divennero più forti. La vista di quelle lacrime lo commosse. Il rumore del suo cuore accelerato lo riscaldò. La sensazione delle mani di lei sulla schiena lo eccitò. L’intenso profumo di vaniglia in cui era immersa, lo stordì facendogli dimenticare tutto il resto.

In quel momento nulla aveva più importanza.

Non le domande che lo avevano assalito.

Non la stanza dai muri bianchi.

Non i macchinari dai rumori insopportabili.

Non la mente vuota.

Solo la giovane donna tra le sue braccia aveva rilevanza.

Solo i suoi occhi di giada.

Solo i suoi capelli d’oro.

Solo il suo corpo perfetto.

“Non piangere…sono qui…non piangere!” le disse, stringendola ancora di più a sé.

Il calore di quell’abbraccio la calmò e man mano che riacquistava il controllo delle sue stesse emozioni, un altro tipo di calore le inondò il corpo risvegliando desideri e fantasie risalenti ad un lontano passato. Le immagini dei loro amplessi sfrenati e dei dolci baci riemersero dalla sua memoria, facendole colorare le guance. Improvvisamente Buffy si ritrovò eccitata e accaldata come non lo era da molto tempo. Come forse non lo era mai stata.

Perché, per la prima volta, si rese conto di non desiderare semplicemente il suo corpo.

Desiderava lui.

La sua essenza.

Desiderava la vita e l’amore che solo Spike poteva regalarle.

Desiderava scacciare la morte e la malattia in cui avevano vissuto entrambi, loro malgrado, per cinquantaquattro giorni.

Si staccò a fatica da lui, per cercare di placare il fuoco che la stava bruciando.

“Calmati!” si disse, imponendosi mentalmente di recuperare un po’ di lucidità.

Nonostante le voglie, non poteva semplicemente saltargli addosso.

Era fuori luogo e per mille motivi.

Lui si era appena risvegliato dal coma e sicuramente era ancora debilitato. Doveva avvertire i medici che lo avrebbero sottoposto a lunghe analisi di controllo. Inoltre doveva comunicare a tutti gli altri quella straordinaria novità e permettere loro di fargli visita. Doveva spiegargli cosa era successo, raccontargli della chiusura del portale e dell’esplosione del drago, del coma e della sua nuova condizione e soprattutto c’era da capire quale sarebbe stata la reazione di Spike.

E poi dovevano chiarire.

Dovevano parlare.

Degli ultimi attimi sulla bocca dell’inferno.

Di quel “ti amo” a cui non aveva creduto.

Del suo anno a Roma e della sua bugia.

Del ritorno di lui e del suo silenzio.

C’era troppo in ballo questa volta per potersi semplicemente saltare addosso.

Di tutto questo Buffy era profondamente convinta.

Ma quando i loro occhi si incrociarono nuovamente e in quel mare blu vide riflessa la sua stessa passione, si sentì completamente persa.

Aveva bisogno di lui.

La mano, mossa da una forza sconosciuta, si alzò a delineare le forme del suo viso, in una lenta carezza. L’indice tracciò il profilo della sua ampia fronte, dei suoi zigomi scolpiti, del suo naso deciso, fino a soffermarsi sulle suo morbide labbra.

“Sei veramente qui!” sussurrò Buffy, incatenata alla visione della sua bocca.

Si sporse in avanti, chiuse gli occhi e lo invitò ad assaggiarla nuovamente.

Aspetto alcuni secondi che le sembrarono interminabili, ma nulla avvenne.

Riaprì le palpebre alla ricerca di una spiegazione.

Lui si irrigidì.

Si spostò nel letto, a fatica, nella speranza di mettere un po’ di distanza tra lui e quella situazione scomoda, mentre il cervello ed il cuore litigavano furiosamente.

“Voleva che la baciassi....?” si chiese, abbassando a sua volta gli occhi incapaci di vedere la chiara delusione in quelli di lei.

“Perché?”

“E soprattutto perché non l’ho fatto?” Si portò una mano alla tempia, come a volere bloccare il flusso di domande che secondo dopo secondo aumentava e inondava la sua povera mente vuota.

Buffy lo osservò. Pur non potendo leggere l’espressione sul suo volto, poteva facilmente percepire l’imbarazzo dal modo in cui contraeva la mascella e si massaggiava nervosamente la testa.

Si diede della stupida. Possibile che avesse frainteso i segnali?

Eppure era sicura di aver visto nel suo sguardo infuocato la stessa passione che la stava bruciando. Non poteva essere il semplice riflesso dei suoi stessi bisogni, ne era convinta. Ormai conosceva abbastanza bene Spike da intuire i suoi desideri attraverso il colore dei suoi occhi.

Lui la voleva, come lei aveva voluto lui. E allora, perché si era tirato indietro?

“Pensavi realmente che dopo tutto quello che avete passato, lui ti avrebbe semplicemente baciato?” le domandò con tono beffardo il suo cervello.

“Si, purtroppo!” rispose ingenuamente il cuore.

Cosa sarebbe successo ora? Avrebbe permesso che quel bacio mancato li allontanasse?

Li allontanasse ancor prima di essersi realmente ritrovati?

Sorrise consapevole.

La vecchia Buffy lo avrebbe fatto. La vecchia se stessa sarebbe corsa fuori dalla stanza, per negare il disagio e l’imbarazzo. La ragazzina, quale era stata, sarebbe fuggita spaventata.

Ma la donna,che era diventata, no.

Non sarebbe scappata.

Se una cosa le avevano insegnato quei cinquantaquattro giorni di nulla, al di là del dolore, era la preziosità della vita, il suo valore. L’importanza di ogni attimo.

La necessità del non perdere nemmeno un minuto in paure e menzogne.

L’esigenza dell’essere realmente felici.

O almeno provarci.

Perché la vita era troppo breve e fragile per essere sprecata.

Ed ora, lo era per entrambi.

Costrinse il disagio per quel bacio non dato in un angolo della mente denominato “ i momenti più imbarazzanti della vita di Buffy”, relegandolo tra il ricordo di quella volta in cui si era ritrovata nuda davanti Oz e la sua performance nel sedurre Xander.

Gli sorrise, cercando di fingere indifferenza.

“Ehi!” disse, richiamando l’attenzione di Spike

Lui alzò la testa di scatto e le lanciò uno sguardo tormentato che la allarmò.

“Che cosa c’è?” gli chiese avvicinandosi e mettendo una mano sulla sua fronte improvvisamente sudata. Sembrava che avesse la febbre. Forse sarebbe stato il caso di chiamare i medici.

“Dove sono?” balbettò lui, chiudendo le palpebre, nuovamente, mentre il dolore alla testa non smetteva di straziarlo. L’ago del elettroencefalogramma cominciò a vibrare in maniera sconclusionata, mentre la macchina emetteva rumori striduli e assordanti.

“Dove sono?” ripeté lui, con lo stesso tono grave, bloccando Buffy, in una morsa ferrea, per impedirle di muoversi.

“Sta calmo, Spike. Siamo alla Angel’s Investigation…lasciami andare…fammi avvertire i medici…” disse.

Ma lui sembrava non averla nemmeno ascoltata.

Bloccata dalla sua mano, cercò di allungarsi per premere l’allarme per l’infermiera.

“Cosa è successo?”continuò lui in modo più concitato, ormai perso nei meandri dei suoi pensieri.

“E’ tutto apposto…il portale è stato chiuso...il drago è morto…!” gli rispose, carezzandogli i capelli nella speranza di calmarlo, ma sembrava che lui non avesse nemmeno più la percezione della sua stessa presenza.

“Dove sono? Cosa è successo?” urlò questa volta mentre tentava di forzare i palmi attorno alle tempie. Il dolore aumentava secondo dopo secondo. Era sicuro che la testa stesse per esplodere. Troppe domande, troppi dubbi per una mente che rimaneva in un accecante vuoto. Un senso di panico, che non riuscì ad identificare, gli bloccò il respiro, mentre il cuore batteva all’impazzata come un cavallo selvaggio senza freni. Il corpo gli scottava, la nausea gli faceva girare lo stomaco. Un improvvisa voglia di piangere si mescolò con quella di urlare.

Ebbe paura di morire.

L’elettrocardiogramma registrò l’aumento dei battiti, emettendo un suono allarmante che si unì a quello dell’encefalogramma.

“Calmati…Spike!” tentò ancora Buffy sperando che la sentisse.

“Ma dove cavolo erano finiti i dottori?”

“Parla con me…Spike…torna da me…Spike…” continuò lei, spaventandosi per quella disperazione nel viso dell’ex vampiro, che non riusciva a spiegarsi.

“Dove sono?” ripeté ancora come in una litania senza fine mentre dondolava avanti e indietro la testa.

“Spike…” sussurrò lei, mentre le immagini della sua pazzia le ritornavano alla mente.

Il panico contagiò anche Buffy. Lui sembrava terribilmente tormentato come quando era tornato dall’Africa. Quella volta ne era rimasta spaventata ed era fuggita.

Ma ora cosa doveva fare?

“Spike…” cercò ancora una volta di richiamarlo.

Lui inchiodò gli occhi in quelli di lei.

“Perché continui a chiamarmi con il nome di un cane?” disse in un attimo di lucidità.

Buffy lo guardò, confusa. La stanza cominciò a girare vorticosamente, mentre una terribile consapevolezza prendeva consistenza nella sua testa.

“Cosa sta accadendo?” pensò.

Ma prima ancora di poter chiedere, lui continuò.

“Chi sei tu?” le urlò afferrandola per le spalle.

“E soprattutto chi sono io?!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cap 5 Chi sono? Chi sei? Sconosciuti a confronto. (seconda parte)

 

Un uomo con una folta barba grigia ed un espressione corrucciata sul volto irruppe improvvisamente nel silenzio artificiale della stanza. Alle sue spalle, fecero capolinea due giovani infermiere, dai capelli tinti di biondo e dal trucco fin troppo marcato. Buffy, ancora stordita, si sentì strattonare e si ritrovò in un attimo ad osservare una porta chiusa, laccata di bianco. Al di là di questa, le indicazioni su dosi e farmaci, da somministrare, si mescolavano alle urla di uno Spike sempre più confuso e recalcitrante.

“Cosa gli staranno facendo?” si chiese allarmata.

Dopo pochi minuti le grida e le imprecazioni dell’ex vampiro si affievolirono e solo la voce del medico, nuovamente composta, rimase a colmare il vuoto tra le quattro pareti.

Preoccupata maggiormente da quella calma, tese l’orecchio e, attivando i propri sensi da cacciatrice, cercò di percepire cosa stesse avvenendo.

Niente.

L’unica cosa che riusciva a sentire era un brusio indistinto senza significato.

Dal fondo del corridoio, due dottori corsero trafelati nella sua direzione, portando un carrello con macchinari e medicinali vari. Si avvicinò sperando che questi la potessero aiutare, ma gli uomini si infilarono velocemente nella stanza, senza degnarla nemmeno di uno sguardo.

Con la mano ancora alzata, Buffy rimase ad osservare una corsia di nuovo vuota.

La frustrazione si sostituì alla preoccupazione.

Un’infermiera aprì la porta.

“Mi scusi…?”iniziò con un tono di voce più risoluto, cercando di bloccarla.

Ma la donna, senza dirle una parola, scosse la capigliatura cotonata e se ne andò lasciandola sola con i suoi dubbi e le sue domande.

Con il vuoto.

Con il silenzio ed il vuoto.

La mandibola le tremò in preda ad una rabbia impotente e le mani cominciarono a formicolarle. Un desiderio di violenza la pervase. In quel momento avrebbe potuto facilmente abbattere quella porta con un calcio e picchiare selvaggiamente chiunque le venisse a tiro.

Ma si impose di calmarsi.

Prese un profondo respiro, contò fino a dieci, si appoggiò al muro e si lasciò scivolare a terra.

Purtroppo conosceva abbastanza bene quella trafila, per potersi realmente innervosire.

Doveva aspettare.

Semplicemente attendere che i medici si degnassero di dirle qualcosa.

Ci era già passata.

Con la madre.

E non aveva importanza che fossero trascorsi tre anni, i ricordi dolorosi della malattia erano ancora tutti lì, impressi nel cuore.

Vi erano ancora le ore eterne occupate dalla straziante attesa di qualche chiarimento.

Vi era l’eco della propria voce rotta che chiedeva informazioni sull’operazione.

Vi erano i volti impassibili dei medici e delle infermiere che la allontanavano, incuranti delle lacrime e delle preghiere.

Vi era ancora l’odio.

Perché allora Buffy li aveva odiati.

Aveva odiato l’intera categoria e gli ospedali.

Più dell’odore della malattia, più della vista dell’infermità, più della fobia per il sangue e le siringhe, aveva detestato l’indifferenza dei dottori per la sofferenza umana.

Il loro distacco dall’angoscia del cuore.

La cecità nei confronti del dolore nato non da una patologia ma semplicemente dall’amore.

Come se l’unica afflizione degna di attenzione e cure fosse quella fisica.

Ed ancora una volta era costretta a passare attraverso tutto ciò.

Attraverso il tormento, l’attesa e l’odio.

A quel pensiero lo stomaco si ribellò.

Buffy corse nel bagno lì vicino e, accasciandosi sul water, vomitò.

Vomitò quel male senza nome che le aveva strappato l’unica certezza della propria vita.

Le promesse della guarigione e la realtà della morte.

Vomitò il buco nel cuore lasciato dalla madre, la cui assenza diventava giorno dopo giorno sempre più lacerante.

Vomitò quei cinquantaquattro giorni trascorsi nel bianco del vuoto emozionale.

La paura e l’ostinazione.

La stordita felicità per il risveglio di Spike.

E vomitò quell’incomprensibile domanda a cui ancora non riusciva a dare un significato.

Quando lo stomaco le fu svuotato dell’ultima goccia di dolorosa bile e dall’eccesso di sofferenza nera, che la stava distruggendo, Buffy si sentì meglio.

Si avvicinò al lavabo e, sciacquandosi la bocca, si guardò allo specchio.

Non si riconobbe.

Di chi era quel volto pallido segnato da due brutte macchie viola?

Di chi erano quegli occhi gonfi e arrossati?

Di chi erano quell’ammasso di ossa senza carne?

Non certo erano suoi.

Quella non poteva essere lei.

Non poteva essere quella ragazzina piagnucolante che vedeva riflessa allo specchio.

Era forse per questo che Spike non l’aveva riconosciuta?

“Chi sei tu? E soprattutto chi sono io?” la domanda le rimbombò nella testa, provocandole nuovamente un giramento. Chiuse gli occhi per un istante e si attaccò con forza ai lati del lavabo per non cadere a terra. Non poteva permettere a quella domanda di abbatterla.

Doveva reagire.

Prese un profondo respiro e guardò la propria immagine con una nuova determinazione.

“Forza!” si disse, lavando via con acqua fredda tutta l’insicurezza che ancora la bloccava.

Si pizzicò le guance, sistemò i capelli ed i vestiti e fece un grosso sorriso allo specchio.

Lei era la cacciatrice. Lei era una donna forte e coraggiosa, che non rimaneva in angolo a piangere, ma affrontava le avversità. Era questo, in fin dei conti, ciò che Spike aveva sempre amato di lei.

Era questo che sarebbe stata ancora una volta per lui.

“Io amo quello che sei, quello che fai, come ti impegni. Ho visto la tua gentilezza e la tua forza. Ho visto il meglio e il peggio di te e ho capito con estrema chiarezza ciò che sei. Sei un diavolo di donna. Tu sei unica, Buffy”.

Quelle parole d’amore dichiarate in una stanza sconosciuta in una notte di maggio le tornarono alla mente e la fecero sorridere, mentre il cuore si placava sotto l’effetto placebo di quella dolcezza familiare. Così come allora senti la forza rifluirle nel corpo e la voglia di combattere ritornare ad infiammare il suo animo. Mimò con le labbra un grazie invisibile all’ex vampiro che ancora una volta era riuscito a rimetterla in piedi.

“Basta con le lacrime! Esci da questo bagno e cerchiamo di capire cosa sta accadendo!” disse con sicurezza al suo riflesso, prima di chiudere la porta alle spalle.

 

Nel corridoio, ad aspettarla, c’erano Dawn ed Angel, che le corsero incontro appena la videro arrivare.

“Cosa è successo?” Le chiesero all’unisono con la medesima voce preoccupata.

“Ero su, nel mio ufficio, quando il dottor Gauss mi ha chiamato dicendomi di correre!” disse il vampiro bruno.

“Allora?” insistette con trepidazione la sorella.

“Spike si è svegliato” rispose con calma per non mostrare il turbamento che l’aveva colta pochi istanti prima.

“Una notizia alla volta!” pensò.

Buffy si ritrovò travolta dall’abbraccio di una Dawn urlante e saltellante di gioia, mentre osservava il formarsi sul volto di Angel di un ghigno somigliante ad un accenno di sorriso.

Era il primo che vedeva?

“E’ vivo?” chiese a conferma la sorella con voce rotta dell’emozione.

“Si!” rispose semplicemente lei.

Dawn cominciò a singhiozzare ancora più forte e, tra le lacrime di felicità della giovane ragazza, Buffy realizzò, per la prima volta da quella mattina, il significato profondo di quell’asserzione.

Spike era vivo.

Spike che, a detta dei medici, era spacciato, era vivo.

L’uomo, che aveva rischiato di perdere per cinquantaquattro giorni, era vivo.

L’uomo, che amava, era vivo.

E sulla scia di quei pensieri, improvvisamente, la domanda urlata nel silenzio della stanza perse importanza. Perse importanza che lui non ricordasse cosa gli fosse accaduto, dove si trovasse e neanche chi fosse.

Perse importanza perché lui era vivo.

Avevano un problema, certamente. Buffy questo non se lo negava, ma era sicura, ora, che avrebbero trovato una spiegazione ed una soluzione. Perché ne avevano la possibilità.

Perché, ora, lui era vivo e solo questo contava realmente.

La comprensione razionale si trasformò in felicità.

Il viso le si distese, gli occhi si illuminarono ed il cuore cantò quella notizia con un ritmo accelerato.

Con una risata pronta ad esploderle sulle labbra, la cacciatrice, con animo leggero si godette il calore dell’abbraccio della sorella ed il sorriso accennato di Angel.

Erano questi i segni tangibili della realtà del momento.

La prova che non stesse sognando.

Ancora.

Dalla porta laccata di bianco uscì l’uomo dalla barba bianca e l’espressione corrucciata.

“Dottore come sta, Spike?” fu Angel a parlare, dando voce ad una domanda comune.

“Sta meglio. Lo abbiamo dovuto sedare per bloccare la crisi di panico, ma fisicamente sta bene. I valori sono nella norma. Ora lo porteremo in laboratorio per fargli una Tac e capire se ci sono stati dei danni cerebrali. Nel frattempo abbiamo già chiamato lo psichiatra per sottoporlo ad alcuni test” disse il medico con un tono molto professionale e senza mai guardarli negli occhi.

Angel e Dawn osservarono prima Buffy e poi l’uomo, confusi.

“La signorina non vi ha detto nulla?” chiese il dottore dopo alcuni secondi di silenzio, intuendo lo stordimento dei propri interlocutori.

“Il paziente si è svegliato, ma non ricorda nulla!” continuò senza mezzi termini e senza alcuna attenzione. L’incredulità senza parole della giovane ragazza e del vampiro bruno invase l’intero corridoio, mentre Buffy concentrò la propria attenzione sulla freddezza della parola “paziente”, che le riportava un oggetto e non una persona.

“E’ molto frequente, dopo un lungo coma, avere un momento di disorientamento ambientale e percettivo. Molto spesso si tratta solo di un veloce gap che dura pochi attimi. A volte può manifestarsi come una vera e propria amnesia temporanea. Tuttavia in alcuni casi la perdita di memoria potrebbe essere l’effetto di un danno cerebrale e di conseguenza essere più o meno permanente!”

Continuò ancora il medico illustrando le sue teorie ad una Dawn con le lacrime agli occhi ed ad un Angel nuovamente mesto.

“Comunque non ci azzardiamo a fare ipotesi prima di aver avuto tutti i risultati degli esami!” finì il dottore con un sorriso soddisfatto sul volto.

Cosa c’era da sorridere?

Buffy di certo non lo sapeva e non riusciva nemmeno ad immaginarlo.

Poi l’uomo dalla barba grigia e l’espressione eternamente corrucciata, disse una frase.

“Non preoccupatevi!”

La cacciatrice alzò la testa di scatto e inchiodò lo sguardo infuocato in quegli occhi grigi e inespressivi, che continuavano ad fissarla senza vederla veramente.

E allora la rabbia fu troppa.

Cosa significava che non si sarebbero dovuti preoccupare?

In quella stanza, privo di sensi e forse di memoria, c’era l’uomo che loro amavano e non si sarebbero dovuti allarmare?

Ma quale demone senza anima e senza cuore avrebbe potuto semplicemente pensare tale assurdità?

Loro dovevano preoccuparsi

Erano autorizzati a farlo.

Era il loro cuore che li autorizzava e non sarebbero state certo le parole di uno sconosciuto con una laurea prestigiosa a fargli cambiare idea.

“Signorina Summers…si sente bene?” chiese il dottore.

Buffy serrò la mascella e contrasse i muscoli pronta a balzare.

“Perché non va a prendere un po’ d’aria? Ha un espressione così pallida!” continuò.

La cacciatrice, ormai in preda ad una collera cieca, immaginò di saltargli al collo e picchiarlo fino a fargli implorare pietà; e nulla importava che fosse un uomo e che, per etica deontologica, lei non picchiasse gli umani.

Per quell’essere avrebbe fatto un eccezione.

Per quell’essere che mostrava attenzione solo alle manifestazioni fisiche del dolore.

Per quell’essere che senza nessuna pietà aveva sciorinato il suo sapere, incurante delle loro reazioni sofferenti.

Per quell’essere al quale Buffy avrebbe voluto urlare tutto il proprio disgusto.

“Vieni, ti accompagno io!”

Fu la voce di Dawn e la presa sul braccio a bloccarla.

Uno sguardo di intesa con la sorella la fece placare.

In fin dei conti picchiare quell’uomo che stava facendo semplicemente il prorpio lavoro sarebbe stato inutile. Non avrebbe calmato il suo animo o le lacrime della giovane ragazza, che ancora una volta stava dimostrando nel silenzio degli occhi lucidi la propria maturità. Non sarebbe servito ad Angel, il cui volto era nuovamente una maschera di depressione e tristezza. Non sarebbe servito all’uomo, che ignaro di tutto, riposava in un sonno artificiale al di là di quella porta.

E poi, forse, non era colpa nemmeno del dottor Gauss: chi, come lui, lavorava tutti i giorni a stretto contatto con la morte, non si poteva permettere l’empatia. Non si poteva permettere di sentire se voleva sopravvivere in mezzo alla continuo stillicidio del dolore umano.

Con un sospiro di rassegnazione, la ragazza dai capelli biondi si lasciò condurre fuori in silenzio.

“Io nel frattempo avverto gli altri!” urlò il vampiro bruno, dirigendosi verso gli ascensori.

“Vi farò chiamare io, non appena sapremo qualcosa” dichiarò il medico prima di fuggire dall’altro lato del corridoio.

 

Appena varcata la porta della Angel’s Investigation, Buffy fu investita da una luce accecante.

Intensa.

Immensa.

Una luce che la costrinse a chiudere le palpebre e a portare una mano al viso per proteggersi.

Era il sole di luglio che effondeva i suoi raggi caldi tutto intorno.

Quando era diventato così prepotente?

Mantenendo gli occhi chiusi, ancora doloranti per quell’attacco naturale, prese un profondo respiro. L’aria entrò nelle narici, fece il giro dei polmoni e lei si ritrovò a tossire convulsamente.

Cos’era tutto quell’ossigeno?

Da dove veniva quella brezza pulita e fresca che le pizzicava la pelle?

Si domandò, infastidita da quelle sensazioni, se non fosse capitato qualcosa di strano al mondo durante la sua assenza, se quelli non fossero gli effetti del riscaldamento globale, tanto urlato.

E poi, Buffy realizzò l’ovvietà.

Non stava accadendo nulla alla Terra.

Stava accadendo qualcosa a lei.

Perché, dopo cinquantaquattro giorni di luce artificiale ed aria condizionata, lei era fuori.

Lontana da quelle mura bianche e dal neon ronzante.

Lontana dalla sveglia e dalla sedia.

Lontana dal dolore e dal senso di colpa.

Era fuori sotto il sole estivo.

Era fuori, immersa nella piacevole aria del mattino.

E la sua pelle, semplicemente, non era abituata a tutto ciò.

Il corpo che aveva imparato l’immobilismo di una stanza, non riusciva a comprendere quella nuova dimensione, in cui tutto era troppo.

Troppo sole.

Troppo ossigeno.

Troppo colore.

Troppi suoni.

La testa le girò.

Ferma sulla soglia, al confine tra luce e ombra, Buffy, in silenzio, aspettò che il fisico si abituasse a quella nuova stimolazione, mentre decideva cosa fare.

Alle sue spalle vi era la placida artificialità dei giorni passati.

Di faccia la cruda naturalità di un presente sconosciuto.

La ragazza fece un passo in avanti.

Riaprì gli occhi, lasciando loro il tempo di mettere a fuoco l’intorno.

E allora la meraviglia si dispiegò allo sguardo incredulo.

Prati tinteggiati da un moltitudine di fiori colorati, tra i più belli che si potessero immaginare; alberi rigogliosi e verdeggianti, macchiati dai frutti in piena maturazione, che rami possenti sopportavano con fierezza; profumi variegati ed intensi, mescolati in un'unica combinazione olfattiva che impregnava l’aria rendendola satura; dolci melodie e canti d’amore di insetti ed uccelli che risuonavano tra foglie e fili d’erba.

A Buffy le ci vollero alcuni attimi per capire cosa stesse osservando.

Era il giardino che circondava la villa della Angel’s Investigation.

Dawn gliene aveva parlato. Lo aveva descritto, a lei e a Spike, nelle sue visite logorroiche, nei minimi dettagli, citando il nome di ogni singola pianta e fiore che fosse stato seminato.

Eppure nessuna parola dava giustizia a quello che stava ammirando in quell’istante.

Era un esplosione di vita.

Era una gioia per la vista

Era il paradiso in terra.

Con un sorriso ebete sul volto, la cacciatrice si incamminò per i viali in terra battuta, perdendosi con lo sguardo nell’inseguimento di una farfalla incostante.

Una panchina al di fuori dell’ombra secolare delle grandi querce, la invitò a placare il suo sconosciuto peregrinare. Buffy vi si gettò a peso morto, rilassando i muscoli e lasciando che i caldi raggi solari le riscaldassero il corpo intorpidito.

Respirò il ritmo incessante della natura e si fece contagiare da quel nuovo vigore.

Sulle labbra assaporò il gusto della forza della vita e lo trovò intossicante.

Improvvisamente capì che non ne avrebbe potuto più fare a meno.

Lei voleva tutto ciò.

Voleva il sole.

Voleva l’aria pulita.

Voleva il profumo ed il suono della natura.

Voleva la leggerezza e la serena euforia che stava provando.

Lei voleva la vita.

Le toccava.

Aveva sofferto troppo.

Aveva lottato troppo.

Aveva vissuto nel buio per troppi anni.

Era morta troppe volte.

Ora le spettava la ricompensa.

Senza accorgersene, Buffy si ritrovò a piangere lacrime calme.

“Ehi! Che succede!” le chiese Dawn, che fino a quel momento era rimasta in silenzio inseguendo i propri pensieri.

“Oh..Niente! E’ che sono felice!” le rispose con semplicità la sorella maggiore, non provando neppure a tamponare le gocce salate che le rigavano il volto.

Ma quante volte aveva pianto in quella mattinata?

E quanti tipi diversi di lacrime si potevano versare?

“Felice?”

“Si, tutto ciò mi rende felice. Avevi ragione, è bellissimo!”

“Si! Lo è!” constatò la ragazza bruna, capendo a cosa si stesse riferendo la sorella.

“Mi dispiace!” disse improvvisamente Buffy, tra i singhiozzi.

“Per cosa?”

“Mi dispiace di averti fatto preoccupare, di essere stata così ostinata, di aver lasciato che la vita mi scivolasse di mano e …” non riuscì a finire, bloccata dall’incessante cadere delle lacrime.

Si abbandonò completamente a quella nuova sensazione: più piangeva e più voleva piangere.

Era liberatorio.

Perché non c’era dolore.

Non c’era nemmeno felicità.

C’era solo catarsi ed espiazione.

Attraverso quel pianto, la cacciatrice stava finendo il suo lungo cammino.

Dopo aver attraversato l’inferno e vissuto il purgatorio, stava risalendo verso la luce.

Stava tornando alla vita.

Dawn l’accolse tra le braccia e, senza aggiungere una parola, lasciò che percorresse ormai gli ultimi passi fatali. Le carezzò la testa, con leggeri movimenti, aspettando che si calmasse da sola.

“Sai, dovresti tagliarti i capelli. Hai le doppie punte!” disse scherzosamente, quando i singhiozzi vennero meno.

Buffy sorrise tra le lacrime residue.

E provò un amore profondo per la sua piccola sorella, che ancora una volta era lì per lei.

Alzando la testa dalla sua spalla, la guardò negli occhi.

Con un baciò la ringraziò.

Buffy tornò ad osservare il lento procedere della natura.

Un ape volteggiava da fiore a fiore.

Il vento soffiava leggero tra i rami.

Uno scoiattolo soffocava di caldo nella pelosa pelliccia.

La vita non si fermava.

Mai.

Buffy comprese una grande verità.

E’ la vita, e non la morte, più forte di tutto.

“Secondo te, come sta?” chiese improvvisamente Dawn.

“Intendi, Spike?” domandò a sua volta, riportando l’attenzione sulla sorella che la guardava con un viso teso e preoccupato.

“Si! Cioè mi chiedo…se effettivamente non ricorda nulla, come si sentirà?” disse la ragazza con un tono ansioso, palesando i propri pensieri.

“Ti ricordi come ci sentimmo, quando Willow fece quell’incantesimo sulla memoria?” continuò.

Buffy annui semplicemente, mentre con la mente tornava a quel risveglio nel Magic Box.

Ricordò lo stordimento.

La confusione.

La perdita di coscienza e di identità.

E ricordò il conforto di sapere di non essere sola.

Ancora una volta sorrise.

“Qualunque cosa accadrà, la supereremo, Dawn!” le rispose, mentre osservava l’oscillazione di una foglia alla brezza estiva.

“Se Spike non dovesse ricordare, lo aiuteremo noi. Gli staremo vicino. Lo faremo visitare dai migliori specialisti.” Continuò Buffy, prendendole una mano tra le sue.

“Rimarremo unti e troveremo una soluzione!” disse finalmente convinta e specchiandosi nell’azzurro degli occhi della sorella.

"Non preoccuparti!" finì, comprendendo il vero significato di quella frase.

Fu il turno di Dawn di piangere.

La cacciatrice le baciò le lacrime e le restituì tutto il calore ed il conforto possibile.

Rimasero così, l’una nell’altra, per interi munti, godendo del silenzio reciproco.

Godendo della semplice presenza dell’altra.

Godendo dell’amore familiare.

“Dai! Andiamo a vedere se ci sono novità!” disse poi la cacciatrice alzandosi e porgendo la mano alla sorella come invito a seguirla.

Dawn le afferrò il braccio e si sollevò a sua volta.

Camminando a ritroso sui quei viali di terra battuta, l’una di fianco l’altro, mano per la mano, Buffy, per la prima volta nella sua vita, ebbe una certezza.

Non stava andando verso il buio.

Non stava andando verso la morte ed il dolore.

Non stava andando verso una battaglia.

 

Stava camminando verso la vita.

Stava andando a vivere.

 

           

Cap 5 Chi sono? Chi sei? Sconosciuti a confronto. ( terza parte)

 

Lo sguardo di Buffy vagò per la sala rettangolare, in cui era stata convocata, calcolandone, in pochi secondi, l’altezza e le dimensioni. Era una di quelle abitudini da cacciatrice che ancora non riusciva ad abbandonare e che la portava in automatico a studiare ogni nuovo ambiente. Una delle pareti, alta almeno sei metri e lunga una ventina, era rivestita da pannelli di legno intarsiato e da scaffali stracolmi di libri dall’aspetto antico e polveroso. Il muro opposto era intervallato da alte e strette ogive che, attraverso un vetro scuro, illuminavano l’ambiente di una luce soffusa e fioca, con buona pace degli abitanti demoniaci della villa. Il soffitto a cassettoni era dello stesso tipo di legno scuro dei mobili, mentre il pavimento in pietra chiara era appena visibile al di sotto dei pesanti tappeti bordeaux, ai quali si abbinavano le poltrone ed i divani in velluto. In un angolo, faceva bella mostra di se un enorme camino in marmo, con facce di animali e gargouille scolpiti sul fregio. Se non fosse stato per il grande televisore al plasma che ricopriva una delle pareti minori, Buffy avrebbe pensato di essere stata trasportata, per qualche strana magia, nel tempo e nello spazio.

Dalla California alla Scozia.

Dal ventunesimo secolo al medioevo.

“Decisamente Angel non ha gusto per l’arredamento!” pensò la ragazza, constando l’oppressione che la sala riunione le trasmetteva. Per contrasto, la mente le rievocò la sensazione di agio che aveva sempre provato nella vecchia cripta di Spike, disegnandole un lieve sorriso sulle labbra.

“Una volta ho cenato con un arredatore.

Forse mi è rimasto qualcosa di lui”

Scosse la testa, cercando di ricacciare quei ricordi dolci amari, che, nonostante il tempo, le riscaldavano ancora il cuore, e concentrò la propria attenzione sulle persone lì raccolte. Osservandoli uno ad uno, ebbe l’impressione che quell’ambiente, forzatamente antico, li schiacciasse con il peso della propria maestosità ostentata, rendendoli tutti più piccoli e miserevoli di quanto non le fossero mai apparsi. Così le sembrò che il grande potere magico, che aveva fatto di Willow prima una strega pericolosa e poi una dea, svanisse nel confronto con quella conoscenza atavica e millenaria che incombeva dagli alti scaffali della libreria, rivelando la ragazzina timida con le trecce e la gonna scozzese che un tempo era stata e che ancora albergava nel suo cuore. Ebbe l’impressione che la massa corporale di Xander, fissa e stabile negli anni, si smaterializzasse nella morbidezza dell’enorme divano in cui era mollemente sprofondato, riducendolo ad un enorme pupazzo senza gioia e senza vita, perso nel ricordo di una promessa di futuro mai realizzata. Le larghe spalle del signor Giles, le apparvero, nel confronto con l’alta finestra a cui era appoggiato, più deboli e malferme che mai, piegate sotto il peso di un destino scelto a dispetto di una tradizione atavica. Un destino che lo aveva voluto al di là delle barricate, al fianco della cacciatrice, a sporcarsi le mani in nome di quella missione per la quale aveva sacrificato, volente o nolente, se stesso ed il proprio cuore. Al centro della sala, Andrew era solo un bambino che, ancora ignaro della vita, ammirava estasiato il grande televisore come se fosse stato un nuovo giocattolo.

Angel, lontano da tutti, seduto dietro la scrivania di mogano e cristallo, immobile, con gli occhi chiusi ed il mento posato sulle dita intrecciate, le si mostrò, forse per la prima volta, nella sua più completa solitudine e tristezza, vittima e carnefice di una prigione di potere ed espiazione, opera delle sue stesse azioni. Solo Illyria, appoggiata al camino spento, con la sua immutata dignità apatica, sembrava svettare come un essere superiore in quello scenario di miseria umana.

Fu in quel assordante silenzio fatto di sospiri e sguardi ansiosi che Buffy comprese che in quei lunghi otto anni non era stata la sola a soffrire e a subire gravi colpi. Fu, nella penombra di quell’ambiente senza spazio e senza tempo, che scorse le cicatrici sulla pelle dei suoi amici. Fu, nelle pieghe dei loro volti e nella durezza dei loro corpi stanchi, che vide quelle ferite che ancora sanguinavano.

Sanguinavano negli sguardi fugaci di Willow e nelle mani tormentate di Xander.

Sanguinavano attraverso la schiena plasticamente tesa di Giles e negli occhi chiusi di Angel.

Sanguinavano nei sorrisi infantili di Andrew.

Sanguinavano, forse, anche nella compostezza rigida di Illyria.

Sanguinavano perché non potevano fare altrimenti.

Perché non era vero che la sofferenza aveva il potere di rendere più forti.

Il dolore rendeva solo più cupi e cinici.

E Buffy questo lo sapeva.

Così come sapeva che la strada della maturazione passava attraverso la digestione del sangue versato, attraverso l’accettazione delle ferite ricevute, attraverso la metabolizzazione del dolore subito.

Lo aveva capito dopo una vita intera passata a lottare e a soffrire. Lo aveva compreso grazie a cinquantaquattro giorni di bianca apatia e di gesti stereotipati. Grazie ai sorrisi e alle lacrime.

Grazie al ritorno della luce e della speranza.

Grazie alla resurrezione di se stessa e del proprio cuore.

Sorrise nella consapevolezza che, prima o poi, una folata di vento o una foglia oscillante avrebbe condotto verso quella grande verità anche i suoi amici.

Perché la vita era più forte di tutto.

Era solo questione di tempo.

L’entrata del dottor Gauss distolse Buffy da quei pensieri.

“Bene! Vedo che siamo tutti qui” esordì l’uomo dagli occhi grigi, chiudendo la porta alle proprie spalle. In un attimo l’attenzione di tutti fu concentrata sul nuovo arrivato. Willow lasciò i suoi libri, Xander si sollevò dal divano, Giles si girò, abbandonando la vista del giardino, Andrew distolse lo sguardo dal monitor ed Angel si alzò della scrivania, avvicinandosi agli altri. Il medico fece un sorriso ad ognuno di loro e si schiarì la voce, preparandosi rispondere alle inevitabili domande. Tutto di un tratto, incrociando lo sguardo con quello di Illyria, si irrigidì.

L’ampia fronte si imperlò di sudore e gli occhi si colorarono di ansia e disagio.

Buffy osservò quella reazione perplessa. Le avevano detto che il medico aveva lavorato per anni alla Wolfram&Hurt e, conoscendo perfettamente la natura dei suoi datori di lavoro nonché dei suoi pazienti, aveva curato numerose volte demoni e vampiri senza mai mostrare né stupore né tanto meno paura. Ma allora perché ora reagiva così?

“Emhhh…fo…forse…” cominciò a balbettare l’uomo, abbassando gli occhi.

“Devo andare via, Vince?” lo anticipò il dio blu, chiamandolo per nome.

“Si…cioè no..cioè…non è per me...Fre...vo…voglio dire…Illyria...lo sai…”cercò di rispondere. Buffy non poté non notare l’evidente lapsus.

“La dottoressa Valenti non sa niente di dem...ehm…di te…e allora...” continuò con evidente sforzo, apparendo improvvisamente timido.

Il demone non si scompose. Con un espressione illeggibile sul viso, si avvicinò al medico con passi lenti e cadenzati. Quando fu ormai a pochi centimetri dal viso di lui, lo guardò fisso negli occhi.

Per alcuni secondi non successe nulla.

Solo un dialogo muto in un silenzio irreale.

E poi, improvvisamente, si trasformò.

Il blu della pelle si schiarì in un rosa perlaceo, i capelli si colorarono di castano e lo sguardo si riscaldò di nuova vita.

Davanti gli occhi increduli di tutti, il dio scomparve per far apparire la donna che un tempo era stata. Fred.

La scienziata che era stata un alleata per Angel.

La ragazza che era stata un amica per Spike.

La donna che era morta in nome di una guerra in cui era stata coinvolta suo malgrado.

Osservando la delicatezza dei lineamenti e la dolcezza del sorriso, Buffy provò un leggero senso di gelosia. Gelosia per i sorrisi che sicuramente aveva dispensato ad Angel.

Gelosia per la serenità e la ammirazione che aveva diffuso al proprio passaggio.

Gelosia per l’affetto che aveva suscitato nei cuori di tutti.

Poi se la figurò con Spike.

E la gelosia divenne altro.

Come catapultata nel passato della donna, la vide ridere al nuovo buffo soprannome che Spike le aveva affibbiato; sentì l’aumento del battito del suo cuore mentre si perdeva nel mare immenso degli occhi del vampiro biondo; notò il rossore che le colorava le guance ad una battuta maliziosa di lui; la guardò prendersi cura del suo uomo, quando lei, ignara del suo ritorno, viveva una vita fatta di bugie e menzogne; la immaginò stargli affianco in quell’anno di vita che le era stato negato.

Lottando contro una lacrima di frustrazione, sentì il rancore crescerle nel cuore.

Rancore contro Fred che le aveva tolto, inconsapevolmente, qualcosa. Contro Illyria che la stava costringendo a confrontarsi con il fantasma di una donna che non poteva più difendersi. Contro Spike che le aveva taciuto il suo ritorno e che ora era impossibilitato a darle spiegazioni.

E, soprattutto, contro se stessa e contro quella meschinità che la portava a provare quei sentimenti in quel momento particolare.

Distolse la vista dalla ragazza, per cercare di liberarsi da quelle fastidiose sensazioni ed incrociò lo sguardo del dottore, che incantato osservava quell’immagine irreale.

In quegli occhi grigi, che fino a poche ore prima l’avevano irritata per la loro freddezza, Buffy, ora, vide riflesse, in un gioco di specchi, commozione, felicità, amarezza e dolcezza.

Vide nelle pupille di Vince Gauss la verità del cuore.

Vide il dolore per una perdita ancora fresca e per un amore mai confessato.

Vide la gioia e la consapevole sofferenza che quella visione gli procurava.

Vide le lacrime versate nel buio di un laboratorio, lontano e ignorato dai riflettori di Angel.

Vide, al di là del camice e dello stetoscopio, l’uomo che era stato e che era diventato.

“Illyria smettila!” fu l’ordine perentorio del vampiro bruno.

Al suono di quel comando, il dio ricomparve improvvisamente, cancellando, in un attimo, l’illusione del sogno.

Vince fece un passo indietro, come stordito da quel brusco risveglio e ancora troppo scosso da quella crudele menzogna.

Illyria lo guardò un ultima volta negli occhi.

Poi lo superò e si avviò alla porta.

“Fatemi sapere le novità dello strizzacervelli…” disse con voce incurante, prima di abbandonare la sala. Allo sbattere della porta, il gruppo si risvegliò da quello strano intontimento in cui era scivolato. Qualcuno, spezzando il silenzio incantato, chiese in un bisbigliò perché Illyria si fosse comportata in quel modo; qualcun altro commentò, con voce bassa, la crudeltà di quel gesto e l’insensibilità del demone.

Un altro ancora sbadigliò.

Buffy non ascoltava. Con gli occhi ancora fissi sull’uscio, rivide, con assoluta precisione, come in un immagine rotta ripetuta all’infinito, una lacrima dolorosa su quella pelle color cobalto.

Ed il suo cuore pianse per Fred.

 

“Adesso possiamo essere messi al corrente delle novità?” intervenne a spezzare il disagio la voce fredda di Giles, che infastidito da tutto quel teatro osservava con impazienza l’uomo.

“Ah…certo!” rispose il dottore, riacquistando la compostezza che gli era propria. Costringendo le emozioni in un angolo del cuore, si schiarì la voce prima di cominciare.

“Abbiamo sottoposto Spike a tutte le analisi di routine e non abbiamo riscontrato nessuna anomalia. La tac e la risonanza magnetica non hanno rivelato danni cerebrali.” continuò.

“E la perdita di memoria, allora?” lo interruppe ansiosa Dawn, che era rimasta in silenzio alle spalle di Buffy fino a quel momento.

“Per ora possiamo solo escludere una causa fisica. Abbiamo sperato che fosse una conseguenza del coma, ma il quadro appare più complesso dell’immaginato” rispose senza tradire alcun sentimento dalla voce.

“Ecco perché abbiamo contattato la dottoressa Valenti, una delle maggiori esperte in materia di amnesia post traumatica di Los Angeles. Le abbiamo fatto visitare Spike e a momenti dovrebbe raggiungerci per esporci le sue teorie” disse, anticipando le domande degli altri. Poi, stimolato dai dubbi di Willow e Giles, si lanciò in una discussione specialistica che ebbe la capacità di annoiare a morte Buffy.

Allontanandosi dal gruppo, la cacciatrice si lasciò cadere su uno immenso sgabello laccato in finto oro e fece vagare la propria fantasia cercando di figurasi questa famosa psichiatra, che avrebbe dovuto svelare il mistero sulla memoria di Spike. In pochi secondi la pseudo dottoressa Valenti si configurò davanti il suo sguardo critico. L’immagine da lei creata riportava una donna sui sessantenni dai lineamenti rugosi ma delicati, testimonianza di una bellezza non ancora del tutto sfiorita. I lunghi capelli bianchi, nonostante le convenzioni, erano lasciati sciolti e risplendevano orgogliosi in una folta chioma. Gli occhi verdi, vispi nonostante il tempo, erano appena celati da occhialini quadrati che le scendevano sul naso a patata, che dava un tocco di carattere al viso. Le labbra ormai rinsecchite mostravano, con un rossetto perlaceo, una linea perfetta, che per il passato, forse, avevano avuto la capacità di attrarre più di un uomo. Il corpo minuto era ancora dritto senza mostrare nessuna incertezza nei confronti della vecchiaia. Indossava un completo grigio chiaro, di buon taglio, ma non eccessivamente alla moda. In una mano stringeva una cartellina e nell’altra una pesante borsa, che trasportava senza alcuna fatica. Ai piedi un decolté con tacco quadrato, a dimostrazione di una femminilità mai dimenticata. Sorridendo della propria immaginazione, la cacciatrice si rese conto di aver costruito quella foto su se stessa. Rise scioccamente guadagnandosi un occhiata allibita dal resto del gruppo.

Qualcuno bussò e la porta si aprì.

Buffy si alzò dallo sgabello con un ampio sorriso sul volto, pronta a ricevere la dottoressa.

Un sandalo a spillo color fragola, indossato da un piccolo piede dalle unghie laccate di rosso, entrò nella sala riunione.

Otto paia di occhi si girarono all’unisono.

Davanti gli sguardi allibiti, fecero il proprio ingresso due lunghe gambe, sufficientemente snelle e toniche da essere considerate sensuali, abbronzate al punto giusto e lasciate nude da una minigonna nera; una vita stretta ed un seno alto e sodo, enfatizzato da una camicia smanicata in chiffon stampata fragola e nero. Poi fu il turno del collo lungo e sottile come quello di un ciglio e dei morbidi riccioli castani, che emanavano un leggero profumo di frutti di bosco. Con il cuore in gola e la salivazione a zero, lo sguardo del gruppo vagò sulle labbra carnose rese lucide da lipgloss color rosso fragola e infine sugli occhi verdi, segnati da lunghe ciglia da cerbiatta.

“Salve, sono la dottoressa Valenti!” si presentò la ragazza, per nulla intimidita dalla analisi attenta alla quale era stata sottoposta.

Quello fu il colpo di grazia per Buffy.

La mandibola le cadde a terra.

Le gambe le cominciarono a tremare e la testa a girare.

Chi era questa modella alla Baywatch che si spacciava per una psichiatra?

Dove era finita la rassicurante vecchietta che si era prefigurata?

E soprattutto perché il mondo sembrava prendersi gioco di lei?

Mentre cercava di mettere in ordine le idee, la mente traditrice le prefigurò un immagine bollente della dottoressa con Spike. La vista le si riempì di membra attorcigliate e di letti sgualciti. L’udito fu rapito da gemiti che non erano i suoi e l’olfatto fu investito dal profumo di fragola mischiato a quello di tabacco e cuoio, con il quale aveva sempre identificato l’ex vampiro.

Fu troppo.

“Ahi!” urlò Dawn, la cui mano era stata improvvisamente stritolata dalla cacciatrice.

“Cara Tanny, vieni accomodati!” disse con un tono fin troppo cortese il dottor Gauss, che osservava la collega con evidente ammirazione.

Ammirazione che era palese anche negli sguardi inebetiti di Giles, Xander, Andrew.

“Uomini!”pensò Buffy, innervosita da quella situazione surreale.

Lanciò un occhiata a Willow per trovare in lei un appoggio. Tuttavia l’amica sembrava interessata alle grazie della bella dottoressa anche più degli altri.

Gelosia, collera e frustrazione si fusero tutte insieme in una miscela esplosiva.

Ed ancora una volta il sentimento fu più veloce della razionalità.

“L’ho perso!” pensò rassegnata, mentre vedeva i suoi amici fare a gara per presentarsi alla bella dottoressa.

“Oh!” gridò di nuovo Dawn, che ritrasse la mano in maniera brusca.

“Buffy calmati! Non essere melodrammatica o affrettata!” si disse provando a calmare i nervi.

“Forse quella belloccia non è interessata al tuo Spike!”continuò mentalmente, mentre prendeva grandi respiri a pieni polmoni.

Il resto del gruppo sembrava non accorgersi di lei.

Né lei degli altri.

“Si certo, come no. Raccontatela! Ti vorrei ricordare che stiamo parlando di Spike, il vampiro che può sembrare sexy anche quando è ricoperto da lividi e contusioni”le fece eco una voce fastidiosa, troppo simile alla sua, che le riportò alla mente l’immagine del vampiro malridotto dalle torture di Glory.

“Però, forse, è lui che non è interessato a lei!” rispose all’altra se stessa, in una duello all’ultima battuta.

“Ma l’hai vista? E’ bella da far invidia a mezza Hollywood. Anche Willow la guarda con la bava alla bocca. In quale universo parallelo Spike non avrebbe potuto notarla?!”“Forse lui però non ha flirtato. E’ ancora debilitato e…!” cercò ancora di ribattere.

“Sempre di Spike stiamo parlando. Quello che flirtava con te anche quando voleva ucciderti.”

Un altro flash le investì la mente, costringendola alla resa.

Con il capo chino e le lacrime che minacciavano di fuoriuscire per l’ennesima volta davanti quella nuova verità, si accasciò sullo sgabello dorato esausta.

“Allora Tanny, hai visitato il paziente. Cosa puoi dirci?” la voce confidenziale del dottor Gauss penetrò la fitta nebbia di quei pensieri, distraendola.

La dottoressa guardò le persone raccolte attorno a lei, con aria perplessa.

”Siete i parenti del paziente?” chiese, dopo alcuni secondi di silenzio.

Buffy alzò lo sguardo e osservò i suoi amici, incerta su cosa rispondere.

Potevano considerasi la famiglia di Spike?

Sicuramente Dawn aveva sempre provato un affetto fraterno nei confronti del vampiro, ma cosa dire di Willow o Xander?

E del signor Giles, che aveva tramato contro di lui per ucciderlo?

“Si” rispose con tono secco Angel, seguito dai cenni di assenso degli altri.

Quella semplice affermazione condivisa da tutti ebbe la forza di cancellare i pensieri di gelosia che un attimo prima avevano affollato la mente della cacciatrice e di condurla verso altre riflessioni.

Loro erano una famiglia.

Non solo lei e Dawn.

Non solo Angelus e Spike.

Non solo Willow, Xander e Giles.

Ma tutti loro.

Insieme.

Sorrise.

Per qualche misteriosa ragione, in un momento indeterminato di quel lungo cammino comune che avevano intrapreso, loro erano diventati una famiglia.

La sua famiglia.

La famiglia di Spike.

Forse lo erano diventati nell’attimo in cui avevano osservato un cratere desolato con la consapevolezza unica dell’ultimo gesto d’amore di un essere che amore non avrebbe dovuto provare. Forse in quell’estate di perdita e dolore in cui un osservatore, due streghe, un carpentiere, un vampiro ed un ex chiave si erano uniti per sopravvivere alla morte di se stessi. Forse in quell’anno regalato in cui due demoni legati dal sangue e dall’anima, dall’odio e dall’amore, si erano ritrovati, al di là di se stessi, dallo stesso lato della barricata, l’uno affianco all’altro.

Sicuramente lo erano diventati in quei cinquantaquattro giorni di attesa e di speranza, di sofferenza e paura, di urla e ostinazione.

In quei cinquantaquattro giorni di amore.

Reciproco. Totale.

“Ed è William. Questo è il suo nome!” intervenne ancora una volta Angel con voce alterata, prima di allontanarsi e ritornare a sedersi dietro la scrivania. Chiuso in quell’angolo di solitudine, il vampiro osservava con sguardo arrabbiato la nuova arrivata mostrandole apertamente un astio incomprensibile. Focalizzando l’attenzione su di lui, Buffy intravide, riflesse nella profondità dei suoi occhi neri, scintille di odio dorato, che la allarmarono. Sembrava che il demone, chiuso in gabbia da un anima che a stento riusciva a trattenerlo, fosse pronto ad uscire da un momento all’altro per scagliarsi contro la dottoressa. Si girò verso quest’ultima per cercare di capire cosa avesse scatenato tanta ira in Angel. E mentre osservava la fermezza nel viso della psichiatra che senza nessuna esitazione manteneva lo sguardo fisso su quell’odio immotivato, Buffy vide al di là della propria gelosia e delle proprie paure.

Vide una donna che assomigliava fin troppo, per bellezza e coraggio, ad una altra donna.

L’altra donna.

Forse l’unica per Angel.

Cordelia.

E allora riuscì a sentire l’inquietudine dell’uomo e l’ira del demone.

Sentì l’anima agitarsi tra smarrimento e l’incredulità.

Sentì un cuore morto battere di gioia.

Sentì una speranza irrazionale.

E poi il senso di colpa.

La frustrazione.

La rabbia.

La rabbia contro un potere superiore che ancora una volta giocava con un cuore fin troppo umano.

La rabbia contro quella donna che non aveva il diritto di assomigliare a colei che amava.

La rabbia contro se stessi per aver pensato, anche solo per un istante, che quella donna potesse sostituirne un'altra.

“Tanny tutto a posto?” intervenne ancora Vince, interrompendo quel duello all’ultimo sangue fatto di silenzio e sangue.

“Il paz…William soffre di amnesia retrograda della sfera dichiarativa. In particolar modo della memoria autobiografica. Esclusivamente di quella. Le altre sfere dichiarative e procedurali non sono state intaccate. Sono perfettamente funzionanti!” cominciò la dottoressa, con un tono di voce professionale, senza però mai abbandonare lo sguardo di Angel.

“EHHHHH?” fu la risposta in coro di quattro persone allibite.

Solo Giles e Willow sembravano aver capito cosa la psichiatra avesse appena detto.

“Lo hai sottoposto a qualche test?” chiese l’osservatore.

“Si, ho cominciato dai più classici test proiettivi, a partire dal Rorschach. Ma i dati raccolti non mi hanno fatto pensare a qualche disturbo di personalità o a qualche comportamento anomalo. Il che mi lascia perplessa” rispose.

“In che senso?” chiese Vince.

“Di solito, se non interviene un danno cerebrale o qualche malattia neurologica, un amnesia di questo tipo è legata ad uno forte shock, a qualche episodio spiacevole o doloroso che il paziente non vuole ricordare. Il cervello così protegge la persona, mascherando le eventuali connessioni logiche con tale episodio e creando un falso ricordo o addirittura un non ricordo. Tuttavia nel caso di William la situazione si presenta molto più complessa. La sua amnesia non riguarda solo un periodo o un dato episodio, ma l’intera sfera autobiografica. William non ricorda assolutamente nulla di se. Neanche i dati fondamentali come il luogo di nascita ed i nomi dei genitori. Questo tipo di amnesia non solo è molto rara, ma di solito è legata ad un forte trauma, che si palesa immediatamente in un comportamento subnormale del paziente. Tuttavia in William non sembra essere così!”

“Il test di Rorshach non ha rivelato nulla?” chiese ancora il dottor Gauss.

“Nulla di nulla. Ed è questo che mi lascia perplessa. Ogni adulto sottoposto a questo tipo di test manifesta reazioni di tipo proiettivo. Le macchie di Rorshach stimolano una serie di pensieri nel soggetto per associazione mentale. Ed il test si basa sulla lettura e sull’interpretazione di queste connessioni. Ansia, felicità, indifferenza, tristezza. Questi sono i sentimenti che qualunque soggetto prova durante la visione delle macchie. Eppure in William non è avvenuto nulla del genere.”

“Come è possibile?” chiese Buffy, che, memore dei pochi semestri di psicologia, cominciava a capire qualcosa.

“La reazione di William è da tabula rasa!” sentenziò la psichiatra.

Quattro paia di occhi si girarono in automatico in direzione di Willow.

“Ehi! io non c’entro nulla!” disse difendendosi energicamente.

“William reagisce come un bambino che non ha ancora sviluppato la capacità di memorizzare ed osserva tutto per la prima volta!” continuò Tanny, ignorando la stramba reazione dei suoi interlocutori.

“Vuol dire che Sp…William è regredito allo stadio infantile?” chiese Xander, finalmente risvegliatosi dallo stato di incretinimento in cui le belle forme della dottoressa lo avevano gettato.

“No…decisamente no. I suoi comportamenti e le sue reazioni sono perfettamente compatibili con quelle di un maschio maturo.” Continuò facendo un leggero sorriso che a Buffy non sfuggì.

“Lo sapevo. Ha flirtato con lei. Maledetto pervertito!”

“Non so come spiegarmi. Il suo cervello è attualmente stimolato da un forte curiosità verso se stesso e verso il mondo esterno. Sembra realmente privo delle informazioni autobiografiche e di ricordi. E’ come se la sua mente agisse come quella di un bambino di due, tre anni che mano a mano comincia a sviluppare la capacità di memoria dichiarativa…”.

La dottoressa interruppe la sua spiegazione, presa da un pensiero improvviso.

“So...che può sembrare un teoria assurda...lo sembra anche a me...ma...ma è come se il cervello di William fosse nato nuovamente. Come se il coma avesse realmente cancellato tutto ciò che era prima e avesse risvegliato una nuova persona, con un cervello nuovo e con dei ricordi tutti da ricostruire!” finì con voce incerta.

Tanny Valenti non si accorse dello sguardo di intesa che i suoi interlocutori si scambiarono.

“Questo significa che è permanente?” chiese Dawn

“Questo non ve lo posso dire con precisione. Sicuramente con altre sedute potremmo capire qualcosa in più, ma per ora non posso dirvi altro!”

“E noi…noi cosa possiamo fare?” domandò titubante la cacciatrice.

“Possiamo vederlo?” si accavallarono le voci degli altri.

“Io credo che almeno per oggi sia meglio non sovraccaricarlo di eccessive informazioni. Il risveglio dal coma, i test medici e la mia visita lo hanno molto stressato. Ha bisogno di riposo”

Un lampo di delusione e frustrazione passò negli occhi di tutti.

Buffy osservò quella reazione sincera sui volti dei suoi amici e ne sorrise.

Pensò che almeno avrebbe potuto contare su di loro e l’idea l’aiutò a metabolizzare le informazioni che la psichiatra aveva dato loro.

“Tuttavia…io penso che lei lo possa vedere!” continuò la dottoressa, indicando la ragazza dai capelli biondi.

“In questo momento lui potrebbe avere bisogno di te!”

Buffy la guardò stranita, senza avere il coraggio di dire una parola.

“Ma..ma..come…lei ha detto che lui non ricorda…” balbettò confusa Buffy.

“Infatti non lo fa. In questo momento il paz…William è molto confuso. Ha bisogno di una guida. Lui a istinto si fida di te, perché sei la prima persona che ha visto appena sveglio. E’ una sorta di imprinting!” spiegò la psichiatra.

“Come per gli animali?” chiese Dawn.

“Esatto! I cuccioli di animali riconoscono come madre o comunque come essere di cui fidarsi, la prima persona che vedono appena aprono gli occhi. Così è stato per William”

Buffy sorrise amaramente mentre capiva.

La sua altra sé risuonò ancora una volta nel cervello, ferendola con una verità che non avrebbe voluto sentire.

“Se avesse avuto qualunque tuo ricordo, saresti stata, sicuramente, l’ultima persona di cui si sarebbe fidato!”

“E come mi devo comportare? Se lui mi chiederà qualcosa, che cosa devo dirgli?” chiese sovrapponendosi a quel pensiero doloroso.

“L’importante in questo momento è non spingerlo a ricordare. Tuttavia se ti porrà delle domande gli risponderai semplicemente, dicendogli la verità. A meno che… “

“A meno che?” chiesero tutti all’unisono.

“A meno che voi non siate a conoscenza di qualche particolare del suo passato che lo potrebbe sconvolgere!” finì la dottoressa, osservando la reazione dei suoi interlocutori.

“E’ così?” chiese ancora.

“Qualunque cosa sia, dovreste dirmela...potrebbe essere utile per capire lo stato del paz…”

“Di William” concluse correggendosi dopo l’ennesima occhiataccia di Angel.

Il dottor Gauss guardò uno ad uno le persone lì raccolte, scambiando con ognuno di loro un muto accordo.

“No...pensiamo di no!” rispose il medico dopo alcuni minuti di silenzio.

“Bene” disse la dottoressa per nulla convinta in realtà.

“Allora io credo di poter andare. Tornerò, comunque domani per vedere William!” avvisò alzandosi dal divano.

“Ti accompagno!” disse Vince, avviandosi alla porta insieme alla psichiatra che salutò cordialmente tutti. Prima di uscire la dottoressa lanciò uno sguardo ad Angel, il quale per tutta risposta girò la testa indispettito. Con un sospiro di rassegnazione, che non sfuggì alla vista attenta di Buffy, Tanny Valenti lasciò la stanza.

 

“Cosa dobbiamo fare ora?” chiese Willow quando la psichiatra ed il dottore si furono definitivamente allontanati.

“Come ci dobbiamo comportare con Spike?” le fece eco Xander, osservando il signor Giles in cerca di una risposta.

“Seguiremo le indicazioni della dottoressa!” intervenne Giles.

“Buffy ora scenderà per vedere come sta, mentre noi torneremo a casa. Altro non possiamo fare”

“E per quanto riguarda il suo passato?” domandò Dawn

“A quello ci penserò io!” rispose risoluta Buffy.

“Gli filtrerò le informazioni. Non gli racconterò tutto, almeno non la parte del vampiro...anche perché dubito che mi crederebbe!”

“Vuoi mentirgli?” quasi gridò la sorella.

“No...ma...per ora è necessario che non si stressi. Gli racconterò, se me lo chiederà, solo le notizie indispensabili…”

“E chi lo stabilisce cosa è indispensabile?” chiese sempre più arrabbiata Dawn.

“Io, visto che Spike è mia responsabilità!” le urlò in risposta la cacciatrice, innervosita da quella intromissione.

“Ora basta. Non mi sembra il caso di litigare!” intervenne Andrew, prima che la discussione potesse degenerare.

“Giusto. Non serve a nulla discutere tra noi. Per ora, come ha detto Buffy, ci comporteremo con Spike il più normalmente possibile evitando qualsiasi riferimento a vampiri e demoni, poi vedremo!” gli diede manforte Giles.

“Dirò a Illyria e Lorne di non farsi vedere in giro per un po’, in modo tale…” continuò Angel.

“Credo che sia la soluzione migliore!”

“Vieni Dawn, torniamo a casa” si frappose Willow tra gli sguardi infuocati che le due sorelle si lanciavano.

La ragazza bruna seguì riluttante la strega e Xander che dopo aver salutato, uscirono in silenzio dalla sala riunioni, ognuno perso nei propri pensieri.

“Forse è il caso che vada anche io!” intervenne Giles, facendo cenno ad Andrew.

“Per qualunque problema, sai dove trovarmi e fammi sapere come sta Spike…ok?” disse l’osservatore, prima di aprire la porta.

Buffy gli fece un sorriso grato e si raccomandò di tenere tutti loro aggiornati.

Rimasta sola con Angel nella stanza, si sedette di nuovo sul divano per cercare di mettere ordine nei suoi pensieri. Le notizie che le aveva dato la dottoressa non erano per nulla confortanti e lei realmente ora si chiedeva come si sarebbe dovuta comportare con Spike.

Capendo che non sarebbe stato nel silenzio di quell’ambiente che avrebbe trovato la soluzione ai suoi dubbi si rialzò, prese un profondo respiro, preparandosi ad affrontare quella nuova situazione.

“Vieni ti accompagno!” disse Angel aprendole la porta e lasciandola passare.

Scendendo le scale del primo piano, Buffy osservò ancora una volta il volto del vampiro bruno.

Aveva una strana espressione sul viso, come se un pensiero gli frullasse nella testa e non gli desse pace. Gli occhi erano inquieti e le mani, di solito ferme, erano scosse da piccoli fremiti. Anche il passo era incostante subendo delle accelerate e del brusche soste a cui la cacciatrice stentava ad adeguarsi. Le labbra gli tremavano come agitate da parole che sarebbero dovute essere pronunciate, ma che non trovavano il coraggio di esprimere.

Cosa c’era che non andava?

A cosa stava pensando?

Cosa voleva dire?

Buffy avrebbe voluto chiederglielo, ma la sua mente troppo concentrata sull’uomo che la stava aspettando, preferì rispettare il silenzio che il vampiro aveva scelto. Era sicura che quando sarebbe stato pronto, sarebbe stato lui stesso a parlare.

Adesso doveva solo pensare a Spike.

Poi avrebbe trovato il tempo anche per Angel.

Arrivati davanti la porta della camera dell’ex vampiro, la ragazza, mossa dall’ansia e dal desiderio di rivedere William, ringraziò Angel frettolosamente e, girandosi, mise la mano sul pomello pronta ad aprire la porta.

“Aspetta!” la bloccò il vampiro.

“No…no…non adesso!” pensò Buffy, incapace di rigirarsi.

“Ti devo parlare!”

“Ecco, appunto. Ottimo tempismo!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cap 5 Chi sono? Chi sei? Sconosciuti a confronto. (quarta parte)

 

Buffy rimase ferma nella stessa posizione, con lo sguardo sulla porta laccata di bianco e le dita a sfiorare il pomello di ottone. Per un attimo, pensò di fingere di non aver sentito, sperando che lui desistesse e la lasciasse andare. Ma quando la grande mano fredda le toccò l’esile spalla, seppe di non avere alternative. Con una lentezza esasperante si girò fino ad incrociare lo sguardo nero di Angel. Quello che vi lesse dentro non le piacque.

Tristezza.

Inquietudine.

Ansia.

Un improvviso senso di oppressione le gravò sul cuore, mentre assorbiva come una spugna i sentimenti che dagli occhi del vampiro si riversavano nel silenzio che incombeva tra loro.

Si ritrovò ad annaspare in una pozza di pece nera con il corpo pesante soffocato da quelle emozioni vischiose che le toglievano forze e fiato.

Il disperato tentativo di salvarsi divenne parola

“Angel?”lo chiamò afferrandosi alla sua stessa voce.

Il vampiro sembrava in trance, perso anche lui in quella tempesta di pensieri che gli agitavano l’anima. Con la mano ancora ferma sulla spalla della ragazza, immobile di un immobilismo statuario, la guardava senza osservarla veramente con un viso contratto in una smorfia indecifrabile.

Un pendolo in lontananza risuonò.

Quattro rintocchi segnarono, nel lungo corridoio, l’ora pomeridiana.

Come risvegliati all’improvviso, gli occhi ripresero vita e lucidità.

La stretta sulla spalla divenne più decisa.

“Non sei obbligata!” disse, dopo alcuni secondi, suscitando la confusione di Buffy.

“Questo è un momento molto delicato per Spike. Non ricorda nulla di se e del suo passato. Sicuramente sarà confuso e stordito. Si sentirà solo...posso appena immaginare cosa stia provando.” continuò, sussurrando le ultime parole quasi come se le stesse dicendo a se stesso. Abbandonando la presa e distogliendo lo sguardo dagli occhi verdi che lo osservavano interrogativi, fece alcuni passi nel silenzio ritrovato del corridoio.

“Se l’amnesia dovesse risultare irreversibile, il suo sarà un percorso lungo e difficile. Dovrà capire chi è, cosa vuole e qual è il suo posto in questo mondo”. Disse, girandosi ad osservare il gioco incessante della natura che si svolgeva al di là del vetro scuro della finestra.

Buffy non ebbe bisogno di vedere l’espressione disegnata sul volto del vampiro per capire che quelle parole preoccupate erano fin troppo consapevoli delle difficoltà che Spike avrebbe dovuto affrontare. Erano parole dettate da quell’ansia incessante che ancora tormentava l’anima di Angel.

Quella ansia che lo portava a ricercare nel vivere quotidiano uno scopo.

Il proprio scopo. Il fine di quell’esistenza ultracentenaria, che egli stesso aveva scelto, inconsapevolmente, in una notte lontana, in un vicolo del Galaway.

Il come e il perché di un vivere continuo.

Ma non erano, poi, questi gli interrogativi che tormentavano tutti? Chi sono? Dove vado? E perché?

Neanche Buffy aveva una risposta a quelle domande.

Men che meno in quel momento.

Aveva, però, un unica consapevolezza.

La soluzione, qualunque fosse stata, l’avrebbe cercata insieme a Spike.

Un sorriso le si disegnò sulle labbra, come ormai le capita ogni volta che pensava all’ex vampiro.

“Avrà bisogno di molto aiuto e sostegno” disse Angel, distogliendola dalle sue riflessioni.

“Ne sono perfettamente consapevole” gli rispose la ragazza non riuscendo ancora a capire il vero scopo di quella conversazione. Lui si girò d’improvviso nella sua direzione.

“Ma non sei obbligata a sobbarcarti ancora questo peso!” ripetè con voce decisa.

“Obbligata?”

La parola risuonò nel vuoto della mente di Buffy, come se fosse un termine dal significato sconosciuto. Un suono incomprensibile che il suo cervello si rifiutava di elaborare e di associare a Spike.

“Ascoltami” la richiamò lui, prendendo le mani di lei nelle sue.

“Questi ultimi due mesi sono stati duri per te, più di quanto tu stessa voglia ammettere. Io ti ho visto sfiorire giorno dopo giorno, ridurti l’ombra di te stessa nell’ostinazione di rimanere ferma accanto a quel letto. E osservarti in quelle condizioni e non poter fare niente, è stato terribile...te lo assicuro. Questa volta non voglio ripetere gli stessi errori. Farò tutto quello che è in mio potere per alleviarti da ulteriori sofferenze. So che provi nei confronti di Spike un senso di responsabilità. Ora più che mai, dopo le parole della dottoressa, ma voglio che tu sappia che se non te la senti, non sei obbligata a prenderti ancora cura di lui. Lo farò seguire dai migliori specialisti e tu non dovrai preoccuparti di nulla. ”

La ragazza seguiva quel fiume di parole, incapace di replicare o di dire qualcosa.

“Non fraintendermi. In questo momento io mi sto preoccupando per entrambi. Meritate un po’ di pace e...riflettici, Buffy, questa potrebbe essere l’occasione per averla. Spike potrebbe vivere una nuova vita, libero dal passato, dai demoni, dal sangue. Ha l’opportunità di cominciare di nuovo tutto daccapo senza zavorre e senza pensieri. E tu potresti fare lo stesso. Potresti pensare finalmente a te stessa, libera da quel senso di colpa che ancora ti lega a lui. Libera dal dovere, dall’ossessione...”

“Non è così!” lo interruppe lei, riuscendo finalmente a elaborare quel lungo discorso che fino ad un attimo prima, le appariva solo come un insieme di parole senza senso.

“Non sono rimasta accanto a lui per dovere” continuò, sciogliendosi dalla presa del vampiro.

“Non è stato il senso di colpa che mi ha fatto correre qui, dopo aver saputo del suo ritorno. O uno strano senso di responsabilità nella sua morte a farmi soffrire durante lo scorso anno.” Disse diretta con un tono di voce privo di tentennamenti e remore.

“Ne sei innamorata?” le chiese, in risposta il vampiro, restringendo i profondi occhi scuri in quelli verdi di lei. Buffy rimase ferma, senza distogliere lo sguardo da quello interrogativo di lui.

Possibile che glielo stesse realmente chiedendo?

Possibile che non lo avesse capito?

Che non fosse ormai chiaro?

La consapevolezza riflessa negli occhi scuri di lui, la colpì e le fece capire il vero senso di quella domanda. Era venuto il momento di chiudere un vecchio capitolo.

Definitivamente.

E senza biscotti questa volta.

“No!” gli rispose, lasciandolo perplesso per un secondo.

“Non sono mai stata innamorata di Spike”.

La perplessità sul volto del vampiro si trasformò in antica speranza, da tempo accantonata.

“Ma lo amo!” disse Buffy, sperando che lui capisse la differenza.

E lui non la deluse.

Capì.

Negli occhi scuri dell’uomo che un tempo le aveva fatto battere il cuore quasi a farlo esplodere, la ragazza vide un lampo di sofferenza, che per un attimo la fece pentire della sua diretta sincerità.

“Mi dispiace!” sussurrò lei, guardandosi le scarpe e sentendosi timida dei suoi stessi sentimenti.

“No. Non dispiacerti, non hai nulla di cui scusarti. In fin dei conti lo sapevo già. Avevo solo bisogno di sentirlo...per chiudere definitivamente un capitolo…per andare avanti.!” Le rispose accennando un sorriso triste. Buffy si limitò ad annuire a quella ammissione, capendo che a volte forse i gesti e le azioni non erano sufficienti.

A volte anche le parole potevano essere importanti.

A volte le parole erano indispensabili.

“Una parte di me, nonostante tutto ha continuato a chiedersi cosa sarebbe accaduto se io non fossi andato via. Se ci fossimo dati un'altra possibilità, se...” sospirò con difficoltà, mentre dava voce a quei pensieri comuni che in quegli anni avevano accompagnato le scelte di entrambi.

“Una parte di me, ha continuato a pensare che prima o poi ci saremmo ritrovati. Che si saremmo amati ancora. Che saremmo stati per sempre Angel e Buffy!”

“Noi lo saremo!” intervenne lei, prendendogli questa volta lei le mani.

“Nel passato, però!” le rispose, con una voce rassegnata, il vampiro.

Rimasero per un attimo in silenzio, occhi negli occhi, incapaci di aggiungere altro.

Cos’altro c’era poi da dire?

Erano entrambi consapevoli del momento.

E nonostante la vita li avesse allontanati, li avesse cambiati e li avesse fatti innamorare nuovamente, era comunque difficile e doloroso.

Difficile e doloroso dirsi addio.

Perché quello era un addio.

L’addio che il cuore di Angel dava al cuore di Buffy.

L’addio che il cuore di Buffy dava al cuore di Angel.

Quello che non si erano dati quella sera in cui lui era scomparso nella nebbia post apocalisse.

Quello che non si erano mai voluti dare.

Quello di cui avevano entrambi bisogno.

“Ed è giusto che sia così!” disse lui, accennando un sorriso un po’ meno triste e un po’ più conscio.

Lei ancora una volta si limitò ad annuire, sorridendogli in risposta.

“Sei sicura?” domandò, facendo segno con la testa in direzione della porta bianca.

“Si. Non sono mai stata tanto sicura in vita mia!” gli rispose lei, intuendo cosa le stesse chiedendo.

Lui sciolse le loro mani e con un gesto plateale, fece un passo indietro lasciandole il passaggio libero. Libero dal suo corpo imponente.

Libero dal suo pensiero.

Libero dal suo cuore morto.

“Allora vai dal bello addormentato...e siate felici!” le augurò, sorridendole ancora.

Buffy lo guardò per un attimo e poi si riavvicinò, abbracciandolo con tenerezza.

Angel ricambiò il gesto, avvolgendo, a sua volta, le proprie forti braccia attorno all’esile corpo di lei. Per alcuni secondi nessuno dei due si mosse, godendo di quel gesto che sapeva di un amore passato che non sarebbe mai più tornato.

“Anche tu…beh…non troppo!” disse lei con un tono allegro, allontanandosi.

Gli occhi del vampiro si rattristirono.

“Non so…!” bisbigliò.

“Vedrai che lo sarai, ne sono sicura!” lo interruppe, cercando di risollevargli l’umore, prima che questo potesse tornare nuovamente cupo.

“Forse anche prima di quanto tu possa immaginare!” continuò con voce allusiva.

Angel sorrise ed abbassò lo sguardo, timido.

Buffy ebbe quasi l’impressione che stesse arrossendo.

Poteva un vampiro arrossire?

“Devo dare un altro addio prima!” sospirò lui, dopo un attimo di silenzio.

Lei lo guardò preoccupata, capendo perfettamente di chi stesse parlando.

Ebbe l’istinto di abbracciarlo nuovamente per consolarlo.

Ma non si mosse.

Sapeva che in quel momento l’ultima cosa di cui Angel aveva bisogno era la sua compassione.

“Quanto dolore può sopportare un cuore prima di smettere di battere definitivamente?”.

“Quanto un cuore che è già morto?”

Si chiese senza avere risposta.

Quella gliel’avrebbe data solo il tempo.

“Ora vado…c’è la ronda di stanotte da organizzare. Se hai bisogno di qualsiasi cosa, sai dove trovarmi…ok?” le disse lui, facendo un passo indietro e incamminandosi verso il fondo del corridoio. Buffy, in silenzio, con la mano ferma sul pomello di ottone, lo osservò sparire man mano nel buio della casa. Mentre i ricordi di un altro tempo le invasero la mente, sorrise nella speranza che quell’addio potesse realmente rappresentare una nuova occasione. Un occasione per essere liberi. Per essere felice. O almeno provarci.

Un chance per lei.

Per Spike.

E per Angel.

Perché la meritavano.

Poi con lo stesso sorriso si girò in direzione della porta laccata di bianco pronta finalmente ad aprirla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cap 5 Chi sono? Chi sei? Sconosciuti a confronto. (ultima parte)

 

“Sono qui!”

Pensò nell’esatto momento in cui gli occhi misero a fuoco la stanza ossessivamente bianca.

“Sono qui!”

Un sentimento confuso sopraffece l’animo e il corpo, costringendola ad un immobilismo immotivato, sulla soglia della porta.

“Sono qui!”

La mano rimaneva ferma sul pomello di ottone. Suoni e immagini di un passato fatto di cinquantaquattro numeri anneriti le si formarono nella mente, riportandole alla memoria quelle ferite ancora troppo fresche per essere lenite. Lo sguardo vagò nella camera alla ricerca della disperata conferma che non fosse stato tutto un sogno.

Il panico le accelerò i battiti cardiaci.

Sembrava tutto irrimediabilmente uguale.

Le pareti bianche. Il linoleum azzurro e la poltrona in tinta. L’orologio sul comodino sbilenco.

Il calendario impregnato di lacrime.

E Spike.

Nel suo letto.

Incosciente.

Ancora.

“Tutto troppo uguale”.

Gocce salate le si formarono tra le ciglia, annebbiandole la vista traditrice.

Che avesse realmente immaginato tutto? Che quelle poche ore fossero frutto solo della sua mente, ormai straziata dall’attesa? No!

Non era possibile.

Serrò la mascella e strinse i pugni. Prese un profondo respiro, facendo un passo avanti.

Osservò meglio.

E li vide.

I particolari. Piccoli dettagli insignificanti che urlavano la novità.

La tenda blu era aperta. La finestra, che affacciava sul giardino, era stata spalancata.

La lampada era spenta. L’aria condizionata disattivata.

La stanza profumava di brezza estiva.

Il divano riportava, in pieghe disordinate, i segni di un corpo disattento.

Un paio di pantofole sportive aveva fatto la sua comparsa ai piedi del letto, mentre sull’appendiabiti, che mai prima aveva notato, vi era una vestaglia da uomo.

Sul comodino fiori e acqua.

Come sempre.

I macchinari erano spenti.

Senza quei rumori striduli non facevano più paura. Erano solo scatole metalliche inoffensive.

La sedia rimaneva vuota.

E poi c’era Spike.

Bellissimo.

Come era stato un tempo. Di più.

L’incarnato, mortalmente pallido fino a poche ore prima, aveva assunto un colore rosato rassicurante, che gli donava un aspetto salutare. Le macchie violacee sotto gli occhi ed i lividi, che per troppo tempo avevano rovinato il suo corpo, erano spariti.

Anche i muscoli, rilassati tra le lenzuola di lino bianco, sembravano improvvisamente più tonici.

I capelli, rasati di recente, erano ancora castani.

Buffy si tranquillizzò. Non c’erano possibilità di errore.

Spike era uscito dal coma.

Bastava osservarlo dormire scomposto, con un braccio poggiato sulla fronte ed un piede scalzo penzolante dal letto, per capirlo.

Era tornato.

“Sono qui!”

Il cuore recuperò il suo battito normale. L’ansia fu cancellata dalle aspettative.

Angel si sbagliava.

Lei non avrebbe sofferto.

Perché improvvisamente era ben coscia di quale fosse il suo ruolo.

Quale fosse il suo scopo in quella stanza.

Non era lì per ricostruire quel sentimento che per troppo tempo aveva calpestato e distrutto.

Non era lì per ritrovare il vampiro scodinzolante ai suoi ordini e ai suoi cambi di umore.

Non lo schiavo devoto che le aveva riempito il vuoto del proprio cuore.

E nemmeno il campione che l’aveva fatta innamorare, a dispetto di tutto.

No.

Quello non c’entrava nulla con se stessa. Lei era in quella stanza per aiutare un uomo nuovo a costruire la propria vita. Per essere tutto quello che lui avrebbe voluto che lei fosse.

Un amica, una confidente o anche una semplice sconosciuta.

Qualsiasi parte lui le avesse dato, l’avrebbe accettata.

Certo, non avrebbe rinunciato.

Questo mai. Ma non era quello il momento per pensarci.

“Sono qui!”

Sorrise, mentre sentiva le ferite rimarginarsi.

 

“Lei è qui!"

Pensò e non ebbe bisogno di aprire gli occhi per averne la certezza.

Fu il profumo di vaniglia, che improvvisamente riempì le sue narici, a dargliela.

Quello stesso profumo che sembrava vivere in ogni parte di quella stanza.

Quello stesso profumo che impregnava ogni cellula del suo corpo.

Quello stesso profumo che non aveva abbandonato nemmeno per un attimo la sua mente e che gli aveva fatto desiderare di vederla ancora.

“Lei è qui!"

Non sapeva chi fosse, ma il solo immaginarla gli calmava l’animo e gli trasmetteva tranquillità. Calore. Conforto. Questa era la parola.

Lei, con i capelli biondi, scomposti dal sonno e gli occhi verdi, lucidi di felicità, era il suo conforto in quella vita nuovamente sconosciuta.

“Lei è qui!"

Si maledisse per non riuscire a rammentare il suo nome. Avrebbe voluto poterlo ricordare solo per sentire la propria voce pronunciarlo, per sperimentare il proprio accento e calibrare il timbro sul quel suono. Solo per poterla chiamare e leggere sul suo volto i segni del riconoscimento.

Per poterla vedere sorridere e magari commuovere.

Per poterlo ripetere mille volte.

Mille volte, con mille sfumature diverse.

Perché non ricordava nulla, ma aveva la netta sensazione che in quel passato immemore non avesse fatto altro.

“Lei è qui!"

Lo stava osservando.

Anche nella finzione del sonno, riusciva a sentire lo sguardo di lei sul proprio corpo. Per un attimo si chiese cosa vedesse. Si era osservato in uno specchio, ritrovando in quel riflesso uno sconosciuto dagli occhi azzurri e gli zigomi pronunciati. Uno sconosciuto piuttosto piacente che aveva provocato più di un sguardo e di un sorriso.

Ma pur sempre uno sconosciuto per la sua mente debilitata.

Quei capelli biondi e quegli occhi verdi erano il legame con la sua immagine senza memoria.

Ma chi era per lei?

Un fratello? Un amico?

Un amante?

Troppe domande a cui i suoi pensieri non avrebbero dato risposta.

Stiracchiandosi nel letto, decise che fosse venuto il tempo di trovarne almeno qualcuna.

 

“Ehi!” disse, rialzandosi e cercando di sembrare il più presentabile possibile.

“Impresa difficile quando si indossa una camicia ospedaliera”.

Il suono improvviso della voce di Spike fece sobbalzare Buffy, che, spaventata, lanciò un piccolo urlo nella stanza.

Lui rise.

“Dieci cent per i tuoi pensieri. Dovevano essere particolarmente profondi per averti fatto reagire così”. Commentò, mentre continuava a ridere.

Lei, imbarazzata per il proprio comportamento, rimase in silenzio, sentendosi stranamente timida, nei confronti di tutta quella ilarità.

Lui avvertì il suo disagio e si diede dello stupido.

“Non volevo spaventarti!” disse, cancellando il divertimento dal proprio volto.

“Niente” gli rispose telegrafica lei.

Poi, fu il silenzio.

Nessuna parola.

Nessun suono.

Solo sguardi.

Sguardi che sapevano di studio reciproco.

Di assuefazione.

Di scoperta.

In quell’assenza rarefatta di commenti, abituarono i propri corpi alla presenza dell’altro. Ne impararono le fattezze e i particolari. Ritmarono, sulla stessa frequenza, i reciproci respiri.

Ma, il conforto durò poco. Il silenzio reclamò la sua presenza ingombrante, diventando troppo invadente per quel fragile equilibrio emozionale che entrambi stavano costruendo.

Buffy andò in panico e la mente cominciò a litigare con se stessa.

“Non rimanere zitta e immobile, di’ qualcosa! Fa qualcosa!” Le urlò la cacciatrice.

“Ma cosa si chiede ad una persona che non ricorda nulla?”

“E che ne so…è la prima volta che mi capita. Ventila. Calmati. Basta dire qualunque cosa”.

“No…non qualunque cosa. Pensa ad una frase importante, profonda… fondamentale.”

“Come stai?”

Buffy impiegò alcuni secondi a capire che non era stata lei a parlare, ma bensì lui.

Lo guardò stranita.

“Non dovrei essere io a farti questa domanda?” chiese con un tono leggermente innervosito, sentendosi derubata della battuta.

“Sono stato più veloce” le disse lui con tono leggero, facendo spallucce.

Sperò che la sua allegria la contagiasse.

E non rimase deluso.

Buffy non poté fare a meno di sorridere, mentre i contendenti nel suo cervello deponevano le armi.

Forse sarebbe stato più facile dell’immaginato. Forse non c’era bisogno di dire cose profonde o significative per comunicare davvero. Forse sarebbe bastata anche solo un po’ di leggerezza.

Forse avevano realmente bisogno solo di quella.

Entrambi.

“Beh…però questo non mi impedisce di chiedertelo a mia volta” disse fintamente offesa.

Poi come se nulla fosse avvenuto, con un espressione che cercava di essere grave e seria, gli chiese.

“Come stai?”

Lui la osservò e non resistette più.

Scoppio a ridere.

Una risata grassa.

Una di quelle a bocca larga.

Di quelle rumorose e contagiose.

Di quelle che fanno male allo stomaco, ma che danno soddisfazione all’animo.

A quell’animo che avrebbe dovuto piangere. Avrebbe dovuto disperarsi.

O almeno così credeva una parte del suo cervello. E invece sembrava non aver bisogno di null’altro che di quella risata e di quel piccolo broncio che l’aveva generata.

Buffy si lasciò infettare da quella strana malattia e senza rendersene conto cominciò a ridere a sua volta. Prima fu un leggero risolino, appena udibile, stretto tra i denti, nascosto tra le dita di una mano pudica. Poi la reticenza venne meno e l’ilarità ebbe la meglio. La bocca si aprì, gli occhi cominciarono a lacrimare, il tono si alzò, ed ogni pensiero coerente venne meno.

Niente ebbe più importanza.

Non l’imbarazzo.

Non i dubbi e quella memoria mancata.

Non le parole dette e quelle da dire.

Fu sufficiente quella risata a colmare gli spazi bianchi.

Quella risata che finalmente il suo cuore si concedeva.

Dopo otto anni e cinquantaquattro giorni.

Dopo troppo tempo.

E così come un fiume che, dopo un lungo periodo di pioggia, rompe i propri argini e regala nuova fertilità alle terre che lo circondano, quell’allegria inaspettata e fuori luogo, trasbordò dai loro cuori, irruppe con prepotenza nella stanza e fluì libera, risuonando con il suo carico di vita tra le pareti bianche ed il soffitto azzurro.

Poi, l’inondazione rientrò ed il fiume tornò nel lento procedere del suo letto.

La risata si smorzò ed i suoni si stemperarono.

Si guardarono ancora una volta negli occhi, mentre solo un sorriso rimaneva tra loro.

Rimaneva un sorriso e tanti nuovi colori.

Quei colori che in un esplosione di gioia avevano riempito le tele immacolate di quella camera, macchiando con sfumature diverse il bianco ossessionante.

Giallo.

“Vita”

Rosso.

“Vita”.

Blu.

“Vita”.

Verde.

Vita.

La loro.

 

Recuperando il battito normale ed asciugandosi le ultime lacrime, che, insistentemente, si attardavano tra le ciglia, Buffy gli chiese nuovamente come si sentisse.

“Fisicamente sto bene. Più che bene. Non vedo l’ora di alzarmi, di uscire da questa stanza ed indossare qualcosa di decisamente più virile” disse lui, dimostrando un insofferenza che fece sorridere la ragazza. Con o senza memoria, con battito o meno, Spike era sempre il solito irrecuperabile irrequieto, desideroso di movimento e azione.

“E psicologicamente?” indagò lei.

“Non saprei. E’ tutto così…”

“Confuso?”

“Piuttosto, direi strano. So che in qualche modo dovrei sentirmi ansioso, agitato…dovrei preoccuparmi di non ricordare nemmeno il mio nome. Eppure non riesco a sentire nulla. Sono indifferente alla cosa. Come se non mi toccasse.” Rispose lui, tutto di un fiato, puntando i suoi profondi occhi blu verso la finestra.

“La dottoressa Valenti dice che questo stato mentale è normale. Che è legato al fatto che non ho ancora appieno realizzato cosa sta accadendo”, continuò con lo sguardo perso su una foglia.

“Mah! Secondo me è l’effetto dei tranquillanti che mi hanno dato. Quando sarà finito, vedrai che darò di matto e comincerò a correre e urlare per tutta la stanza!” scherzò lui, riportando l’attenzione sulla ragazza, mentre mimava con le mani e le braccia la reazione figurata.

Buffy lo immaginò correre per tutto il corridoio con la camicia ospedaliera indosso ed il suo bel sedere esposto, e non poté non ridere nuovamente. E mentre provava a trattenere inutilmente una risata, si chiese se lui fosse sempre stato così ironico o lo fosse diventato solo in quel momento.

Per il passato non si era mai concessa del tempo per scoprirlo. Per sapere cosa lo faceva divertire e cosa lo mettesse di buon umore. Sapeva che amava uccidere…ma cosa oltre questo?

Aveva mai realmente visto al di là della maschera?

Era mai andata al di là del mostro?

Cercò di ricordare se lo avesse mai visto ridere.

La risposta fu immediata.

No.

Mai.

Almeno non così.

Lo aveva visto accennare un sorriso.

A volte amaro.

A volte timido.

A volte divertito.

Ma lui non aveva mia riso insieme a lei.

In compenso aveva pianto.

Buffy sorrise per l’ironia della vita.

Ricordava molto di più le lacrime che le risate.

Le sue e quelle di lui.

E questo la diceva lunga sulla vita che aveva vissuto fino a quel momento. O no?

Lui la osservò trattenere a stento una risata tra le labbra e cercare di calmare il sussulto del proprio corpo, con una mano sulla pancia. Studiò il modo in cui un sorriso involontario le invadeva completamente il volto e le rischiarava gli occhi, e seppe di non aver visto mai niente di più bello.

Capì di aver vissuto solo per quel sorriso.

Per quel sorriso che gli ricordava un sole del nord, che dopo una tempesta, facendosi largo tra le nuvole ancora cariche di pioggia, squarcia il cielo plumbeo e illumina il mare sotto una falesia scoscesa. Per quel sorriso che poteva essere descritto solo con una parola.

“Sublime”.

“Più che altro mi sembra strano non riuscire a ricordare nulla della mia vita eppure aveva la perfetta cognizione e conoscenza delle cose inutili!” disse lui, dopo alcuni secondi, mentre le parole di una poesia conosciuta gli rimbombavano in mente.

“Tipo?”chiese lei incuriosita da quella confessione.

“Bah! Un po’ di tutto! Ricordo poesie e libri letti. Quando è stata scoperta l’America e da chi. Come è composta una molecola di acqua o quale è la capitale del Perù.”

Buffy lo guardò per un attimo dubbiosa, mentre un pensiero le si formava nella mente.

“Qual è la capitale del Perù?”

Non che le interessasse realmente, ma stranamente il non riuscire a ricordare quel dato, la faceva sentire stupida in quel momento. Era pur vero però che lei non era mai stata un genio in geografia.

O in storia.

O in qualsiasi altra materia scolastica.

Lei sapeva solo cacciare e uccidere. Se al liceo avessero insegnato come polverizzare un vampiro in meno di trenta secondi, allora si che sarebbe stata la prima della classe.

“Lima” disse lui, osservando la faccia pensierosa della ragazza.

“Uh?”

“La capitale è Lima!”

“”Ah…si, certo lo sapevo!” rispose lei, cercando di mascherare la sua imbarazzante ignoranza.

“E’ uscito fuori che sono anche un esperto della cultura dell’Inghilterra vittoriana…ci crederesti?”

Questa volta non ridere fu più difficile, ma con grande volontà, Buffy si limitò semplicemente ad annuire, mentre si girava ad osservare una foglia al vento al di fuori della finestra.

Se fosse scoppiata a ridere in quel momento, come avrebbe potuto giustificarsi?

Cosa gli avrebbe potuto dire?

“Sai Spike, in realtà ha vissuto nell’Inghilterra dell'ottocento"

“E parlo francese!”continuò lui.

La ragazza si girò di scatto.

“Veramente?” gli chiese, strabuzzando gli occhi.

Aveva sempre avuto un certo debole ed una grande ammirazione per chi riusciva a districarsi con quella lingua che per lei era sempre stato solo un vociare indistinto di suoni e brusii.

“Mais oui, Voulez-vous coucher avec moi ce soir?”

“Ehi! Non è valido. Questo lo so dire anche io!” gli rispose, agitando un dito davanti il suo sorriso.

E ancora una volta scoppiarono a ridere entrambi, come se non ne potessero fare a meno.

Possibile che stessero recuperando tutte le lacrime versate?

O forse da quel momento in poi chiacchierare con Spike avrebbe significato questo?

Risate e allegria?

Buffy non lo sapeva, però decise che avrebbe goduto di quella leggerezza il più allungo possibile, approfittando di ogni momento e di ogni battuta per continuare a sorridere.

“Tu es très belle lorsque souris” sussurrò lui, fissandola negli occhi.

Pur non capendo, Buffy abbassò lo sguardo e arrossì scioccamente.

Le era bastato ascoltare il tono della sua voce e osservare il blu delle sue pupille per capire che le aveva appena fatto un complimento. Il cuore accelerò il battito, lusingato da quel leggero tentativo di flirtaggio.

Un pensiero le colpì la mente.

Che si fosse comportato così anche con la bella psichiatra?

Che avesse sussurrato dolci parole francesi anche alla dottoressa Valenti?

Si innervosì.

“Come fai a sapere tutte queste cose?” gli chiese alzando leggermente il tono della voce.

“Uh?”

“Come hai fatto a ricordare che parli francese e le altre cose?” approfondì la domanda con una leggera punta di acidità.

“La dottoressa Valenti mi ha sottoposto ad una serie di quiz e domande!” rispose lui, osservando perplesso quella strana reazione.

“Un analisi molto approfondita direi” replicò piccata. Con la rabbia in corpo cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza, misurando il nervosismo nella velocità dei proprio passi.

Sapeva che, probabilmente, in quel momento, lui avrebbe pensato che fosse pazza, ma non le importò. Il mostro dagli occhi verdi si era impossessato di lei, e doveva in qualche modo trovare il modo di calmarsi.

Le mani le prudevano.

Avrebbe mai imparato a reagire alla rabbia senza l’uso della violenza?

“Sei gelosa!” disse lui, dopo alcuni secondi.

E non fu una domanda.

Era una certezza.

Una certezza che lo fece sorridere e gli fece provare un improvviso senso di orgoglio.

“Cosa? Chi? Io? E perché mai?” balbettò la ragazza, puntando i suoi grandi occhi verdi su di lui ed osservandolo come un cerbiatto preso in pieno da un camion.

Lui non rispose e si limitò a sorridere.

“Posso fartela una domanda?”

Lei si aggrappò a quell’apparente cambio di argomento, come un naufrago alla scialuppa.

“Spara” disse, forzando un finto entusiasmo nella voce.

Lui la guardò non capendo.

“Spara?” ripetè.

“ A chi?”

Bastò quella semplice domanda a scioglierle nuovamente la tensione dal corpo.

Ma che lui avesse qualche potere particolare?

“E’ un modo di dire…significa parla…dimmi” spiegò lei.

Lui rimase in silenzio per qualche secondo, quasi incerto se porle meno la domanda.

Poi prese un respiro profondo e si fece coraggio.

“Sei…sei la mia fidanzata?”

Questa volta il camion investì il povero cerbiatto.

“No, no…noi…siamo soltanto amici” si ritrovò lei a giustificarsi velocemente, e forzando un sorriso convincente sulle labbra.

“Ah”

Sembrava deluso.

“Eppure ti ho sentito dire che mi ami!”

Il camion aveva fatto retromarcia e aveva nuovamente messo sotto le ruote l’animale, per essere sicuro di averlo finito.

Buffy spalancò gli occhi, incapace di dire qualcosa.

“Co..cosa? Come…cioè…chi…” balbettò parole senza senso, mentre la vergogna le invadeva il volto.

“Poco fa, stavi parlando con qualcuno e ti ho sentito!” confessò.

La vergogna divenne imbarazzo e l’imbarazzo divenne rabbia.

Ancora.

Aveva realmente un problema di controllo.

“Hai origliato!” le urlò lei, lanciando lampi di ira dagli occhi verdi.

Lui ne ebbe quasi paura.

Reverenziale paura.

Come quella che si prova danti il vento o il mare.

“No…no…” cercò di giustificarsi lui, temendo che se non avesse scelto le parole giuste lei avrebbe potuto anche picchiarlo.

Possibile che avesse paura di una cosa piccola come lei?

Non sembrava pericolosa.

“Le apparenze ingannano!”

“Non è colpa mia. Eri tu che avevi un tono di voce alto. Oppure sono i muri che sono troppo sottili”

“Calmati. Calmati. Calmati” Si ripeté mentalmente, cercando di trattenere le proprie reazioni.

“Allora?” chiese ancora lui.

“Ma allora veramente vuole sfidare la morte?”

Quel pensiero improvvisamente le fece mettere tutto in discussione.

Ma che stava facendo?

Stava ricadendo nei soliti errori?

Possibile che quella grazia concessa, non le avesse insegnato nulla?

Lui aveva già sfidato la morte.

E non una volta.

E sempre per amore.

Meritava una risposta.

“E’complicato. Insomma…è…” cominciò lei, cercando le parole adatte.

“Io sono la cacciatrice. Tu eri un vampiro. Per anni abbiamo provato ad ucciderci. Poi ti sei innamorato di me. Io ti ho usato. Alla fine ti sei sacrificato per me. E solo allora io ho capito di amarti!”

“Troppo presto per questo tipo di domande?” intervenne lui, notando l’evidente disagio nei suoi occhi, che spersi girovagavano nella stanza, alla ricerca disperata di un appiglio emozionale.

“Si…decisamente!”sospirò di sollievo lei, e mentalmente lo ringraziò di aver capito, anche senza l’uso di parole.

“Decisamente indelicato. Che ne dici se ricominciamo tutto dall’inizio?” propose lui.

Lei gli sorrise, rendendosi conto solo in quell’istante che da quando era entrata, non si era neppure presentata.

Avevano chiacchierato come due sconosciuti.

Ma lo erano per davvero?

“Ciao! Sono Buffy Summers” gli disse, facendo un passo avanti e porgendogli la mano.

Lui gliela afferrò e la strinse.

In quei pochi secondi assorbì come una spugna ogni piccolo dettaglio della sua pelle.

Il calore, la morbidezza, le dimensioni del palmo e le fattezze delle dita.

“Piacere, Buffy! Io sono…sono…Spike?” chiese lui titubante, ricordando come lei lo aveva chiamato la mattina.

“E’ un soprannome”

“E che razza di nomignolo è?” domandò facendo una faccia quasi disgustata, che fece allargare il sorriso sulle labbra della ragazza.

“Il tuo nome è William!”spiegò con delicatezza, ricordando come avesse sempre amato il suo vero nome. Si chiese in che modo lui avrebbe preferito essere chiamato in quel momento.

L’espressione sul suo volto le diede la risposta.

“Non ti piace?”

“Più che altro adesso capisco perché mi facevo chiamare con un nome da cane!”

“E’da imbranato…da checca!” finì lui.

“ Ma no…è solo inglese!”

“Vorrà dire che gli inglesi sono checche”

Lei rise ancora.

“Che cosa?” chiese lui non capendo.

“Tu sei inglese!” gli disse, puntandogli un dito verso il naso, mentre la risata si smorzava in un sorriso.

“Ah!”

“Allora mi chiamo William e sono inglese!”

“Esatto!” confermò Buffy, mentre lo osservava immagazzinare quelle che dovevano essere le prime informazioni sul proprio conto.

“Che altro?”domandò dopo alcuni secondi.

“Cosa vuoi sapere?”

“Non saprei! Cominciamo dalla base. Giusto per conoscermi. Il mio cognome, quanti anni ho, quando e dove sono nato…cose così…”

Il panico si formò sul viso e nella mente di Buffy.

Nella fretta di rivederlo, non aveva minimamente pensato che lui avrebbe potuto farle delle domande legittime come quelle. Ed ora?

Che cosa avrebbe dovuto dirgli?

Cercò nella sua memoria, qualche informazione che le potesse tornare utile.

“Si, ma che pro?Se anche ricordassi quando è nato cosa cambierebbe? Che gli dico che è nato nel 1800 anno più, anno meno?”

Lui osservò la titubanza riflessa nel volto di lei e rimase perplesso.

Possibile che non sapesse quelle cose?

Per qualche strana ragione aveva dato per scontato che Buffy sapesse tutto di lui, che gli potesse dare quelle risposte che cercava. Ma evidentemente si era sbagliato.

Inoltre lei aveva anche negato di essere la sua ragazza. Ma allora chi era?

“Non lo sai?”chiese con un tono quasi innervosito.

Improvvisamente si sentiva destabilizzato.

“Noi, beh…non abbiamo mai parlato molto!” cercò di giustificarsi lei.

“E che razza di rapporto avevamo?”

Lei avvertì il suo nervosismo e si diede subito della stupida per non essersi preparata meglio a quell’incontro.

“Sai…era più fisico…” balbettò ancora lei, cercando un appiglio.

“Fisico?” ripeté lui, alzando il sopracciglio e lanciandole uno sguardo allusivo.

E l’imbarazzo tornò a farsi vedere.

“SI…no…cioè…ahahhaha” urlò, alzando le mani al cielo, esasperata da quella situazione assurda.

Lui rise ancora, trovandola estremamente buffa.

Lei si innervosì.

“Non è colpa mia se preferivi essere chiamato solo Spike e non hai mai voluto parlare del tuo passato”

“Ok…ok..calmati. Stavo scherzando. Ho capito che per ora il nostro passato è tabù. Parliamo di altro. Dov’è la mia famiglia?”

“Di male in peggio” pensò Buffy, avvicinandosi al suo letto.

Con un cenno gli chiese il permesso di sedersi accanto e lui si limitò ad acconsentire, avvertendo in quella improvvisa vicinanza sentore di cattive notizie.

“Buffy?” la chiamò, dopo alcuni secondi di silenzio.

Lei si era posizionata in modo tale che lui non potesse leggere le espressioni del suo viso.

Il che lo turbò.

“I tuoi genitori sono morti!” riuscì infine a confessare.

Ed un enorme masso le pesò sul cuore.

Lui non disse nulla.

Solo silenzio.

E riflessioni.

Vita e morte si intrecciavano ancora una volta.

O forse lo erano sempre state?

Una lacrima gli solcò il viso.

E non fu per i genitori.

Come si fa a piangere per qualcosa che non si ricorda?

Fu per una nuova consapevolezza.

Una consapevolezza che ora lo spaventava.

Davvero.

“Quindi non sono altro che un William qualsiasi, inglese di nascita e solo al mondo?” chiese in una domanda retorica.

“Ora comincio a sentirmi depresso!” disse e nella battuta non vi era traccia di ironia.

“No!” si affrettò lei.

“Tu non sei solo. Ci sono molte persone che ti vogliono bene e si preoccupano per te!” cercò di consolarlo, prendendogli la mano.

Quel gesto lo rincuorò. C’era qualcosa nello stringere il piccolo palmo nel suo che andava al di là della sua stessa comprensione.

Come se in qualche modo, avesse importanza.

Come se significasse qualcosa di più.

Lasciò che quella dolce sensazione gli placasse l’animo, mentre le dita di lei sfioravano le sue.

“Tipo?” chiese senza nessuna curiosità.

“Ma imparerò mai a riflettere prima di parlare?” si disse, mentre pensava a come rispondergli.

“Beh…prima di tutto c’è Angel!” esordì, dopo alcuni secondi.

“Angel?”

“E’ un soprannome!”

“Anche questo? Ma cos’è qui odiano i propri nomi?”

Ancora una volte represse il sorriso, a quel commento.

In tutta quella situazione c’era qualcosa di terribilmente assurdo e surreale.

Tragicomico. Lacrime e risate sembravano inseguirsi in quello strano pomeriggio.

Ma, poi, non era questa la vera essenza della vita?

“Si chiama Liam! E’…è una specie di…di…”

“Sire…la parola è sire”

“Cugino. Un cugino di secondo grado o qualcosa del genere” riuscì finalmente ad inventare.

“Vi conoscete praticamente da sempre. Avete avuto un rapporto fatto di alti e bassi…ma in fin dei conti vi siete voluti bene” continuò, pensando che se pur nessuno dei due lo avrebbe mai ammesso, lei era convinta che fosse la verità.

E non era solo un legame sire-childe.

Era qualcosa di più profondo e antico.

Lo aveva visto negli occhi di Angel in quei cinquantaquattro giorni di preoccupazione.

Lo aveva avvertito, per il passato, nelle parole di Spike, tra la gelosia e l’odio.

Lo aveva capito durante l’ultima battaglia.

“Nell’ultimo anno vi siete molto avvicinati e lui ti ha ospitato qui…”

“Ecco una altra bella domanda” la interruppe il ragazzo.

“Dove siamo? Cos’è questo posto? Non mi sembra un ospedale..anche se è pieno di medici”

“Siamo a Los Angeles. Questa è la sede della Angel’s investigation.”

“Angel è un investigatore? E che razza di investigatore è, per potersi permettere un posto del genere? Io ho sempre immaginato un investigatore come uno spiantato che viveva in un buco squallido”

“I suoi clienti sono un po’ particolari. Sono disposti a spendere un bel po’ per i suoi servigi”

“In fin dei conti non è una bugia”

“Quindi, oltre ad essere un William qualsiasi, ho un cugino straricco con un soprannome da checca a cui ho fatto da scroccone per un anno…giusto?”

“La tua capacità riassuntiva è impressionante!” commentò Buffy, allegramente, dandogli una leggera spallata.

“Pensi che lui sappia il mio cognome?” chiese timido.

E lei sentì il suo disagio.

E lo capì.

Spike aveva bisogno di un identità.

Di qualcosa che lo distinguesse dall’anonimità di un nome.

Che in qualche modo gli dicesse chi era.

Senza un passato, i propri dati sembravo diventare indispensabili.

“Si…lui lo sa.” Lo rassicurò, sperando che fosse vero. E se non lo fosse stato, avrebbe messo subito in moto il signor Giles e tutta la sacra organizzazione degli osservatori per trovare le risposte di cui lui aveva bisogno.

Lei era lì per aiutarlo.

E lo avrebbe fatto.

“E poi c’è Dawn” continuò lei, dopo alcuni secondi.

“Un altro soprannome?”

“E’ mia sorella” gli spiegò.

“ Lei ti adora. Ti ha sempre considerato una sorta di fratello maggiore. Credo che riconoscesse questo ruolo più in te che in me. Non ti nego che per un periodo ne sono stata anche gelosa!” continuò, persa nei suoi racconti.

Lui la osservò parlare, studiando ogni piccolo movimento del suo viso, stranamente affascinato da ogni sua espressione. Aveva la netta sensazione che gli sarebbe bastato decriptare i segnali della sua mimica per capire fino in fondo cosa le passasse della mente. Per capire cosa immaginava quando storceva il naso o lo arricciava. Cosa la turbava quando assottigliava le labbra o cosa la divertisse, quando le distendeva in un sorriso rassicurante. Cosa stesse realmente osservando quando spalancava le palpebre o le restringeva in due fessure verdi. Inoltre percepiva una sorta di instabilità e di complessità in quel suo passare dall’allegria alla preoccupazione, dal pianto alla rabbia, con la facilità di un bambino, che in qualche strano modo lo attirava e gli faceva desiderare di arrivare nei profondi recessi del suo animo e del cuore.

Lei gli raccontò una serie di episodi e di divertenti vicende con protagonisti lui e la piccola Summers, che a stento ascoltò, troppo preso nel memorizzare il suono della sua risata.

“Angel cugino ricco e Dawn sorella che non ho mai avuto…o almeno credo di non aver avuto. Memorizzato tutto!” Commentò infine Spike.

Buffy sorrise soddisfatta.

Sembrava che in qualche modo fosse riuscita a tirarlo su e a distoglierlo dai pensieri tristi che lo avevano colto poco fa.

“E poi ci sei tu!” disse lui.

E anche questa era una semplice constatazione.

“Si…ci sono io!” si limitò ad asserire, forse non ancora del tutto pronta a parlare di se stessa.

Per quanto la curiosità lo stesse attanagliando, sentiva che lei non era ancora disposta ad approfondire certi argomenti e, se pur a malincuore, cambiò, ancora una volta, il discorso.

“Se mi dici che piaccio anche a tua madre, comincerò a pensare di avere un particolare ascendente sulle donne della tua famiglia” scherzò lui.

Improvvisamente lei si rattristì.

“Si…a mia madre piacevi molto. E a te piaceva lei.”

A lui non sfuggì l’uso del passato.

“E’ stata la prima a vedere al di là della facciata da cattivo ragazzo”continuò con lo sguardo rivolto verso la porta.

“Cattivo?”

Buffy solo allora si rese conto di cosa avesse realmente detto e di quali parole aveva usato.

Improvvisamente ne capì la realtà.

“Ti piaceva presentarti così. Sai spolverino di pelle, capelli ossigenati, borchie, anfibi…”

“Ewww!” storse lui il naso.

“Non solo mi facevo chiamare con un nome da cane, ma ero un nostalgico degli anni ottanta?”

Buffy non poté non ridere.

In fin dei conti era quello che aveva sempre pensato.

Non poteva negare che quell’aria da big bad gli stesse tremendamente bene e lo facesse sembrare terribilmente sexy, però il suo gusto era demodè e la ragazzina superficiale che urlava in lei, più di una volta avrebbe voluto stravolgergli il look solo per vederlo entrare nel ventunesimo secolo.

“Dov’è ora tua madre?” gli chiese con molta titubanza lui.

“E’ morta!” disse semplicemente lei.

Ed il suo cuore per la prima volta non sobbalzò.

“Mi dispiace, luv.”

Lei sorrise impercettibilmente al suono di quel nomignolo che sapeva di passato.

“Non preoccuparti. Non fa più male”

E seppe di aver detto la verità.

Fu lui, allora, a prenderle la mano.

Buffy si lasciò cullare da quella calda sensazione e dal conforto che quel gesto ogni volta le trasmetteva.

“Abbiamo sofferto entrambi…vero?” chiese lui con un piccolo sorriso amaro disegnato sulle labbra.

“Chi è che non lo fa?” domandò retoricamente a sua volta lei.

Lui annuì.

La sveglia suonò.

Sobbalzarono all’unisono.

Si guardarono.

E un'altra risata sgorgò naturale tra loro.

“Ti lascio riposare ora!” disse dopo poco lei.

Si alzò e si incamminò verso la porta.

“Ci vediamo domani?” gli chiese, aspettando un segnale.

Spike annuì.

Buffy sorrise.

Quello era un inizio.

Un lento nuovo inizio.

Si girò e mise la mano sul pomello di ottone.

Indugiò, sperando che lui la chiamasse.

Silenzio.

Prese un profondo respiro e aprì la porta.

“Buffy?”

Il cuore le martellò nella testa.

Si girò con calma, per non mostrare la sua agitazione.

Cosa si aspettasse, non lo sapeva, eppure non riusciva a trattenere le proprie emozioni.

“Mi terresti?” chiese lui, improvvisamente timido.

Lei spalancò gli occhi, mentre il ricordo di una frase simile le invadeva la memoria.

“Rimarresti semplicemente abbracciata qui con me?” domandò ancora lui, non avendo ricevuto risposta. Non sapeva cosa lo avesse spinto a fare quella richiesta, ma sentiva che ne aveva bisogno. Sentiva che, forse, entrambi ne avevano bisogno.

Buffy fece un passo avanti.

Possibile che tutto ciò fosse solo frutto di quell’imprinting di cui aveva parlato la dottoressa?

Con un sorriso si avvicinò al letto.

Possibile che quella sintonia tra loro fosse dovuta solo ad un effetto prettamente scientifico?

Lei si accoccolò sul suo petto, come aveva fatto la notte precedente.

Possibile che quella sensazione di familiarità fosse dovuta solo ad un caso?

No.

Lei era convinta di no.

Chiuse gli occhi e si sentì nuovamente a casa.

Lui la osservò avvicinarsi, con il cuore martellante e mille domande che gli ronzavano nella testa.

Perché sentiva quel legame tra loro?

Lo percepiva solo lui?

Cosa si nascondeva nel loro passato.

Le fece spazio e la accolse tra le sue braccia.

Quando sentì il suo corpo sul suo, ogni dubbio svanì.

La mente divenne vuota.

Bianca.

Ancora.

Chiuse gli occhi e sentì di aver ritrovato la via di casa.

 

 

 

 

 

 

 

 

Cap. 6 Dov’è il mio cucciolo? Il racconto delle stelle. ( prima parte)

 

La prima volta, aveva urlato. Un lungo latrato che aveva squarciato la notte e fatto tremare le terribili creature che nell’oscurità del mondo si aggiravano.

Aveva sofferto. Molto.

Ma non aveva pianto.

Troppo consapevoli i suoi occhi per farlo. Non si piange per qualcosa che già si sa.

E lei sapeva che quello sarebbe stato solo l’inizio. Presto tutto sarebbe cambiato. Le regole sarebbe mutate nuovamente, secondo un disegno già scritto e voluto. E lei, pedina suo malgrado, non poteva far altro che rimanere in attesa dello spettacolo, cosciente che il mondo, poi, non sarebbe stato più lo stesso. Gli spettatori osservano, ascoltano, al massimo dormono, ma non possono alzarsi dal posto loro assegnato, salire sul palco e modificare la trama. Non è previsto.

La seconda volta fu diverso. Stava cenando quando il dolore la colpì.

Acuto.

Lancinante.

Inaspettato.

Inaspettato per lei, che mai si era sorpresa di nulla. Sopraffatta, si era accasciata a terra, vomitando il lauto pasto e ripetendo come una vecchia litania un'unica frase, tra gli sguardi sconcertati degli altri commensali.

“E’ troppo presto. Troppo presto, troppo presto”

O almeno lo era per lei.

Preoccupati, i suoi compagni si erano avvicinati per capire cosa stesse accadendo.

Sciocchi.

Troppo fallibili le loro menti per riuscire solo a intravedere la verità.

Forse l’avevano chiamata, ma lei non aveva percepito nulla. Non riusciva più a sentire le voci.

E si era sentita sola.

Sola nel dolore.

Sola nel profondo.

Sola nell’anima.

“Buffa definizione”.

Era rimasta chiusa per giorni nell’appartamento affittato, rifiutando cibo e regali. In posizione fetale, se ne stava sul letto, con la mano sulla pancia, soffrendo per quel figlio non generato.

Quel figlio che le era stato strappato via da un destino non suo e che lei non aveva scelto.

Ma lei non aveva avuto mai scelta.

Lo aveva capito in quella notte lontana in cui, nel buio di un convento aveva incrociato due occhi neri come la morte. Sapeva che sarebbe stata generata per generare a sua volta. Per contribuire alla distruzione del suo mondo. Aveva tremato, ma non si era sottratta.

Al destino non si sfugge.

“E’ troppo presto, troppo presto, troppo presto”

E, forse, lo era anche per lui.

Si sentiva debole.

Lei, che mai lo era stata.

Malata forse. In mille modi diversi e di molteplici malattie. Ma mai debole.

Sarebbe morta di inedia.

No. Sapeva di no.

Era solo questione di tempo. Il tempo che il frutto maturasse e il contadino lo cogliesse.

Non lo avrebbe strappato con un colpo netto, ma, con una lama affilata, avrebbe rescisso, fibra dopo fibra, ogni singolo legame con la pianta. A lei non spettava altro che attendere e sopportare.

Sopportare il battito.

Il respiro.

Il calore.

Il calore che la stava bruciando.

Il calore che gli stava restituendo la vita.

La vita che lei gli aveva sottratto.

Quella vita che lei stessa gli aveva donato

Quella vita che lei mai gli aveva dato.

Ed aveva pianto.

Forse per giorni.

Forse per settimane.

Non sapeva quanto.

Nessun calendario a ricordarglielo.

Poi, quella mattina tutto era finito. Le voci era tornate e le avevano raccontato la novità.

Il processo era stato completato, la giuria aveva scagionato dalle colpe l’imputato e si era ritirata. Non rimaneva che festeggiare. Ma per cosa?

Troppo lungo il percorso per poterlo ricordare.

Aveva sorriso. Non di felicità. Quella, a esseri come lei, non spettava.

Un sorriso amaro.

Forse nostalgico.

Sicuramente consapevole.

Come quello che, nella penombra della stanza bianca, adornava, in quel momento, il suo viso.

 

Stava sognando. Prima.

Colori e luci giocavano tra le iridi dei suoi occhi, stimolando con nuovi ricordi una memoria tutta da ricostruire. Immagini candide con sprazzi di verde e oro, gli riempivano i meandri vuoti del cervello, cullandolo in una serenità inconsapevole. Perso, in uno luogo sconosciuto, se ne stava steso, incurante, ad osservare tra le dita di una mano, il giallo del sole che, con i suoi lunghi raggi gli scaldava il corpo, senza alcun timore.

Era immerso nella luce.

E ne era felice.

Il calore lo stava proteggendo.

Lei lo stava proteggendo.

I suoi sorrisi lo stavano proteggendo.

I suoi sorrisi e l’eco delle loro risate.

Il battito sincronico delle loro cuori.

Poi, all’improvviso, aveva percepito una strana sensazione.

Un formicolio alla base del collo.

Si era messo a sedere cercando di capire cosa stesse avvenendo.

La mano si era attardata tra la rugiada del prato.

D’un tratto una voce.

Una voce lontana, senza luogo e senza tempo.

Una voce che non aveva fonte e che sembrava venire direttamente dal suo cervello.

Una voce che stava declamando parole misteriose in una lingua che non riusciva a comprendere.

Una voce che lo stava chiamando.

E poi il nulla.

In un attimo il giallo, il verde e l’oro erano spariti.

Il prato era sparito.

Il sole era sparito.

Il calore.

Le risate.

La tranquillità.

Era scattato in piedi, come un gatto, invaso dall’inquietudine e dal bisogno di capire.

Come un felino, aveva dilatato le pupille per scrutare nel buio e cercare una risposta.

Ma il buio è solo buio.

Non da risposte.

Pone solo domande.

A noi, la capacità di rispondere.

Stava sognando.

Prima.

Ma ora? Non era sicuro.

Con lo sguardo fisso davanti a se, le mani strette a pugno a coprirgli il corpo, le orecchie aguzzate per percepire anche il minimo dei rumori, non era più sicuro di nulla.

No, non era esatto.

Era sicuro che Buffy stesse dormendo.

Forse sognando.

Di lui?

Girò la testa di scatto verso destra, guidato da un istinto sconosciuto e puntando lo sguardo nell’angolo più lontano della stanza. Restrinse gli occhi per cercare di cogliere un particolare.

Ancora nulla.

Solo silenzio.

E il respiro tranquillo della ragazza.

E poi li percepì.

Occhi.

Celati nelle ombre della notte, lo stavano osservando.

Scrutando.

Forse giudicando.

Ebbe paura.

“Chi sei?” gridò, cercando di imprimere nella voce più sicurezza di quanta ne avesse.

 

L’ombra la stava proteggendo dal sole accecante della spiaggia di Santa Monica.

La sabbia era rovente e il calore asfissiante. Aveva l’impressione di poter bruciare da un momento all’altro. Aveva sete.

Ed aveva bisogno della notte.

Il suo corpo ne aveva bisogno. Conosceva solo quella e a quella era abituato.

Eppure non riusciva a muoversi. L’immagine davanti a lei l’aveva incatenata.

Le aveva incatenato il cuore e la mente.

Che fosse un sortilegio? Non ci poteva essere altra spiegazione.

Come poteva altrimenti Spike starsene così tranquillo sotto il sole torrido?

Perché non inceneriva?

E perché era così assolutamente meraviglioso?

I capelli ossigenati risplendevano di luce, sembrando ancora più chiari di quanto non fossero; gli occhi blu avevano assunto una sfumatura di colore simile al cielo sereno, che, immobile, li sovrastava. I lineamenti del suo viso erano sottolineati da giochi chiaroscurali che rendevano i suoi zigomi più decisi e marcati e le sue labbra più carnose e attraenti.

Era bello.

Spike al sole era bello.

Inquietante, forse, chiuso nel suo spolverino nero, ma straordinariamente bello.

E lei avrebbe dovuto saperlo.

Lo aveva già visto, una volta, alla luce del sole, eppure, in quella occasione, non ci aveva fatto caso. Come aveva fatto a non rendersene conto?

Ah, già, all’epoca, lui voleva ucciderla.

Ma quanto tempo era passato?

Sembrava una vita!

La sua.

E quella di lui.

Le sorrise.

Improvvisamente l’immagine divenne troppo abbagliante per i suoi poveri occhi.

Alzò un braccio per proteggerli. Quello che vide la stupì.

La sua mano era piccola. Molto piccola.

Troppo.

Fu in quel momento che capì.

Lei era tornata bambina.

Stava sognando?

I suoi capelli biondi erano legati in due trecce, chiuse da elastici con la faccina di Hello Kitty.

Ricordò. Quelli glieli aveva regalati la madre.

Doveva aver avuto sei anni, non di più. Era una domenica e stavano passeggiando sul lungo mare mano per la mano. Il padre, poco più avanti, aveva in braccio una Dawn appena nata. Accanto al chiosco di gelati al quale si fermavano sempre, c’era un venditore ambulante. L’aveva chiamata.

Le aveva mostrato gli elastici.

“Gattini per una gattina come te!”

Lei aveva sorriso.

E poi aveva convinto la madre a prenderglieli, sfoderando il suo solito broncio.

Joyce aveva ceduto e l’aveva accontentata.

Era stata una giornata felice quella.

Una lacrima le rigò il piccolo volto.

“Non piangere Buffy, guarda le margherite” la richiamò Spike, dalla sua posizione, indicandole qualcosa. Lo osservò senza capire.

Poi abbassò lo sguardo, seguendo il suo dito.

Stava indossando il costume giallo con le margherite bianche, che, da bambina le aveva sempre trasmesso allegria. La tristezza d’incanto svanì.

“Come è strana la vita” pensò.

“A volte basta un ricordo felice, per cancellare le nuvole dell’animo”.

Al di sopra del piccolo bikini portava una maglietta troppo grande e lunga per appartenerle.

La osservò meglio ed una nuova memoria si fece largo nel suo cervello. Era il top con il grande cuore rosso in petto, che, all’età di tredici anni, aveva comprato insieme a Tiffany e Amber, in occasione del suo primo appuntamento. Con chi sarebbe dovuta uscire non riusciva a ricordarlo in quel momento, eppure rammentava le risate e la spensieratezza di quel pomeriggio.

“Vieni, Buffy, non aver paura. Vieni a giocare sotto il sole con me”. La chiamò Spike, porgendole una mano per invitarla a raggiungerlo. Lei, con lo sguardo fisso su suoi occhi profondi e limpidi, fece un passo in avanti fiduciosa. Lasciando la liscia superficie della pavimentazione bianca, mise un piede sulla sabbia. Il dolore fu immediato e con un balzo indietreggiò tornando nel sicuro della sua ombra.

“Su, Buffy.” La incitò ancora lui.

“C’è stato un tempo in cui vivevi al sole, in cui eri una bambina felice, vuoi essere felice?” le chiese, continuando a sorriderle raggiante.

La risposta era chiara nel suo cuore, eppure quella sabbia cocente le sembrò un ostacolo troppo grande da poter superare. Si sarebbe sicuramente bruciata.

“Se avessi almeno un paio di infradito”. Pensò.

“Se non rischi non potrai mai avere la luce”. Le disse, allargando le braccia.

Alzò la testa verso il cielo.

Sul suo viso si disegnò un espressione consapevole.

Lei voleva la luce.

Lei voleva il sole.

A tutti i costi.

Lo aveva già deciso.

Guardò Spike.

Lui era il suo obbiettivo.

Prese un profondo respiro e, ignorando il bruciore ai piedi, corse nella sua direzione, gettandosi tra le sue braccia. Lui la prese e la fece volteggiare in aria.

“E’ stato facile. Hai visto?” le disse, baciandole teneramente una guancia.

“Non c’è nulla da temere. E’ solo il sole” continuò indicandogli la palla nel cielo sereno di Los Angeles. Buffy seguì con lo sguardo il suo dito ed osservò la stella.

Quella era la fonte della sua vita. Della loro vita.

Nei suoi occhi si formarono cerchi di diversi colori.

Spike le sfiorò la maglietta soffermandosi sulla stampa al centro.

“E’ troppo grande” commentò.

“Ma si riempirà”

E Buffy non capì se si stesse riferendo al top al suo cuore.

“Questo è solo l’inizio!”

Un urlo improvviso la riportò alla realtà.

La spiaggia ed il chiosco svanirono di colpo, come una bolla di sapone.

Il buio della camera la sovrastò, mentre la mente ricostruiva gli ultimi avvenimenti, componendo i pezzi del puzzle. Istintivamente, allungò una mano per assicurarsi che William stesse bene.

Il palmo vagò tra le lenzuola.

Aprì gli occhi di scatto allarmata.

Il letto era vuoto e lui non era accanto a lei.

Seguendo un abitudine di cinquantaquattro giorni, alzò lo sguardo verso il calendario, che ormai non scandiva più nessuna attesa, e lo vide. Si tranquillizzò.

Ma la sensazione durò poco. Qualcosa nella sua espressione e nella postura l’agitò.

“Braccia all’altezza del petto, gambe divaricate, leggermente piegate. E’ in posizione di difesa.”

Si alzò in mezzo al letto, per cercare di capire cosa stesse accedendo.

Solo allora lo sentì.

Il formicolio.

Non uno qualunque.

Quel formicolio.

Quello che lei aveva associato solo a pochi vampiri.

Al maestro.

Ad Angelus.

A Spike.

Con un agile mossa si mise in piedi e girò, sicura, la testa verso destra,

“Drusilla”.

 

           

Cap. 6 Dov’è il mio cucciolo? Il racconto delle stelle. ( seconda parte)

 

Una nuvola volò via, sospinta dal vento dell’ovest.

La luce lunare penetrò nel arco della finestra, illuminando uno spicchio di stanza.

Un paio di occhi violetti brillarono nel buio ed una filastrocca risuonò tra le pareti.

“Le stelle hanno parlato, il cane si è svegliato.

Non morde senza denti, i ricordi son tra i venti.

Ma il mondo non aspetta, le stelle van di fretta.

La storia è iniziata, la fine è già annunciata!”

“Drusilla!” urlò di nuovo la cacciatrice, imprimendo nella voce l’autorità dell’ordine.

La vampira fece un passo avanti, obbediente, e si mostrò.

Si mostrò con il suo viso di porcellana ed i capelli neri come la pece.

Mostrò il suo lungo vestito rosso e le unghie intonate.

Mostrò la perfezione immortale e la bellezza demoniaca.

Buffy ebbe un fremito.

E anche William.

“Hai fretta, gattina?” chiese la donna, inclinando la testa e mimando una voce infantile.

Poi, proprio come una bambina, sorrise e, facendo una rotazione su se stessa, cominciò a danzare per la stanza, canticchiando nuovamente la sua nenia.

“Le stelle hanno parlato, il cane si è svegliato.

Non morde senza den…”.

“Smettila di fare la pazza e vattene!” le intimò la ragazza, con tono sicuro. Ferma accanto al letto, Buffy non sembrava per nulla impressionata dagli strambi atteggiamenti della donna e dalle sue parole sibilline. Incrociò le braccia e lanciò un sguardo annoiato, mostrandosi calma e quasi indifferente. O almeno così sperò di apparire.

In realtà dentro stava ribollendo.

Ribollendo di rabbia, tensione e preoccupazione.

Rabbia per quel sogno sereno interrotto bruscamente.

Tensione per la violazione immotivata nella loro stanza bianca.

E soprattutto preoccupazione per l’uomo alle sue spalle che, stordito, osservava la scena senza capire cose stesse realmente accadendo. Con i muscoli della mascella serrati e le mani chiuse a pugno, nascoste sotto i gomiti, cercò di calmare il respiro e di pensare razionalmente. Aveva bisogno di trovare una soluzione il più velocemente possibile. Ed un arma.

Tuttavia sperò che non ce ne fosse bisogno.

Combattere era l’ultimo dei suoi desideri in quel momento.

“Ma se sono appena arriva!” piagnucolò Drusilla, mettendo un finto broncio.

“Non mi va di giocare” disse la ragazza, roteando gli occhi ed assumendo un espressione esasperata. La messinscena era, in quel momento, la sua unica possibilità per guadagnare tempo. Maggiore corda le dava e maggiori erano le chance di escogitare un piano e di tenere lontano da lei William. Drusilla la guardò negli occhi e le sorrise.

Un brivido di paura attraversò il corpo della cacciatrice, facendolo tremare impercettibilmente.

Un brivido generato da quel semplice sorriso.

Quel sorriso che nulla aveva di semplice.

Era inquietante, allusivo.

Cattivo anche.

Era lucido.

Follemente lucido.

“Non illuderti, non sono venuta per te!” le disse la donna scandendo le parole una dopo l’altra. Poi girò lo sguardo sull’uomo che, istintivamente fece un passo indietro colpendo la parete alle sue spalle, e, con gli occhi violetti fissi, mosse un passo nella sua direzione.

“Non provare ad avvicinarti a lui!” la minacciò Buffy, parandosi davanti e bloccando ogni movimento ulteriore. In un attimo, ogni capacità di ragionamento e di controllo le venne meno. Incurante di qualsiasi conseguenze, lasciò cadere a terra la maschera di calma che si era forzata ad indossare, svelando il viso contratto da rughe di rabbia e pieghe di violenza. Come una leonessa con i suoi cuccioli, si ritrovò a digrignare i denti e a ringhiare, guidata solo da quell’istinto primordiale che, di colpo, si era risvegliato in lei.

L’istinto di protezione.

Proteggere William.

Il suo William.

Ma da cosa?

Un improvvisa consapevolezza la riportò alla ragione.

In quel momento, c’era troppo in gioco per permettere alla sua ira di guidarla.

La sua missione era fin troppo delicata.

Lei doveva proteggere William.

Non solo da Drusilla.

Lei lo doveva proteggere dalla verità, dal suo passato e anche da se stessa.

Lui aveva diritto ad una vita senza vampiri e cacciatrici.

Abbassò i pugni sconfitta dal suo stesso pensiero.

“La gattina è senza artigli e non fa paura a nessuno” cantilenò la vampira, ritornando alla sua solita espressione folle. Buffy serrò le mani, cercando di calmarsi. Aveva un gran desiderio di strapparle, dal viso, quel sorriso soddisfatto, a furia di pugni, e di darle una di quelle lezioni che, mai, nella sua lunga non vita, avrebbe dimenticato. Ma non poteva muoversi. Non davanti a William.

E questo Drusilla lo sapeva e se ne approfittava.

“E’ l’ultimo avvertimento. Vai via, adesso, prima che mi arrabbi!” le disse cadenzando le parole e puntando gli occhi verdi carichi di nervosismo e frustrazione in quelli violetti della vampira.

“Hai visto il mio cucciolo?”

Buffy strabuzzò le palpebre.

William anche.

La vampira, dimentica completamente della presenza degli altri due, cominciò a volteggiare nuovamente per la stanza, danzando al ritmo di una musica sconosciuta e ripetendo come una nuova litania quella domanda, senza apparente senso, agli oggetti inanimati della stanza.

“Dov’è il mio cucciolo?” chiese al divano blu, carezzando con delicatezza il rivestimento.

“Avete visto il cucciolo cattivo?” ripetè alle pareti bianche, ponendo poi l’orecchio su di una di esse in attesa di una risposta.

“E tu, che sola, ormai inutile te ne stai, lo hai visto?” domandò alla sedia, inginocchiandosi e piegando la testa sulla superficie dura del legno.

Buffy portò una mano alla fronte.

Emise un sospiro di rassegnazione.

Era completamente pazza e non c’erano speranze.

Tenendo sempre sotto controllo i movimenti della vampira, girò la testa per guardare William, che incapace di dire o di fare nulla rimaneva nel suo angolo, completamente interdetto.

Gli occhi si incrociarono per un attimo.

Una domanda muta riecheggiò nella stanza.

Buffy scosse la testa ed alzò le spalle.

Cosa stesse facendo Drusilla, proprio non lo capiva.

E men che meno riusciva a capire il perché della sua presenza in quella stanza. Se avesse almeno intuito le sue intenzioni forse avrebbe potuto anticiparla.

Ma non si può anticipare ciò che è imprevedibile.

E la vampira lo era, almeno per lei.

Altro sospiro di rassegnazione.

Mentre il ballo sconclusionato della donna continuava, la cacciatrice osservò prima la porta bianca e poi la finestra aperta, valutando velocemente la possibilità di far uscire William dalla stanza.

Se lui non ci fosse stato, allora si che avrebbe potuto danzare anche lei.

Un sorriso di anticipazione si colorò sulle labbra.

Lo sguardo si attardò sulla porta.

“E tu, che mi guardi senza vedermi, conosci il mio cucciolo?”

Buffy riportò l’attenzione sulla donna, curiosa di scoprire a cosa avesse fatto l’ennesima domanda.

Sbiancò.

Drusilla, era vicina a William.

Troppo vicina.

Maledettamente vicina.

La sua mente andò in tilt.

La vampira alzò una mano per accarezzare il petto dell’uomo che, atterrito, la fissava a palpebre spalancate. Il cuore accelerò.

E anche quello di Buffy.

“Come sei rumoroso!” constatò tristemente la donna, mentre le lunghe dita danzavano sul cuore di lui, disegnando piccoli cerchi invisibili.

“Ma can che abbaia non morde, giusto?” chiese in una domanda retorica, mentre una lacrima le rigava il volto. La mano risalì fino al collo.

“Cosa ti hanno fatto?”

Le unghie rigarono la pelle.

“Cosa ci hanno fatto?”

La cacciatrice esplose. E ogni pensiero razionale fu sommerso da un impulso più antico e forte di lei. Con un balzo, fu addosso alla vampira. L’afferrò per un braccio e la scaraventò dall’altra parte della stanza come se fosse una piuma. Diede un calcio alla sedia di legno, distruggendola in mille pezzi e afferrò un piolo, usandolo come paletto. In posizione di difesa, con le gambe divaricate, leggermente piegate e le braccia all’altezza del petto, Buffy era pronta per danzare.

William sobbalzò.

“Ma cosa diavolo…”

E non riuscì a terminare la frase.

Drusilla si era rialzata.

E sorrideva.

Malignamente.

Con il volto increspato da rughe spaventose.

Denti affilati.

Occhi dorati.

“Oh mio dio!” urlò.

Lei rise.

“Il cane ha paura!” disse mentre la risata riecheggiava nel vuoto della stanza.

“Hai visto cosa hai combinato? Hai spaventato il cucciolo” continuò, osservando la ragazza.

“Cattiva!”

Altra risata.

“Su non piangere, adesso la mammina fa andare via la cacciatrice brutta” cinguettò con tono mieloso, rivolta verso il nulla, cullando con le braccia un neonato immaginario.

Buffy lanciò uno sguardo a William.

Era spaventato.

Confuso.

Mai lo aveva visto così.

Mai lo aveva immaginato così.

Decise che quel teatro doveva finire.

In quel momento.

“Adesso basta! O te ne vai o ti impaletto!” la minacciò la cacciatrice, alzando l’arma.

“No! Non lo farai” le rispose decisa Drusilla tornando improvvisamente seria.

“Ed io non me ne andrò. Non prima di fare quello per cui sono venuta” continuò.

“Non ti permetterò di fargli del male” contrattaccò la ragazza, senza abbassare il paletto.

“Non sono venuta per quello!”

“E allora dimmi per cosa sei venuta e facciamola finita!”

Il nervosismo di Buffy era alle stelle. La mano con il paletto tremava leggermente.

Non era così che si era immaginata che le cose dovessero andare.

Non era così che William doveva venire a sapere del proprio passato.

Non era così che doveva venire a conoscenza del suo passato.

La frustrazione si fuse con l’improvviso silenzio che dominava la stanza.

“Allora?” incitò agitata.

“Tu lo sai!” le rispose, dopo alcuni secondi la vampira, ritornando, con un leggero movimento della testa, alle sue fattezze.

“Tu lo sai!” ribadì.

Un paio di occhi violetti osservarono in profondità un paio di occhi verdi.

E fu allora che avvenne.

Lo scambio.

Il dialogo muto

La comprensione.

Buffy vide Drusilla e Drusilla vide Buffy.

E fu in quello sguardo brillante di follia che la ragazza capì.

Capì che un umanità, strappata secoli prima nel buio di un convento, può continuare a piangere e soffrire. Può continuare a sperare nonostante non conosca speranza. Può continuare a sentire il cuore battere nonostante non batti più. Buffy capì, osservando tra le lacrime trattenute dalle folte ciglia, ed il sorriso consapevolmente amaro, lo scopo di quella visita.

Drusilla non era venuta per far del male a William

Lei non era lì per lui.

Lei era venuta per un passato che mai sarebbe tornato indietro.

Per accertarsi di quello che la sua mente preveggente aveva già saputo.

Per dire addio all’amore della sua non vita.

Perché anche i vampiri possono amare.

“We can love quite well... if not wisely”

E fu in quello sguardo fieramente ostinato che la vampira vide.

Vide Buffy Summers e la sua luce.

Vide Buffy Summers e la sua oscurità.

Vide entrambe le componenti fondersi e convivere in quel destino obbligato.

Le vide diventare sostanza del suo stesso essere.

Vide la lotta della cacciatrice e la lunga strada della ragazza.

Vide le risate.

Vide la gioia.

E le lacrime.

Tante lacrime.

Lacrime nel sangue.

E per il sangue.

Vide la vita.

Vide la morte.

E per la prima volta, nel profondo di quegli occhi verdi, non le sembrò poi una prospettiva tanto malvagia. Sorrise consapevole.

Consapevole che lei fosse unica.

Buffy non disse nulla. Non c’era nulla da dire. Si fece, semplicemente, da parte, stupendo se stessa e la donna che con un sorriso grato la oltrepassò. Tra loro solo un patto silenzioso.

William osservò la scena senza capire.

Come del resto aveva fatto per tutto il tempo.

Nella sua mente solo emozioni.

Confusione.

Stordimento.

Panico.

Paura.

Ancora confusione.

E domande. Tante domande. Come sempre.

Che stesse sognando?

Come spiegare se no quell’essere dalla fattezze di donna che donna non era?

Come spiegare l’atteggiamento di Buffy e la sua forza?

E cosa era una cacciatrice?

Alzò lo sguardo e vide la vampira avvicinarsi.

Vide quegli occhi violetti penetrare nei propri.

“Sii in me!” lei disse. E lui ancora non capì.

Ma questa volta sentì.

Sentì la mente svuotarsi. Le proprie emozioni svanire.

Un senso di torpore si impadronì di lui. Poi, come dal nulla, sentimenti non suoi si materializzarono nel suo cuore, infettando ogni cellula del suo stesso sangue. Il battito accelerò.

Sentì l’emozione commossa nella profondità di quello sguardo violetto che lo osservava teneramente. Provò il dolore celato dietro il sorriso materno che la donna gli stava rivolgendo.

Percepì l’amore compresso nella sua mano tremante.

“Gli assomigli così tanto, eppure non sei più lui!”

Avvertì l’amarezza nella voce, rotta da una lacrima non versata.

La passione tra le dita sfioranti.

Il silenzio del cuore.

Il freddo del corpo.

Tremò.

“Non aver paura, piccolo mio!” gli disse lei.

E lui si calmò.

Senza saperne il motivo.

Era sincera. Lui non doveva temerla. Non lo aveva mai fatto.

Ne era consapevole.

“Andrà tutto bene. Te lo prometto!”

Sentì conforto.

Un conforto antico.

Freddo.

Ineluttabile.

“Me lo hanno detto le stelle. Questo è solo l’inizio!”

Una domanda gli si formò nella mente, ma la voce fu incapace di pronunciarla.

Sentì Buffy sussultare alle spalle della donna.

“Addio figlio mio!”

Lei gli diede un bacio su una guancia.

E una carezza.

“Addio, amore mio!”

Gli prese il viso con le mani e lo baciò.

Sulle labbra.

Dolcemente.

Amaramente.

A lungo.

Una lacrima ebbe la meglio.

E non seppe se era sua o di lei.

E poi nulla.

Riaprì gli occhi di scatto, senza sapere neanche quando li avesse chiusi.

La donna era sparita. Improvvisamente, come era apparsa.

Una folata di vento gli procurò un brivido sulla pelle.

Il senso di torpore venne meno.

Le domande tornarono.

Ed i dubbi.

Alzò lo sguardo ed incrociò quello di Buffy.

Lei sapeva.

Una nuvola capricciosa nascose la luna, rigettando la stanza nel buio.

“Dobbiamo parlare!” fu lui a chiederlo.

E non era una richiesta.

Era un ordine.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cap. 6 Dov’è il mio cucciolo? Il racconto delle stelle. (terza parte)

 

“Allora?”

La voce di lei risuonò ansiosa nella stanza mentre le dita giocavano freneticamente tra loro.

Ma più che un gioco sembrava una guerra.

E quel letto, improvvisamente scomodo, era il loro campo di battaglia.

Lui rimaneva in silenzio.

Immobile e in silenzio.

Come era stato durante tutto il lungo racconto di lei.

Seduto con le mani conserte e lo sguardo fisso ad osservare quel muro bianco e quel divano blu ancora ricoperto dal cellophan.

Buffy lo guardò, aspettando una reazione che però sembrava non voler arrivare.

Emise un sospiro più rumoroso degli altri.

Per un attimo, desiderò avere ancora quel potere empatico che, una volta, le aveva permesso di leggere la mente umana senza problemi. Forse avrebbe potuto capire a cosa stesse pensando senza sforzare il cervello, che, in quel momento, era incapace di far altro se non tormentare le proprie unghie. Quella del mignolo le si spezzò.

La portò alla bocca per tagliarla del tutto.

Una pellicina venne via nello strappo e una goccia di sangue fuoriuscì.

Sospirò ancora, distogliendo lo sguardo.

Improvvisamente si sentì stanca.

Sfinita.

Svuotata.

Svuotata dalle parole e dai ricordi.

Svuotata dalle emozioni.

Svuotata da se stessa.

Come se, in quel lungo racconto fatto di date, eventi, pensieri e sensazioni, vi fosse stato condensato tutto ciò che era ed era stata. Come se, in quel fiume dirompente di sentimenti e memorie, vi avesse racchiuso tutta la sua intera esistenza. E, forse, era così.

Tra frasi zoppicanti e resoconti interminabili c’era la sua vita. La loro vita.

Senza fronzoli o bugie.

Senza omissioni o favole

Nessuna fiaba per Buffy Summers.

Nessuna per William.

Solo la semplice e dura verità.

Fatta di demoni, streghe, vampiri e cacciatrici.

Fatta di sangue, lacrime e sesso.

Di morte.

Di sacrificio, amore e odio.

Di anime conquistate e cuori feriti.

Di morte, ancora.

Tutta la verità.

Non proprio.

Ma il risultato non cambiava.

Era esausta.

Girò lo sguardo verso la finestra ancora aperta.

Un nuovo giorno stava nascendo.

Si chiese se quelle rivelazioni notturne non dovessero diventare una nuova abitudine. Sperò di no.

“Di qualcosa!” lo incitò ancora.

Ma lui continuava a non guardarla e a non muoversi.

Per un attimo ebbe il dubbio che non l’avesse nemmeno realmente ascoltata.

“So che può sembrare strano, ma…” continuò ancora.

“Strano?”la interruppe lui, scattando in piedi.

“Strano?” ripeté alzando la voce e facendo un passo avanti.

“Questo non è strano!!” si girò e la fronteggiò, senza però osservarla veramente.

L’aurora del nuovo giorno si mostrò timidamente con tutto il suo spettacolo di colori.

Una flebile luce rossastra rischiarò la camera e le occhiaie sul viso della ragazza.

Ma William non fece caso a nessuna delle due. La sua mente, in quel momento, era un ingorgo di pensieri troppo rumorosi e troppo affollati per riuscire realmente a realizzarli o capirli.

“E’ illogico, insensato, inconcepibile, ma non strano!” precisò, cominciando a camminare per la stanza e misurando, a grandi passi, la distanza tra il letto e il divano.

Tre metri.

O poco meno.

Sui centimetri non poteva essere sicuro. Ma non aveva importanza.

Aveva comunque un numero.

Ed un numero è qualcosa di reale.

Di certo.

Razionale.

Ed il suo cervello aveva disperatamente bisogno di un appiglio razionale.

Di qualcosa che lo salvasse da quella immensa follia in sui stava precipitando.

Ma il sostegno fu troppo fragile.

Le pareti della pazzia troppo lisce.

E inevitabilmente scivolò.

E nel cadere fece l’unica cosa che potesse fare.

Gridò.

“Tu sei pazza!” le disse fermandosi di botto.

Buffy non si mosse. Semplicemente forzò il sobbalzo del proprio cuore, impedendogli di sanguinare. Aveva immaginato quella reazione ed era preparata.

O almeno credeva di esserlo.

In fin dei conti già vi era passata.

Con se stessa.

Con suo padre.

Con suo madre.

Forse urlare la follia era l’unico modo di reagire.

Forse era realmente tutto un grande incubo di qualche mente malata.

Ma di chi?

“E sono pazzo anche io!” sussurrò William.

Gli occhi cercarono quelli di lei.

Per un attimo.

Poi cambiarono direzione.

“Sono pazzo perché io l’ho vista quella donna trasformarsi in…in…!” tentennò.

“In un vampiro!”

“Lo so in cosa si è trasformata! Ma è assurdo…e poi tu…ed io…”

Le parole divennero farfugli incomprensibili. Il pensiero superò in velocità la voce.

L’accelerazione venne trasmessa al corpo e alle gambe. E ancora una volta, il ragazzo non ebbe altra possibilità che sfogare l’agitazione mentale camminando avanti e indietro per la stanza.

Poi, si fermò davanti lo specchio.

Il suo riflesso divenne improvvisamente prioritario.

La mente rallentò, mentre l’aria faceva il giro per i polmoni.

“Quindi, io…io…ero un vampiro!”

E non era una domanda.

O forse si.

Ma il riflesso non rispose.

Buffy nemmeno.

“E quella donna…Drusilla giusto?”

La cacciatrice annuì, ma lui, di spalle, non la vide.

“Lei mi ha trasformato!” disse, forzando un intonazione di accettazione.

Ma, lo sforzo fu inutile.

Sfiorò la cicatrice sul sopracciglio sinistro.

Lo arcuò, sollevandolo.

Fece una strana smorfia, inclinando la testa da un lato.

Sospirò.

Alzò la mano e la osservò, concentrandosi sul palmo.

Una macchia rossa al centro.

La aprì e la chiuse varie volte.

Poi sospirò ancora.

Sul corpo portava le tracce di quel passato assurdo a cui non voleva credere.

Tracce di dolore, sangue e morte, che lo avrebbero dovuto far rabbrividire.

Tracce incancellabili di ricordi cancellati.

E allora che valore avevano?

Buffy gli si avvicinò, ponendosi al suo fianco. Lo guardò negli occhi, poi alzò la propria mano, girandola e facendola riflettere nello specchio.

L’immagine di un altra macchia rossa comparve sul vetro.

“Hai salvato il mondo!” gli ricordò lei.

William non disse niente, limitandosi ad osservando quel segno speculare al suo. Poi, come se l’immagine fosse divenuta improvvisamente troppo accecante, distolse lo sguardo e si girò, dando le spalle alla ragazza.

“Scusa per..” iniziò non riuscendo a trovare le parole.

La sua mente troppo affollata di pensieri, non ne aveva più.

Erano scomparse. Forse soffocate dal traffico dell’anima.

Forse semplicemente non gli erano mai appartenute.

“Ho…ho bisogno di tempo!” balbettò. E realmente non sapeva a cosa si stesse riferendo.

Tempo per cosa? Per capire? Per accettare?

Avrebbe mai potuto accettato le parole di quella ragazza?

Avrebbe mai potuto credere alle sue farneticazioni?

Eppure quegli occhi che, in quel momento non aveva il coraggio di guardare, dicevano la verità.

O, almeno, lei era convinta che quella fosse la verità.

Forse, realmente lo era.

Ma, lui non era pronto.

Il tempo gli sarebbe servito a questo.

Ad essere pronto. Ma lo si è mai nella vita?

Le gambe cominciavano a cedergli.

Aveva bisogno di rilassarsi.

“Possiamo riposare, ora?”

Osservò il letto ed il divano, valutando la propria scelta.

Decise per quest’ultimo e ci si lasciò cadere esausto. Con i gomiti poggiati sulle ginocchia, prese la testa pesante tra le mani per sostenerla.

“Ti rendi conto che tutta questa storia è dura da digerire?” chiese dopo qualche minuto di silenzio, senza alzare lo sguardo dalle pantofole troppo grandi e decisamente lontano dai suoi gusti che stava indossando. Buffy, al centro della stanza, non rispose.

Le era sembrato di aver parlato anche troppo quella notte e che fosse venuto il momento di tacere.

Nei suoi occhi, le immagini dell’incredulità e della confusione di William si sovrapposero a ricordi mai del tutto dimenticati. E, in un lampo, rivide se stessa.

Rivide la propria confusione e incredulità.

Rivide il rifiuto e le lacrime.

Le urla e la sofferenza.

La paura davanti il primo vampiro.

Rivide la necessità di razionalizzare e poi di scappare.

Rivide la clinica psichiatrica.

La stanza bianca.

Le pillole colorate.

E gli occhi rossi dei suoi genitori.

Rivide se stessa capire ed accettare.

Se stessa tacere e sorridere.

Abbandonare le bambole per impugnare un paletto nel buio della notte.

Rivide se stessa lottare con una battuta sulle labbra ed una lacrime nel cuore.

Sospirò.

Si, lei lo sapeva che era duro da digerire.

Meglio di chiunque altro.

Ma non disse nulla.

Ancora.

A volte le parole sono inutili e piccole.

A volte realmente non hanno significato.

Forse un abbraccio avrebbe avuto più valore, ma non sarebbe servito.

Anche questo sapeva.

E allora rinunciò.

Si diresse verso il letto.

La sedia ormai era andata.

Distrutta.

Come quel fragile equilibrio che solo poche ore prima avevano costruito.

Si poggiò sulle lenzuola, con le mani ormai esauste, ai lati del proprio corpo, in attesa che fosse lui a parlare. E non dovette aspettare a lungo.

“E’ tutto così assurdo! A sentire te, la mia vita sembra uscita da un romanzo di Bram Stoker…”

Si interruppe di colpo, alzando lo sguardo.

Poi un grido di frustrazione.

“Ma perché ricordo uno stupido libro, ma non il mio passato? E poi perché conosco questo romanzo? L’ho letto? E quando? All’inizio del secolo, l’altro ieri?” farneticò, agitato.

Nella sua mente la risposta a quella domanda divenne di colpo vitale.

Come se quel particolare fosse la chiave di volta di tutta quella pazzia.

Ma sapeva che non era così.

Le chiavi non esistono.

Mai.

Esistono solo porte chiuse da abbattere a testate.

“Può essere che si è ispirato a me! Magari Dracula sono io!” disse con tono concitato.

Le mani si chiusero a pugno.

Poi si distesero.

E si richiusero ancora.

“Beh…no! Lui è più alto e poi ti deve dei soldi!” Scherzò Buffy, facendogli un flebile sorriso.

Lui la guardò di traverso, alzando istintivamente il sopracciglio.

Il cuore di lei perse un colpo.

“Non voglio neanche sapere!”commentò con tono aspro.

Il riso sul volto della ragazza si sciolse.

E improvvisamente si sentì in colpa per la sua leggerezza.

Abbassò gli occhi.

William dall’altro lato della stanza, scosse la testa. Ogni volta che faceva un passo per cercare di accettare quella verità un nuovo dettaglio gli riportava l’assurdità di tutta quella storia.

Che cosa voleva dire Buffy? Che Dracula esisteva veramente? Che lo avevano incontrato?

E quando sarebbe uscito allora Frankenstein?

Portò una mano sulle tempie per massaggiarsele.

Lasciò che il silenzio di lei lo calmasse.

Ma, ancora una volta, fu tutto inutile.

La sua mente era una fucina in fermento.

Ed un nuovo pensiero si elevò tra gli altri.

Emise un mezzo risolino.

Un suono che nulla aveva di allegro o divertente.

Un suono, appena accennato, che parlava di sfida e rabbia.

Buffy strinse le lenzuola tra le dita, preparandosi ad un nuovo sfogo di ira.

Sapeva che la fase del rifiuto era ancora lontana dall’essere conclusa.

“Già…io non avrei mai potuto essere Dracula!” disse, spiazzando la ragazza che alzò il capo per osservarlo non riuscendo a comprendere il significato di quell’affermazione. Sul volto di lui vi era un espressione di finta allegria ed smorfia tirata. Se non avesse avuto la perfetta consapevolezza di quello che stava per accadere si sarebbe spaventata.

Ma non ebbe paura, intuendo che il momento era ormai imminente. Il fondo era vicino.

La caduta a peso morto stava per terminare.

L’impatto finale avrebbe fatto male.

Molto.

A lui e, forse, anche a lei.

“Altro che protagonista di un romanzo. Al massimo io potevo essere il buffone di una farsa!” disse lui con un tono ilare che nulla aveva di ironico. Negli occhi solo amarezza.

“Io ero solo un poetucolo sfigato della Londra vittoriana che non ha avuto il fegato di affrontare la vita ed ha preferito rinunciare, facendosi mordere dalla prima pazza squinternata.” riassunse facendo una smorfia di disgusto. Le mani si chiusero ancora una volta.

Buffy provò a dire qualcosa, ma lo sguardo che lui le lanciò le fece chiaramente capire che in quel momento nessuna parola sarebbe stata bene accetta. Inerme, rimase in silenzio ad osservarlo.

Una lacrima traditrice le rigò il volto. Il cuore soffrì.

Soffrì di pena per quell’uomo destinato a cadere sempre più affondo in un quel pozzo senza fine.

Soffrì di impotenza per quel pugno ostinato che rifiutava qualsiasi mano protesa.

Soffrì di colpa per quello sguardo rabbioso che lei stessa aveva generato.

E provò rammarico senza sapere perché.

William si alzò di scatto dal divano.

Improvvisamente la plastica sulla pelle nuda delle gambe era diventata insopportabilmente appiccicosa e calda. In realtà, improvvisamente, tutto era diventato insopportabile.

Le pareti bianche e quel calendario ostinatamente fermo su un immagine marina.

La camicia ospedaliera che non gli permetteva nessun tipo di dignità virile.

Le pantofole troppo larghe.

I macchinari freddi, che, nel loro silenzio, gli ricordavano l’assenza di ricordi.

“Cos’è un gioco di parole?”

Gli fu insopportabile anche la preoccupazione di Buffy e le sue lacrime.

Si sentì in trappola.

Stretto in una gabbia, come un animale.

Presto o tardi sarebbe impazzito.

O forse già lo era.

Doveva ancora stabilirlo quello.

Il cuore comincio a battere all’impazzata ed il respiro divenne irregolare.

Una goccia di sudore gli scivolò sulla fronte.

Quando aveva cominciato a fare così caldo?

Si portò una mano al petto sentendosi soffocare.

Un impellente desiderio di ossigeno lo sovrastò.

Corse verso la finestra, aprendola completamente.

L’aria fresca lo investì, facendogli reagire la pelle.

I peli delle braccia si drizzarono.

Chiuse gli occhi e respirò lentamente.

Inspirare ed espirare.

Inspirare ed espirare.

Il dolore al petto diminuì ed il cuore rallentò.

I polmoni si riempirono di aria pulita.

Inspirare ed espirare.

Inspirare ed espirare.

La sensazione di panico si alleggerì e così i suoi pensieri.

La mente si concesse un attimo di tregua.

Inspirare ed espirare.

Inspirare ed espirare.

La presa sulle ante si affievolì, mentre i muscoli cominciavano a rilassarsi.

Il sudore si asciugò.

Si stava calmando.

Inspirare ed espirare.

Inspirare ed espirare.

Il suo udito intercettò il cinguettio di un passero. Sollevò appena una palpebra, per individuare la fonte di quel suono fastidioso ma non riuscì a vedere nulla. La richiuse nuovamente, cercando di ignorare l’animale. Ma questo, evidentemente, non era d’accordo.

Il canto si fece più insistente, più acuto.

Intenso.

E in meno di un attimo quel verso era in ogni dove.

Nelle sue orecchie.

Nel suo cervello.

Tra i suoi pensieri.

Un martellio sottoforma di cip.

Ma chi ha mai detto che il gorgheggio degli uccelli è piacevole?

Quella era una tortura.

Riaprì gli occhi di scatto, osservando meglio l’albero di fronte a se.

Niente.

Quel malefico animaletto si nascondeva ben bene.

L’immagine di se stesso con un fucile, lo fece sorridere diabolicamente.

Se avesse avuto un arma lo avrebbe impallinato sul colpo.

Altro che non sparare ai passeri.

L’uccelletto intuendo forse i suoi pensieri cinguettò ancora più forte.

“Fanculo!” disse lui, tra i denti, esasperato.

Chiuse le ante.

Il suono si affievolì.

Poi scomparve.

La tentazione di aprire nuovamente la finestra si affacciò tra le sue dita.

Stava per farlo, quando si bloccò.

Nel vetro, vide il proprio riflesso e capì

Non aveva vie di fuga e l’aria fresca non sarebbe servita.

Quello sconosciuto con le sue stesse sembianze lo avrebbe inseguito e tormentato ancora.

L’unica soluzione era quello di affrontarlo.

Definitivamente.

I pensieri si riallacciarono.

Fece un sorriso.

Ma senza cattiveria questa volta.

Solo rassegnazione.

Il riflesso seguì i suoi cambi di espressione.

“Sono sempre stato uno sfigato. Anche da vampiro! Uno nerd senza speranza con l’aspetto da Billy Idol che per sopperire alle sue insicurezze si è messo a cacciare le cacciatrici, per poi finire ad innamorasi di una di queste!” disse, osservando l’immagine sbiadita di se stesso tra il verde del mondo esterno. In un angolo del vetro, intravide il riflesso di Buffy e la sua preoccupazione. L’irritazione gli tornò.

E non ne capì i motivi.

Riportò l’attenzione su stesso, guardandosi negli occhi.

Rimase così, senza proferire parola, per interi secondi.

Forse minuti.

Il puzzle di quel passato sconosciuto cominciava a prendere forma.

Da quella prospettiva, ciò che vide non gli piacque.

“Patetico!”

E sputò sul suo stesso riflesso.

“No!” urlò Buffy, scattando in piedi.

Lui si girò, fronteggiandola.

L’irritazione divenne più forte e si trasformò in litigiosità.

Lui voleva litigare con lei.

No, non era corretto.

Lui doveva litigare.

Ne aveva bisogno.

Il suo corpo si caricò di adrenalina.

“Ah no?” ribatté scettico, con un espressione canzonatoria sul volto e la rabbia negli occhi.

A Buffy sembrò di rivedere Spike.

E la sua mente ancora una volta fu invasa dei ricordi.

Si sentì debole.

“No!” disse, cercando di mostrarsi decisa, ma quello che emise fu più un flebile suono.

“Ma se sembro uscito da un maledetto film di serie B. Il vampiro cattivo che per amore si redime e alla fine salva il mondo. Patetico e banale!” contrattaccò, deridendosi.

“Basta!” lo interruppe con più decisione lei.

Nella voce una leggera punta di isteria.

“Smettila!” ribadì.

Gli occhi verdi si riempirono di pianto.

Una lacrima scivolò tra le ciglia, lungo la guancia.

Un'altra la seguì.

E poi un'altra.

E un'altra ancora.

“Non parlare così di Spike! Lui non era patetico ne tanto meno banale!” urlò tutto di un fiato.

Il corpo, mosso da volontà propria, cominciò a sussultare e a tremare.

Qualcosa nel suo cuore si spezzò.

Si sentì tradita.

E offesa.

Cominciò a piangere disperatamente, senza riuscire a controllarsi.

William rimase stordito.

Fece un passo avanti, ma lei lo fermò impedendogli qualsiasi ulteriore movimento.

Buffy alzò lo sguardo e lo inchiodò in quello di lui.

Poi, urlò.

Il suo dolore.

I suoi ricordi.

Il suo amore.

“Spike è un eroe, il mio eroe e tu non puoi permetterti di offenderlo!”

William spalancò le palpebre.

Un attimo dopo, lo fece anche lei.

E sbiancò realizzando le proprie parole.

“Cioè…volevo dire…” balbettò lei, senza riuscire a dire alcunché.

Abbassò la testa, sconfitta.

E lo stesso fece lui.

Per un lungo momento ci fu solo silenzio.

Un silenzio ingombrante costruito su un pensiero comune.

Spike era morto.

Di nuovo.

Forse per sempre.

Come morto era il loro passato.

E non sarebbe servito l’amore della cacciatrice o la prepotenza dei ricordi a fare di William Spike.

William non era il vampiro uccisore di due cacciatrici e non lo sarebbe mai stato.

Non era il poeta della Londra vittoriana.

E non era un eroe dall’anima conquistata.

Era solo un uomo.

Uno sconosciuto da scoprire.

Per lui e per lei.

E in quel mutismo, per la prima volta, il cuore di Buffy accettò quella verità.

Si rassegnò e si rasserenò.

Ed i ricordi non fecero più male.

Rimasero solo ricordi.

E in quell’assenza di parole, l’animo di William capì la sua nuova realtà.

Capì che quel passato assurdo e fantasioso non gli apparteneva.

Capì che i demoni e i vampiri non gli avrebbero restituito quell’identità dimenticata.

Capì che senza ricordi, le parole della ragazza non avevano significato.

Non facevano realmente male.

Erano solo favole su cui ridere e magari riflettere.

Niente di più.

Lui aveva un presente e un futuro da costruire.

Il resto non aveva più importanza.

Sorrise.

Il sole rischiarò del tutto la stanza.

Alzarono lo sguardo all’unisono.

Il fondo era stato raggiunto.

Erano caduti.

Ma si sarebbero rialzati.

Forse lo stavano già facendo.

Buffy si asciugò il viso, poi prese un profondo respiro e riacquistò il controllo di se stessa.

“E’ vero!” iniziò, mentre nella mente tutti i pensieri riprendevano la loro giusta posizione.

“Tutto quello che ti ho raccontato può sembrare assurdo, banale e forse anche patetico. Ma la vita è fatta così. Forse la nostra lo è stata un po’ più degli altri. Ma giusto un po’.” Disse lei, scherzando.

“Onestamente, avrei voluto che tu venissi a sapere tutto ciò in maniera diversa, ma ormai è andata così e non possiamo farci niente. Anzi forse è anche meglio. Non pretendo che tu mi creda né tanto meno che tu lo accetti. Qualcuno da lassù ti ha dato una nuova possibilità e se tu vorrai ignorare quello che ti ho raccontato stanotte, sei libero di farlo. Questo non cambierà di certo le cose. I demoni esistono, come esistono i vampiri ed le cacciatrici. E la mia vita, volente o nolente, è fatta di questo. Ma non per forza deve esserlo la tua. Lo è stata per il passato…ma appunto è passato. Ed ora sei libero di scegliere. ” concluse.

E si sentì finalmente serena.

Sorrise.

Lui ricambiò.

William la osservò, scrutando nel profondo delle sue pupille verdi.

Lì, in quelle pietre preziose, trovò la sua verità.

Trovò la sua serenità

“E se decidessi di non voler avere niente a che fare con tutto ciò?” chiese con tono serio, ma sul volto aveva disegnato un ghigno canzonatorio.

“Come ti ho detto, sta a te!” gli rispose lei mantenendo un espressione grave, a fatica.

“In tal caso, però, ti perderesti le fantastiche avventure di Buffy la cacciatrice!” concluse, ridendo.

William si unì a lei, ghignando sfacciatamemnte.

Il peso al cuore, che lo aveva avvilito per tutta la notte si stava sciogliendo al suono di quella risata cristallina. Le immagini del passato da lei evocato, si sfumarono di fronte la prospettiva di un nuovo futuro tutta da realizzare e scoprire.

“Ho l’impressione che accanto a te, la vita debba essere molto più interessante!”

E rise ancora.

E lei con lui.

Il sole riscaldava la loro pelle.

Il passerotto, nascosto tra i rami di un albero, cantava imperterrito il suo canto.

Un nuovo giorno era iniziato.

La notte era finita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cap. 7 Cosa accadrà domani? Le risposte di un amico. (prima parte)

 

La porta, laccata di bianco, si chiuse di volontà propria.

O almeno così credé Buffy, sentendola sbattere alle proprie spalle.

Si voltò per osservarla incuriosita.

Sembrava pesante, nonostante il colore chiaro e la finitura lucida.

Seguendo un abitudine infantile, la sfiorò delicatamente con le dita per percepirne la materialità, poi la colpì con le nocche. Risuonò con un rumore metallico.

Era blindata, come aveva sospettato.

Buona idea, pensò. Almeno il demone della settimana avrebbe fatto fatica ad abbatterla.

Solo un po’, forse, ma avrebbe avuto il tempo per preparasi e non essere colta di sorpresa.

Perché non ne aveva mai avuto una a Sunnydale?

“Sicuramente avrei potuto risparmiare molto lavoro a Xander”.

La mano si fermò di colpo, interrompendo la sua analisi.

Buffy scosse leggermente la testa, dandosi della sciocca per quel pensiero incoerente.

Come poteva soffermarsi su certi dettagli dopo quello che era appena accaduto?

Decisamente era una ragazza stupida con stupidi pensieri.

Sospirò pesantemente, girandosi ed appoggiando la schiena allo stipite.

Per un attimo rimase ferma, indecisa sul da farsi. Il soggiorno era in penombra e la poca luce che filtrava fioca dalle tapparelle abbassate non aiutava a orientarsi tra le macchie indistinte del mobilio. Restrinse gli occhi per riuscire a distinguere qualche oggetto familiare. Fu inutile.

Troppo buio per riuscire a muoversi ed i suoi occhi troppo stanchi per sforzarsi.

Sarebbe sicuramente andata a sbattere. La mano si mosse alla ricerca dell’interruttore, senza trovarlo. Sbuffò rassegnata.

“Maledetti architetti che complicano ogni cosa”

Stanca e svuotata improvvisamente di qualsiasi determinazione, si lasciò scivolare lungo la porta, come una bambola senza vita, fino a toccare terra.

Il pavimento era freddo e le intirizzì il corpo. Un brivido le percorse gli arti, costringendola a raggomitolarsi su se stessa per ritrovare un po’ di calore. Poggiò la testa pesante sulle ginocchia.

Forse quello che cercava, però, era semplicemente il conforto di un abbraccio.

Una lacrima le rigò il volto, cadendo inevitabilmente sulle piastrelle di marmo.

La mano si mosse leggermente con l’intenzionalità di fermarla. Solo per un attimo, però.

Poi, desistette, tornando al suo immobilismo sotto le gambe. A che pro agitarsi?

Non sarebbe servito comunque.

Un'altra sarebbe arrivata, prima o poi. Nonostante la volontà o le intenzioni.

Ci sono alcune cose che proprio non si possono prevedere o controllare.

E le lacrime, ormai lo aveva capito, erano una di quelle.

Sulle altre, invece, non voleva nemmeno soffermarsi.

A quelle avrebbe pensato in seguito, quando sarebbe stata capace di rimetterle in ordine.

La sua mente, in quel momento, era sfiancata. Ed il suo cuore ancora di più.

Troppe emozioni in troppe poche ore.

Alzò la testa dalle ginocchia, stropicciandosi gli occhi e stiracchiandosi in uno sbadiglio a bocca chiusa. Poi tornò nella sua posizione, con le gambe rannicchiate e le mani intrecciate sotto di esse. Non valutò nemmeno per un secondo la possibilità di cercare un divano per stendersi.

Non le sembrava opportuno, perché nel buio di quella casa sconosciuta, arredata da un architetto mai incontrato, si sentiva un estranea.

O, forse, era l’appartamento ad esserlo. Un estraneo.

Un estraneo muto, immobile nella perfezione di un arredamento che non parlava di lei, della sua storia, del suo cuore o del suo passato.

Un estraneo silenzioso come un immagine patinata di una rivista di design.

Buffy strinse le gambe al petto un po’ di più, mentre avvertiva una sgradevole sensazione di non appartenenza. Il freddo le invase ogni fibra del suo minuto corpo.

Cosa ci faceva lei in quel lussuoso attico nel quartiere più alla moda di Los Angeles?

Non lo sapeva più. Ma non aveva particolari alternative.

Indietro non sarebbe comunque potuta tornare e non aveva nessun luogo dove andare.

Lei non aveva semplicemente più nulla.

Solo il desiderio di dormire.

Ma neanche quello, purtroppo, sarebbe arrivato.

Troppe cose era accadute anche per poter sperare di riposare.

Per un attimo tremò al ricordo, poi prese un respiro profondo, calmandosi.

Non aveva senso pensarci.

Non in quel momento almeno.

Lo avrebbe fatto domani.

Si, domani, come Rossella O’Hara.

Domani, si sarebbe alzata e avrebbe ripreso in mano la sua vita.

Avrebbe cercato di capire cosa fare e dove andare.

Avrebbe trovato uno scopo e si sarebbe impegnata per quello.

Avrebbe cercato anche una casa.

Una casa che fosse sua.

Veramente.

E anche un lavoro.

Si…ma domani.

In attesa, sarebbe rimasta ferma lì, con la schiena appoggiata ad una porta blindata, che non aveva mai avuto, e le gambe rannicchiate a mantenerle la testa. Il pavimento era ancora freddo.

Ma anche a quello avrebbe pensato in seguito.

 

Un rumore sordo risvegliò improvvisamente Willow, facendola sobbalzare nel letto.

Dopo un attimo di stordita confusione, si guardò attorno, ritrovando le lenzuola crema e le pareti color arancio della stanza in cui dormiva ormai da un paio di settimane.

La stanza in cui, per la precisione, da un paio di settimana, era un ospite.

Gradita di certo, ma sempre un ospite.

Sospirò, mentre le immagini di un sogno confortante svanivano tra pensieri inopportuni.

Esisteva ancora, da qualche parte una camera che potesse definire propria?

Scosse la testa rassegnata ed osservò la sveglia sul comodino. Hello Kitty, con la sua espressione stilizzata, sempre uguale a se stessa, le confermò che mancavano ormai pochi minuti alle otto e da un momento all’altro avrebbe cominciato a miagolare.

“Meglio alzarsi” si disse. Non che avesse realmente qualcosa da fare, ma non aveva mai amato poltrire a letto. O almeno non da sola.

Mise i piedi a terra, lasciando che il freddo del pavimento la risvegliasse del tutto. Stropicciò gli occhi e si stiracchiò nella maglia grigia, che usava come pigiama. Aveva abbandonato da tempo le paperelle o i fiorellini colorati. Più o meno da quando aveva abbandonato la se stessa timida e insicura. Non che quella anonimo grigiore le piacesse, ma in qualche modo pensava che la rappresentasse meglio. Almeno in quella fase della sua vita.

Una vita anonima, appunto.

“Ma che mi succede stamattina?”

Scosse nuovamente la testa e, alzandosi, si diresse alla finestra per aprire le tapparelle.

Non aveva mai amato dormire al buio completo, retaggio di una paura infantile costruita su racconti inverosimili di uomini neri e babau. Nonostante il tempo e la consapevolezza chiara di cosa in realtà si agitasse nella notte, non aveva mai abbandonato quell’abitudine.

Eppure, quella mattina le tapparelle erano quasi del tutto chiuse.

Si chiese il perché, mentre premeva distrattamente il pulsante per l’apertura automatica. Quando la luce del nuovo giorno inondò la camera, facendo risplendere l’ambiente di un arancio eccessivo, si diede la risposta. La testa le girò.

Quell’esplosione di colore non richiesta, che nelle intenzioni dell’architetto, evidentemente, avrebbe dovuto trasmettere positività e voglia di vivere, diede a Willow solo l’idea di una maschera di allegria fin troppo forzata e ne provò disgusto. Così come provò disgusto per quell’insieme di soprammobili fintamente etnici che davano all’insieme un aria di falsa misticità. Unica nota stonata la sveglia di Hello Kitty, comprata alcuni giorni prima in un negozio di cianfrusaglie.

Con un movimento veloce delle dita, riabbassò le tapparelle. Come faceva sempre.

Ogni mattina da dieci giorni.

Si diede della stupida.

Forse sarebbe stato il caso di ritinteggiare le pareti, pensò.

E magari anche di riarredare la camera.

Ma a che pro?

Per sentirla sua?

Lo sarebbe mai stata?

Improvvisamente ricordò.

Il motivo per cui si era svegliata.

Il rumore.

Allarmata, si mosse in automatico verso la stanza di Dawn.

La ragazzina, però, dormiva ancora placidamente, con un sorriso felice disegnato sulle labbra.

Per un attimo le venne la tentazione di intrufolarsi nei suoi sogni per poter godere di quella serenità ostentata, almeno di riflesso. Poi desistette.

Certe abitudini appartenevano al passato.

Se ne doveva ricordare e ripeterselo di continuo.

Socchiuse la porta in silenzio e si voltò verso il corridoio ancora in penombra.

Il silenzio era ovunque. Del rumore nessun segnale.

Che lo avesse immaginato?

Confortata dai suoi sensi, decise che non aveva poi tanta importanza.

Lo stomaco brontolò.

Il sushi della sera prima, ordinato da quello che un tempo era un ristorante cinese, non l’aveva sfamata del tutto. Non le aveva dato neppure soddisfazione, a dirla tutta. Di certo non capiva quell’ossessione per la cucina giapponese che da qualche anno imperava in giro per il mondo.

“Meglio preparare la colazione”.

Con le ciabattine verdi, ultimo regalo tailandese di Kennedy, prima della rottura, si trascinò lungo il corridoio per entrare nell’ampio soggiorno. Batté due volte le mani.

I faretti incassati nel controsoffitto bianco, si accesero, ricreando l’atmosfera patinata per i quali erano stati progettati. Sui mobili colorati dalle forme sinuose neppure una fotografia.

In compenso in ogni dove c’erano oggetti senza vita dalle forme impossibili.

Anche un grande televisore al plasma, mai acceso.

Willow distolse lo sguardo da quella stanza fallita per dirigersi verso la cucina.

E fu allora che la vide.

Buffy.

Raggomitolata su stessa, con la schiena appoggiata alla porta di ingresso e la testa sulle ginocchia.

Sembrava dormire.

Fece un passo in avanti, senza fare rumore per non svegliarla.

Ma si era sbagliata.

Non dormiva.

O almeno così intuì dal respiro irregolare.

Si piegò sulle ginocchia, carezzandole i capelli con delicatezza.

“Buffy?” la chiamò dolcemente.

L’amica alzò la testa con esasperante lentezza.

Nel suo sguardo una strana nota di sorpresa.

E di rassegnazione, anche.

A Willow sembrò improvvisamente più vecchia di quanto non le fosse apparsa solo la sera prima.

Sembrava stanca, ma di una stanchezza non dettata dallo sforzo fisico. E neppure da quello emotivo, che pure avrebbe avuto un senso. Sembrava stanca della vita stessa.

Come se anche il semplice respirare fosse un atto difficoltoso.

Ma chi lo ha detto che il respiro sia poi una cosa semplice?

“Buffy?” la chiamò ancora, incerta su cosa dire con esattezza.

Gli occhi verdi rimasero per alcuni istanti immoti.

Spenti.

Morti.

La strega si preoccupò.

D’improvviso, una lacrima non sua le bagnò la mano.

La osservò perplessa prima di riportare l’attenzione sull’amica.

“Perché?” sussurrò poi Buffy, con voce atona.

“Cosa?”

“Perché?” ripeté.

Come una scossa elettrica, Willow fu pervasa da una tristezza immensa.

Una tristezza che, ancora una volta, non le apparteneva.

D’istinto, abbracciò l’amica, trascinandosela senza alcuna difficoltà tra le braccia. Poi come una mamma cominciò a cullarla gentilmente. Sperava di poterle dare qualche forma di conforto, anche se era certa di non esserne capace.

In quello era sempre stata più brava Tara.

“Tesoro, guardami, dimmi cosa è successo, parlami!” le chiese senza ottenere risposta.

Ma forse non se l’aspettava nemmeno.

La sofferenza che provava di riflesso a stento permetteva a lei di muoversi.

Sarebbe stato impossibile per il cuore dell’amica parlare razionalmente.

“Sono qui, permettimi di aiutarti!” la pregò, mentre anche le sue iridi si riempivano di un pianto immotivato. In quel momento le sembrò di non essere capace di controllare il suo potere empatico. Eppure era sempre stato in grado di farlo.

Forse la preoccupazione era più forte.

O forse era il dolore di Buffy ad esserlo.

“Aiutarmi?” ripeté la ragazza dai capelli biondi, senza girare lo sguardo.

Il suo corpo rimaneva inerme tra le sue braccia.

“Vuoi aiutarmi? Puoi farlo?”

“Si, dimmi cosa è accaduto?” le rispose prontamente Willow.

“Puoi riportare indietro il tempo di mezz’ora?”

 

Cap. 7 Cosa accadrà domani? Le risposte di un amico.(seconda parte)

 

Aveva sbadigliato.

Solo questo.

Solo un semplice sbadiglio.

Nemmeno tanto rumoroso o eclatante.

Un piccolo movimento della bocca ed un leggero strizzare di occhi.

Niente di più.

Eppure era stato sufficiente.

Sufficiente a scatenare la serie di eventi che l’avevano portata a piangere su un pavimento freddo di un attico che non le apparteneva. Che l’avevano spinta a cercare conforto per una risposta non data, tra le braccia di un amica, che nonostante il potere, rimaneva ignara.

Un semplice sbadiglio.

La vita poteva essere realmente imprevedibile.

Come il battito d’ali di una farfalla, che senza volerlo può scatenare un tornado in Australia.

Ecco, quello sbadiglio era stato il suo battito d’ali.

“Sei stanca?” le aveva domandato William, in risposta a quell’atto inconsapevole, mentre guerreggiava con il cellophane del divano che gli si era appiccicato alle gambe.

Il corpo si era mosso alla ricerca di una posizione più confortevole.

Le mani, però, erano rimaste immobili.

Rigide. Riflesso di una lotta interna, ancora non del tutto sopita, tra il desiderio di conoscenza ed il sollievo dell’oblio. Per un istante, aveva desiderato dimenticare di nuovo tutto.

Anche quella notte.

Soprattutto quella notte.

Solo per un istante, però.

Perché lui non era un vigliacco e non aveva mai avuto l’abitudine di ignorare le verità rivelate.

O almeno così credeva.

Spike era stato così. Non era fuggito, ma aveva sempre affrontato il mondo di petto, ridendo della sofferenza e della morte. E lui sentiva che quella parte del vampiro era ancora presente in quel cuore che batteva nuovamente, per un motivo ancora sconosciuto.

Che fosse destinato anche lui a grandi imprese?

Un brivido freddo gli percorse la schiena, e strinse le dita con più forza.

La sveglia sul comodino segnava le sette e un quarto.

“Si…no…cioè…” aveva farfugliato confusamente Buffy, lottando contro il sonno che ormai le ottenebrava il cervello. La sua risposta fu un inutile tentativo di nascondere quello che era fin troppo evidente. Era stanca. Gli occhi le si chiudevano sotto la forza delle palpebre pesanti, mentre i pochi oggetti della stanza lentamente sfumavano in un bianco irriconoscibile. Il piede destro le si era addormentato già da qualche minuto. Aveva anche cercato di muoverlo, ma quello che aveva ottenuto era stata solo una scossa elettrica ed una smorfia di dolore.

“E’ stata una notte difficile…per entrambi. Forse dovresti andare realmente a dormire…dovremmo farlo tutti e due” aveva suggerito William, osservando divertito i tentativi futili di rimanere sveglia di lei. Un caldo sentimento di affetto gli aveva invaso improvvisamente il cuore, senza riuscire a capirne il motivo. Forse era la tenerezza naturale che quella piccola creatura sprigionava inconsapevolmente. Si chiese se ci fosse mai stato qualcuno che guardandola non se ne fosse innamorato. Sembrava così fragile e così desiderosa d’amore da commuovere quasi.

Eppure, in realtà, da quanto aveva potuto capire, era una specie di super eroina.

La Cacciatrice, colei che da sola si erge contro le forze del male e dell’oscurità. La prescelta.

Come poteva quella giovane ragazza dalle espressioni buffe e dal cuore troppo delicato, convivere con tutto quel potere e quella responsabilità? A quante cose aveva dovuto rinunciare? Quante sacrificarne? Il lungo racconto non era stato del tutto esaustivo su quel punto. In realtà lo aveva ampiamente evitato. Scosse la testa mentalmente.

Di certo, se non l’avesse vista con i suoi stessi occhi lottare con la vampira, avrebbe stentato a credere a tutta quella storia.

“O forse no?”

Non era del tutto sicuro. Avvertiva qualcosa a fior di pelle che gli raccontava il contrario.

Quasi come se riuscisse a sentirne il potere.

Quasi, però.

Una carezza calda sul corpo. Una brezza leggera. Piccoli brividi. Niente di più.

Neanche una percezione vera e propria.

Semplicemente una sensazione diversa da qualunque cosa lui stesso potesse definire.

Strana. Ecco.

Buffy, a quelle parole, si era imposta di risvegliarsi, colpita dal pensiero che le avevano suggerito.

Si era ricomposta sul divano ed aveva girato la testa verso la finestra, tentando di cancellare dal volto i segni della stanchezza. Era ancora troppo presto per andare a dormire.

Nonostante tutto. Nonostante gli occhi pesanti ed il corpo intorpidito.

“Tra poco saranno le otto” aveva affermato improvvisamente, interrompendo, con una frase apparentemente fuori luogo, il silenzio dei pensieri di lui e le urla dei propri ragionamenti senza risposta. La testa era ancora rivolta al vetro.

Il sole inondava la stanza facendola risplendere nel suo pallore malato.

Non guardò, nemmeno per un attimo, la sveglia.

In fin dei conti non le serviva. Dopo anni a vivere tra le luci della notte e le ombre del giorno, sapeva con esatta chiarezza che ore fossero. Come i vampiri ed i demoni.

O gli animali.

“Non sono mai stato con un animale così”.

“Io non sono un animale”.

“Vuoi vedere i segni dei morsi?”

Rabbrividì.

“E allora?” aveva domandato William.

“Alle otto arriverà l’infermiera per le solite analisi e per darmi tutte le istruzioni” aveva spiegato lei rispondendo in automatico. Il tono pacato non aveva tradito la confusione dei ricordi e dei pensieri. E neanche il volto, che era rimasto indifferente. La mente, però, era in pieno subbuglio, agitata dalle emozioni del passato e quelle del futuro. Solo gli occhi avrebbero potuto rivelare la verità. La testa, per questo motivo, era rimasta ostinatamente fissa nella direzione della finestra.

“Anche se adesso…”

“Adesso sarebbe inutile” aveva concluso lui, irrigidendosi. La voce aveva perso intensità ed era diventata appena udibile. Una sensazione di disagio gli era cresciuta in gola, strozzandogli le parole. Aveva, allora, alzato lo sguardo al muro bianco di fronte a sé, soffermandosi sull’immagine dell’alba rossa che decorava il calendario annerito alla ricerca di sollievo.

Non ne provò.

Ebbe solo l’impressione che tutto andasse troppo velocemente.

Come si faceva a rallentare?

Il silenzio sembrava l’unica soluzione, eppure il mondo attorno a loro stava cambiando inesorabilmente. Ogni cosa aveva bisogno di una nuova definizione.

Ogni oggetto di un nuovo nome.

Ogni immagine di una diversa prospettiva.

Ma la mente non sempre è capace di adeguarsi e rimane indietro.

La loro era rimasta ferma per alcuni minuti su quel muro bianco e su quel calendario ormai privo di significato. Immobile su domande e dubbi che sarebbero rimasti senza risposta.

Perché c’era improvvisamente un domani da vivere e nessuno dei due sapeva come.

A volte è solo questione di fantasia. Il resto è improvvisazione.

Ma William aveva perso la propria immaginazione e Buffy, forse, non ne aveva mai avuta molta. Non se l’era mai potuta permettere.

Negli ultimi otto anni la sua vista era stata sempre molto limitata. Il domani era stato solo un'altra apocalisse da affrontare, un altro mostro da uccidere, un altro dolore da guarire.

In quel momento davanti alle infinite possibilità, la mente rimaneva vuota.

Bianca come il muro davanti a se.

“Dovresti realmente tornare a casa” aveva detto lui dopo alcuni secondi, prendendo un grosso respiro. Aveva faticato a pronunciare quella frase che sapeva di scappatoia.

“Io aspetterò l’infermiera e poi mi farò una bella dormita”.

Aveva sbadigliato chiassosamente quindi, per dare conferma alla sua stessa bugia.

La menzogna era stata talmente palese che Buffy aveva distolto lo sguardo dalla finestra, per soffermarsi sul suo volto e sulla sua incapacità di fingere.

Non era mai stato bravo a farlo, ma era pur vero che prima non ne aveva mai avuto bisogno.

Spike non aveva mai mentito, preferendo sempre e solo la verità.

Anche quando era pesante.

Anche quando era fatta solo di silenzio.

Ma ci vuole coraggio anche per affrontare il nulla.

Ce ne vuole molto per le proprie paure.

E forse William non ne aveva ancora abbastanza.

“Non saprei dove andare” aveva sussurrato lei, prima di abbassare la testa.

Improvvisamente aveva provato vergogna per se stessa e per quell’assenza di indirizzo.

E non era solo quello di casa che le mancava. Le mancava una direzione per quella vita interrotta che di colpo ricominciava a correre fin troppo velocemente. Le mancava una strada da percorrere.

Una destinazione.

Si sentì misera. Chissà come appariva a lui?

William era rimasto in silenzio senza commentare.

Ma l’aveva guardata.

Per un attimo.

Poi era tornato ad osservare il muro bianco.

Ma quell’attimo gli era bastato.

Gli era bastato per vedere le ore immobili di una stanza senza vita e senza colore.

Le notti insonni di un divano blu e di una sedia in legno sbrecciata dal tempo.

I gesti ripetitivi e le speranze mai perse.

Le lacrime ed il dolore di cinquantaquattro giorni anneriti.

I rumori metallici di una macchina senza anima.

Vide due vite interrotte intrecciate dall’ostinazione del cuore.

E capì.

Capì quello che aveva solo appena intuito al primo risveglio.

Capì di non essere solo.

Di non esserlo stato in quel passato immemore.

Di non esserlo in quel domani senza nome.

E fu importante.

“Grazie”

“Per cosa?” aveva domandato stupita Buffy, mentre cercava il coraggio di osservarlo.

“Per essere rimasta qui. Per non avermi abbandonato”

“Tu non l’hai mai fatto”

E lui sentì che era vero. Anche se non poteva ricordalo.

Ma a volte non c’è bisogno della mente per ricordare.

A volte basta il cuore.

William aveva alzato la testa e costretto gli occhi blu in quelli verdi di lei.

Il cielo si era fuso con la terra ed era diventato un tutto uno con essa.

Il mondo aveva ripreso a girare.

Come aveva sempre fatto.

E loro si erano ritrovati.

Al di là dei ricordi e del tempo.

“Dobbiamo ricominciare adesso” aveva affermato lui dopo alcuni secondi.

Gli sguardi erano rimasti l’uno nell’altro.

Lei aveva semplicemente sorriso, annuendo.

Poi ancora il silenzio.

E questa volta senza finzioni e bugie.

Avevano entrambi rilassato la posizione dei propri corpi mentre le mani si erano mosse cercandosi naturalmente. Le dita si erano intrecciate. Gli occhi lo erano ancora.

Di colpo il respiro di lui divenne fin troppo consapevole.

I loro volti troppo vicini.

Ma l’equilibrio era ancora eccessivamente fragile per permettere un movimento ed i cuori oltre modo deboli per decidere di buttarsi. La saggezza avrebbe previsto un allontanamento.

Ma loro, saggi non lo erano mai stati.

Avevano sempre seguito il calore delle proprie anime.

Anche quando l’una era lacerata da un paradiso perduto e l’altra dormiva tra le macerie di un uomo spaventato ed un mostro fatto prigioniero da una tecnologia militare.

Anche quando si erano convinti di assecondare solo la passione dei corpi.

In quel momento il calore li stava spingendo verso baratri inesplorati.

E loro volevano abbandonarsi.

La sveglia suonò.

Il fastidioso rumore ripetitivo interruppe il loro percorso silenzioso.

Erano le otto.

Buffy si era alzata di scatto, allora, arrossendo per quella situazione imbarazzante.

Si era data della stupida per essersi fatta travolgere nuovamente dal desiderio di baciarlo.

E quella era già la seconda volta in poco meno di ventiquattro ore.

Dove erano finiti i suoi bei propositi di lentezza e di essere solo una buona amica per William? Come avrebbe resistito in futuro? Come se la loro fosse rimasta per sempre solo una amicizia? Aveva scosso la testa, rifiutandosi di pensarci.

Non si era potuta nemmeno nascondersi dietro la convinzione che a spingerla era stata ancora una volta il ricordo, perchè Spike era ormai realmente lontano.

Ma William era fin troppo vicino.

Con le sue differenze e le sue immense similitudini.

Avrebbe dovuto solo calmarsi.

Più facile a dirsi che a farsi.

“Hai ragione. E’ tempo di ricominciare” aveva allora asserito con un tono di voce fin troppo alto.

“In fin dei conti una casa ce l’ho…è quella che Angel ha affittato per me e per Dawn. Non l’ho ancora vista… però mia sorella mi ha raccontato che è confortevole e che è stata addirittura arredata da un Interior designer che…” aveva continuato a farfugliare, fingendo entusiasmo per mascherare l’isterismo. Nel frattempo il suo cervello continuava a darle della sciocca per quella reazione da adolescente. Solo che in quel momento così si sentiva.

Un adolescente alle prese con la prima cotta e con le prime imbarazzanti reazioni.

“Buffy?” l’aveva interrotta lui, alzandosi a sua volta e raggiungendola al centro della stanza.

Le aveva sorriso, mandandole il cuore maggiormente nel caos.

Quello era decisamente una delle cose che non erano cambiate.

Il sorriso sghembo, leggermente impertinente.

“Cosa?”

“Respira” le aveva imposto con quello stesso tono di voce sicuro e rilassato con il quale, a seconda dei casi, un tempo l’aveva minacciava di morte o invitata a letto, anche se quasi mai si trattava di un letto.

“Va a casa e riposa. Più tardi, in serata mi verrai a trovare e parleremo ancora”

“E’ una promessa?” aveva chiesto con speranza.

“Certo” le aveva confermato lui.

“Come se io poi potessi andare da qualche parte…” aveva aggiunto prima di scoppiare a ridere.

Lei lo aveva seguito e tutto si era sciolto come neve al sole.

Le ansie, le paure e le incertezze.

L’imbarazzo.

Anche quel futuro sconosciuto.

In fin dei conti non erano obbligati a trovare le risposte proprio in quel momento.

Il giorno dopo esisteva anche per quel motivo.

Per concedersi una pausa da un mondo che correva senza sosta.

Avrebbero corso anche loro.

Ma domani.

“E poi credo che per noi sia stato sempre naturale vederci alla luce della luna…no?”

La risata si era smorzata in un sorriso complice.

“Beh, in realtà non hai mai rispettato le regole. Nemmeno quelle più basilari e vitali per un vampiro” aveva commentato lei, scherzando con leggerezza. Aveva realizzato che forse, poi, il passato non sarebbe dovuto essere per forza una zavorra da trascinare in quel futuro incerto. Non era detto che sarebbe dovuto essere un tabù di cui non parlare o una sofferenza da non ricordare. Forse il loro passato, con i propri dolori e le proprie gioie sarebbe potuto essere solo qualcosa di cui sorridere, di cui chiacchierare come in quel momento.

In fin dei conti quale male poteva fare se era appunto passato?

“Allora ero un vampiro realmente interessante”

“Eri una persona decisamente interessante e credo che tu lo sia ancora” aveva corretto Buffy.

Lui le aveva sorriso grato per quella precisazione. Al di là del complimento, aveva la sensazione che un tempo l’avrebbe apprezzata in particolar modo. Se aveva iniziato a capire qualcosa del vecchio se stesso, come credeva, allora era certo di non essere stato un vampiro come tutti gli altri. Era stato molto di più.

E non era per gli anni che aveva vissuto o per le persone che aveva ucciso.

Era stato molto di più, perché era stato sempre un uomo.

Un uomo che aveva seguito il proprio cuore ed il proprio istinto, anche quando questo non andava proprio in direzione del cervello. Ma pur sempre un uomo.

E forse nemmeno cattivo.

Forse non buono.

Ma sicuramente onesto.

Un brav’uomo.

Questa era la definizione.

E se lo era stato anche quando era un demone assetato di sangue, forse lo sarebbe potuto esserlo ancora. Forse lo era già, senza troppe riflessioni.

Sorrise.

“William, un brav’uomo”.

Per quanto la definizione potesse sembrare quasi misera, gli piacque.

Era un inizio.

Il suo inizio.

“Allora Buonanotte”

“Si…buonanotte…” aveva ripetuto Buffy in automatico con la mente distratta dal sorriso sereno di lui. Non si era mossa per alcuni secondi, imbambolata da quella visione che le stava diventando ora dopo ora familiare. Solo quando lui aveva inclinato la testa, guardandola incerto, si era ripresa. Aveva farfugliato qualcosa confusamente e si era girata in direzione della porta. Aveva percorso la breve distanza con una lentezza esasperante, sperando nel suo intimo che lui la fermasse ancora una volta come era accaduto la notte precedente. Non perché credesse che le potesse chiedere di dormire con lui nuovamente. Sarebbe stato decisamente fuori luogo dopo gli ultimi avvenimenti. Più che altro desiderava che lui inventasse una scusa per ritardare il loro momentaneo allentamento. Come accade sempre nei film romantici. Ecco le sarebbe piaciuto per una volta essere la protagonista di una commedia rosa, piuttosto che quella di un thriller horror come spesso le era apparsa la sua vita.

Aveva poggiato la mano sulla maniglia,prendendo un grosso respiro.

“Buffy?” l’aveva chiamata lui, facendola voltare con un grosso sorriso sulle labbra.

Forse per una volta era stata fortunata.

“Ho un ultima domanda da farti, prima che tu te ne vada”

Lei aveva annuito in attesa.

“Più che altro un particolare che non ho compreso”

Lei aveva continuato a sorridere.

“Perché ho voluto indietro la mia anima?”

Il gelo era di colpo sceso nella stanza, ghiacciando il caldo sole di fine luglio.

E l’espressione felice sul viso di Buffy.

Si era poi mascherata nuovamente di allegria, cercando di fingere indifferenza.

Ma il suo corpo non era stato altrettanto bravo.

Ed incosciamente aveva indietreggiato.

Aveva indietreggiato davanti l’unica verità non rivelata.

Davanti quel ricordo che mai avrebbe potuto rivelare.

Perché quello era l’unico passato che faceva ancora male.

L’unico che non avevamo mai affrontato e che li avrebbe fatti sanguinare.

Ancora.

Un passo indietro.

Questo aveva fatto

E William lo notò.

“Beh..io ti ripetevo che non ti avrei mai amato senza un anima e tu quindi…” aveva risposto la ragazza dopo alcuni secondi, mostrando noncuranza, come se la questione non avesse valore.

Aveva sperato che lui accettasse la spiegazione e non proseguisse.

Aveva anche pregato mentalmente, senza abbandonare il sorriso di plastica, mentre la mandibola cominciava a farle male.

Ed ancor di più il cuore.

“Si…ma da quel che ho capito, un anima per un vampiro è una vera e propria tortura, una punizione. Lo stesso Angel l’ha riavuta a causa di una maledizione, no?” avevo incalzato lui, non convinto. Per un attimo aveva quasi pensato di lasciar perdere, di non indagare oltre.

Che forse fosse meglio non sapere e che in fin dei conti non avesse tanta importanza.

Ma poi il desiderio di conoscenza avevo prevalso.

Il desiderio di conoscere tutta la verità sul vecchio se stesso.

Di capire chi era stato e chi poteva ancora essere.

“Io sapevo perfettamente a cosa andavo incontro…e allora perché l’ho fatto? Perché mi sono voluto punire così? Perché?”

“Mi meraviglio di te. Perché un uomo fa quello che non deve? Per lei. Per essere suo. Per essere quel tipo di uomo che non farebbe... per essere quel tipo di uomo”.

Buffty non aveva risposto.

Perché non aveva potuto farlo.

Non era più in quella stanza.

Non sentiva più l’incalzante domanda risuonare nel silenzio rarefatto delle quattro pareti bianche. Non vedeva più l’uomo dai capelli castani che guardava preoccupato quell’insolito mutismo.

Lei non vedeva più l’uomo.

“Tu mi ami”

“No”

“Lasciati andare… permetti a te stessa di amarmi”

“Fernati!”

“So che lo hai sentito… quando ero dentro di te”

“Smettila… per favore, Spike, smettila!”

“Lo sentirai di nuovo, Buffy!”

“Per favore, fermati…!”

“Te lo farò sentire”

“Fermati!”

“Buffy?” l’aveva chiamato William.

Poi aveva fatto un passo in avanti ed aveva allungato un braccio per toccarla.

“Fermati!” aveva urlato lei in risposta, chiudendo gli occhi, mentre il corpo cominciava a tremare, scosso da brividi isterici. Le mani si erano alzate istintivamente a proteggersi.

“Ti prego, fermati!” aveva ripetuto.

“Cosa?”

“FERMATI!”

E a quel grido disperato aveva obbedito.

Si era fermato.

Il viso era diventata una maschera d’orrore, gli zigomi si erano alzati diventando ancora più acuminati, la bocca ridotta ad una fessura, mentre gli occhi blu si erano scuriti di terribile comprensione.

“Cosa ho fatto?” aveva domandato al vuoto, senza trovare il coraggio di parlare a lei.

Era stato il suo turno di indietreggiare.

Poi si era voltato.

“Cosa ti ho fatto?”

Buffy era rimasta ancora una volta in silenzio.

“Io..io…ti ho..ti ho violen…”

“No!” lo aveva interrotto lei, riaprendo gli occhi e riprendendo coscienza di se.

Di colpo le mattonelle fredde erano scomparse.

Era scomparsa la tenda strappata e l’accappatoio violato.

Era scomparso il bagno.

Ed anche la paura del momento.

Ma non i lividi.

Quelli li aveva solo coperti bene, illudendosi che fossero guariti.

Ma erano lì.

E poteva vederli.

“Tu…cioè…Spike…cioè…” aveva balbettato confusa.

Perché non poteva più vedere il suo aguzzino.

Solo una immagine riflessa che non era più lui.

La mente crollò.

“Hai provato….ma…”

“Ma cosa?” aveva chiesto William con astio, girandosi di scatto, mentre le ultime ore perdevano significato, cancellandosi di colpo. Forse poi non erano nemmeno mai esistite.

Forse non era esistito nulla di reale in quella stanza prima di quella rivelazione.

Nulla prima di quell’unica verità.

L’unica che sembrasse avere una reale importanza.

“Tu mi hai fermato?”

Lei si era limitata ad annuire.

“Beh…che dire…alleluia, alleluia! La cacciatrice è più forte del vampiro pazzo” aveva affermato con enfasi alzando le mani al cielo. Per un attimo, poi, lo sguardo avevo incrociato quello di Buffy, ed un senso di vomito gli era salito su per lo stomaco. E con la bile, anche un inspiegabile rabbia ed odio per quella ragazza che con i suoi sorrisi ed i suoi occhi verdi lo aveva illuso.

Lo aveva illuso di qualcosa che non era mai stato reale.

E che non lo sarebbe mai stato.

Gli era girata la testa.

Il corpo era ancora troppo debole per certe verità.

Forse lo sarebbe sempre stato.

Si era buttato sul letto, coprendosi con un braccio il viso.

Ed era rimasto in silenzio.

Buffy si era limitata a guardarlo, stanca di quel balletto emozionale estenuante fatto di un passo avanti e due indietro. Sembrava che non dovesse avere mai fine. Ogniqualvolta che una piccola tregua si era imposta tra loro, era accaduto qualcosa a distruggere il nuovo equilibrio.

Era sempre stato così. E non solo quella sera.

Che fosse quello il destino del loro rapporto? Di illudersi e soffrire?

La risposta sarebbe stata pleonastica e lei non aveva più forza.

“Perché sei ancora qua?” aveva domandato lui, alzandosi di colpo e squadrandola duramente.

La ragazza era rimasta spiazzata.

Lui non l’aveva mai guardata così.

Spike non l’aveva mai guardata così.

Mai con un tale odio e risentimento da farla tramare.

Neanche quando voleva ucciderla.

E per la prima volta ebbe paura.

Paura di lui.

Di William, che non aveva più le zanne, ma che poteva ferire molto di più di un vampiro.

“Perché cazzo sei ancora qua?” aveva urlato più forte, facendola sobbalzare.

“Ascolta…devi capire…non è così facile…non lo è mai stato…noi avevamo un rapporto strano ed io…” aveva farfugliato, non sapendo nemmeno lei cosa gli volesse realmente dire.

“Si…si…” aveva minimizzato l’uomo, con un gesto della mano incurante.

“Mi hai già spiegato che mi utilizzavi come zerbino…”

“E allora dovresti capire…”

“Cosa?” aveva alzato ancora una volta la voce lui.

“Cosa dovrei capire? Che ero autorizzato a farti violenza? Che ero giustificato?”

“No…no…non voglio dire questo…è solo che tu eri vampiro e…”

“No!” l’aveva interrotta William con veemenza.

“Non è stato il vampiro a cercare di violentarti…lui ti avrebbe morsa…magari anche uccisa..o trasformata” aveva aggiunto con un tono di voce di colpo calmo.

“E’ stato l’uomo!”

E nel dirlo, la consapevolezza l’aveva investito come un tram in pieno viso.

Tutto aveva perso significato.

Anche il cuore che gli batteva nel petto.

Tutto aveva perso peso.

Anche quel corpo ormai stanco.

Stanco da troppo tempo.

Tempo che lui non riusciva a ricordare.

Tempo che avrebbe preferito non vivere.

Tempo che mai avrebbe potuto dimenticare.

“E’ stato l’uomo”.

Il tram nel suo tragitto aveva travolto anche Buffy, che pur non comprendendo era rimasta senza parole. O forse aveva semplicemente parlato troppo. Decisamente troppo,

“E allora ti chiedo…perché sei qui? Perché sei rimasta ad assistere un uomo che ha provato a violentarti? Perché? Sei una specie di masochista? Ami chi ti ferisce!”

“Ti piacciono gli uomini che ti feriscono”

“No!”

“Hai bisogno del dolore che ti infliggiamo, hai bisogno dell'odio, ti servono per il tuo compito, per essere la cacciatrice.”

“No” aveva risposto Buffy, anche se non era più sicura se si riferisse a lui o ai suoi ricordi.

“Tu sei cambiato!”

“Ho solo un cuore che batte ed una testa che non ricorda!” aveva ribattuto lui.

“Volevo dire che eri già cambiato…insomma eri andato a riprenderti un anima e…”

“Perché le persone con l’anima non violentano?”

“Mi fai finire una frase?” si era innervosita lei a quel punto.

Lui si era limitato ad ignorarla.

“William, tu puoi anche non ricordarlo, ma io l’ho visto il tuo pentimento, io ho visto il tuo cambiamento” aveva continuato sperando di convincerlo, ma l’uomo non sembrava per nulla colpito dalle sue argomentazioni. Continuava semplicemente a non guardarla, come se non avesse neppure parlando.

“Insomma, cavolo, hai salvato il mondo! Due volte!”

“Questo non cancella il mio gesto”

“Lo so…ma è accaduto tanto… e poi siamo andati avanti…e…”

“Dimmi solo una cosa” l’aveva interrotta nuovamente lui, alzando lo sguardo di fuoco ed inchiodandolo in quello di lei.

“Mi hai perdonato?”

“L’ho perdonato?”

La domanda era risuonata nel suo cervello a vuoto.

Una volta.

Due.

Tre.

Ma non aveva trovato risposta.

Sarebbe stato facile dire di si, ma non era del tutto sicura che fosse così.

Lo amava, ma lo aveva perdonato?

Non lo sapeva.

Perché non se l’era mai chiesto.

Non aveva mai potuto chiederselo.

Troppo occupata ad odiarlo e a dimenticarlo prima.

Troppo impegnata a salvarlo e sventare l’ennesima apocalisse dopo.

Persa nel dolore e nel sopravvivere infine.

“L’ho perdonato?”

“Come immaginavo!” aveva concluso lui.

Buffy aveva alzato gli occhi, sgranandoli nella consapevolezza di non aver risposto e di non sapere cosa dire. Aveva provato ad avvicinarsi, senza sapere bene neanche lei quale fosse lo scopo. Aveva solo provato ad allungare la mano.

“E’ il caso che tu vada via!”

“No…”

“Buffy…ti prego…ne ho abbastanza di drammi per oggi…vai a casa…vai dove vuoi…basta che mi lasci solo”

“ Io…”

“Buffy, ne possiamo parlare domani…”

“E cosa accadrà domani?” gli aveva chiesto lei, mentre le lacrime cominciavano a bussarle alle palpebre. Lo sguardo ormai vacuo era diventato lucido. Stava per crollare. Come una bambina.

Ma non poteva farlo. Non poteva permettersi di piangere in quel momento.

Sarebbe stato solo umiliante.

Per lei.

Per lui.

Aveva preso un grosso respiro, asciugandosi gli occhi con una mano, per recuperare un filo di dignità. Per farla recuperare a quel rapporto appena nato e già distrutto.

“Sinceramente non lo so…e non voglio saperlo…” le aveva risposto lui, girandosi nuovamente.

Si era mosso verso il letto con lentezza.

Senza alcuna forza.

Senza alcuna determinazione.

Senza alcun pensiero.

Si era semplicemente mosso, mettendo un piede davanti l’altro.

Si era sentito uno zombie.

Un mostro.

Non era quello che poi era?

“William…”

“ No…vai via!” le aveva imposto ancora.

Ma nella voce c’era qualcosa di diverso.

Non rabbia.

Non dolore.

Nemmeno rassegnazione.

Solo il nulla.

E Buffy l’avvertì.

Aveva abbassato gli occhi e stretto le mani al corpo, tremante.

Si era voltata ed era uscita da quella stanza dai muri bianchi ed il soffitto blu, consapevole che niente sarebbe stato come prima. Niente.

Passo dopo passo, con la testa china, osservando solo il movimento delle gambe e lo smalto consumato delle unghie, aveva abbandonato la grande villa.

La luce del nuovo giorno non l’aveva investita.

Neppure sfiorata.

Troppo buio il suo cuore per essere illuminato.

Non era servito neanche il profumo del grande giardino pieno di vita.

Troppo morta la sua anima per essere risvegliata.

Non aveva notato i rumori ed il caos delle strade di Hollywood.

Non i clacson impazzati.

Non i commenti adulatori di qualche passante.

Niente.

Aveva camminato passo dopo passo senza sapere neppure dove andare.

Solo una domanda senza risposta nella mente.

Cosa accadrà domani?